I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
28/7/2017
di Brendan McGeever
Alle prime ore del 25 ottobre 1917, i lavoratori stanno occupando le zone strategiche delle strade di Pietrogrado spazzate dal vento. Nel Palazzo d’Inverno, il capo del governo provvisorio, Alexander Kerensky, sta aspettando nervosamente l’arrivo della sua automobile per la fuga. Fuori, le Guardie rosse hanno preso il controllo della centrale telefonica. La presa del potere da parte dei bolscevichi è ormai imminente. Non c’è illuminazione, né telefono nel palazzo. Dalla sua finestra Kerensky può vederne il ponte, occupato dai marinai bolscevichi. Alla fine, gli viene garantita una vettura dell’ambasciata americana e Kerensky inizia così la sua fuga dalla rossa Pietrogrado. Appena girato l’angolo, nota delle scritte, dipinte di fresco sulle mura del palazzo: «Abbasso l’ebreo Kerensky! Viva il compagno Trotsky!». A distanza di un secolo, lo slogan resta un’assurdità: Kerensky, infatti, non era ebreo; Trotsky sì. Ciò che tuttavia questo slogan sottolinea è il ruolo confuso e contraddittorio che l’antisemitismo ebbe nel processo rivoluzionario russo. In gran parte delle opere sulla Rivoluzione russa l’antisemitismo è inteso come una forma di “controrivoluzione”, appannaggio della destra antibolscevica. C’è, naturalmente, molto di vero in quest’affermazione: il regime zarista fu caratterizzato dal suo antisemitismo, e nella devastante ondata di violenze contro gli ebrei che fece seguito alla Rivoluzione d’ottobre negli anni della guerra civile (1918-1921) la maggior parte delle atrocità fu commessa dall’Armata bianca e dalle altre forze che si opponevano al neonato governo sovietico. Ma questa non è tutta la storia. L’antisemitismo ha attraversato gli schieramenti nella Russia rivoluzionaria, trovando terreno fertile in tutti i gruppi sociali e gli ideali politici. Nel campo marxista, razzismo e radicalismo politico sono spesso visti in contrapposizione tra loro; nel 1917, tuttavia, antisemitismo e odio di classe si sovrapponevano, oltre ad essere contrastanti visioni del mondo. Febbraio: una rivoluzione nella vita degli ebrei La rivoluzione di febbraio trasformò la vita degli ebrei. Pochi giorni dopo l’abdicazione dello zar Nicola II, tutte le restrizioni legali che riguardavano gli ebrei vennero abrogate. Più di 140 leggi, per un totale di qualche migliaio di pagine, vennero abolite da un giorno all’altro. Per celebrare questo storico momento, fu convocata una sessione straordinaria del soviet di Pietrogrado. Era il 24 marzo 1917, vigilia della Pasqua ebraica. Il delegato ebreo che prese la parola nella riunione, immediatamente fece il paragone – così disse – tra la rivoluzione di febbraio e la liberazione dalla schiavitù degli ebrei in Egitto. Tuttavia, l’emancipazione formale non fece scomparire la violenza antisemita. L’antisemitismo aveva radici profonde, e il fatto che nel 1917 continuasse ad essere presente era in stretta connessione con i flussi e riflussi della rivoluzione. Nel corso del 1917, vennero messi a segno almeno 235 attacchi contro gli ebrei. Benché la popolazione ebraica ammontasse solo al 4,5% del totale, quell’anno gli ebrei furono oggetto di quasi un terzo di tutti gli atti di violenza fisica contro le minoranze nazionali. A partire dalla rivoluzione di febbraio, le voci di imminenti pogrom contro gli ebrei si susseguivano nelle strade della città della Russia, tanto che, quando i soviet di Pietrogrado e di Mosca si riunirono per le loro prime sessioni, la questione dell’antisemitismo era considerata prioritaria. Scoppi veri e propri di violenza furono rari in quelle prime settimane. In giugno però la stampa ebraica cominciò a riferire che “folle di lavoratori” andavano radunandosi a ogni angolo di strada applaudendo i discorsi di fautori dei pogrom che raccontavano che il soviet di Pietrogrado era nelle mani degli “ebrei”. A volte, i dirigenti bolscevichi si trovavano ad affrontare quest’antisemitismo. Agli inizi di luglio, camminando per strada, colui che sarebbe stato il futuro segretario di Lenin, Vladimir Bonch-Bruevich, si imbatté in una folla che apertamente invocava pogrom antisemiti. A capo chino, tirò dritto. Sempre più segnalazioni di simili adunate pervenivano. A volte, odio di classe e rappresentazioni antisemite di ebraicità si sovrapponevano. Più tardi, in luglio, oratori agli angoli delle strade di Pietrogrado tenevano comizi invitando la folla a “colpire gli ebrei e la borghesia!”. Immediatamente dopo la rivoluzione di febbraio tali discorsi non erano riusciti a far presa sulla gente, e invece ora trovavano un largo ascolto. fu in questo contesto che il primo congresso panrusso dei Soviet dei deputati degli operai e dei soldati si riunì a Pietrogrado. La questione dell’antisemitismo Si trattò di un congresso storico. Vi parteciparono più di mille delegati, in rappresentanza di centinaia di soviet locali e di una ventina di milioni di cittadini russi. Il 22 giugno, mentre arrivavano segnalazioni di ulteriori incidenti antisemiti, il congresso approvò la più autorevole risoluzione fino ad allora adottata sulla questione dell’antisemitismo. Scritta dal bolscevico Evgenii Preobrajensky, il testo si intitolava “Sulla battaglia contro l’antisemitismo” e, quando Preobrajensky ebbe finito di leggerlo ad alta voce, un delegato ebreo si levò in piedi ed espresse la sua piena approvazione prima di aggiungere che, quantunque non fosse servita a riportare in vita gli ebrei uccisi nei pogrom del 1905, la risoluzione sarebbe servita a lenire alcune delle ferite che continuavano ad arrecare così tanto dolore alla comunità ebraica. Quindi, il testo venne approvato all’unanimità dal congresso. In buona sostanza, la risoluzione riaffermava l’antica posizione socialdemocratica, secondo cui l’antisemitismo equivaleva alla controrivoluzione. Conteneva, però, un’importante ammissione: «Il grande pericolo» – spiegò il relatore Preobrajensky – era «la tendenza dell’antisemitismo a dissimularsi dietro slogan radicali». Questa convergenza tra politica rivoluzionaria e antisemitismo, continuava la risoluzione, ha rappresentato «una grande minaccia per la popolazione ebraica e per il movimento rivoluzionario tutto, poiché minaccia di affogare la liberazione del popolo nel sangue dei nostri fratelli e di gettare il disonore sull’intero movimento rivoluzionario». L’aver ammesso che antisemitismo e politica rivoluzionaria potessero sovrapporsi squarciò il velo su un nuovo aspetto del movimento rivoluzionario russo, che fino ad allora tendeva a inquadrare l’antisemitismo come un tema appannaggio dell’estrema destra. Con l’approfondirsi del processo rivoluzionario, verso la metà e la fine del 1917, la presenza dell’antisemitismo in settori della classe operaia e del movimento rivoluzionario divenne un problema crescente che richiedeva una risposta socialista. La risposta dei soviet Alla fine dell’estate, i soviet avevano iniziato un’ampia ed estesa campagna contro l’antisemitismo. Il soviet di Mosca, ad esempio, aveva organizzato in agosto e settembre conferenze e riunioni su questo tema nelle fabbriche. Nell’antica Zona di Insediamento i soviet locali furono determinanti nel prevenire lo scoppio di pogrom. Verso la metà di agosto, a Chernigov, in Ucraina, le Centurie Nere accusarono gli ebrei di accaparrarsi il pane, scatenando così una serie di violenti disordini antiebraici, e fu fondamentale l’intervento di una delegazione del soviet di Kiev che organizzò una formazione di truppe locali per porre fine ai tumulti. Il governo provvisorio cercò di avviare una propria risposta all’antisemitismo. Verso la metà di settembre, fu approvata una risoluzione che annunciava l’assunzione dei «più drastici provvedimenti contro tutti i partecipanti ai pogrom». Un pronunciamento simile, emanato due settimane più tardi, faceva ordine ai ministri del governo di «usare tutti i poteri a loro disposizione» per sedare i pogrom. Tuttavia, col trasferimento già in atto del potere ai soviet, l’autorità del governo provvisorio si trovava in un processo di disintegrazione. Un editoriale del 1° ottobre del quotidiano filogovernativo Russkie Vedomosti aveva colto bene la situazione: «L’ondata di pogrom cresce e si estende … montagne di telegrammi giungono ogni giorno … [ma] il governo è con l’acqua alla gola … l’amministrazione locale è del tutto impotente … gli strumenti di coercizione sono totalmente esauriti». Non era così per i soviet. Mentre la crisi politica si approfondiva e il processo di bolscevizzazione proseguiva a ritmo sostenuto, decine di soviet provinciali fissavano la proprie politiche contro l’antisemitismo. A Vitebsk, un centro a 350 miglia ad ovest di Mosca, il soviet locale formò agli inizi di ottobre un’unità militare per proteggere la città dalle bande che organizzavano pogrom. La settimana successiva, il soviet di Orel decise di prendere le armi contro ogni forma di violenza antisemita. Nell’estremo oriente della Russia, il soviet pan-siberiano adottò una risoluzione contro l’antisemitismo, proclamando che l’esercito locale rivoluzionario avrebbe preso «tutte le misure necessarie» per prevenire qualsiasi pogrom. Il che dimostrava quanto fosse profondamente radicata la lotta contro l’antisemitismo in settori del movimento socialista organizzato: perfino nell’est più remoto, dove erano insediati relativamente pochi ebrei e c’erano ancor meno pogrom, i soviet locali si identificavano con le sofferenze per mano antisemita degli ebrei del fronte occidentale. Indubbiamente, a metà del 1917, i soviet erano diventati la principale opposizione politica all’antisemitismo in Russia. Un editoriale del periodico Evreiskaia Nedelia (La Settimana ebraica) lo colse molto chiaramente: «Dobbiamo ammettere – e dobbiamo riconoscerne i meriti – che i soviet hanno condotto un’energica campagna contro [i pogrom]. In molti posti è stato solo grazie alla loro forza che è stata ristabilita la pace». Tuttavia, vale la pena di notare che queste campagne contro l’antisemitismo erano rivolte agli operai delle fabbriche e, a volte, agli attivisti dell’ampio movimento socialista. In altri termini, l’antisemitismo venne identificato come un problema all’interno della base sociale della sinistra estrema, e perfino in settori dello stesso movimento rivoluzionario. Ciò dimostrava, naturalmente, che l’antisemitismo non proveniva semplicemente dagli strati superiori del vecchio regime zarista: aveva, invece, una base organica all’interno di settori di classe operaia e doveva essere affrontato come tale. Il nemico interno Per la direzione bolscevica le politiche rivoluzionarie non erano soltanto incompatibili con l’antisemitismo, ma erano diametralmente opposte. Come il principale quotidiano del partito, Pravda, avrebbe poi titolato in prima pagina nel 1918, «Essere contro gli ebrei significa essere a favore dello zar!». Eppure, sarebbe un errore “leggere” nelle dichiarazioni di Lenin e Trotsky sull’antisemitismo le idee e i sentimenti della base del partito. Come gli eventi del 1917 dimostrarono, rivoluzione e antisemitismo non sempre sono stati in conflitto. Le cronache dei giornali nel periodo tra l’estate e l’autunno del 1917 rivelano che i bolscevichi locali venivano spesso accusati da altri socialisti di perpetuare l’antisemitismo e persino di dare ospitalità ad antisemiti nella base sociale del partito. Ad esempio, secondo il quotidiano di Georgii Plekhanov, Edinstvo, quando, intorno alla metà di giugno, rappresentanti menscevichi tentarono di tenere un comizio alla caserma Mosca, nella regione di Vyborg a Pietrogrado, i soldati – apparentemente aizzati dai bolscevichi – gridarono al loro indirizzo: «Abbasso! Siete tutti ebrei!». Va chiarito che alla metà del 1917 Plekhanov era ferocemente antibolscevico, sicché questa fonte va presa con le pinze. Le accuse, tuttavia, erano molto diffuse. Più o meno nello stesso periodo, il giornale menscevico Vperied riferì che a Mosca i bolscevichi fischiarono i menscevichi, accusandoli di essere «ebrei» che «sfruttano il proletariato». Quando, il 18 giugno, centinaia di migliaia di lavoratori scesero in piazza a Pietrogrado, alcuni bolscevichi, stando a quanto venne riferito, strapparono le bandiere del Bund gridando slogan antisemiti. Per tutta risposta, un esponente del Bund, Mark Liber, accusò persino i bolscevichi di essere «a favore dei pogrom». In ottobre, queste accuse divennero ancor più frequenti. L’editoriale dell’edizione del 29 ottobre di Evreiskaia Nedelia giunse a sostenere che le antisemite “Centurie Nere” stavano «ingrossando le file dei bolscevichi» in tutto il Paese. Queste affermazioni erano evidentemente errate. La direzione bolscevica si opponeva all’antisemitismo e la maggioranza dei militanti prese parte allo sviluppo della risposta del partito all’antisemitismo, sia a livello di fabbrica che dei soviet. Nondimeno, l’idea che il bolscevismo potesse essere in qualche modo attrattivo per antisemiti di estrema destra non era del tutto infondata. Il 29 ottobre, un sorprendente editoriale di Groza (Tempesta), giornale dell’estrema destra antisemita, dichiarava: «I bolscevichi hanno preso il potere. L’ebreo Kerensky, lacchè dei britannici e dei banchieri internazionali, che ha sfacciatamente assunto il titolo di comandante in capo delle forze armate e si è autonominato primo ministro dell’Impero russo ortodosso, sarà spazzato via dal Palazzo d’Inverno in cui ha profanato con la sua presenza i resti del pacificatore Alessandro III. Il 25 ottobre, i bolscevichi hanno unito tutti i reggimenti che si sono rifiutati di porsi agli ordini di un governo composto da banchieri ebrei, generali traditori, rinnegati latifondisti e mercanti ladri». Il giornale venne immediatamente chiuso dai bolscevichi, ma quello sgradito sostegno allarmò la direzione del partito. Ciò che preoccupava maggiormente i socialisti moderati rispetto alla capacità dell’antisemitismo e della rivoluzione di sovrapporsi era il modo in cui i bolscevichi mobilitavano le masse e incanalavano il loro odio di classe. Il 28 ottobre, con la rivoluzione in pieno svolgimento, il Comitato elettorale menscevico di Pietrogrado lanciò un disperato appello agli operai della capitale, allertando che i bolscevichi avevano sedotto «i lavoratori ignoranti e i soldati», e che lo slogan “Tutto il potere ai soviet!” si sarebbe facilmente trasformato in quello “Colpite gli ebrei, colpite i commercianti!”. Per il menscevico L’vov-Rogachevskii, la “tragedia” della Rivoluzione russa risiedeva in tutta evidenza nel fatto che «le masse ignoranti (temnota) non sono in grado di distinguere il provocatore dal rivoluzionario, o un pogrom contro gli ebrei da una rivoluzione sociale». La stampa ebraica faceva eco a queste preoccupazioni. Secondo un articolo in prima pagina pubblicato su Evreiskaia Nedelia, «il compagno Lenin e i suoi seguaci bolscevichi fanno appello al proletariato perché “traduca le sue parole in fatti” (pereiti ot slovo k delu), ma ovunque si riuniscono le masse slave “tradurre parole in fatti” significa, in realtà, “attaccare gli ebrei”». Tuttavia, contrariamente a queste allarmistiche previsioni, nelle ore e nei giorni immediatamente successivi alla presa del potere da parte dei bolscevichi non ci furono pogrom di massa nelle zone interne della Russia. L’insurrezione non si tradusse in violenza antisemitica come era invece stato predetto. Ciò che rivelano gli avvertimenti appena citati è il grado di profondo radicamento del timore che settori della sinistra socialista, che pretendevano di parlare in loro nome, nutrivano per le “masse ignoranti”. E ciò era particolarmente vero per gli intellettuali, che generalmente guardavano con orrore all’idea stessa di rivoluzione proletaria a causa della violenza e della barbarie che pensavano ne sarebbero inevitabilmente scaturite. Ciò che in questo periodo distinse i bolscevichi fu proprio la loro vicinanza alle masse di Pietrogrado, così temute dall’intellighenzia. Tuttavia, la sovrapposizione tra antisemitismo e politica rivoluzionaria era reale. Pochi giorni dopo la Rivoluzione d’ottobre, lo scrittore Ilia Ehrenburg – che sarebbe poi stato uno dei più prolifici e conosciuti autori ebrei in Unione Sovietica – si soffermò a riflettere sugli importantissimi eventi che si erano appena verificati. Il suo racconto costituisce forse la più vivida rappresentazione dell’articolazione tra antisemitismo e processo rivoluzionario nel 1917: «Ieri ero in fila, in attesa di votare per l’Assemblea costituente. C’era gente che diceva: “Chi è contro gli ebrei voti per il numero 5!” [i bolscevichi], “Chi è a favore della rivoluzione mondiale voti per il numero 5!”. Passò il patriarca aspergendo acqua santa e tutti si tolsero il cappello. Un gruppo di soldati che passava di lì iniziò a intonare L’Internazionale al suo indirizzo. Dove mi trovo? O questo è davvero l’inferno?». In questo impressionante ricordo la differenza tra bolscevismo rivoluzionario e antisemitismo controrivoluzionario sbiadisce. In realtà, il racconto di Ehrenburg prefigura l’inquietante domanda che Isaac Babel porrà nei suoi racconti sulla guerra civile in L’armata a cavallo: «Qual è la rivoluzione, e quale la controrivoluzione?». Nonostante l’insistenza dei bolscevichi nell’inquadrarlo come un fenomeno puramente “controrivoluzionario”, l’antisemitismo sfuggiva a una categorizzazione così netta e poteva essere riscontrato, in forme estremamente complesse e inattese, entro tutti gli schieramenti politici. Sei mesi dopo, nella primavera del 1918, ciò sarebbe emerso molto più nitidamente, quando i primi pogrom dalla Rivoluzione d’ottobre scoppiarono nell’antica Zona di Insediamento. In villaggi e città del nordest dell’Ucraina, come Gluckhov, il potere bolscevico si consolidò attraverso la violenza antisemita da parte dei quadri locali del partito e delle Guardie rosse. Lo scontro dei bolscevichi con l’antisemitismo nel 1918, quindi, era spesso uno scontro con l’antisemitismo della propria base sociale. Nel commemorare il centenario della Rivoluzione d’ottobre, giustamente lo facciamo come un momento di radicale trasformazione sociale, quando un mondo nuovo sembrava possibile. La rivoluzione, però, va anche ricordata in tutta la sua complessità. L’antirazzismo ha bisogno di essere continuamente coltivato e rinnovato. Cent’anni dopo, mentre combattiamo contro i danni causati dal razzismo a una politica di classe, il 1917 può dirci molto su come idee reazionarie possono attecchire, ma anche su come possono essere affrontate e combattute. Brendan McGeever insegna al Birkbeck e sta per pubblicare un libro intitolato The Bolsheviks and Antisemitism in the Russian Revolution. [Traduzione di Isa Pepe e Valerio Torre]
0 Commenti
LE DONNE DEL 1917
25/7/2017
di Megan Trudell
Le donne non furono solo la scintilla della rivoluzione russa ma il motore che l’ha fatta avanzare. Nella Giornata Internazionale delle Donne nel 1917, le lavoratrici tessili nel distretto di Vyborg di Pietrogrado scesero in sciopero, abbandonarono gli stabilimenti e, a centinaia, si mossero di fabbrica in fabbrica chiamando altri lavoratori allo sciopero e ingaggiando violenti scontri con la polizia e l’esercito. Non qualificate, pagate con bassi salari, al lavoro per dodici o tredici ore al giorno in condizioni malsane, le donne chiedevano solidarietà ed esigevano l’intervento degli uomini, specialmente di quelli che lavoravano nella meccanica specializzata e nell’industria metallurgica, che erano considerati i più politicamente consapevoli e socialmente ‘pesanti’ all’interno della forza lavoro cittadina. Le donne lanciarono bastoni, pietre e palle di neve contro le finestre delle fabbriche e irruppero a forza nei luoghi di lavoro, chiedendo la fine della guerra e il ritorno dei loro uomini dal fronte. Secondo molti testimoni contemporanei e parecchi storici, queste donne che insorsero per il pane – adoperando metodi di protesta antichissimi e “primitivi” nel perseguire richieste puramente economiche, agendo a partire dalle emozioni piuttosto che dalla preparazione teorica – avrebbero messo inconsapevolmente in moto la tempesta che spazzerà via il regime zarista, per poi tuttavia scomparire dietro i grandi battaglioni di lavoratori maschi e dietro i partiti politici dominati da maschi. In realtà, fin dall’inizio degli scioperi di febbraio i proclami politici contro la guerra erano intrecciati alle proteste. L’audacia, la determinazione e i metodi di lotta delle donne misero in chiaro che esse avevano afferrato la radice dei loro problemi, la necessità dell’unità dei lavoratori e la necessità di convincere i soldati ad abbandonare la difesa dello stato zarista per sostenere la rivolta. Trotsky ricorderà in seguito: Un ruolo importante è svolto dalle donne lavoratrici nel mettere in relazione lavoratori e soldati. Esse salgono sulle barricate più audacemente degli uomini, prendono in mano i fucili, implorano, quasi comandano: “Mettete giù le baionette, unitevi a noi”. I soldati sono emozionati, provano vergogna, si scambiano sguardi angosciati, vacillano; qualcuno per primo si decide… Sul finire del 23 febbraio, i soldati a guardia dei depositi dei tram furono convinti dalle donne dell’azienda tramviaria a unirsi a loro e le carrozze furono rovesciate per essere utilizzate come barricate contro la polizia. Portare dalla propria parte i soldati non fu semplicemente il risultato del crescente peso della guerra sulle truppe o della “spontaneità” <contagiosa> delle proteste. Le donne lavoratrici tessili si erano legate alla massa di soldati e contadini a Pietrogrado già dal 1914. Gli uomini nelle caserme e le donne nelle fabbriche che erano venuti in città dalle stesse aree parlarono e costruirono rapporti, sfocando le linee divisorie tra lavoratore e soldato e dando alle donne lavoratrici una chiara comprensione della necessità di un sostegno armato. Le donne lavoratrici erano fermamente all’avanguardia della Rivoluzione di Febbraio, che culminò nella distruzione dello zarismo. Non furono solo la sua “scintilla”, ma il motore che l’ha fatta avanzare, nonostante le perplessità iniziali di molti lavoratori e rivoluzionari maschi. La Rivoluzione di Febbraio è comunemente descritta come “spontanea” e in un certo senso questo è vero: non è stata progettata e messa in atto dai rivoluzionari. Ma la spontaneità non corrispondeva a una mancanza di coscienza politica. Le esperienze delle donne che presero d’assalto le fabbriche di Pietrogrado come lavoratrici alla testa delle proprie famiglie, costrette a fare la coda per ore per provvedere all’alimentazione delle loro famiglie, fecero crollare la distinzione tra la domanda economica del pane e la domanda politica per porre fine alla guerra. Le circostanze materiali indussero a individuare le colpe della fame e della povertà lì dove direttamente si generavano – la guerra e i politici che la conducevano. Tali richieste non avrebbero potuto essere soddisfatte senza un cambiamento politico di natura sismica. Oltretutto, le donne bolsceviche furono centrali nella conduzione dello sciopero, avendo lavorato duramente per anni per organizzare le lavoratrici donne non qualificate, nonostante tra gli uomini del partito si pensasse che organizzare donne fosse nella migliore delle ipotesi una distrazione dalla lotta contro il regime zarista e, nella peggiore, fare il gioco delle femministe delle classi alte, che avrebbero portato le donne lontano dalla lotta di classe. Parecchi uomini del movimento rivoluzionario ritenevano che le proteste della Giornata Internazionale delle Donne fossero premature e che le lavoratrici andassero tenute a bada fino al momento in cui gli operai qualificati non fossero stati pronti a intraprendere azioni decisive. Furono delle donne, una minoranza nel partito, a proporre un incontro nel distretto di Vyborg con le donne lavoratrici, per discutere di guerra e di inflazione e furono ancora le militanti bolsceviche a indire una manifestazione contro la guerra per la Giornata Internazionale delle Donne. Una di queste era Anastasia Deviatkina, una bolscevica e operaia di fabbrica che fondò un’organizzazione per le mogli dei soldati dopo la Rivoluzione di febbraio. Nella gran parte delle narrazioni storiche, dopo il Febbraio le donne tendono a scomparire come parte attiva dello sviluppo della rivoluzione nel corso del 1917, a parte qualche figura eccezionale come Alexandra Kollontai, Nadezhda Krupskaia e Inessa Armand, di cui peraltro si discute spesso più per la loro vita privata – in qualità di mogli o amanti – che per quanto riguarda la loro attività pratica e i loro contributi teorici. Le donne erano sostanzialmente assenti dagli organi amministrativi emersi dalle ceneri dello zarismo. Poche erano rappresentate nei consigli di villaggio, come delegate per l’Assemblea Costituente o come deputate sovietiche. Le elezioni alle commissioni di fabbrica erano dominate dagli uomini, che addirittura esprimevano deputati nei settori industriali in cui le donne erano la maggioranza della forza lavoro. Le ragioni di ciò erano duplici e correlate: le donne avevano ancora l’incarico di provvedere alle loro famiglie in condizioni disagiate e mancava loro la sicurezza e l’istruzione, nonché il tempo, per farsi avanti o comunque per reggere livelli intensi di attività politica. Le modalità in cui le donne lavoratrici avevano vissuto per secoli in Russia, la realtà materiale della loro oppressione, condizionavano la loro capacità di abbinare l’indiscutibile aumento della coscienza politica con l’impegno in prima persona. La Russia prima del 1917 era una società prevalentemente contadina; l’autorità totale dello zar era sancita e rafforzata dalla chiesa e si rifletteva nell’istituzione della famiglia. Il matrimonio e il divorzio erano sotto controllo religioso; le donne erano legalmente subordinate, considerate come proprietà del maschio e poco meno che umane. I proverbi russi comuni esprimevano sentimenti come: “Pensavo di aver visto due persone ma erano solo un uomo e una moglie”. Il potere maschile nella famiglia era totale e le donne dovevano essere passive e sopportare condizioni brutali, passate dal padre al marito e spesso bersaglio di una violenza legittimata. Le donne contadine e le lavoratrici di fabbrica affrontavano un lavoro punitivo, arduo nei campi e nelle fabbriche con il notevole peso aggiunto della cura infantile e delle responsabilità domestiche in un’epoca in cui il parto era difficile e pericoloso, la contraccezione inesistente e la mortalità infantile elevata. Tuttavia, il coinvolgimento politico delle donne nel 1917 non venne fuori dal nulla. La Russia era una grande contraddizione: accanto alla profonda povertà, all’oppressione e alla tirannia sopportata dalla maggior parte dei suoi abitanti, l’economia russa conobbe un boom nei decenni prima del 1905. Enormi fabbriche moderne producevano armi e stoffa, le ferrovie collegavano città in rapida crescita e gli investimenti e le tecniche provenienti dall’Europa portavano a enormi aumenti di produzione di ferro e petrolio. Questi drammatici cambiamenti economici generarono un’immensa trasformazione sociale negli anni precedenti la prima guerra mondiale: un numero crescente di donne contadine era impegnato nelle fabbriche urbane, spinte dalla povertà e incoraggiate da datori di lavoro il cui utilizzo della meccanizzazione generava posti di lavoro meno qualificati e la cui preferenza per i lavoratori “compatibili” condusse a una crescita enorme delle donne che lavoravano nei settori della biancheria, della seta, del cotone, della lana, della ceramica e della produzione di carta. Le donne erano state coinvolte negli scioperi del settore tessile nel 1896, nelle proteste contro l’arruolamento prima della guerra russo-giapponese e, in modo cruciale, nella rivoluzione del 1905, durante la quale le donne lavoratrici non specializzate nei settori del tessile, del tabacco e delle fabbriche di dolci, insieme alle lavoratrici domestiche e alle lavandaie scioperarono e cercarono di formare i propri sindacati nell’ambito di quella enorme rivolta. L’impatto della prima guerra mondiale fu decisivo nell’aumentare il peso economico e politico delle donne. La guerra distrusse famiglie e sconvolse le vite delle donne. Milioni di uomini erano assenti perché al fronte, feriti o uccisi, il che costringeva le donne a lavorare la terra da sole, a ricoprire il ruolo di capo famiglia e a entrare a far parte della forza lavoro urbana. Le donne erano il 26,6% della forza lavoro nel 1914, ma quasi la metà (43,4%) entro il 1917. Anche nelle aree specializzate, la partecipazione femminile crebbe drammaticamente. Nel 1914 le donne costituivano solo il 3% dei lavoratori del settore metalmeccanico; nel 1917 il numero era salito al 18%. In una condizione di potere duale, seguito alla Rivoluzione di Febbraio, le proteste delle donne non scomparvero, ma diventarono parte del processo che vide il sostegno dei lavoratori passare dal governo ai Soviet e, all’interno dei Soviet, dalla leadership moderata Menscevica-Sociale Rivoluzionaria a quella dei Bolscevichi, nel settembre del ’17. Le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, la cui vita sarebbe dovuta migliorare con la caduta dello zar, furono deluse dalla continuazione della guerra da parte del governo e della prima direzione sovietica. A maggio, le proteste contro la guerra costrinsero alla dissoluzione del primo governo provvisorio e i leader del Soviet diretto dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari formarono un governo di coalizione con i liberali – ancora deciso a continuare la guerra. La disillusione dei lavoratori condusse a ulteriori scioperi, sempre guidati da donne. Circa quarantamila donne lavandaie, appartenenti a un sindacato guidato dalla bolscevica Sofia Goncharskaia, scioperarono per una maggiore remunerazione, una giornata lavorativa di otto ore e migliori condizioni di lavoro: migliore igiene sul lavoro, prestazioni di maternità (era comune per le donne lavoratrici nascondere le gravidanze fino al momento del parto, sul pavimento della fabbrica) e fine delle molestie sessuali. Le storiche Jane McDermid e Anna Hillyer raccontano: Con altre attiviste, Goncharskaia era andata da una lavanderia all’altra convincendo le donne a aderire allo sciopero. Avrebbero riempito secchi di acqua fredda per spegnere i forni. In una lavanderia, il proprietario attaccò la Goncharskaia con una spranga; fu salvata dalle lavandaie che lo afferrarono da dietro. In agosto, di fronte ai tentativi del generale Kornilov di schiacciare la rivoluzione, le donne si riunirono per la difesa di Pietrogrado, costruendo barricate e organizzando l’assistenza medica; nel mese di Ottobre, le donne del partito bolscevico erano coinvolte nella fornitura di assistenza medica e comunicazioni cruciali tra le località, alcune avevano la responsabilità di coordinare gli sviluppi in diverse aree di Pietrogrado e c’erano donne delle Guardie rosse. McDermid e Hillyer raccontano di un’altra donna bolscevica nell’Ottobre: La conduttrice del tram, A.E. Rodionova, aveva nascosto 42 fucili e altre armi nel suo deposito quando il governo provvisorio aveva tentato di disarmare i lavoratori dopo i giorni di luglio. In ottobre, era incaricata di accertarsi che due tram con mitragliatrici lasciassero il deposito per l’assalto del Palazzo d’Inverno. Doveva assicurarsi che il servizio di tram operasse durante la notte dal 25 al 26 ottobre, per aiutare la presa del potere e controllare i posti della Guardia Rossa in tutta la città. La traiettoria della rivoluzione allargò il divario tra le donne lavoratrici per le quali la guerra era la causa delle loro difficoltà, le cui richieste di pace aumentarono nel corso dell’anno, e quelle femministe che continuavano a sostenere il bagno di sangue della guerra. Per la maggior parte delle femministe liberali, appartenenti alle classi superiori, che sostenevano l’uguaglianza nel diritto, nell’educazione e nella riforma sociale, questi obiettivi sarebbero stati guadagnati dimostrandosi fedeli al nuovo governo e agli sforzi di guerra. Dimostrare patriottismo serviva a conquistarsi il posto a tavola. La Rivoluzione di Febbraio aveva portato alla rinnovata campagna elettorale delle femministe per il suffragio universale, un notevole passo avanti allorché fu concesso nel mese di luglio. Ma per la maggior parte delle donne, il diritto di voto faceva ben poca differenza nella loro vita, ancora dominata dalla penuria, dalle lunghe ore di lavoro e dalla lotta per tenere insieme le loro famiglie. Come aveva scritto Kollontai nel 1908: Per quanto siano apparentemente radicali le richieste che esse avanzano, non possiamo perdere di vista il fatto che le femministe non possono, per la loro posizione di classe, combattere per quella fondamentale trasformazione della struttura economica e sociale contemporanea della società senza la quale la liberazione delle donne non può essere completa. Per la maggior parte delle donne della classe lavoratrice e contadina, le questioni dell’oppressione e dell’uguaglianza non si ponevano in astratto, ma emergevano concretamente dal processo di lotta per migliorare la loro vita e quella dei loro uomini e dei loro figli. Coloro che diventarono apertamente politicizzate e maggiormente fiduciose, spesso come appartenenti al Partito bolscevico, lo fecero in conseguenza della propria azione collettiva contro la guerra e la classe politica: azione che si concentrò sulla lotta contro la fame e la guerra e in favore della proprietà della terra. Robert Service sostiene: Il programma politico bolscevico andò dimostrandosi sempre più attraente per la massa dei lavoratori, dei soldati e dei contadini, quando le turbolenze sociali e le rovine economiche raggiunsero il culmine nel tardo autunno. Senza di ciò non vi sarebbe stata alcuna rivoluzione di ottobre. Tutto ciò venne vissuto in pieno dalle donne lavoratrici, contadine e mogli dei soldati, così come dal loro corrispettivo maschile. Senza il sostegno della massa di lavoratori non qualificati a Pietrogrado, di cui la maggior parte erano donne, l’insurrezione di ottobre non sarebbe riuscita. Il sostegno ai bolscevichi non era cieco, bensì era il risultato, nelle parole di Trotsky, di “un cauto e doloroso sviluppo della coscienza” di milioni di lavoratori, uomini e donne. Nell’ottobre, tutto era stato tentato: il governo provvisorio e i menscevichi avevano tradito, le dimostrazioni avevano portato repressioni o guadagni limitati che non soddisfacevano più le loro speranze di una vita migliore e, in maniera cruciale, il tentativo di colpo di stato di Kornilov aveva reso chiaro quale fosse la posta in gioco: andare avanti o essere schiacciati. Un operaio pose la questione in questi termini: “I bolscevichi hanno sempre detto: ‘Noi non ti convinceremo, sarà la vita stessa a farlo’. E ora i bolscevichi hanno trionfato perché la vita ha dimostrato che la loro tattica era giusta”. Bisogna riconoscere ai bolscevichi d’aver preso la questione della donna sul serio. Sebbene le donne fossero, dal punto di vista odierno, fortemente sottorappresentate, uno sforzo serio venne fatto per organizzare e valorizzare le donne lavoratrici. Il fatto che i bolscevichi si fossero sforzati più di altri partiti socialisti per relazionarsi con le donne lavoratrici non era necessariamente dovuto a un maggiore impegno nei confronti dei diritti delle donne. Sia i menscevichi che i bolscevichi compresero la necessità di impegnarsi con le donne come parte della classe operaia, ma i bolscevichi integrarono la lotta per la parità tra uomini e donne in una strategia basata sull’attività di classe contro il governo e la guerra, mentre le parti politiche che erano coinvolte nella proseguimento della guerra e facevano riferimento ai privilegiati e ai datori di lavoro avrebbero potuto fare poco più che segnalare gli scioperi delle donne e parlare dei diritti politici, senza una soluzione concreta per le difficoltà materiali della vita delle donne. I bolscevichi presero sempre più in mano l’organizzazione e la politicizzazione delle donne: in parte avendo appreso la lezione degli esplosivi inizi di febbraio e in parte a causa della tenacia delle proprie donne. Le leader bolsceviche, tra cui Kollontai, Krupskaia, Armand, Konkordiia Samoilova e Vera Slutskaia, avevano già sostenuto che il partito avrebbe dovuto impegnarsi in particolare per organizzare le donne e sviluppare la loro educazione politica. Lottarono per convincere i compagni maschi che le lavoratrici donne non qualificate avevano un ruolo centrale, lungi dal costituire un ostacolo passivo, conservatore, che avrebbe riportato indietro la rivoluzione. Il giornale bolscevico “Rabotnitsa”, (la donna lavoratrice), pubblicato dapprima nel 1914 e rilanciato nel maggio 1917, conteneva articoli sull’importanza degli asili nido, delle scuole materne, di una legislazione protettiva per le donne sul luogo di lavoro e ripetutamente sottolineava la necessità che l’uguaglianza e la “questione femminile” fossero prese in carico da tutti i lavoratori. Il ruolo delle donne lavoratrici nel Febbraio e la loro importanza strategica come parte della classe operaia di Pietrogrado contribuirono a modificare l’opinione dapprima condivisa da molti bolscevichi per cui, concentrandosi sulle questioni femminili, si sarebbe fatto il gioco del femminismo liberale, e che la rivoluzione andava guidata dai “più esperti e politicamente consapevoli” maschi. Tuttavia, la battaglia era in salita; quando la Kollontai propose nel mese di aprile un dipartimento di donne per il partito rimase in gran parte isolata, sebbene avesse il sostegno di Lenin, le cui tesi di aprile peraltro non furono accolte con molto più entusiasmo dalla leadership bolscevica (anche in quell’occasione Kollontai fu l’unica sostenitrice di Lenin nel comitato centrale). Nei mesi successivi, tuttavia, divenne chiaro che entrambi gli argomenti di Lenin per portare la rivoluzione al potere sovietico e la consapevolezza della Kollontai sull’importanza delle donne lavoratrici derivava dalla dinamica della rivoluzione e poteva spingerla in avanti. I documenti bolscevichi, al di là del giornale “Rabotnitsa”, constatavano come gli atteggiamenti sessisti mettessero in pericolo l’unità di classe e il partito lavorò per ottenere che le donne fossero rappresentate nelle commissioni di fabbrica, sfidando gli atteggiamenti maschili che consideravano le donne lavoratrici come una minaccia e discutendo con i lavoratori maschi dell’opportunità di votare le donne – specialmente nelle industrie dove queste ultime erano in maggioranza – e mostrando loro rispetto come colleghi, rappresentanti e compagni. Sei settimane dopo la rivoluzione di Ottobre, il matrimonio fu sostituito con la registrazione civile e il divorzio divenne accessibile su richiesta di entrambi i partner. Queste misure vennero elaborate un anno dopo nel Codice della Famiglia, che rese le donne uguali agli uomini davanti alla legge. Il controllo religioso venne abolito, rimuovendo in un colpo solo secoli di oppressione istituzionalizzata; entrambi i partner avrebbero potuto ottenere il divorzio senza motivazione; le donne conquistarono il diritto a possedere proprio denaro e nessuno dei due partner aveva diritti sui beni dell’altro. Il concetto di illegittimità fu eliminato – se una donna non sapeva chi era il padre, tutti i suoi partner sessuali precedenti avevano la responsabilità collettiva per il bambino. Nel 1920 la Russia divenne il primo paese a legalizzare l’aborto su richiesta. La rivoluzione del 1917 fu iniziata e plasmata dalle donne e nel corso dell’anno molte delle antiche idee sulle donne come esseri inferiori, come proprietà dell’uomo, passive, arretrate, conservatrici, insicure e deboli furono messe in discussione, se non annullate, dalle azioni e dall’impegno politico delle donne. Ma la rivoluzione russa non abolì il dominio maschile né liberò le donne: le privazioni catastrofiche della guerra civile e le successive distorsioni del governo sovietico resero tutto ciò impossibile. Le disuguaglianze rimasero. Poche donne occuparono posizioni di autorità, poche furono elette in organi amministrativi e le idee sessiste non poterono semplicemente sparire nelle estreme avversità che seguirono all’Ottobre. Durante la rivoluzione, le donne non parteciparono ugualmente agli uomini o contribuirono in maniera significativa ai livelli più alti del processo politico, ma entro i vincoli della loro esistenza sfidarono le aspettative e modellarono il corso della rivoluzione. Come dicono McDermid e Hillyer: È vero, la divisione del lavoro tra donne e uomini rimase, ma piuttosto che concludere che le donne non abbiano contestato il dominio maschile, occorre considerare come esse operassero entro i margini di manovra consentiti, e ciò che questo significava per il processo rivoluzionario. Le donne furono parte integrante della rivoluzione del 1917, facendo la storia accanto agli uomini – non come spettatrici passive o apolitiche, ma come coraggiose partecipanti il cui impegno era più significativo per il rifiuto della radicata oppressione che rappresentava. Vedere la rivoluzione attraverso gli occhi delle donne ci dà una lettura più ricca di ciò che resta il più importante momento di trasformazione storica per le vite delle donne. Megan Trudell si è occupata a lungo della Prima Guerra mondiale e della Rivoluzione Russa. Al momento sta completando le ricerche per un libro sul 1919 in Italia. [traduzione di Giovanni Di Benedetto] George Souvlis e Ankica Čakardić intervistano Cinzia Arruzza
Cinzia Arruzza insegna Filosofia presso la New School for Social Research di New York. Il suo libro più recente è Storia delle storie del femminismo (con Lidia Cirillo, 2017). Tra gli altri suoi testi ricordiamo Le relazioni pericolose (2010) e Il genere del capitale (nella Storia del Marxismo a cura di S.Petrucciani) che è stato uno dei Libri dell’Anno 2016 di PalermoGrad. Puoi dirci in breve qualcosa sulle esperienze della tua formazione intellettuale e politica? Questa è una domanda difficile, perché sono diventata un’attivista all’età di tredici anni, e a partire da allora questo fatto non ha mai smesso di dare forma alla mia vita, nella sua interezza. Se dovessi identificare le esperienze che hanno maggiormente influito sul mio impegno politico e sul mio modo di pensare, potrei fornire l’elenco che segue. Anzitutto, il fatto di provenire da una famiglia povera siciliana, il che mi ha messa a contatto con l’ingiustizia e le diseguaglianze di classe, con il sessismo, con il razzismo culturale ‘soft’ nei confronti della gente del meridione (specialmente negli anni Novanta, quando la Lega Nord ebbe un’impennata sulla base di un programma antimeridionale). Quando avevo meno di vent’anni, i punti di svolta nel mio processo di politicizzazione furono le conversazioni con un insegnante di storia e filosofia della scuola superiore, che era un vicino di casa e un amico, la lettura del Manifesto del partito comunista, quella di Stato e rivoluzione di Lenin, e la partecipazione, da studentessa della scuola superiore, alla lotta degli operai di una fabbrica della Pirelli della mia città, che stava chiudendo e stava licenziando centinaia di operai che non avevano alcuna speranza di trovare un altro lavoro, dato il livello di disoccupazione in Sicilia. Poi gli anni passati nell’organizzazione del movimento degli studenti a Roma, e in seguito del movimento altermondialista. Sul piano intellettuale, l’incontro con Daniel Bensaïd, gli anni passati a leggere Il capitale e Platone, la lettura dei testi femministi marxisti e, successivamente, la scoperta del black marxism, una volta che mi sono trasferita negli Stati Uniti. E direi anche che il trasferimento a New York è stato un punto di svolta per più aspetti, uno dei quali è consistito nell’essere venuta a contatto con il razzismo di marca americana, che mi ha fatto capire quanto parecchi dei miei presupposti precedenti a proposito del capitalismo fossero errati o parziali. Ma direi che il mio processo di apprendimento è ancora in corso, ammesso che sia un processo che può mai avere fine… La storia delle rivoluzioni dei lavoratori è sempre fonte di ispirazione e di motivazione, e alcune delle lotte più importanti del mondo moderno (la Rivoluzione Francese e quella Russa) ebbero inizio quando le donne scesero in piazza a protestare e a reclamare il pane. Che cosa c’è all’orizzonte internazionale oggi per quanto riguarda le lotte progressiste e femministe intorno al mondo? Una delle più importanti azioni di lotta contemporanee è stata costruita attorno alla proclamazione (da parte di Linda Martin Alcoff, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, Barbara Ransby, Keeanga-Yamatta Taylor, Ramsea Yousef Odeh, Angela Davis, e tua) dello sciopero internazionale delle donne l’8 marzo. C’è la possibilità di assistere a un nuovo movimento femminista? Penso che un movimento femminista internazionale già lo abbiamo. Permettimi però di chiarire un fatto importante: noi non abbiamo proclamato uno sciopero internazionale delle donne, nonostante il fatto che la nostra dichiarazione è stata interpretata in questo modo da molti media. Abbiamo dichiarato di sostenere lo Sciopero Internazionale delle Donne [International Women’s Strike, n.d.r.] che attiviste di tutto il mondo avevano già organizzato e proclamato. Abbiamo anche intrapreso l’organizzazione dello sciopero negli Stati Uniti, e da questo punto di vista eravamo piuttosto in ritardo, vale a dire che poi abbiamo dovuto affrettarci a organizzare lo sciopero delle donne nel giro di tre settimane. Insisto su questo punto perché è molto importante capire che lo sciopero delle donne non è stato indetto in modo volontaristico da un gruppo di intellettuali attiviste. È stata una mobilitazione mondiale che ha avuto origine nello sciopero delle donne polacche contro l’abolizione dell’aborto (che ha conseguito una vittoria), nell’ondata di scioperi o manifestazioni di donne in Argentina, nel risveglio del movimento femminista in diversi Paesi latinoamericani, e nella mobilitazione femminile in Italia. La proclamazione dello Sciopero Internazionale delle Donne è venuta fuori organicamente da queste lotte che già esistevano: è giunto il momento di un nuovo movimento femminista. Ci stiamo nel mezzo e dovremmo prenderlo molto sul serio. Ti va di descrivere la tua esperienza di organizzatrice dello sciopero? Uno dei suoi slogan era che puntava a rappresentare il 99% delle donne: ci puoi dire che cosa significa? C’è la possibilità di proseguire questo tipo di lotta e quali passi dovrebbe fare il movimento allo scopo di avere una continuità? L’idea di organizzare lo sciopero negli Stati Uniti è nata da una serie di considerazioni. Anzitutto la Marcia delle Donne a Washington aveva rivelato la presenza di enormi potenzialità di mobilitazione femminista. Un’altra considerazione era che negli Stati Uniti c’erano già molti collettivi, reti e organizzazioni nazionali che stavano sviluppando un femminismo alternativo a quello liberal: di classe, antirazzista e inclusivo rispetto alle donne trans, alle persone queer e non-binarie. Ancora una volta, proclamare lo sciopero, anche negli Stati Uniti, non è stata semplicemente una mossa volontaristica, dal momento che è scaturito dalla consapevolezza che un altro femminismo c’era già: lo sciopero è servito allo scopo di creare una rete nazionale non settaria di organizzazioni e di individui, di rendere visibile questo altro femminismo, di mettere in discussione l’egemonia di quel tipo di femminismo da dirigenti d’impresa incarnato da Hillary Clinton e dalle sue sostenitrici femministe, e infine di dare forza alle donne della classe lavoratrice, alle donne migranti e a quelle nere. Questo è ciò che intendevamo con lo slogan “a Feminism for the 99%”: un femminismo di classe capace di articolare esigenze e posizioni politiche che parlino alla complessità dell’esperienza di vita delle donne cis- e transessuali trascurate dal femminismo dirigenziale e rampante. Da questo punto di vista, anche l’adozione del termine “sciopero” per definire la nostra giornata di mobilitazione intendeva enfatizzare il lavoro che le donne svolgono non soltanto sul posto di lavoro, ma anche al di fuori di esso. Per andare avanti e riuscire a mantenere una continuità, un movimento femminista per il 99% delle donne deve affondare le sue radici in un processo generale di riattivazione della lotta di classe. Abbiamo ricevuto alcune critiche per avere usato il termine “sciopero”, poiché non siamo un sindacato e non avevamo abbastanza contatti con le organizzazioni del lavoro. Qui mi piacerebbe fare una piccola digressione nella situazione della sindacalizzazione negli Stati Uniti, in modo da spiegare meglio la ratio della nostra mobilitazione e anche perché con ciò rispondo in parte alla tua domanda su che cosa faremo in seguito. Come considerazione preliminare, è importante non appiattire la lotta di classe sulla lotta sindacale nei luoghi di lavoro: la lotta di classe assume molte forme e manifestazioni importanti della classe in quanto attore politico e agente di conflitto hanno luogo nella sfera della riproduzione sociale, dove tali lotte hanno il potenziale per aggredire la profittabilità capitalistica. Pensa, per esempio, alle lotte che riguardano l’assistenza sanitaria... Ma diamo un’occhiata alla situazione del lavoro organizzato negli Stati Uniti. Dal 1983 al 2016 il tasso di sindacalizzazione è sceso dal 20,1% al 10,7%. La situazione è ancora più deprimente se consideriamo la sindacalizzazione nel settore privato, che nello stesso periodo è scesa dal 16,8% al 6,4%. Se guardiamo i dati degli scioperi ufficiali, dal 1947 al 2016 il numero di giorni di sciopero che coinvolgono più di 1000 lavoratori è calato da 25.720.000 a 1.543.000, e il 2016 ha anche registrato una piccola impennata dei giorni di sciopero dovuta in particolare allo sciopero degli insegnanti e a quello dei lavoratori della Verizon. Questa situazione deprimente è il risultato sia della legislazione antisindacale sia degli orientamenti e delle azioni di buona parte delle maggiori federazioni sindacali. Ma questo ci dice tutto ciò che c’è da sapere sulla dinamica della lotta di classe negli Stati Uniti? Naturalmente no. Nel corso degli ultimi anni abbiamo visto una quantità di mobilitazioni importanti organizzate da reti e organizzazioni del lavoro non tradizionali, per esempio la campagna Fight for Fifteen o le mobilitazioni organizzate dal ROC [Restaurant Opportunities Center, NdR], movimenti come Black Lives Matter, e nei mesi scorsi gli scioperi dei migranti e le mobilitazioni contro il Muro e contro il ‘Muslim Ban’. Ora, invece di considerare tutte queste forme di mobilitazione come alternative l’una all’altra o come alternative all’ organizzarsi nei luoghi di lavoro, dovremmo vederle tutte come differenti forme nelle quali la lotta di classe si espleta, forme che potenzialmente si rafforzano l’una con l’altra e creano le condizioni per l’organizzazione di interruzioni del lavoro nei luoghi di lavoro. Lo sciopero delle donne ha fatto parte di questo processo: ha contribuito a rilegittimare il termine “sciopero” negli Stati Uniti, ha chiuso tre distretti scolastici con uno sciopero selvaggio, e ha dato visibilità ad organizzazioni del lavoro nelle quali la maggior parte dei lavoratori sono donne, come il ROC o NYSNA [New York State Nurses Association, NdR], o a istanze locali di organizzazione del lavoro e di lotte nei luoghi di lavoro guidate da donne e da persone queer. Ti preoccupano la “narrazione di sinistra” e l’articolazione delle proteste quotidiane contro Trump? Secondo te che cosa è importante per il problema della tattica della sinistra contemporanea, della costruzione della sua forza e della radicalizzazione della lotta quando si tratta dei pericoli dell’antitrumpismo? In un tuo recente articolo su Jacobin [link: https://www.jacobinmag.com/2016/11/trump-trumpism-opposition-democrats-protests-berlusconi/] hai parlato di alcuni “pericoli” dell’antitrumpismo e delle lezioni di cui dobbiamo tener conto confrontandolo con l’antiberlusconismo, quali potrebbero essere i problemi? Be’, il rischio è quello di non vedere la continuità fra le politiche di Trump e le politiche portate avanti dal partito Democratico sotto la presidenza di Obama. Non sto sostenendo che non ci siano differenze, ovviamente, ma penso che abbiamo bisogno di vedere la versione di Trump del neoliberalismo come il risultato di decenni di politiche neoliberiste, contro i migranti e contro i neri che sono state tenute sia sotto le amministrazioni repubblicane sia sotto quelle democratiche. L’elezione di Trump, per come la vedo io, rappresenta un atto di accusa nei confronti di otto anni di presidenza Obama. Perché come è possibile che dopo otto anni di una presidenza che è iniziata con lo slogan “Yes, we can”, siamo finiti in mano ad un misogino autoritario come nuovo presidente? Sotto questo aspetto, mentre i primi mesi della presidenza di Trump hanno visto una promettente ondata di lotte e di resistenza, sarebbe un errore strategico mobilitarsi soltanto contro Trump, senza rivolgersi anche contro il fallimento delle politiche del partito Democratico. Per sconfiggere Trump, abbiamo bisogno di articolare una radicale alternativa, non soltanto a Trump, ma anche al tipo di neoliberismo progressista incarnato da Hillary Clinton. Secondo te un’eventuale vittoria di Hillary Clinton avrebbe davvero promosso gli interessi delle donne? La Clinton avrebbe rappresentato un’autentica soluzione contro la candidatura di Donald Trump? Le donne che l’hanno votata sono parzialmente responsabili dell’elezione di Trump? Durante le primarie, la campagna di Sanders è stata oggetto di un costante attacco da parte delle femministe liberal che sostenevano la Clinton, le quali stigmatizzavano come “antifemminista” votare per Sanders e invitavano a mettersi sotto lo stendardo della “rivoluzione delle donne” incarnata da Clinton. Questo tipo di femminismo ha completamente fallito. Alle elezioni presidenziali la maggioranza delle donne bianche, soprattutto quelle prive d’istruzione universitaria, hanno preferito votare per un candidato apertamente misogino piuttosto che votare per la presunta campionessa dei diritti delle donne, Clinton. Naturalmente, è un voto che in parte si spiega con il puro e semplice razzismo. Ma ci sono altri fattori che andrebbero presi in considerazione, e la domanda da porsi è: quali donne hanno effettivamente ricevuto dei benefici dal femminismo liberal incarnato dalla Clinton? Negli anni Settanta una donna che aveva fatto l’università ancora guadagnava, in media, meno di un uomo privo di istruzione universitaria. Nel decennio 2000-2010 la situazione appariva interamente cambiata: mentre le entrate medie delle donne e degli uomini della classe lavoratrice rimanevano invariate, nell’ambito dell’élite i guadagni delle donne crescevano più rapidamente di quelli degli uomini, e nel 2010 una donna con un reddito elevato guadagnava in media più di una volta e mezzo di un uomo di classe media. In un pezzo apparso di recente su The Nation, Katha Pollitt ha esposto le istanze del femminismo liberal, peraltro dando per scontato che il femminismo liberal rappresenti nella sua interezza il femminismo, o ciò che in generale esso è e dovrebbe essere. I diritti riproduttivi e –suppongo – la battaglia contro la discriminazione di genere sono le uniche rivendicazioni chiaramente identificabili come “femministe”, a differenza della battaglia contro razzismo, guerra, povertà, crisi ambientale, eccetera. Se guardo alla realtà di vita delle donne lavoratrici, delle donne migranti e di quelle di colore, non vedo proprio che cosa questa declinazione del femminismo abbia davvero da offrir loro. La parità di retribuzione, per esempio, sembrerebbe una degna causa, ma se non è associata a richieste che riguardano un salario minimo non significa niente per le donne lavoratrici, dal momento che la parità di salario si può ottenere anche femminizzando il lavoro maschile e comprimendo i salari degli uomini verso il basso. Tirando le somme, questa marca di femminismo risulta essere un progetto per l’autopromozione delle donne appartenenti all’élite. Naturalmente possiamo allearci e combattere insieme su questioni unificanti come quelle dei diritti riproduttivi, ma al di là di questo temo che vogliamo cose molto diverse. Come puoi intuire dalle cose che sto dicendo, non credo affatto che una vittoria della Clinton avrebbe rappresentato una soluzione dei problemi delle donne. Il tuo libro Relazioni pericolose funziona come una sorta di rassegna storica di lotte femminili ma con l’accento sulla storia rivoluzionaria o progressista del movimento e della teoria femministi. Uno dei tuoi obiettivi teorici principali era provare a collegare il movimento femminista con la lotta di classe ma anche di portarlo più vicino alle questioni organizzative e politiche. Se leggiamo il femminismo marxista contemporaneo come una storia triplice (a partire dalle teorie “dual system” del dibattito sul lavoro domestico, dal materialismo nella linea di Christine Delphy e dalla teoria unitaria), puoi sostenere che la teoria della riproduzione sociale (come approccio unitario) è la migliore chiave di comprensione del genere e della sessualità nel capitalismo? Be’, è il tipo di teoria che sto provando a sviluppare, quindi naturalmente la mia risposta è: sì! La domanda richiederebbe una lunghissima spiegazione, ma giusto per fornire una breve sintesi: le teorie “dual system” sono motivate a mio modo di vedere dall’aspirazione legittima a dare importanza all’oppressione di genere e razziale e di evitare quel riduzionismo economicistico che a volte è tuttora fatto proprio da alcuni marxisti o attivisti socialisti. Il problema di questa soluzione, tuttavia, è che fa sorgere più difficoltà teoriche di quante ne risolva. La teoria della riproduzione sociale prova a fare qualcosa di diverso, segnatamente a riconcettualizzare ciò che intendiamo per capitalismo, sfidando la nozione che il capitalismo sia un sistema economico, e insistendo piuttosto su una visione del capitalismo come di una totalità di rapporti sociali, il cui nucleo è costituito dall’accumulazione capitalistica, ma nella quale produzione e riproduzione sono intimamente connesse. Se consideriamo il capitalismo in questo modo, allora siamo in grado di vedere come il razzismo o il sessismo non siano due sistemi che interagiscono con un terzo sistema, economico – il capitalismo – , ma siano piuttosto serie di rapporti di dominio e di oppressione che sono parte integrante delle condizioni di riproduzione del capitale e vengono costantemente prodotti e riprodotti dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica. Ciò inoltre rende la questione se la lotta di classe debba avere la priorità sulle lotte anti-razziste, femministe, ecc. non soltanto obsoleta, ma anche del tutto fuorviante. Da un lato, se concepiamo la classe come agente politico, allora genere, razza e sessualità sono componenti intrinseche del modo in cui le persone fanno esperienza di sé stesse e della loro relazione con il mondo e con le loro condizioni di vita, quindi fanno necessariamente parte del modo in cui le persone si politicizzeranno e lotteranno. Le persone non sperimentano le diseguaglianze razziali, di classe o di genere come fenomeni separati, l’esperienza di vita non è compartimentizzata in questa maniera: il modo in cui una persona è discriminata dal punto di vista razziale modellerà profondamente il modo in cui sarà sfruttata e farà esperienza di tale sfruttamento, e viceversa. L’organizzazione politica deve veramente cominciare dall’esperienza concreta delle persone, altrimenti finisce per essere razionalismo, proiezione sulla realtà di vita delle persone di programmi più o meno libreschi riguardo a ciò che la lotta di classe significa o dovrebbe significare. Dall’altro lato, se il femminismo e l’antirazzismo vogliono essere progetti di liberazione per tutte le persone discriminate in quanto donne o a causa della loro razza, allora la questione del capitalismo è ineludibile. A questo punto la vera domanda diventa: di che tipo di femminismo o di antirazzismo abbiamo bisogno? Il problema che abbiamo avuto negli ultimi decenni, per esempio, non è che le lotte fondate sulle oppressioni abbiano preso il posto della lotta di classe, ma piuttosto che la posizione liberale sia diventata egemone all’interno delle lotte e dei dibattiti femministi. Ciò di cui dovremmo discutere oggi è come spezzare tale egemonia, il dibattito che vede le lotte fondate sulle oppressioni contrapposte a quella di classe falsa il problema, crea divisioni inutili, e dovrebbe essere lasciato cadere una volta per tutte. In un articolo della metà degli anni Novanta Bianca Beccalli dice che il movimento femminista radicale creato in Italia negli anni settanta è quasi scomparso. Sei d’accordo con lei? Se sì, perché è successo? E inoltre, è possibile dire che il femminismo radicale sia diventato la “cameriera” del capitalismo? Sono assolutamente d’accordo con Bianca Beccalli. Ma si tratta di un processo che non è specifico dell’Italia e che ha a che vedere con il generale declino della lotta di classe. Ciò che è successo in Italia, nello specifico, è che il femminismo della differenza è diventato la forma egemone di femminismo, anche nelle organizzazioni di sinistra, per esempio Rifondazione Comunista. La ricchezza dei contributi marxisti al femminismo, per esempio l’apporto dato dall’Operaismo, è stata per lo più trascurata. Non credo che il femminismo radicale sia diventato la cameriera del capitalismo, ma il femminismo della differenza sì. Tanto per farti un esempio, in un volume pubblicato nel 2008, la Libreria delle Donne – che è la principale sostenitrice del femminismo della differenza in Italia – difendeva la diffusione del part-time come di una forma di lavoro che avrebbe permesso alle donne di dire un doppio sì: alla maternità e al lavoro. Bene, dal 1993 al 2013 il livello dei contratti part-time sul totale dei contratti di lavoro delle donne è cresciuto dal 21% al 32,2% e l’80,7% degli occupati part-time sono donne. Il 22,4% delle donne lavoratrici sotto i 65 anni esce dal mercato del lavoro per motivi legati alla famiglia, e il dato è superiore al 30% per quanto riguarda le donne con figli. Di conseguenza, l’ISTAT prevede che un’ampia massa di donne passerà gli ultimi decenni della propria vita in povertà. Questo sarebbe femminismo? Sostieni giustamente che uno dei contributi più importanti alla teoria queer, il ripensamento di sessualità, sesso e genere, è stato fornito da Judith Butler in Gender Trouble e in Bodies that Matter. Nel tuo lavoro citi alcuni dei problemi che scaturiscono dall’enfasi di Butler (o del femminismo radicale e della teoria della differenza) sul carattere ideologico dell’oppressione di genere e sulle sue implicazioni psicologiche, al prezzo di ridurre spesso la complessità della realtà al livello del linguaggio, o perfino di destoricizzare le relazioni di oppressione tra i sessi. Puoi spiegare in breve la tua critica? Non dico che Butler approcci il genere soltanto da un punto di vista ideologico o psicologico, perché non è affatto questo ciò che fa, dal momento che tiene conto della varietà di istituzioni e rapporti di potere che contribuiscono a costituire il genere, e questi vanno ben oltre le pratiche meramente discorsive. In un mio articolo critico piuttosto due aspetti del suo utilizzo del concetto di performatività. Il primo è che presenta la performatività come il modo in cui il genere viene reificato in generale, e non prende in considerazione la possibilità che la sua descrizione si riferisca piuttosto ad una forma specifica di reificazione del genere, che avviene nel tardo capitalismo e ha direttamente a che fare con il consumo di massa (una tesi sostenuta riguardo alla reificazione delle identità sessuali da Rosemary Hennessy e Kevin Floyd, ad esempio). Nel suo primo lavoro sul genere il capitalismo non viene neppure menzionato. Il secondo aspetto è che Butler adotta l’interpretazione di Derrida della teoria degli atti linguistici di Austin come metodo di interpretazione dei rapporti sociali e più in generale della storia, per esempio applicando la nozione di “iterazione” all’interpretazione degli atti sovversivi, delle lotte. Ciò che tento di spiegare nell’articolo è che tale applicazione di nozioni linguistiche alla realtà extralinguistica ha dei seri limiti e non aiuta a comprendere la dinamica storica delle lotte. Ad esempio, non vedo come qualcosa come un evento storico possa verificarsi all’interno di questa struttura concettuale. Come professoressa di filosofia ti chiedo di commentare due cose: com’è essere una donna filosofa oggi in una disciplina tradizionalmente molto “maschile”, dato anche il fatto che la filosofia è stata storicamente piuttosto misogina? E che cosa pensi della metodologia molto diffusa in filosofia di evitare la storia sociale, che suggerisce che comprenderemo meglio il filosofo se abbiamo a che fare “soltanto” con il testo, per esempio nell’approccio straussiano “esoterico”, molto popolare, alla filosofia politica antica o moderna? Sono una storica della filosofia, più specificamente della filosofia antica, e ho studiato in Italia dove la disciplina non è particolarmente maschile, o per lo meno lo è di certo in misura minore rispetto agli Stati Uniti o alla Germania. Nel mio campo ci sono parecchie donne filosofe molto eminenti e da questo punto di vista sono stata piuttosto fortunata, in quanto meno esposta al tipo di isolamento che, per esempio, spesso sentono i miei studenti queer o donne. Detto questo, la filosofia ha chiaramente un problema. Da un lato, il suo canone, e l’esclusione da esso dei filosofi non occidentali, ad esempio le varie scuole della filosofia cinese, così come di molte donne filosofe. Dall’altro lato, la predominanza della Ideal Theory nella filosofia morale e nel pensiero politico, specialmente all’interno della tradizione analitica. Charles Mills ha articolato una grande critica della Ideal Theory come ideologia, e non ho molto da aggiungere alle sue critiche. Permettimi soltanto di dire che se affidiamo alla teoria politica e alla filosofia morale il compito di aiutarci ad affrontare, identificare e chiarire i problemi sociali, politici ed etici di oggi, la Ideal Theory è fondamentalmente inutile. Dopo che Syriza ha sperimentato la propria sconfitta, il governo greco ha rimodellato la propria politica allo scopo di recuperare legittimazione: repressione dei gruppi dissidenti e austerità a livello economico – scelte tradizionalmente associate alla destra – puntando adesso al consenso della classe media conservatrice. Qualcosa di simile – per quanto non identico – ha fatto il PCI nella seconda metà degli anni Settanta con la strategia del compromesso storico, appoggiando le politiche della Democrazia Cristiana. Quel periodo culminò nelle misure di austerità dietro alle quali c’era il FMI e nella repressione violenta dei gruppi sociali che ad esse resistevano, con il PCI che puntava a recuperare uno status egemonico. Quali somiglianze rilevi tra questi due casi? Non sono sicura che quella con il compromesso storico sia una buona analogia, nonostante io sia consapevole di quanto Tsipras e altri dirigenti di Syriza siano pesantemente influenzati dall’Eurocomunismo. Il compromesso storico fu uno dei maggiori errori strategici e fallimenti del Partito Comunista Italiano. Era un tentativo di raggiungere un compromesso con la Democrazia Cristiana allo scopo di superare la lunga esclusione, per decenni, del Partito Comunista dalle coalizioni di governo, e fu anche motivato dalla – ampiamente infondata – paura di un colpo di stato fascista o reazionario in Italia, in seguito a quello cileno del 1973. Avvenne in un momento in cui il Partito Comunista era forte dal punto di vista elettorale, poiché aveva capitalizzato lo spostamento dell’elettorato a sinistra prodotto dalla stagione di grandi mobilitazioni sociali che ebbe inizio nel 1967. Con il compromesso storico il Partito Comunista legittimò a sinistra l’inizio delle politiche di austerità, e sostenne – perfino invocò e organizzò – la repressione dei movimenti sociali. Ma alla fine furono esclusi dal governo! Quando nel 1980 Berlinguer tentò un’inversione strategica, era troppo tardi. Ora, il fallimento di Syriza è più paradossale di quello del PCI. Negli anni Settanta, il PCI era già un partito socialdemocratico, ma veniva sistematicamente escluso dal governo a causa dei suoi legami con l’Unione Sovietica: la strategia di Berlinguer fu un tentativo disastroso di superare tale situazione, contribuendo alla stabilizzazione sociale del Paese e diventando così un partner politico della Democrazia Cristiana. Era tutto sbagliato, stava per avere conseguenze tragiche, ma c’era una ratio. Con le scelte politiche e il comportamento di Syriza passiamo dalla tragedia alla farsa: Syriza ha effettivamente vinto le elezioni sulla base di un programma piuttosto radicale e, specialmente, della promessa di resistere alla Troika, aveva il sostegno elettorale e sociale, è andata ai negoziati con i tecnocrati europei nel modo più dilettantesco possibile, forse ritenendo che la persuasione razionale avrebbe ottenuto dei risultati, si è rifiutata di prendere in considerazione un piano B basato sulla Grexit, ha indetto un referendum che ha vinto mentre forse sperava di perderlo, e poi ha fatto il contrario di ciò che aveva promesso di fare il giorno prima del referendum. Tutto questo in sei mesi. Dopodiché sono state lacrime e sangue per il popolo greco, e a quanto pare non è mai abbastanza, il popolo greco ha da soffrire ancora di più. Più che un compromesso storico sembra una combinazione di imbecillità politica e di stupefacente opportunismo... Il Partito della Rifondazione Comunista in un breve arco di tempo ha conosciuto una severa sconfitta, se paragoniamo il conseguimento di quasi l’8% dei voti italiani nel 2006 alla quasi totale estinzione politica attuale. Secondo te quali sono le cause principali di questa sconfitta? Vedi qualche possibilità per il partito della Sinistra Italiana che è stato appena fondato? La causa principale della sconfitta è stata l’alleanza con il centrosinistra e la partecipazione all’ultimo governo Prodi dal 2006 al 2008. Per una breve stagione, tra la fine degli anni Novanta e il 2003, Rifondazione ha svolto un ruolo chiave nei movimenti contro la guerra e altermondialisti, e sembrava essere orientata verso una svolta a sinistra e una rottura con la storia dello stalinismo e del togliattismo. Poi, nel 2002, dopo mesi di lotte sindacali e sociali contro il tentativo di Berlusconi di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, Bertinotti ha avuto l’idea di lanciare un referendum per l’applicazione dell’articolo 18 a tutti i posti di lavoro. Il referendum si è tenuto nel 2003 ed è stato un disastro, perché l’affluenza è stata soltanto di circa il 25%. La lezione che Bertinotti ha tratto da tale risultato è stata che i movimenti possono arrivare solo fino a un certo punto, poi deve intervenire la politica, quindi che era necessario raggiungere un accordo con il centrosinistra e formare una coalizione di governo allo scopo di guidare una grande stagione di riforme sociali. Quello è stato l’inizio della fine: da quel momento in poi, nel partito e nei movimenti sociali si è diffuso lo scoraggiamento, Bertinotti ha impegnato l’intero partito in una discussione del tutto strumentale sulla non-violenza, e alla fine Rifondazione è riuscita a far parte del governo e ha perso tutta la sua credibilità politica nel giro di due brevi anni. Dal 2008 ad oggi, i resti di Rifondazione e di altre organizzazioni della sinistra parlamentare hanno ciclicamente messo assieme nuove liste e coalizioni elettorali, con risultati in genere tremendi, e uno spostamento a destra ad ogni nuova lista. Adesso c’è la formazione di Sinistra Italiana, che combina insieme resti di Sinistra Ecologia e Libertà (un’evoluzione verso destra di un settore di Rifondazione) e alcuni reietti del Partito Democratico. Sfortunatamente la logica è sempre la stessa: quella di un raggruppamento di dirigenti di organizzazioni di sinistra precedenti, senza relazioni di sorta con i processi sociali in atto, senza radici di classe o in organizzazioni del lavoro, senza alcun investimento nelle mobilitazioni sociali. Sinistra Italiana può riuscire a ottenere alcuni seggi in Parlamento, a seconda di quale sarà la prossima legge elettorale, ma non la vedo come un progetto utile per ricostruire la sinistra e la lotta di classe in Italia. Tutti questi vari esperimenti hanno in comune il presupposto che il modo migliore per ricostruire la sinistra sia attraverso politiche elettoralistiche, ma in Italia il vero problema della sinistra è che ha poca o nessuna connessione sociale e politica con la classe, non ha una base di classe. Da questo punto di vista, penso anche che queste iniziative elettorali, nel corso di quasi dieci anni, siano state di danno alla possibilità di ricostruire una sinistra ampia in Italia, poiché hanno contribuito a trasmettere l’impressione che in definitiva assicurarsi un posto in Parlamento o comunque un posto di lavoro politico a tempo pieno sia tutto ciò che conta per i presunti dirigenti della sinistra, e che da questo punto di vista essi non siano diversi dal resto dei politici. Gli scritti politici recenti di Toni Negri appoggiano l’Unione Europea suggerendo la possibilità di una sua riforma nel senso di “un’Europa sociale e democratica” come antidoto politico ai crescenti nazionalismi. Pensi che questo “europeismo di sinistra” sia la soluzione alla crisi che sperimentiamo attualmente? Questo tipo di riformismo è fattibile e potrebbe essere efficace all’interno delle istituzioni europee? Come possiamo approcciare le dichiarazioni di Negri sulla UE se teniamo a mente che anche gli attuali dirigenti della UE non sembrano appoggiare tale progetto come una autentica possibilità? Si può spiegare l’opinione di Negri come un aspetto caratteristico della tarda Autonomia italiana? Sinceramente non vedo come sia possibile pensare che questa Unione Europea possa essere riformata, dopo aver visto come ha gestito la crisi greca e quella dei rifugiati. Oggi non prendere posizione contro la UE contribuisce, a mio avviso, alla morte dell’ideale di un’Europa democratica e sociale, perché l’Unione Europea, per com’è, è la negazione nei fatti di quell’ideale ed è la causa principale dell’ascesa della destra xenofoba e nazionalista in numerosi Paesi europei. Questo tipo di formazioni di destra non si battono opponendogli un qualche vago ideale di un’Europa sociale unita, costantemente contraddetto nei fatti, o facendo appello ad un vago transnazionalismo. Ciò di cui avremmo bisogno oggi in Europa sarebbe una sinistra abbastanza coraggiosa da opporsi in modo frontale alla UE e all’Eurozona, denunciandone le misure economiche e sociali e le politiche xenofobe sull’immigrazione. In altre parole, dovremmo articolare un anti-europeismo di sinistra che si opponga a questa Unione Europea in nome di un autentico internazionalismo. Siccome non lo stiamo facendo, lo spazio politico per una opposizione alle politiche di austerità dettate dalla UE rimane spalancato per la destra xenofoba. Per tornare a Negri, non penso che la sua posizione sia sintomatica dell’intero spettro dell’Autonomia italiana. Il post-operaismo è soltanto una delle correnti che discendono dall’Autonomia operaia degli anni Settanta. Info-Aut, per esempio, è una delle organizzazioni di sinistra in Italia che hanno assunto una posizione anti-Euro e anti-UE. Nell’ultimo referendum il PD sosteneva l’idea che il popolo italiano dovesse votare “Sì” perché altrimenti il populista M5S – rappresentato come fascista – di Beppe Grillo sarebbe andato al potere. Tale pericolo era reale o si trattava soltanto di una tecnica discorsiva da parte del PD allo scopo di fuorviare l’elettorato italiano? Quali erano le più importanti scommesse politiche del referendum? Un’eventuale vittoria di Grillo alle prossime elezioni è davvero il pericolo principale nell’attuale quadro politico italiano? La più importante scommessa politica del referendum era di concludere la lunga transizione cominciata alla fine della Prima Repubblica all’inizio degli anni Novanta, trasferendo il potere decisionale dal Parlamento all’esecutivo. Questo referendum è stato soltanto uno dei vari tentativi negli ultimi anni di riformare la Costituzione in senso antidemocratico. Era anche abbinato ad una nuova legge elettorale per la Camera dei Deputati che avrebbe attribuito un forte bonus di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 40% dei voti. La mente dell’operazione era Giorgio Napolitano, il cui progetto per la conclusione della transizione consisteva precisamente, da un lato, in una stabilizzazione delle istituzioni politiche attraverso un attacco alla Costituzione e una legge elettorale iper-maggioritaria, dall’altro, in un significativo indebolimento del potere di negoziazione dei sindacati e delle altre organizzazioni della società civile. Questo era fondamentalmente il progetto del governo Renzi. C’erano anche delle considerazioni opportunistiche relative alla crescita del M5S, la cui stessa esistenza sta mettendo a rischio decenni di tentativi di stabilire e consolidare un sistema elettorale bipolare. Cosa accadrà adesso è ancora abbastanza poco chiaro. In linea di principio il M5S è in buona posizione per capitalizzare sulla vittoria del “No” al referendum e sulla crescente insofferenza nei confronti del Partito Democratico. Tuttavia, i problemi e gli scandali che circondano il sindaco di Roma, Virginia Raggi, rischiano di causare una grossa perdita di credibilità al M5S. Detto questo, eviterei il termine “pericolo”. Il M5S non è un partito fascista, è un movimento elettorale onnicomprensivo, con tratti dilettanteschi e politiche contraddittorie. Non vedo come un loro governo possa essere significativamente peggiore dei governi neoliberisti e antidemocratici di Renzi e di Gentiloni. Quanti si preoccupano del “fascismo” del M5S dovrebbero forse passarsi un po’ di tempo a leggere il piano per la sicurezza elaborato dall’attuale ministro degli Interni, Marco Minniti, e scendere in piazza per opporsi al governo autoritario che c’è già. [traduzione di Amos Postarmi] di Manoela Patti
Il 1° maggio del 1947 Salvatore Giuliano e la sua banda sparavano sugli inermi contadini di Piana degli Albanesi, come ogni anno dopo la fine del fascismo riuniti a Portella della Ginestra per celebrare la festa dei lavoratori insieme a decine di compagni dei paesi vicini, e uccidevano 11 persone. Nel settantesimo anniversario della strage l’Istituto Gramsci Siciliano e l’Associazione Portella della Ginestra con altri enti ed istituzioni, con il sostegno della Fondazione Federico II dell’Assemblea regionale siciliana e dell’Università di Palermo, hanno promosso il convegno di studi La strage di Portella della Ginestra. Tra storia e memoria, svoltosi allo Steri di Palermo e a Piana degli Albanesi il 21 e il 22 aprile, e articolato in tre sessioni oltre ad una tavola rotonda conclusiva. Quest’ultima ha avuto per tema la controversa questione della “ricerca della verità” sulla strage di Portella, che nel dibattito pubblico viene spesso presentata come “nascosta”, nei segreti delle carte e degli archivi dello Stato. Non a caso, i rappresentanti delle istituzioni che hanno aperto la prima sessione il 21 aprile, hanno posto al centro dei propri interventi la “necessità” di conoscere la “verità” su Portella. Su questa linea in particolare ha insistito l’intervento del Presidente del Senato Pietro Grasso, che ha inoltre evidenziato l’altra grande questione al centro del dibattito pubblico sulla strage, ovvero quella della presunta inaccessibilità della documentazione disponibile. Si tratta di temi che sono quasi divenuti più noti dei fatti stessi. La strage di Portella è davvero la prima manifestazione della “strategia della tensione”, come, spesso in buona fede, ritiene buona parte dell’opinione pubblica? Il comitato scientifico che ha promosso il convegno ha posto proprio questa domanda al centro della riflessione, sottolineando la necessità di riportare la discussione nell’alveo dell’analisi storiografica, malauguratamente sempre meno capace di “incidere” nel dibattito pubblico e nella ricerca della verità. O, perlomeno, nella ricerca di una verità possibile. Gli interventi presentati nelle due giornate di studio si sono quindi focalizzati principalmente su due temi: l’analisi del contesto in cui matura l’attentato del 1° maggio 1947 e la rielaborazione dei fatti nelle ricostruzioni e narrazioni successive, anch’esse maturate in specifici contesti. Ovvero, la Guerra fredda, la lotta politica, il processo ai membri della banda Giuliano svoltosi a Viterbo, le celebrazioni dell’anniversario dell’eccidio e le ricostruzioni cinematografiche. Le relazioni presentate nella prima sessione (La Sicilia dalla Liberazione alla prima Assemblea regionale (20 aprile 1947)), hanno analizzato il contesto locale nel dopoguerra, sottolineandone la complessità ed evidenziando l’alto livello di conflittualità sociale che l’isola stava attraversando. Questione quest’ultima cruciale per leggere i fatti di Portella: non si spiega infatti la strage se non la si colloca nella stagione delle lotte contadine per la terra e della violentissima reazione agrario-mafiosa a quell’incredibile ciclo di lotte insieme sociali e politiche. Così, anche la figura di Salvatore Giuliano non si comprende se non si tiene conto della caotica e magmatica fase postbellica; una stagione che si chiude con la lotta condotta da una classe dirigente retriva e violenta, quella agrario-separatista-mafiosa, per mantenere il ruolo egemone che i decenni precedenti le avevano consegnato e che il movimento contadino guidato dalle sinistre metteva in discussione. Eppure oggi la strage viene per lo più interpretata ora come la prima manifestazione della “strategia della tensione” − che avrebbe invece caratterizzato la storia dell’Italia repubblicana a partire dalla fine degli anni Sessanta − ora come il risultato di un complotto internazionale che farebbe di Piana degli Albanesi il teatro di uno dei conflitti della Guerra fredda. In entrambi i casi, i risultati elettorali del 20 aprile 1947, sono ritenuti un elemento determinante, la causa prima dell’eccidio. La “vittoria” del Blocco del Popolo avrebbe infatti determinato una violentissima reazione anti-comunista, di cui Giuliano sarebbe stato mero esecutore. In questa prospettiva, come si è detto, si trascura però del tutto l’analisi del quadro sociale e politico locale, caratterizzato da una grave crisi socio-economica, ma anche da una grande spinta al cambiamento delle classi subalterne in una fase di progressiva democratizzazione della società. Simbolo di questa fiducia in una modernizzazione democratica fu la mobilitazione dei contadini nelle lotte per la terra, sulla strada aperta dai decreti Gullo emanati nel 1944 e proseguita con l’azione del PCI e del PSI e per una riforma agraria che ne permettesse il riscatto. Si trattava di lotte sociali senza precedenti nell’isola, che riprendevano ed ampliavano quelle del 1919 ma vedevano questa volta chiaramente presenti un nuovo nucleo di quadri e dirigenti sindacali della CGIL unitaria, spesso anche leader delle locali sezioni social-comuniste. Una mobilitazione politica, che molti, troppi, sindacalisti e militanti pagarono con la vita. Sulla questione della lunga scia di sangue che segna senza soluzione di continuità il ciclo delle lotte contadine in Sicilia, si è soffermata la relazione di Pierluigi Basile, che utilizza non a caso la parola strage per indicare il decennio di omicidi che si apre nel 1944 con l’assassinio a Casteldaccia di Andrea Raja, membro comunista della commissione popolare per i Granai del Popolo, e che vede cadere tra gli altri Placido Rizzotto a Corleone e Salvatore Carnevale a Sciacca. Sull’analisi delle evoluzioni del movimento contadino, a partire dalla stagione dei fasci, si è focalizzata invece la relazione di Vittorio Coco, attento come Basile a sottolineare la violenza della reazione agrario-mafiosa, specialmente nel primo dopoguerra. Per comprendere cosa accade a Piana degli Albanesi, più che all’America e ai presunti disegni eversivi di parte degli uomini dello Stato, bisogna dunque guardare al contesto locale, in cui la prassi era storicamente quella della reazione violenta, facilitata dall’intreccio di interessi che legava proprietari e mafiosi, spesso anch’essi espressione di interessi diretti, e non certo semplici esecutori di una volontà “altra”. In questo senso, appare prezioso il contributo di Vito Scalia che, evidenziando come il conflitto tra socialisti (poi anche comunisti) e proprietari dei feudi avesse radici antiche, ripercorre le tappe del movimento contadino a Piana degli Albanesi e parallelamente quelle della carriera politica e criminale del capomafia Francesco Cuccia, proprietario e a lungo sindaco del piccolo comune alloglotto. La congiuntura del secondo dopoguerra – delineata nei suoi aspetti sociali, politici, economici da Rosario Mangiameli – riporta alla luce conflitti e dinamiche sopite, ma non certo superate. Le radicalizza anzi, laddove la possibilità di cambiare e trasformare la società appare finalmente davvero realizzabile. È da questa prospettiva che va osservata la vicenda di Portella, nella quale la figura di Giuliano, nata in una stagione in cui ordine e disordine si confondono, incarna una dimensione sì ribellistica ma di stampo reazionario facendo propri gli obiettivi della componente agrario-separatista, e condividendone l’ultima parabola. Il bandito difende un’idea di società, espressa da una classe dirigente ormai al tramonto, ma capace in parte di riciclarsi spostandosi nella destra qualunquista e monarchica, con la quale, mentre si consuma l’eccidio di Portella, la Dc si appresta a costituire il primo governo regionale nel quadro della più generale svolta anticomunista del partito di De Gasperi, orientato alla rottura della alleanza con la sinistra già dalla fine del 1946 anche se poi quest’ultima si realizzò effettivamente solo nel maggio del 1947. Prima ancora che l’Italia Repubblicana varasse la Costituzione, in Sicilia prendevano quindi forma alleanze politiche di lì a poco nazionali, che mettevano fine all’unità delle forze antifasciste e che mostravano quanto complessa fosse la transizione dalla monarchia, ma soprattutto dal fascismo alla Repubblica. Le istanze di modernizzazione della società espresse dalla sua parte più progressista, che in Sicilia avevano trovato espressione nel consenso accordato al Blocco del Popolo, furono ostacolate dalla nuova congiuntura politica che si andava delineando. In Sicilia, il nuovo assetto recuperava parte della vecchia classe dirigente reazionaria, che con l’eccidio di Portella mostrava di essere ancora pronta a reagire violentemente ad ogni tipo di mobilitazione sociale che avesse per obiettivo la trasformazione dell’ordine sociale esistente. La strage però non arrestò né il movimento contadino, come testimoniano le lotte degli anni successivi, di cui si è detto, né provocò una reazione speculare, terroristica, da parte delle forze comuniste. Bersaglio principale, queste ultime, di Salvatore Giuliano, che il suo anticomunismo sbandierò dopo Portella in proclami e dichiarazioni destinate tanto all’opinione pubblica, quanto a quella classe politica di cui si era fatto braccio armato, non sappiamo se motu proprio o se dietro espressa richiesta (penso per esempio alla fantomatica lettera in cui veniva chiamato a compiere la strage, che Giuliano dichiarava di aver ricevuto e poi distrutto). Questo dato tuttavia è relativamente importante, poiché gli obiettivi di Giuliano coincidevano con quelli di una classe dirigente retriva che già in passato aveva usato la violenza per fermare il movimento contadino e per riaffermare un odioso strapotere contestato con forza, e con alterne fortune, da un pezzo di società. In questo senso, le relazioni di Patti e Mangiameli mostrano la continuità di un’altissima conflittualità sociale che esplode con violenza inaudita nel caos del secondo dopoguerra, in cui il radicalizzarsi dello scontro è legato anche alla crisi alimentare, alle distruzioni belliche, all’incertezza istituzionale e all’azione del movimento indipendentista, che irrompe sulla scena facendosi latore di una violentissima carica eversiva e reazionaria. Il banditismo siciliano del secondo dopoguerra è il precipitato di tale composto, e Giuliano è colui che in quel milieu più di altri coltiva aspirazioni (velleità?) che potremmo definire politiche, e che persegue attraverso strumenti che ben conosce: “terrore” e violenza, accompagnati da una scaltra costruzione “mediatica” della propria immagine. La posta in gioco è, per tutte le parti in causa – sinistre e movimento contadino, destre e agrari mafioso-indipendentisti, Giuliano, la nuova classe di governo regionale – altissima. Di qui il lungo epilogo dell’attentato del primo maggio: dal dibattito coevo che coinvolge il Pci e Girolamo Li Causi in primis, che immediatamente porta all’Assemblea Costituente la questione sul piano politico, e la Dc e Mario Scelba, ministro dell’Interno di De Gasperi, dall’altra. Gli interventi della seconda (La strage di Portella della Ginestra) e della terza (La memoria) sessione del convegno – Blando, Cruciani, Di Lello, Loreto, Del Rossi, Morreale – aprono una riflessione su questi temi, letti da diverse angolazioni. In particolare si concentrano sulla controversa questione delle forze messe in campo dal governo De Gasperi per catturare Giuliano, sul processo alla banda Giuliano svoltosi a Viterbo (1950–52), e sulla complessa questione del “dopo” la strage di Portella, analizzando tanto lo scontro tra le forze politiche che ne conseguì quanto la rielaborazione dei fatti nella memoria e nelle narrazioni successive. In questo quadro, Blando nel suo contributo sulle intricate vicende che caratterizzano la “caccia” a Giuliano, presenta un’interessante riflessione sul ruolo degli apparati di sicurezza e sul loro funzionamento interno. L’analisi proposta mostra come il gioco di infiltrati e le rivalità tra le i corpi di polizia, siano chiaramente decifrabili al di fuori di ogni logica complottista. Come la strage si inserisce in una congiuntura caratterizzata da una complessa transizione, in Sicilia resa ancora più complicata dalla precocità del dopoguerra (1943), così gli apparati polizieschi, nella loro composizione, costituiscono il riflesso di questa transizione. Uomini della polizia fascista – basta citare Messana, Verdiani e Spanò – e un corpo storicamente in conflitto con quest’ultima come i carabinieri, si trovano a collaborare per riportare l’ordine in una regione sconvolta da rivolte e disordini, dove la violenza, e non la politica, è ormai da anni lo strumento più comune per la risoluzione dei conflitti; dove le relazioni tra criminalità mafiosa e “società” sono complesse e radicate; dove lo Stato deve recuperare il monopolio della violenza. Di qui, prima di Portella, la scelta di Parri di utilizzare il confino contro i leader separatisti del Mis. Di qui, ancora, la scelta di Scelba – la cui linea politica peraltro non è certamente quella di Parri – di utilizzare ogni risorsa per la cattura di Giuliano, sino alla creazione del CFRB (Comando forze repressione banditismo) e al perdurare dello stato d’assedio a Montelepre per più di un anno. La partita finisce per giocarsi sul terreno delle spie e dei delatori, strumenti comuni ai due corpi rivali: ne consegue la messinscena dell’omicidio di Giuliano da parte dei carabinieri di Ugo Luca a Castelvetrano, il 3 luglio del 1950. Invece, com’è noto, fu tradito e ucciso dal suo luogotenente, il cugino Pisciotta. La conclusione cui giungono le due giornate di lavori è che la strage di Portella non rappresenta la prima di una serie di trame oscure che inquinano la Repubblica sin dalle sue origini. Si tratta sì di una vicenda intricata, che chiama in causa anche la classe dirigente nazionale e le sue alleanze politiche, ma per comprendere cosa accade a Portella della Ginestra settanta anni fa, la funzione euristica della teoria del complotto è sopravvalutata e fuorviante. Piuttosto, bisogna guardare alla documentazione nella sua complessità, tenere insieme il quadro politico e la congiuntura postbellica, le istanze di gruppi e di singoli, l’interazione fra vecchio e nuovo, le continuità e le rotture che caratterizzano in particolar modo le fasi di transizione; ancora, bisogna guardare al contesto locale, alle relazioni storicamente date in quel territorio, e all’interazione con il contesto nazionale. Pur ribadendo quindi la necessità di rendere pubblici i documenti sull’eccidio ancora non accessibili, concludono nei loro brillanti interventi Salvatore Lupo e i direttori dell’Archivio di Stato di Palermo e dell’Archivio Flamigni, Claudio Torrisi e Ilaria Moroni, per una verità possibile su Portella e su ciò che avviene dopo − a Castelvetrano, a Viterbo, nel carcere di Palermo dove viene ucciso Pisciotta − bisogna lavorare negli archivi e sulle fonti, fuori da prestabilite logiche che evocano cospirazioni e trame eversive internazionali. Per citare le parole del procuratore generale Alfredo Viola dopo la storica sentenza del 19 giugno 2017 sulla strage ordinovista di Piazza della Loggia, “se c’è una cosa buona in tutto questo tempo che è passato è che l’enorme distanza dai fatti consente di cogliere l’immagine di tutta la foresta e non quella delle singole foglie”. KARL KORSCH
7/7/2017
di Riccardo Bellofiore
Breve premessa (2017). Gli amici, e compagni, di PalermoGrad mi chiedono un testo che ‘introduca’ all’incontro del 11 luglio sull’attualità del Capitale (qui i dettagli dell’incontro), a 150 anni dalla pubblicazione del primo libro. Scartabellando tra vecchie cose, è saltato fuori questo mio pezzo su Karl Korsch: testimonianza di un interesse e (per molti versi) di una sintonia mai rinnegati per il consiliarismo, e per quel filone marxiano e non marxista (la distinzione si deve a Maximilien Rubel) che da Luxemburg va a Paul Mattick e, appunto, Korsch. È un testo scritto per un gruppo di studio a Torino, a Palazzo Nuovo (non ricordo in che corso), quando l’università era aperta fino alle 23 per facilitare la frequenza degli studenti-lavoratori, nel lontano 1976 (fanno giusti giusti 41 anni …). Le mie pagine possono forse utilmente fungere da ‘apripista’ ad una ben più sostanziosa “Introduzione” di Karl Korsch alla ripubblicazione in Germania del primo libro del Capitale nel 1932. Il testo venne tradotto da Gian Enrico Rusconi nella raccolta di scritti di Korsch intitolata Dialettica e scienza nel marxismo. Molte delle tesi di quella “Introduzione”, come anche del Karl Marx di pochi anni dopo, hanno retto al tempo, e rimane da chiedersi in che misura sia vero che il Capitale “per molti aspetti solo ora inizia a vivere il suo tempo”. Altre, com’è naturale, vanno messe in discussione, come cerco di accennare nel mio scritto. Quello che è certo è che, come anche Korsch non manca di rilevare, la teoria di Marx non è strettamente economica, è più propriamente di scienza sociale in senso lato eppure profondo,‘una teoria storica e sociologica’ che mal sopporta gli steccati disciplinari, che certo non si superano con un vuoto stile inter-disciplinare (vale qui la lezione di Adorno). Il che, vorrei esser chiaro, non è a mio avviso in contraddizione con il suo essere innanzi tutto una ricostruzione logica del capitale, perché sono le categorie a possedere una determinazione formale proprio in forza della loro specificità storica e sociale (è il punto su cui anche insiste Isaak Ilic Rubin quando scrive di ‘metodo sociologico’ e pone l’accento sul ruolo centrale della ‘forma’ in Marx): e così anche si può intendere il ‘principio di specificazione’ di Korsch, così come la sua lettura storicamente ancorata del metodo dialettico di Hegel, per come è ripreso e rivoluzionato da Marx. Il Capitale, dunque, è economia politica critica soltanto in quanto è critica dell’economia politica. Abbiamo qui a che fare con una critica del capitale come realtà per il tramite di una critica dell’economia politica come sua ‘scienza’: una critica che svela le ‘leggi di movimento’ del capitale costituito e la costituzione stessa del capitale. Una critica che però neppure potrebbe darsi se non trovasse il suo fondamento e il suo sbocco in una critica anche pratica di quel ‘feticcio automatico’ che, nella sua circolarità, si pretende Soggetto totalizzante e totalitario. Per questo la critica dell’economia politica, mentre deduce dialetticamente quei peculiari oggetti che sono il valore, il denaro, il capitale stesso, non può non mantenere un rapporto interno e ineludibile con la lotta di classe da cui nasce e in cui sfocia, anche se a quest’ultima non lo si può ridurre ‘immediatisticamente’ (sta qui, in verità, il rischio e il limite della posizione di Korsch). Per mio conto, il testo che qui propongo non ha nessuna particolare pretesa di originalità, ma mi rivela a me stesso come ancora molto (troppo?) simile al ragazzo di allora: visto che in fondo sempre attorno ai nodi di quello scritto continuo a interrogarmi. [rb ] L’attività teorica e politica del primo Korsch si svolge nella Germania degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale e sullo sfondo delle convulsioni politiche all’interno dell’area socialdemocratica e comunista. Lo testimonia lo stesso iter politico di Korsch, che passò dai socialdemocratici della SPD alla USPD (socialdemocratici indipendenti) al UKPD (comunisti) all’ultrasinistra. In questi anni Korsch scrisse insieme sulla socializzazione e sul rapporto marxismo-filosofia. I due temi sono meno distanti di quanto possa apparire a prima vista. Negli scritti sulla socializzazione Korsch si fa assertore di un progetto che concili la pianificazione dell’organismo produttivo, il cui carattere centralizzato ed efficiente va mantenuto, con il controllo, non solo tecnico-economico, ma anche direttamente politico, dal basso. Cardine di questo rapporto tra centralizzazione e controllo dal basso, che è poi il rapporto stesso di economia e politica, sono i consigli: “la via lungo la quale le due rivendicazioni oggi contenute nelle richieste di socializzazione – il controllo dall’alto (da parte della collettività) e il controllo dal basso (da parte di coloro che partecipano immediatamente alla produzione) - possono venire realizzati con certezza e celerità l’uno accanto all’altro, è quella del sistema consiliare”.[1] Già in questo prima fase il marxismo è per Korsch unità di teoria e prassi, scienza e trasformazione rivoluzionaria dell’oggetto, identità di conoscenza e attività materiale: contro la ‘pura’ scienza borghese, inattiva e apologetica, e contro l’utopismo attivistico ma imbelle del socialismo premarxiano. I consigli appaiono così come i mezzi di una strategia che dal controllo nei luoghi di produzione si estende all’intera società, eliminando la base economica del potere dell’avversario di classe e ponendosi come embrione di un nuovo potere, distruttivo dello Stato e dell’organizzazione della ‘collettività’ come ente astratto separato e artificiale. Marx e Hegel In Marxismo e filosofia del 1923 la filosofia è per Korsch il rispecchiamento teorico della propria epoca e l’espressione teorica di una pratica sociale;[2] la riaffermazione del marxismo come corpo teorico unitario del modo di produzione capitalistico, e di esso solo;[3] l’autostoricizzazione del marxismo stesso. In relazione al primo punto, e cioè al rapporto di ideologia e realtà, di coscienza ed essere,[4] ciò conduce alla decisa riaffermazione che l’analisi scientifica di Marx è critica insieme della realtà del capitale così come della sua espressione teorica (l’economia politica e l’idealismo). Ciò si ricollega al secondo punto, il marxismo come analisi scientifica della totalità borghese: viene così ribadita l’unitarietà dell’oggetto dell’analisi, la società capitalistica; unitarietà cioè della ‘società civile’, della base socio-economica, e della cosiddetta sovrastruttura. È in relazione a questa tematica che Korsch affronta in quest’opera il rapporto di Marx con Hegel, cioè con il pensatore tedesco che ha rispecchiato teoricamente il movimento rivoluzionario borghese, che quindi ha espresso sul piano della teoria la comprensione unitaria della società dal punto di vista della borghesia. Hegel è insomma stato per la prassi sociale della borghesia ciò che è stata o dovrebbe essere la teoria marxiana per la prassi sociale del proletariato. Mentre Hegel aveva posto il mondo nella filosofia, occorre invertire il processo, porre la filosofia nel mondo e quindi sopprimerla come tale, come pensiero opposto al mondo. Ciò impone una operazione non solo teorica, una critica pratica, e quindi l’azione rivoluzionaria contro la base materiale di quella forma filosofica. Il marxismo è comprensione della totalità dello sviluppo sociale borghese in quanto è teoria della rivoluzione sociale. Per questa via, densa di intuizioni teoriche rilevanti, Korsch si pone in grado di criticare il marxismo della Seconda Internazionale rigidamente fermo ad una analisi meccanica della struttura ‘economica’ (e cioè tecnico-materiale e non sociale) e ad una interpretazione del feticismo come semplice errore o ‘velo’ dei rapporti sociali, mera comprensione teorica errata. Analogamente, può mettere felicemente in luce il rapporto tra una simile concezione ‘volgare’ dell’apparato teorico marxista ed il discorso sullo Stato che è proprio di questo ‘marxismo’ , che oscilla tra la definizione dello Stato come macchina oppressiva comune ad ogni epoca storica passata che abbia avuto stratificazioni sociali, macchina al servizio di ogni classe dominante; e/o uno strumento tecnico – politico sempre più essenziale data la crescente complessità della organizzazione sociale. Al contrario, per Marx lo stato è qualcosa che il socialismo deve sopprimere come espressione particolare della società borghese. Ancora una volta si rivela in Korsch una impostazione teorica che unisce strettamente l’analisi filosofica all’analisi ‘politica’. Proprio in quegli anni Korsch va sostenendo nei suoi scritti politici che lo Stato va utilizzato solo nella fase di transizione per aiutare ad accompagnare l’espansione di un diverso tipo di democrazia, proletaria, di un diverso tipo di organizzazione sociale. Uno Stato, quindi, che va sempre più autolimitandosi, nella prospettiva di una totale estinzione. Il limite di Marxismo e filosofia è semmai nell’ambiguità con cui è posto il rapporto tra teoria e prassi, in modo tale che esso sembra (e la polemiche suscitate dal libro lo confermano) assorbito dal rapporto di coscienza ed essere. Di qui è facile concludere che la differenza tra Marx ed Hegel si limita al mutamento del contenuto dell’analisi e del soggetto di essa (proletariato per Marx, borghesia per Hegel): la distanza non coinvolgerebbe il metodo stesso, che verrebbe così ipostatizzato ed eternizzato, valido per tutte le epoche storiche. Si può esprimere la stessa cosa da un altro punto di vista, sottolineando la pericolosità di una mancata distinzione tra l’atteggiamento di Marx e quello di Hegel in merito ad oggettivazione ed alienazione. Mancata distinzione che conduce Korsch ad una critica delle scienze non in quanto borghesi ma in quanto scienze tout court, cioè teorie che si fondano sulla distinzione tra soggetto e oggetto. Ci sembra anche importante notare come in quest’opera Korsch non riesca a coniugare realmente il marxismo come teoria rivoluzionaria ed il marxismo come teoria puntualmente scientifica della società borghese. Ciò è rivelato, come osserva a ragione Giuseppe Bedeschi nella sua introduzione al Karl Marx di Korsch, dall’ “incapacità di cogliere la continuità di tutta l’opera di Marx, dalla giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto statuale al Capitale”: di cogliere, cioè, l’unità profonda tra la critica dell’idealismo del giovane Marx e l’analisi scientifica e positiva del Capitale. Il che avrebbe portato, assieme alla messe di analisi particolari e ad una maggiore separazione dei singoli elementi dell’analisi, alla disarticolazione della teoria marxista successiva. Il terzo elemento portante di Marxismo e filosofia, l’applicazione del materialismo storico a se stesso, passò praticamente inosservato. Al contrario, era essa il centro propulsivo dell’intero saggio, che tendeva a collegare la teoria alla nuova fase rivoluzionaria, e di qui rimetteva al centro il rapporto Marx-Hegel per sottolineare il carattere di ‘totalità’ della società borghese, la realtà delle forme di coscienza, e la coincidenza di quest’ultima con l’essere (non senza contraddizioni interne, come abbiamo visto). La critica a Kautsky e a Lenin Sarà questo il filo conduttore dell’analisi korschiana del marxismo della Seconda e della Terza Internazionale nello scritto contro Kautsky Il materialismo storico (1929), nell’Anticritica (la risposta del 1930 alle critiche a Marxismo e filosofia) e negli articoli su Lenin. A Kautsky, che rivendicava il marxismo come analisi scientifica ‘pura’, valida per tutte le classi, propria più del Marx maturo che del Marx del Manifesto, momento della evoluzione della scienza in generale, Korsch oppone il marxismo come teoria della rivoluzione sociale nel momento stesso in cui è analisi scientifica, ‘oggettiva’, della realtà. Oppone, in una parola, il marxismo come scienza di classe. In un primo momento Korsch vedrà nell’analisi politica di Lenin un’intenzione coincidente con la sua, ma la NEP, la costruzione del socialismo in un solo paese, la teorizzazione di Stalin e Bukharin che riduceva il socialismo ad un ‘capitalismo di Stato’, gli fanno cambiare opinione. In realtà, scrive Korsch, il revisionismo di Bernstein e Kautsky, e quello di Lenin e di Stalin (tra i quali non vorrà mai distinguere) diversi nel contenuto, sono però simili nella sostanza. Vediamo prima la critica a Kautsky e successivamente la critica a Lenin. In Karl Kautsky la riduzione del marxismo a scienza avalutativa conduce alla visione dello sviluppo come semplice momento storico evolutivo della natura e della società, mai come sviluppo anche del pensiero (delle forme di coscienza) e della pratica sociale, della azione rivoluzionaria, come momento che necessariamente scaturisce da quella stessa evoluzione. Mentre in Marx la rivendicazione del carattere prioritario nel tempo della natura, conduce però allo studio della società come oggetto dell’analisi, che si estende poi alla natura stessa come produzione materiale e quindi sociale,[5] al contrario in Kautsky lo sviluppo della società è dedotto da leggi generali dello sviluppo della natura. In una lettera a Mattick del 10.5.1935 collegherà questa problematica con la critica alla teoria del crollo ed a Lenin: “…la formulazione del rapporto uomo-natura come fondamentale e primario rispetto al rapporto tra gli uomini sociali, mi sembrano essere in contraddizione con la posizione che io considero propriamente marxiana. Al suo fianco stanno naturalmente Lenin e i leninisti (qui come in altri problemi, fino alla teoria del crollo di Grossmann) […] A me pare che qui non ci sia niente di primario , e che i rapporti uomo-natura e uomo-uomo vadano coordinati in quanto entrambi originari e fondamentali, storicamente, logicamente e praticamente.[6] In una lettera del 4.6.1935 aggiunge: “Se infatti prima sottolineo (sempre formalmente presupponendo la ‘priorità’ genetica della natura) il primario interessamento del marxismo per lo sviluppo storico sociale, e poi definisco ugualmente originari e fondamentali entrambi i rapporti uomo-natura e uomo-uomo , in entrambi i casi polemizzo contro il punto di vista engels-plechanoff –leniniano da lei accettato. L’esposizione più dettagliata di questa mia polemica contro una tal concezione si trova nel mio Anti-Kautsky”.[7] Il materialismo storico diventa un materialismo della natura che oscilla costantemente tra naturalismo fatalistico e idealismo, tra affermazione della necessità della natura e nella società ed evocazione della libertà assoluta. Korsch sottolinea come in Kautsky ad una analisi meccanicistica della base economica si accompagni una analisi idealistica della sovrastruttura. Come in Bernstein, lo Stato moderno è visto in una prospettiva sostanzialmente non marxista: nell’uno esso appare come l’espressione della democrazia politica da estendere al piano economico; nell’altro è un istituto in sé positivo, che però nel capitalismo viene soggettivamente usato dalla classe capitalistica per i propri fini. Lo Stato moderno è per Kautsky l’esito di un lungo sviluppo che dallo Stato come strumento della classe dominante diviene la base di una convivenza civile egualitaria: certo solo formale nel capitalismo, ma che per divenire reale richiede solo la sostituzione del personale politico borghese con il personale politico socialdemocratico. Ecco quindi che l’assenza del concetto di società civile, di rapporti sociali di produzione, conduce non soltanto ad una frattura tra l’analisi ‘economica’ e l’analisi ‘politica’ (la prima meccanico-positivistica, la seconda idealistica), ma anche al rovesciamento del rapporto che vi è in Marx tra rivoluzione sociale e politica, e al mantenimento della prospettiva borghese. In questo modo Karl Kautsky si pone sulle orme del vecchio Hegel. È evidente che una simile analisi non può che condurre Korsch a rapportarsi teoricamente e praticamente all’ala radicale della socialdemocrazia tedesca ed a riprendere e sistematizzare le posizioni che opposero nel primo decennio del ’900 Rosa Luxemburg e Pannekoek a Kautsky. Alla Luxemburg, per la rivendicazione del carattere nuovo e rivoluzionario dei consigli e dello sciopero di massa nell’esperienza della rivoluzione russa del 1905, e quindi di una strategia offensiva della classe operaia sul terreno sociale e politico: la rivoluzione come processo, e non come momento dato nel tempo in cui l’evoluzione delle cose ha creato i presupposti pratici e la maturazione delle masse. A Pannekoek, per la caratterizzazione della lotta operaia come lotta antistatuale. Attività rivoluzionaria, insomma, contro fatalismo politico. Rivoluzione come frutto della crescente coscienza politica delle masse, o rivoluzione come frutto della organizzazione sapiente: questa seconda opzione discende dalla riproposizione della scissione tra economia politica, dal partito come organo esterno e delegato della classe. Lenin, in particolare in Stato e rivoluzione, riprese questi temi – il socialismo come democrazia diretta ed estinzione dello stato; il rapporto soviet-partito - con estrema lucidità. Eppure nella sua opera e nella sua pratica politica oscillò, in relazione alle necessità del momento, tra la concezione del Che Fare? – il partito come avanguardia della classe, che unifica grazie ad una coscienza politica portata dall’esterno (una ripresa evidente di temi kautskiani) – e la parola d’ordine ‘tutto il potere ai soviet’ come correttivo alle tendenze burocratiche all’interno del partito. Testimonianza di questo stato di cose è lo stesso giudizio su Kautsky, considerato come un ‘rinnegato’: e quindi come un interprete fedele di Marx almeno per una fase del suo pensiero. Korsch passò, nel giudizio su Lenin, da una visione del leninismo come ripresa e sviluppo del marxismo originario, ad una visione che al contrario lo equipara al kautskismo. In questo secondo periodo Korsch giudica la teoria del partito di Lenin una teoria ‘giacobina’ ed ancora borghese, viziata da un errato rapporto con la lotta di massa, vista non nel suo contenuto di classe ma come lotta in sé economicistica. Lenin è così portato, come Kautsky,[8] a privilegiare la rivoluzione politica rispetto a quella sociale. La dittatura del proletariato diventa dittatura del partito. E così come la teoria kautskiana è il rispecchiamento di una fase non rivoluzionaria dello sviluppo storico tedesco, così il leninismo assume i caratteri di un marxismo deformato e ridotto a ideologia borghese perché è l’espressione della ricezione della teoria marxiana in una situazione arretrata e presso una classe di intellettuali borghesi. Lo Stato sovietico diviene, invece che Stato di transizione, il ‘mito’ dello Stato socialista.[9] Korsch riconduce questi limiti da un alto all’utilitarismo politico di Lenin, che prescinde dalla verità delle affermazioni compiute, e dall’altro, più profondamente, all’impostazione di Materialismo ed empiriocriticismo. In quest’opera il problema gnoseologico del rapporto tra teoria e prassi è il rapporto tra leggi di sviluppo scoperte dalla teoria ed una pratica che ‘applica’ queste ‘verità’. Una simile visione ripropone la separazione di scienza e società, che si aggrava con Stalin. Il giudizio sull’URSS di Karl Korsch è molto duro: si tratta di uno stato capitalistico, di un capitalismo di Stato di tipo monopolistico, al pari della Germania nazista e degli Stati Uniti del New Deal. Recensendo il libro di Pannekoek su Lenin, Korsch accoppia la critica del ‘marxismo’ proprio di Lenin alla critica del suo ‘giacobinismo’ politico, che riduce la rivoluzione a rivoluzione politica incentrata su istituzioni politiche (partito, dittatura, Stato).[10] Al contrario, per Korsch la rivoluzione non può che essere sociale, se vuole superare il limite borghese proprio di tutta l’impostazione teorica hegeliana, ed in parte anche – scriverà successivamente – marxiana. Sarà questo il nucleo del pensiero politico di Korsch immediatamente precedente la Seconda Guerra mondiale (che comprende gli scritti sulla Comune): fedeltà alle intenzioni di Marx (libertà sociale oltre alla libertà politica), anche contro Marx stesso. Si può notare un limite in tutto ciò: la critica al leninismo e al riformismo è condotta in nome di un criterio astratto di possibilità della rivoluzione o del socialismo, che smentisce in parte lo stesso criterio, rettamente inteso, della specificazione storica – il che a ben vedere è l’esatto contraltare del modo di intenderlo del primo Korsch, come giustificazionismo della prassi bolscevica. È evidente che in questa maniera viene tagliato fuori quasi per decreto e del tutto il problema della mediazione politica (del ‘partito’, anche in una ottica non leninista) nella preparazione e nella realizzazione della rivoluzione e del socialismo in condizioni date. La lotta operaia è sempre e comunque rivoluzionaria, sempre e comunque è possibile la presa del potere. Capitalismo e crisi Il problema si sposta all’indietro: difatti alla base dell’impostazione che si è detta sta una idea del capitalismo come modo di produzione il cui stato normale è la crisi. Una simile idea è necessaria perché permette di superare una impostazione alla Bernstein o alla Hilferding, che vede il socialismo come risultato di un intervento solo soggettivo, ma anche una impostazione ‘oggettivistica’ (Luxemburg, Grossman), che patisce il grave limite di non saper fornire una teoria realmente scientifica e non metafisica. Scrive Korsch: “un terzo atteggiamento mi sembra possibile e meritevole – esso solo – della qualifica di autenticamente materialista nel senso di Marx […] esso ritiene piuttosto che, con una ricerca empirica sempre più precisa e di fondo dell’attuale modo di produzione capitalistico e delle sue tendenze di sviluppo chiaramente emergenti, possono essere tratte anche certe previsioni, pur sempre assai limitate ma sufficienti per l’azione pratica.[11] Questo atteggiamento, autenticamente materialista e marxista, che rifiuta la suggestione di una qualsiasi teoria del crollo, sottolinea che la critica marxiana dell’economia politica si interessa non del funzionamento normale della società borghese quanto piuttosto della “reale condizione normale di questo particolare sistema sociale, cioè la crisi…cioè della tendenza sempre crescente del metodo di produzione capitalista ad assumere tutte le caratteristiche della crisi in atto anche nei periodi di espansione e di ripresa, in sostanza in tutte le fasi del ciclo della società moderna, il cui punto culminante è la crisi universale”.[12] Perché una impostazione del genere non sia sufficiente a giustificare la mancanza in Korsch di una teoria dell’organizzazione verrà mostrato in seguito, in alcune brevi note conclusive. Nel 1935 Korsch scrive un articolo, “Perché sono marxista”, nel quale anticipa numerose tesi del Karl Marx. In breve i punti essenziali della teoria marxista gli paiono i seguenti: “1.Tutte le affermazioni di principio del marxismo, anche quelle apparentemente generali, sono specifiche. 2. Il marxismo non è positivo ma critico. 3. Il suo oggetto non è la società esistente nel suo stato affermativo ma la società capitalista in declino, come si rivela nelle tendenze al crollo e alla rovina in modo dimostrabile. 4. Il suo fine principale non è il piacere contemplativo del mondo esistente, ma la sua attiva trasformazione”.[13] Per spiegare l’ultimo punto Korsch si richiama alla dialettica marxista. Essa è la trasformazione materialistica della dialettica hegeliana, trasformazione che non investe solo il contenuto ma anche il metodo stesso. In un saggio del 1931, “L’empirismo nella filosofia di Hegel”, Korsch aveva scritto che il metodo hegeliano era lo stesso metodo assiomatico delle scienze naturali[14],[15]. Hegel non era però riuscito a distinguere concettualmente l’esperienza dal soggetto: così da un lato poteva rivendicare l’identità di conoscenza e azione (l’esperienza come azione, come prassi umano–sociale),[16] dall’altro non ha colto la dimensione storico-sociale della scienza, il suo essere parte dello sviluppo sociale e soggetto a se stessa.[17] In “Hegel e la rivoluzione”, sempre del 1931, il metodo hegeliano è collegato al movimento rivoluzionario borghese, del quale esprime peraltro l’ultima fase, la restaurazione (di qui l’assolutizzazione dialettica e la “restaurazione concettuale della realtà immediatamente data e (la) conciliazione con questa realtà”).[18] Marx e Lenin hanno ripreso la dialettica hegeliana, ma ciò ha il carattere di un mero ‘trasferimento’ alla teoria della rivoluzione proletaria, che ha ancora basi borghesi (di qui il suo carattere giacobino) e che è in realtà ancora da costruire. Nei due saggi “Crisi del marxismo” (1931) e “Un approccio non dogmatico al marxismo” (1946) il tasto su cui si batte è appunto la riconduzione delle insufficienze patite dalla Seconda Internazionale e dal marxismo contemporaneo a Marx stesso, ed alle condizioni storiche successive alla metà dell’800. Korsch distingue il marxismo attivistico e rivoluzionario del primo periodo, e la sistematizzazione scientifica del secondo periodo. Il contenuto rivoluzionario del Capitale non si è potuto collegare direttamente al movimento pratico di classe per il nuovo ciclo capitalistico di sviluppo. Analogamente, la fase di stabilizzazione successiva spiegherebbe la stagnazione del marxismo. Ma in realtà è il marxismo stesso che è ormai roba del passato.[19] Il Karl Marx Se si tiene presente che nell’ “Introduzione” al Capitale, del 1932, Korsch scriveva che in Marx il parlare di contraddizioni e di opposizione dialettica fra essenza e apparenza era un semplice accorgimento espositivo,[20] si capirà meglio il senso della dialettica per Korsch e la sua ‘riduzione’. Essa vale a riaffermare e sottolineare l’intervento attivo del soggetto. Qui sta anche, a nostro parere, il suo limite. Per lo meno di interpretazione di Marx, giacché nel Capitale (ma non solo in esso) la contraddizione non è riducibile ad espediente espositivo, ma è anzi caratteristica, astratta ma reale, del mondo borghese. Ancora. La dialettica deve insieme compiere due operazioni: spiegare i fenomeni capitalistici (momento scientifico) e garantire la presenza del momento soggettivo, del soggetto pensante ed agente nel corso del processo cognitivo. Questa formulazione crolla nel momento in cui il primo lato (la spiegazione scientifica) esclude, come sembra intendere Korsch in alcuni brani, il soggetto, e si riduce ad analisi ‘oggettiva’ cui poi si affianca e giustappone l’analisi ‘soggettiva’. Si veda l’articolo già citato “Perché sono marxista”: al giusto richiamo alla importanza, per il proletariato, di distinguere le affermazioni vere dalle false, si affianca l’affermazione che il marxismo “implica una conoscenza rigorosa, empiricamente verificabile, caratterizzata da tutta la precisione di una scienza naturale, delle leggi economiche del movimento e sviluppo della società capitalistica e della lotta di classe proletaria”.[21] È legittimo chiedersi che posto occupi il soggetto politico attivo in una ‘spiegazione logicamente ed empiricamente ineccepibile’ del conflitto tra le classi. Nel Karl Marx la spiegazione oggettiva e la spiegazione ‘soggettiva’ sono affiancate l’una all’altra senza che sussista un rapporto tra le due: “in verità si tratta qui di due forme concettuali originarie, e che non derivano l’una dall’altra, che Marx ha elaborato a uso teorico e pratico nella sua dottrina materialistica insieme oggettiva e soggettiva dei nessi della società civile borghese e dei mezzi per il suo rovesciamento e che adesso possono essere adoperati dalla classe proletaria, l’uno o l’altro a scelta, secondo la situazione, o tutti e due insieme, come strumento per l’assolvimento quanto più esatto possibile dei compiti che si propongono immediatamente volta per volta”.[22] Il Karl Marx è certo l’opera di Korsch più ricca di stimoli interpretativi e critici dell’opera marxiana; ed anche , a noi pare, la sua più valida. Pure non può esser portata come l’espressione compiuta del pensiero di Korsch – che anzi scrisse a Mattick di non aver mai voluto parlare, nel libro, contro Marx – né è esente da ambiguità e limiti. Vediamo per prima cosa e per sommi capi il contenuto delle tesi che vi sono esposte. Il marxismo è una scienza sociale rigorosamente storica, il cui fulcro è nella critica dell’economia politica. Non ha quindi niente a che fare con la ‘filosofia’ propriamente detta. “Il materialismo storico, nella sua tendenza principale, non è più un metodo filosofico, ma empirico-scientifico”.[23] Le sue fonti, peraltro, sono varie: dal materialismo borghese, a Ricardo , ad Hegel. Ma al contrario dei primi due ed a similitudine del terzo Marx non parte dall’individuo ma dal nesso sociale e, più in particolare, (e questo lo distingue da Hegel) dal suo modo specifico, con cui si costituisce la società. Difatti il marxismo non è scienza ‘in generale’, ma scienza di una società in particolare, quella borghese-capitalistica. Ecco quindi il primo principio-cardine di Marx: la specificazione storica dei rapporti sociali (punto n.1 di “Perché sono marxista”). Una impostazione del genere è possibile a Marx perché ha concepito la società dal punto di vista del mutamento; mutano quindi, ed hanno validità solo storica e transitoria, le leggi che regolano l’organismo storico sociale. Marx qualifica l’economia politica come scienza non dei rapporti economici tout court ma dei rapporti sociali nel capitalismo, e concepisce questi come rapporti che possono essere cambiati, al di là di ogni pretesa filosofia della natura.[24] D’altra parte, il marxismo giunge alla comprensione della società presente in quanto scienza di classe, cioè ricostruzione della totalità del mondo borghese dal punto di vista della classe operaia, del proletariato. È quindi indagine scientifica di un oggetto che si è reso indipendente dall’individuo, e il cui soggetto, il proletariato, è la classe rivoluzionaria per eccellenza. “L’esposizione di tutti i rapporti della società borghese esistente come i rapporti particolari di una determinata epoca di sviluppo storico contiene la base per la critica scientifica di questa particolare formazione sociale e per il suo rovesciamento pratico”.[25]Il marxismo è quindi scienza critica, non positivistica (punto n.2 di “Perché sono marxista”). ‘Critica’ non deve essere inteso in un senso meramente idealistico, ma come critica materialistica. Essa implica dal punto di vista dell’oggetto un’investigazione empirica di tutte le sue relazioni e sviluppi, “condotta con la precisione di una scienza naturale”, e, dal punto di vista del soggetto, un esame di come i desideri impotenti, le intuizioni e le esigenze di singoli soggetti si sviluppano in un potere di classe storicamente efficace che guida alla pratica rivoluzionaria.[26] Diviene qui centrale il rapporto con Hegel e Ricardo. Entrambi riflettono le contraddizioni della società borghese: il secondo esprimendole senza mediazioni nella sua costruzione teorica, il primo tentando al contrario con il metodo dialettico di farne un elemento caratterizzante la realtà (qualsiasi realtà) e in se stesso progressivo. In entrambi è presente un vasto materiale empirico. Marx accoglie quest’ultimo e mostra il carattere apologetico delle loro analisi, che pure rappresentano il vertice più alto di autocoscienza ‘borghese’, e costituisce la sua scienza come critica dell’idealismo e critica dell’economia politica. Riconduce anzi l’una critica all’altra, e quindi l’intera sua opera si mostra internamente coerente. “La sua ‘Critica dell’economia politica’ appare ancora come una prosecuzione (rivolta verso il materialismo) della vecchia battaglia idealistico-filosofica per la soppressione dell’ ‘autoalienazione umana’”.[27] Marx, insomma, riprende da Hegel la comprensione della società come un tutto, ma rompe nella sostanza con il metodo hegeliano e ricardiano, l’uno che giustifica le contraddizioni, l’altro che non le spiega. Come l’hegelismo ha rappresentato la teoria della società dal punto di vista della borghesia rivoluzionaria, così il marxismo rappresenta la teoria della società dal punto di vista del proletariato rivoluzionario, parte dell’evoluzione sociale stessa ed espressione sul piano della lotta della teoria della lotta di classe: “La teoria marxiana, secondo il suo carattere qui sommariamente descritto, è una nuova scienza della società civile borghese. Questa nuova scienza compare in un’epoca in cui contro la classe borghese dominante nella società civile, nel suo Stato, nella sua scienza, si è levato il movimento autonomo di una nuova classe sociale […] Essa specifica la società borghese e ricerca le tendenze visibili dal suo presente sviluppo e la via per il suo imminente rovesciamento pratico. Essa pertanto, in quanto teoria della società civile borghese, è contemporaneamente una teoria della rivoluzione proletaria”.[28] La teoria del valore Marx distrugge il concetto di verità astratta, e conosce solo verità storiche. La legge del valore non è quindi solo o tanto una legge ‘economica’ ma una legge ‘sociale’, che insieme esprime una realtà feticistica e la smaschera, ricostruendo il capitale come sistema funzionante autonomamente e come rapporto sociale. La critica dell’economia politica si fonda sul concetto di ‘lavoro astratto’, che specifica il lavoro produttore di merci di Smith e Ricardo in lavoro produttore di merci per altri, lavoro sociale: che non può essere dato, ma va spiegato. Scrive Korsch: “Il ‘carattere di feticcio’ della merce […] consiste nel fatto che i prodotti della mano umana acquistano una peculiare qualità, non ‘dalla natura’ (come avevano creduto i classici) ma nelle particolari condizioni sociali del modo di produzione borghese […] La società borghese è la particolare forma sociale in cui proprio le relazioni fondamentali che gli uomini stringono nella produzione sociale della loro vita appaiono soltanto a posteriori alla coscienza degli interessati in questa forma rovesciata, come rapporti di cose. Poiché essi fanno dipendere le loro azioni coscienti da queste rappresentazioni, vengono effettivamente dominati dal prodotto delle mani, come il selvaggio dal feticcio… Ciò che Marx qui designa come ‘feticismo del mondo delle merci’ è soltanto l’espressione scientifica della stessa cosa che egli in precedenza, nel suo periodo hegeliano-feuerbachiano, aveva designato come ‘auto-estraneazione umana’”.[29] Una volta consumatasi l’accumulazione originaria, la legge del valore spiega il funzionamento di questa società come se fosse una legge ‘naturale’: funzionamento che è possibile solo attraverso e mediante le crisi. I tentativi di uscire dalla crisi con una maggiore organizzazione della società mediante la centralizzazione dei capitali, i monopoli, o attraverso l’intervento dello stato, non fanno che violare l’unica organizzazione sociale che è possibile sotto il capitale, ed al tempo stesso mantengono le categorie feticistiche di merce, denaro, capitale. Finiscono così con l’aggravare la crisi e preparare la guerra. Di più. La teoria del valore, divenendo teoria del plusvalore, cela il carattere classista di questa società. La presente libertà di contrattazione e di vendita è un’ ‘apparenza’ che nasconde la riduzione della forza-lavoro a merce, e lo sfruttamento sociale.[30] Si rivela così più chiaramente quale sia il senso della teoria del valore, cioè del pareggiamento di lavori diversi: “La teoria economica del valore lavoro corrisponde allo stadio di sviluppo della produzione sociale in cui il lavoro umano ha cessato, non solo come categoria, ma anche nella realtà, di aderire organicamente, per così dire, all’individuo […] ogni lavoro particolare [ora] equivale di diritto a ogni altro lavoro particolare”.[31] Questa astrazione ‘forzata’ con la quale gli economisti classici e il marxismo hanno eguagliato l’ineguale, riconducendo i rapporti di valore tra le merci alla quantità di lavoro in essa incorporato […] scaturisce in primo luogo ed essenzialmente non dalle definizioni della scienza economica, ma dal carattere effettivo della produzione capitalistica di merci. La merce è il leveller nato”.[32] Sbaglia, del resto, chi pensa che Marx abbia voluto mediante successive determinazioni spiegare il prezzo delle merci: “il significato della legge di valore…. non consiste soprattutto in una determinazione immediata dei prezzi delle merci per mezzo del valore”.[33] Nemmeno se la spiegazione mediata dei prezzi di produzione venisse a cadere (a cagione della determinazione monopolistica dei prezzi) il senso della teoria del valore verrebbe a cadere, poiché la sua funzione è nella completa eliminazione dell’apparenza feticistica. Per Korsch insomma, la teoria del valore non mira ad un calcolo matematico del plusvalore, alla misurazione dello sfruttamento. Lo sfruttamento è il “risultato di una lotta di classe sociale che, proprio per il fatto che nel meccanismo economico della produzione capitalistica non è posto alcun limite oggettivo all’accrescimento del saggio di plusvalore, nel corso dello sviluppo , con la sempre crescente accumulazione del capitale a un polo e contemporaneamente della miseria al polo opposto della società, assume forma sempre più aspra e infine sbocca in una aperta rivoluzione”.[34] Le categorie feticistiche dell’economia politica, scrive Korsch citando Marx, sono “forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci”.[35] “Fin tanto che questa base materiale dell’esistente società borghese è soltanto attaccata e scossa, ma non rovesciata, dalla lotta pratica, rivoluzionaria del proletariato, anche le forme ideali sociali più solide dell’epoca borghese possono esser soltanto criticate, ma non definitivamente superate dalla teoria rivoluzionaria del proletariato”.[36] Lo sviluppo oggettivo conduce così ad un risultato che richiede però, per realizzarsi un’azione pratica sociale.[37] Si conferma così che la critica dell’economia politica “indaga le tendenze implicite sin dall’inizio nella produzione capitalistica di merci che, nel corso del loro sviluppo, rendono obiettivamente possibile e soggettivamente necessaria la lotta proletaria per il rovesciamento di questo modo di produzione e il passaggio ai nuovi, più elevati rapporti di produzione della società socialista e comunista”.[38] Nella terza parte del libro Korsch sottolinea il carattere materialistico dell’opera marxiana; il suo essere scienza rigorosa, e cioè il fatto già ricordato che il metodo di Marx si fonda sull’unica generalizzazione possibile nelle scienze sociali del metodo delle scienze naturali. Inoltre tratta del già ricordato rapporto tra analisi oggettiva e lotta di classe, tra struttura e sovrastruttura. Qualche conclusione provvisoria L’opera di Korsch, e il Karl Marx in particolare, è una delle migliori nella tradizione marxiana, al di là delle comuni incrostazioni dogmatiche e dei semplicismi interpretativi. Più che ripetere ciò che è valido nell’analisi di Korsch, ci pare più importante sviluppare in conclusione alcune critiche. Innanzitutto, in Korsch manca una analisi convincente del lavoro ‘astratto’, che ne spieghi non solo (sulle orme, del resto di Rosa Luxemburg; vedi Riforma sociale o rivoluzione?) il carattere di ‘astrazione reale’, ma anche il modo con cui esso è prodotto: che rinvenga, quindi, nel processo di alienazione e di opposizione del lavoro astratto ai lavori concreti il luogo d’origine della natura mediata e contraddittoria della società capitalistica. Manca, conseguentemente, anche una soddisfacente analisi del rapporto valore-valore d’uso. Al contrario, per Marx è proprio di qui che parte la interpretazione del capitalismo come realtà rovesciata ed estraniata. In secondo luogo, come nota Leonardo Ceppa richiamando i risultati degli studi di Helmut Reichelt e Roman Rosdolsky, il metodo di Marx distingue tre livelli di analisi conoscitiva del capitalismo: il concetto di ‘capitale in generale’, come esso si manifesta, quale è il movimento concreto (cioè storico). Marx ha svolto nei primi due libri solo l’analisi astratta del capitale, e nel terzo si avvicina al modo di manifestazione. Mai insomma Marx intende spiegare la realtà empirica del capitale, ma solo la totalità astratta del concetto di capitale. [39] Korsch rischia l’identificazione di analisi e realtà, Marx distingue sempre rigorosamente la ricostruzione scientifica e la realtà. Per Marx, difatti, la teoria è da un lato costruzione derivata (dal concreto all’astratto, con la priorità dello storico sul logico), dall’altro premessa di una reale comprensione dei fatti (dall’astratto al concreto; priorità conoscitiva del logico sullo storico). Per Korsch, invece, la teoria è l’immagine speculare della realtà, e questa si riduce a lotta di classe. In terzo luogo Korsch non vede che, se il marxismo è critica dell’economia politica, è anche ricostruzione ‘economica’ del funzionamento del capitalismo. È cioè enucleazione di quelle leggi che Korsch stesso ricorda essere valide per una determinata formazione economico-sociale. Ma se è così, allora non è possibile esaurire la determinazione del plusvalore ad un risultato puro e semplice della lotta di classe. Occorre precisare che il marxismo è ricostruzione dell’economia capitalistica, precisamente nel senso che esso deve riuscire a dare una spiegazione corretta del suo movimento a partire dalla legge del valore. Se la lotta operaia infrange le leggi di movimento del capitalismo, allora si pone il problema di uno sbocco rivoluzionario. Ma, a questo proposito, Korsch sembra cadere in alcuni equivoci. L’intervento soggettivo della classe operaia, difatti, non può essere dato per scontato, come non ne sono scontate le caratteristiche rivoluzionarie. Per dirla in altri termini, la classe operaia non è immediatamente costituita nella sua autonomia come classe rivoluzionaria. E allora, proprio nel momento in cui essa, nella lotta per il salario, infrange certe ‘leggi naturali sociali’ del capitale, si pone la necessità della mediazione e dell’intervento politico. Karl Korsch, testi citati Consigli di fabbrica e socializzazione (1922), Laterza, Bari 1970 Marxismo e filosofia (1923) Sugar, Milano 1970 Il materialismo storico. Anti Kautsky (1929), Laterza, Bari 1972 “Anticritica” (1930), in Marxismo e filosofia, Sugar, Milano 1970, pp. 7-36 “Crisi del marxismo” (1931), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 133-140 “L’empirismo nella filosofia di Hegel” (1931), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 11-41 “Hegel e la rivoluzione” (1931), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 167-169 “Introduzione” al Capitale” (1932), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 43-71 “Alcuni presupposti di fondo per una discussione materialistica della teoria della crisi” (1933), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 141-150 “Lettere a Mattick” (1935) in Marxiana 1, 1976, pp. 154-5 “Perché sono marxista” (1935) in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 171-187 “La fine dell’ortodossia marxista” (1937) (The Passing of Marxian Orthodoxy, in International Council Correspondence, III, nn. 11-12) “La filosofia di Lenin” (1938), in Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 151-164 “La ideologia marxista in Russia” (1938) (“The Marxist Ideology in Russia”, in Living Marxism, a. IV, marzo, n. 2) Karl Marx (1938/1948-50), introduzione di Giuseppe Bedeschi, Laterza, Bari 1969 “Un approccio non dogmatico al marxismo” (1946), Karl Korsch, Dialettica e scienza nel marxismo, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari 1974, pp. 189-194 [1] Consigli di fabbrica e socializzazione, p. 59. [2] “per il moderno materialismo dialettico è anzitutto essenziale intendere sul piano teorico e trattare sul piano pratico le formazioni spirituali come la filosofia e ogni altra ideologia in quanto realtà” (Marxismo e filosofia, p. 66). [3] Korsch rivendica in quest’opera, come fa György Lukács in Storia e coscienza di classe, la categoria della totalità come patrimonio del marxismo. [4] “Astraendo da ogni filosofia, è però del tutto chiaro che la coincidenza della coscienza con la realtà caratterizza ogni dialettica e quindi anche quella materialistica marxista… senza questa coincidenza una critica dell’economia politica non sarebbe mai potuta divenire l’elemento essenziale di una teoria della rivoluzione sociale” (Marxismo e filosofia, p. 77). [5] Scriverà nel Karl Marx: “la natura fisica non si iscrive immediatamente nella storia mondiale, ma mediatamente, come processo della produzione materiale, che si attua sin dall’origine non soltanto fra uomo e natura , ma contemporaneamente fra uomo e uomo”(p. 163). [6] La lettera è raccolta in Marxiana 1, pp. 154-155. [7] Ivi, p. 157. [8] Si veda “La fine dell’ortodossia marxista”, del 1937. [9] Si veda “La ideologia marxista in Russia”, del 1938. [10] Si veda “La filosofia di Lenin”, del 1938. [11] “Alcuni presupposti di fondo per una discussione materialistica della teoria della crisi”, 1933, p. 149. [12] “Perché sono marxista”, 1935, p.184. [13] “Perché sono marxista”, 1935, p. 172-173. [14] “Ma proprio su questo metodo rigoroso, che non tralascia nulla e nulla accetta a priori senza controllo dall’esperienza comune superficiale e viziata da pregiudizi, si basa tutto il pregio formale della scienza umana” (“Introduzione” al Capitale, p. 68) [15] La dialettica può esprimere la realtà, anche se la realtà non è dialettica (vedi “L’empirismo nella filosofia di Hegel” a p. 30). [16] “L’empirismo nella filosofia di Hegel”, p. 40. [17] “L’empirismo nella filosofia di Hegel”, p.41. [18] “Hegel e la rivoluzione”, p. 168. [19] “Crisi del marxismo”, p. 140. [20] Il metodo marxiano “porta ancora contenutisticamente, metodicamente e terminologicamente, in ogni relazione, il marchio della vecchia filosofia hegeliana, dal cui grembo proviene” (Karl Marx, p. 260). [21] “Perché sono marxista”, p.182. [22] Ivi, p. 258. [23] Karl Marx, p. 260. [24] “Il Capitale, nel suo contenuto stesso, dimostra quanto il fondatore della concezione materialistica della storia sia stato lontanissimo dal fare del suo nuovo principio una specie di ‘teoria storico-filosofica universale’ portata dall’esterno sopra la storia reale” (“Introduzione” al Capitale, p.71). [25] Karl Marx, p.41. [26] “Perché sono marxista”, p.175. [27] Karl Marx, p. ???. Korsch, nello stesso Karl Marx, oscilla tra una considerazione del Capitale come positivo passaggio dalla filosofia alla scienza e come espressione di una fase della lotta di classe non immediatamente rivoluzionaria. Vedi pp. 103-104. [28] Ivi, p. 71. [29] Ivi, pp. 121-122. [30] Vedi le pp. 133-134. [31] Ivi, p. 136. [32] Ivi, p. 137. [33] Ivi, p. 131. [34] Ivi, p. 141. [35] Si veda, nella traduzione di Delio Cantimori, il Capitale I, 1, p. 89. [36] Karl Marx, p. 150. [37] Ivi, p. 156. [38] Ivi, p. 89. [39] Si veda Leonardo Ceppa, “La concezione del marxismo in Karl Korsch”, Annali Feltrinelli 1973, Milano 1974, p. 1249. INTRODUZIONE AL «CAPITALE»*
7/7/2017
di Karl Korsch
I. Come l’opera di Platone sullo Stato, il libro di Machiavelli sul Principe, il Contratto sociale di Rousseau, anche l’opera di Marx, Il capitale deve la sua grande e duratura efficacia al fatto che ad una svolta storica ha colto ed espresso in tutta la sua pienezza e profondità il nuovo principio irrompente nell’antica configurazione del mondo. Tutti i problemi economici, politici e sociali, attorno ai quali si muove teoricamente l’analisi marxiana del Capitale, sono oggi problemi pratici che muovono il mondo e intorno ai quali viene condotta in tutti i paesi la lotta reale delle grandi potenze sociali, gli Stati e le classi. Per aver compreso a tempo che questi problemi costituivano la problematica determinante per la svolta mondiale allora imminente, Karl Marx si è rivelato ai posteri come il grande spirito preveggente del suo tempo. Ma neppure come massimo spirito del suo tempo egli avrebbe potuto cogliere teoricamente questi problemi e incorporarli nella sua opera, se essi non fossero già stati nello stesso tempo posti in qualche modo anche nella realtà di allora, come problemi reali. Il destino singolare di questo tedesco del Quarantotto fece sì che egli, scagliato fuori dalla sua sfera d’azione pratica dai governi assoluti e repubblicani d’Europa, grazie a questo tempestivo allontanamento dalla retriva e limitata situazione tedesca, venisse inserito proprio nel suo autentico peculiare spazio storico d’azione. Proprio in seguito a questi molteplici spostamenti violenti del suo campo d’attività, prima e dopo la fallita rivoluzione tedesca del 1848, l’allora appena trentenne pensatore e ricercatore Marx, che attraverso la discussione teorica della filosofia hegeliana aveva già elaborato un sapere vasto e profondo di respiro mondiale in forma filosofica prettamente tedesca, nei suoi due periodi successivi di emigrazione, prima in Francia e in Belgio, poi in Inghilterra, poté entrare nel rapporto più diretto, pratico e teorico, anche con le due nuove forme del mondo di allora più gravide di conseguenze per il futuro. Queste erano, da un lato, il socialismo e comunismo francese, che al di là delle conquiste della grande rivoluzione borghese giacobina spingevano verso nuove mete proletarie; dall’altro, la forma avanzata della moderna produzione capitalistica, e dei rapporti di produzione e di scambio corrispondenti, nata in Inghilterra dalla rivoluzione industriale degli anni 1770 - 1830. La storia politica francese, lo sviluppo economico inglese, il movimento operaio moderno — questo triplice «al di là» della realtà tedesca d’allora — è stato incorporato nel modo più profondo da Marx con un lavoro decennale di riflessione e ricerca nelle sue opere e in particolar modo nel suo capolavoro: Il capitale. Quest’opera si è così assicurata quella peculiare forza vitale, per cui è rimasta ancor oggi, a sessantacinque anni dalla sua pubblicazione e a quasi cinquanta dalla morte del suo autore, «attuale» in massimo grado, e per molti aspetti inizia solo ora a vivere il suo tempo. Lo scopo ultimo di quest’opera consiste, secondo le indicazioni del suo stesso autore, nello svelare la legge economica di movimento della società moderna. Già qui è implicito che Il capitale non si limita a fornire un contributo alla scienza economica di scuola in senso tradizionale. Certo, Il capitale di Marx occupa fra l’altro un posto importante nello sviluppo della teoria economica; le sue tracce si riscontrano in tutta la letteratura economica specializzata sino al giorno d’oggi. Ma allo stesso tempo Il capitale è, come già indica il suo sottotitolo, una Critica dell’economia politica, e ciò non significa affatto una semplice presa di posizione critica nei confronti delle particolari opinioni sostenute di volta in volta dai singoli studiosi di economia. Nel senso marxiano significa piuttosto una critica dell’economia politica stessa, che, secondo la concezione storico-materialistica di Marx, non rappresenta solamente un sistema teorico di tesi vere o false, ma dà corpo come tale ad un pezzo di realtà storica; per essere più precisi: un pezzo di quel modo moderno borghese di produzione e di formazione sociale basata su di essa, la cui origine, sviluppo e tramonto e in pari tempo trapasso ad un superiore, nuovo modo di produzione e formazione sociale, costituiscono il vero e proprio oggetto di ricerca e critica marxiana nel Capitale. La «critica dell’economia politica» nel Capitale appare allora, se partiamo dalla divisione oggi consueta delle scienze, non propriamente una teoria economica, ma piuttosto una teoria storica e sociologica. Ma anche con questa nuova definizione, e con tante altre simili che potremmo ancora aggiungervi, il modo di ricerca e l’oggetto del Capitale di Marx non sono ancora colti nella loro intera portata e profondità. Il capitale non appartiene a nessuna singola scienza, pur non avendo assolutamente nulla a che fare con una scienza filosofica universale, ma tratta un oggetto peculiare ben determinato, secondo un punto di vista peculiare ben determinato. Sotto questo aspetto si può bene paragonare l’opera di Marx alla famosa opera di Darwin sull’Origine delle specie. Come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, così Marx ha svelato la legge di sviluppo della storia umana, e in modo duplice: da un lato in quanto legge di sviluppo storico universale nella forma del cosiddetto «materialismo storico»; dall’altro in quanto particolare legge di movimento del modo di produzione capitalistico odierno e della società borghese da questo scaturita. Che questo confronto non sia per nulla fondato semplicemente su una concordanza esterna di due date storiche (l’Origine delle specie e la prima parte del Capitale di Marx — Per la critica dell’economia politica — furono pubblicate entrambe nel 1859), bensì esprima una relazione più profonda, è stato evidenziato da Friedrich Engels nel suo discorso sulla tomba dell’amico scomparso, e suggerito da Marx stesso. In una delle belle e profonde osservazioni, a prima vista devianti dal tema, disseminate fin troppo generosamente nella sua opera, egli parla del fatto che Darwin per primo ha spostato l’interesse sulla «storia della tecnologia naturale», cioè sulla «formazione degli organi animali e vegetali quali strumenti di produzione per la vita delle piante e degli animali». E si domanda: «La storia della formazione degli organi di produzione degli uomini sociali, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare, non merita pari attenzione? E non sarebbe più facile da fare, dato che, come dice Vico, la storia umana si differenzia da quella naturale per il fatto che l’una è stata fatta da noi e l’altra no?». In queste proposizioni è, di fatto, espresso in modo completo il rapporto fra Darwin e Marx, sia nella sottolineatura di quanto i due hanno di comune, come anche nella sottolineatura della differenza peculiare, secondo cui la ricerca di Darwin tratta un processo di sviluppo nel senso più stretto delle scienze naturali, quella di Marx un processo di sviluppo storicamente e socialmente pratico, non solo vissuto, ma anche fatto dagli uomini. Solo che da questa differenza di Marx non si deve concludere, come fanno diversi moderni mezziteologi e oscurantisti della cosiddetta «scienza dello spirito», che nello studio e nella presentazione di questo processo sociale vitale degli uomini sia sufficiente un grado inferiore di rigore concettuale e di fedeltà all’empiria ed invece occorra un grado di soggettività maggiore che non nelle scienze naturali vere e proprie. Marx parte, al contrario, dalla concezione opposta e si pone espressamente il compito di delineare nella sua opera lo sviluppo della formazione economica della società come un «processo naturale storico». Se e in quale misura questo grande obiettivo sia stato realizzato dal Marx ricercatore sociale e storico nelle grandi linee nel Capitale, si potrà decidere solo quando sarà raggiunto quel momento, presente alla mente di Marx sessantacinque anni fa, quando contro o a favore della teoria di Marx non saranno più solo «i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica», ma anche il giudizio di una «vera critica scientifica» — momento per il quale allo stadio attuale delle cose c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. Per contro, sarebbe un atteggiamento errato, pubblicando Il capitale, non accennare al rapporto peculiare esistente fra la parte compiuta dell’opera e le parti non completate del suo progetto. Un troncone di dimensioni gigantesche: questa è la forma nella quale ci sta davanti oggi l’opera economica di Marx e resterà prevalentemente immutata nel contenuto centrale anche in futuro, nonostante la presumibile pubblicazione di diversi manoscritti sinora inediti. Anche se prescindiamo dagli appunti ancor più densi dei primi progetti di Marx, nei quali la critica dell’economia politica non è ancora distinta dalla critica della filosofia, dei rapporti giuridici e delle forme dello Stato, di tutte le forme ideologiche in generale e non si è ancora delineato come compito autonomo di indagine, da realizzare per primo, c’è un grande abisso fra l’opera pianificata e quella poi attuata da Marx. Per due volte Karl Marx ha parlato del piano globale dell’opera politico-economica che aveva ormai in mente, dopo il suo trasferimento definitivo a Londra nel 1850, ove «l’enorme materiale per la storia dell’economia politica, che è ammucchiato nel British Museum, il favorevole punto di vista che Londra offre per l’osservazione della società borghese, infine il nuovo stadio di sviluppo, in cui questa sembra essere entrata con la scoperta dell’oro californiano e australiano», lo avevano determinato ancora una volta a «riprendere completamente di nuovo da capo» i suoi studi di economia politica. La prima volta, nel manoscritto, steso nel 1857, ma in seguito nuovamente «eliminato» e pubblicato solo nel 1903 da Kautsky sulla «Neue Zeit» per un'Introduzione generale; la seconda volta, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859 effettivamente pubblicata. Si legge nel primo caso: La suddivisione della materia è ovviamente da operare in modo che si possano sviluppare prima le determinazioni astratte generali, che toccano poi più o meno tutte le forme sociali […]. In secondo luogo le categorie, che costituiscono la struttura interna della società borghese e sulle quali si basano le classi fondamentali. Capitale, lavoro salariato, proprietà fondiaria. I loro rapporti reciproci. Città e campagna. Le tre grandi classi sociali. Interscambio reciproco. Circolazione. Credito (privato). In terzo luogo si ha la sintesi della società borghese nella forma dello Stato. Considerato in rapporto a se stesso. Le classi «improduttive». Tasse. Debito di Stato. Il credito pubblico. La popolazione. Le colonie. Emigrazione. In quarto luogo il rapporto internazionale della produzione. Divisione internazionale del lavoro. Scambio internazionale. Esportazione e importazione. Cambio. Per quinto il mercato mondiale e le crisi. Due anni più tardi, quando Marx pubblicò «i primi due capitoli della prima parte del primo libro, che tratta del capitale», come «quaderno» autonomo (di circa 200 pagine stampate!) sotto il titolo di Per la critica dell’economia politica, iniziò la prefazione di tale pubblicazione con la frase: «Considero il sistema dell’economia borghese in questa successione: capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato; Stato, commercio estero, mercato mondiale. Nelle prime tre rubriche esamino le condizioni economiche di vita delle tre grandi classi, nelle quali si divide la moderna società borghese; la connessione delle tre altre rubriche salta agli occhi». Di questi progetti vastissimi si è arrivati ad avere nell’opera condotta a termine in parte da Marx stesso, in parte da altri, solo una frazione della prima metà. Ancora alla fine del 1862, quando si è già deciso a far pubblicare la «continuazione» del primo quaderno stampato nel 1859, Per la critica dell’economia politica, ormai in modo autonomo sotto il titolo Il capitale, Marx scrive in una lettera a Kugelmann che questa nuova pubblicazione (nella quale si deve intendere compreso non solo l’odierno primo volume del Capitale, ma anche le altri parti dell’opera complessiva!) «in effetti comprende solo quello che doveva costituire il terzo capitolo della prima sezione, e cioè il capitale in generale». Però, nello stesso periodo, per una serie di ragioni esterne ed interne, aveva considerevolmente ridotto il piano dell’opera complessiva, sino ad allora mantenuto inalterato con insignificanti mutamenti, e si era deciso per la presentazione del materiale complessivo in tre o quattro libri, dei quali il primo doveva trattare il processo di produzione del capitale, il secondo il processo di circolazione, il terzo la forma del processo complessivo e il quarto, conclusivo, la storia della teoria. Di questi quattro libri del Capitale, soltanto uno è stato completato da Marx stesso. Apparve come volume I del Capitale in prima edizione nel 1867, in seconda edizione nel 1872. Il secondo e terzo libro furono ultimati dopo la morte di Marx dal suo amico e collaboratore Friedrich Engels, sulla base di manoscritti esistenti ed editi come volume II e III del Capitale nel 1885 e 1894. Inoltre, si aggiungono ancora i tre volumi editi da Kautsky nel 1905-1910, pure sulla base di manoscritti di Marx, Teorie sul plusvalore, che insieme possono venir considerati come un surrogato del quarto libro del Capitale. A rigore, comunque, non si tratta più in questo caso di una continuazione del Capitale, bensì solo ancora della stampa parziale di un manoscritto antecedente, stilato da Marx già nell’agosto 1861-giugno 1863, che non fu mai inteso quale parte integrante del Capitale, bensì unicamente quale seguito del primo quaderno apparso nel 1859, Per la critica dell’economia politica. Già Engels aveva progettato di pubblicare la parte critica di tale manoscritto, quale volume IV del Capitale, togliendone le numerose parti già da lui utilizzate per la preparazione dei volumi II e III. Per contro, alla pubblicazione del primo volume del Capitale, Marx stesso non ha ripreso senza modifica neppure la parte già pubblicata del manoscritto Per la critica dell’economia politica, ma l’ha ancora rielaborata completamente nei primi tre capitoli della nuova opera. Uno dei compiti più importanti di futuri editori di Marx consisterà nel rendere accessibili al pubblico, grazie a un’edizione completa dell’intero manoscritto Per la critica dell’economia politica, anche questa prima ed unica esposizione globale della costruzione teorica portata a compimento da Marx stesso. Nonostante il grande distacco esistente fra l’opera pianificata e l’opera effettivamente condotta a termine, Il capitale marxiano, e lo stesso primo volume del Capitale preso in sé, rappresenta, per la forma e contenuto, un tutto perfettamente compatto. Non si deve pensare che Karl Marx, che nella stesura del primo libro aveva già in mente completati anche i successivi libri dell’opera complessiva, abbia realmente messo in questo primo dei suoi quattro libri solo un quarto esatto del suo pensiero. Contro quest’idea parla già il fatto evidenziato da Rosa Luxemburg trenta anni fa in un eccellente studio sul Capitale, che anche già prima del terzo volume del Capitale, apparso finalmente nel 1894, per decenni in Germania come in tutti i paesi «la dottrina di Marx era stata divulgata e accettata come un tutto sulla base dell’unico primo volume» e che «in nessuna parte si notava una lacuna teorica». Non ha neppure senso voler risolvere quest’apparente contraddizione fra contenuto ed influenza del Capitale, sostenendo che in questo primo volume si chiarisce già in modo esauriente il rapporto fra le due grandi classi della moderna società borghese, la classe globale dei capitalisti e la classe globale dei lavoratori, come pure la complessiva tendenza di sviluppo generale dell’attuale modo di produzione capitalistico verso la socializzazione dei mezzi di produzione; mentre i problemi trattati nei volumi successivi, sulla circolazione del capitale e la ripartizione del plusvalore complessivo nelle forme autonome di reddito capitalistico di profitto, interesse, guadagno commerciale, rendite immobiliari, ecc., sarebbero meno importanti per la classe lavoratrice sotto il profilo teorico e pratico. Prescindendo dal fatto che, secondo la teoria marxiana del capitale, non esistono due, ma tre classi fondamentali nella società borghese (capitalisti, salariati, proprietari terrieri), significherebbe un appiattimento inimmaginabile della teoria marxiana se le si volesse attribuire la derivazione della legge economica di movimento e sviluppo della società moderna solo dal settore della produzione e delle contraddizioni e lotte direttamente scaturenti da esso, prescindendo dai processi della circolazione e dalle forme che si aggiungono ancora con la sintesi dei due settori nel processo complessivo. L’effettiva soluzione di questo problema è la seguente: nel primo libro del Capitale Marx ha limitato solo formalmente la sua ricerca al processo di produzione del capitale; in realtà, però, ha colto e presentato come una totalità in questa parte contemporaneamente il tutto del modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso emanante, con tutte le sue manifestazioni economiche e — oltre ad esse — con tutte le sue manifestazioni giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve ideologiche. È questa una conseguenza necessaria del modo dialettico di esposizione, preso da Marx dalla filosofia hegeliana in maniera formalmente abbastanza immutata, malgrado ogni «capovolgimento» materialistico del suo contenuto ideal-filosofico. Modo di esposizione simile, sotto questo aspetto, al metodo assiomatico moderno delle scienze naturali matematiche, che, in un procedimento in apparenza logicamente costruttivo, fa derivare in un secondo tempo deduttivamente il materiale acquisito in dettaglio nella ricerca. Non si può qui giudicare dei pregi o difetti di questo modo dialettico di esposizione nell’economia politica. È sufficiente che Marx l’abbia applicata nel Capitale in modo completo, e che qui fosse già presente la necessità di esporre nell’indagine del processo produttivo del capitale in pari tempo il tutto del modo di produzione capitalistico e della società borghese su esso fondata. Su questo particolare modo dialettico di esposizione del Capitale si basano anche certe difficoltà ancora da discutere, che scaturiscono proprio dalla peculiare «semplicità» degli sviluppi concettuali insorgenti nei capitoli iniziali dell’opera per il lettore non esercitato in quest’ottica. Accanto a questa prima e basilare ragione, ne esiste anche una seconda, per cui nonostante la limitazione formale, espressamente annunciata e sempre più accentuata da Marx, dell’indagine del primo volume al «processo di produzione del capitale», tuttavia proprio questa prima parte del Capitale, unica ad essere stata redatta da Marx stesso, dà ad ogni lettore, in grado molto superiore che non l’opera completa integrata dagli altri volumi, l’impressione della totalità per cui «in nessuna parte si sente una lacuna». Questa seconda ragione consiste nella forma artistica pura e semplice, che è propria dell’insieme del modo di scrivere di Marx, spesso ruvido e in apparenza inutilmente forzato nei particolari. Come per alcuni degli scritti storici di Marx, soprattutto per Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, vale anche per il primo volume del Capitale il giudizio con il quale una volta Marx, in una lettera privata a Friedrich Engels, ha cercato di placare i benevoli rimproveri dell’amico per la sempre più ritardata ultimazione dell’opera che avrebbe dovuto essere conclusa già da tempo: «Quali che siano le manchevolezze dei miei scritti, il loro pregio è che sono un tutto artistico, e ciò è ottenibile solo a modo mio: di non farli stampare mai prima che siano totalmente davanti ai miei occhi. Con il metodo di Jakob Grimm ciò è impossibile, e va assolutamente meglio per scritti che non sono articolati dialetticamente» (Lettera di Marx a Engels, 31 luglio 1865). II. Così come ora ci appare, come un «tutto artistico», come un capolavoro scientifico, Il capitale esercita un forte e seducente fascino su ogni lettore non prevenuto, fascino che aiuterà anche il non esperto a superare la maggior parte delle reali e presunte difficoltà della lettura. Queste difficoltà costituiscono un caso peculiare. Si può sostenere audacemente, entro certi limiti che verranno più avanti spiegati più dettagliatamente, che per quei lettori che Marx ha previsto espressamente («Presuppongo ovviamente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, e quindi vogliano anche pensare da sé»). Il capitale presenta veramente meno difficoltà di qualunque altra opera fondamentale della letteratura economica, più o meno molto letta. Persino nella terminología, soprattutto in quest’edizione, dove del grande numero delle espressioni straniere presenti nel testo marxiano è rimasta solo una piccola parte non in tedesco e anche queste per lo più sono spiegate nel glossario dei termini stranieri, il lettore in grado di ragionare incontrerà solo poche serie difficoltà. Alcuni capitoli, raccomandati da Marx, in una lettera a Kugelmann dell’11 luglio 1868 per la moglie, «da leggere per primi», i capitoli cioè 8, 11-13, 24, sulla «giornata lavorativa», «cooperazione, divisione del lavoro e manifattura», «accumulazione originaria», che corrispondono in totale già a più di due quinti dell’intera opera, sono effettivamente così prevalentemente descrittivi e narrativi — e con quali colori descrivono, con quale forza dirompente narrano! — che possono venir compresi senza fatica da chiunque. Ma anche fra i capitoli non più prevalentemente descrittivi e narrativi ne esistono alcuni quasi altrettanto facilmente leggibili, che hanno contemporaneamente il pregio di introdurci già nel mezzo della teoria del Capitale. Secondo la nostra personale valutazione, invece di quella ricetta che Marx — pagando in questo un piccolo tributo al pregiudizio del suo tempo — nella lettera sopra menzionata ha dato per così dire «per le signore», noi raccomanderemmo al lettore non esercitato un’altra via per la quale può essere sicuro di giungere alla piena comprensione della teoria del Capitale altrettanto bene, se non meglio, che iniziando con i primi capitoli più difficili. Si inizi quindi con uno studio approfondito del capitolo 5: Processo lavorativo e processo di valorizzazione. Anche qui si troveranno inizialmente alcune difficoltà da superare, ma queste sono tutte proprie del tema e non, come spesso nei capitoli precedenti, imputabili a certe artificiosità, effettivamente inutili, della forma espositiva. Ciò che si dice qui si riferisce direttamente e immediatamente a realtà tangibili, in primo luogo a realtà tangibili del processo lavorativo umano. In modo duro e chiaro emerge sin dall’inizio il dato di fatto fondamentale per l’esatta comprensione del Capitale: che questo reale processo lavorativo, nelle condizioni del modo di produzione capitalistica attualmente dominante, non solo rappresenta una produzione di valore d’uso per i bisogni umani, bensì allo stesso tempo una produzione di merci vendibili, valori di vendita, valori di scambio o tout court «valori». Dopo che il lettore ha imparato a conoscere qui, nella produzione reale, il carattere discorde e duplice inerente a questo modo produttivo capitalistico e al lavoro stesso in quanto viene eseguito da parte dei salariati per i proprietari dei mezzi di produzione, dai proletari per i capitalisti, più avanti sarà meglio in grado di comprendere il senso e la portata di quelle indagini più complesse dei tre primi capitoli sul carattere duplice della merce, in quanto portatrice del valore d’uso e del valore di scambio, sul carattere duplice del lavoro che produce merce e sull’opposizione di merce e denaro. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto. Quei primi capitoli, la vera pietra dello scandalo per diverse generazioni di lettori di Marx, li possiamo per il momento lasciar completamente da parte, benché una considerevole parte di essi sia per noi già sin d’ora perfettamente accessibile. Ciò vale in particolare per l’Analisi della sostanza di valore e grandezza di valore nei due primi paragrafi del prima capitolo, di cui Marx dice nella prefazione di averla, ormai «il più possibile popolarizzata» in confronto all’esposizione fatta nello scritto Per la critica dell’economia politica. Per contro, ciò non vale per il successivo terzo paragrafo sulla «forma di valore», che Marx stesso nei tredici anni 1859-1872 ha presentato non meno di quattro volte in forme diverse, e nel quale «si tratta effettivamente solo di sottigliezze». Per altre ragioni ancora da discutere, ciò non vale neppure per il quarto paragrafo sul «carattere di feticcio della merce e il suo arcano». Il breve, capitolo secondo è di nuovo facile; il terzo invece è estremamente difficile per il principiante. Il lettore cui ci rivolgiamo, cioè non preparato, procede nel modo migliore quindi se in questa fase non si avvicina ai primi capitoli, bensì dal quinto capitolo studiato in profondità passa al più presto, dopo una lettura soltanto rapida dei capitoli 6 e 7 a quel capitolo 8 sulla giornata lavorativa, della cui leggibilità particolarmente facile abbiamo già parlato più sopra. Qui aggiungiamo solo che, anche per il suo contenuto, questo capitolo 8 costituisce una delle parti più importanti, sotto alcuni aspetti il culmine di tutto Il capitale di Marx. Il capitolo 9, con le sue argomentazioni artisticamente astratte e solo in senso dialettico «semplici», può essere comunque saltato. Dal capitolo 10 prendiamo per il momento solo quel tanto da imparare a comprendere la differenza, analizzata da Marx con la massima chiarezza nelle prime pagine di questo capitolo, fra il plusvalore «assoluto» e «relativo»: si tratta della differenza fra l’aumento del plusvalore prestato per il profitto dovuto al prolungamento assoluto della giornata lavorativa (capitolo 8) e l’aumento del plusvalore dovuto alla riduzione relativa della parte del tempo lavorativo necessaria per il sostentamento dell’operaio stesso in seguito al generale aumento della forza produttiva del lavoro. Seguono poi di nuovo i capitoli 11-13, raccomandati da Marx in quanto particolarmente semplici, per i quali si deve qui solo aggiungere che effettivamente tutti e tre sono di «facile lettura», in misura tuttavia molto ineguale. Il più semplice è il capitolo 13 sulle «macchine e grande industria», lungo 120 pagine, che rappresenta un altro culmine dell’opera per forma e contenuto. I capitoli 11 e 12 offrono, per contro, già difficoltà leggermente maggiori di natura concettuale e particolarmente il capitolo 12 sulla «manifattura» contiene, accanto ad alcuni brani molto facilmente leggibili, anche alcune distinzioni al momento difficilmente comprensibili; si raccomanda perciò di passare dal primo paragrafo di questo capitolo, che espone la «duplice origine della manifattura», saltando i due successivi, al quarto e quinto paragrafo che tratta della «divisione del lavoro nella manifattura e nella società» e del «carattere capitalistico della manifattura». Dopo queste letture, il lettore ha superato per il momento un punto importante. Ha conosciuto l’effettivo processo lavorativo e produttivo e con ciò il nucleo reale del capitale. Si dovrà ora inserire questo processo lavorativo e produttivo nel suo ambiente e nel suo contesto temporale. A questo proposito si legga innanzitutto il terzo paragrafo del capitolo 4: Acquisto e vendita della forza-lavoro, quindi la sezione VI sul «salario», tralasciando temporaneamente il capitolo 20, abbastanza difficile anche per lo specialista, sulla «diversità nazionale dei salari», cioè quindi per il momento solo i tre capitoli 17-19 sul salario, salario a tempo, cottimo. A questo punto, segue opportunamente tutta la sezione VII, che inserisce il singolo processo produttivo nel flusso ininterrotto della riproduzione e dell’accumulazione, cioè nell’autoconservazione continua — entro certi limiti — e sviluppo del modo capitalistico di produzione e dell’ordinamento sociale borghese da esso derivante. Anche in questa sezione si trova uno di quei capitoli particolarmente facili, consigliati da Marx per la signora Kugelmann. È il capitolo 24 sulla «cosiddetta accumulazione originaria», giustamente famoso per il suo ritmo serrato e l’impeto travolgente. In effetti, questo capitolo 24, di facile lettura, costituisce, congiuntamente al successivo capitolo 25 sulla teoria e pratica del «sistema coloniale moderno», dal punto di vista del contenuto, il terzo momento culminante dell’opera marxiana. Raccomandiamo ciononostante ai nostri lettori di serbarsi questo capitolo, pensato da Marx quale coronamento finale, veramente alla conclusione della lettura, quando si pensa di possedere tutta l’opera con le sue parti facili e difficili. In favore di questo procedimento vi sono diverse ragioni. In primo luogo, già i precedenti capitoli 21-23 di questa sezione appartengono per la maggior parte ai brani meno difficili del libro. Inoltre, il principiante può essere anche condotto fuori strada anticipando quel capitolo 24 sulla «cosiddetta accumulazione primitiva». Può essere sviato, con Franz Oppenheimer e molti altri, a fraintendere questa teoria marxiana dell’accumulazione originaria, che rappresenta una parte costitutiva irrinunciabile, ma pur sempre una parte e neppure centrale della teoria marxiana del Capitale, come l’intera teoria del Capitale, o almeno come suo fondamento determinante. Sarà meglio quindi che il lettore legga uno dopo l’altro i quattro capitoli della sezione VI sul processo di accumulazione, come stanno nel Capitale, e poi dopo la prima rapida scorsa dell’intera opera, cominci pure con lo studio più dettagliato delle sue singole parti. III. Per una comprensione più approfondita della teoria del Capitale sono da chiarire soprattutto due punti. Ne abbiamo già toccato uno quando abbiamo parlato delle errate idee che molte volte — sia all’interno del campo marxista, sia presso i suoi oppositori — sono state diffuse sull’importanza del capitolo sull’«accumulazione originaria» nell’ambito della teoria globale del Capitale. Più in generale, si tratta qui non solo di quest’unico capitolo, ma, in relazione ad esso, anche di un’intera serie di altre parti in diversi punti dell’opera, che non sono giunte ad essere capitoli particolari. Fra le altre, rientra in questo gruppo il quarto paragrafo, già menzionato, del primo capitolo sul Carattere di feticcio della merce e il suo arcano; il terzo paragrafo del capitolo 7 sull’Ultima ora del Senior, il sesto paragrafo del capitolo 13 sulla Teoria della compensazione rispetto agli operai soppiantati dalle macchine e i due paragrafi — in strettissima relazione con il capitolo sull’«accumulazione originaria» — del capitolo 22 sull’Erronea concezione della riproduzione su scala allargata da parte dell’economia politica e sul Cosiddetto fondo di lavoro. Tutti questi brani — e ancora un gran numero di affermazioni simili che compaiono in tutte le parti del Capitale — hanno come tratto comune quello di costituire una «critica» dell’economia politica in senso stretto, come già tutta l’opera conformemente al suo sottotitolo. Lo si riconosce già esteriormente dall’accenno diretto all’«erronea concezione» dei singoli economisti (Senior) o della politica economica in toto e alla definizione delle forme qui studiate come «arcano», «cosiddetto», dietro cui in realtà si nasconde qualcosa di completamente diverso, e simili locuzioni ancora.. Considerate più attentamente, queste analisi «critiche» nel senso stretto della parola si dividono a loro volta in due diversi gruppi fondamentali, di importanza molto diversa. In uno si tratta di una «critica» consueta nel senso scolastico. È il caso di quando Marx si diverte per sé e per il suo lettore a mettere alla berlina, dal suo superiore punto di vista scientifico, gli svarioni teorici pseudoscientifici di un studioso appartenente al periodo successivo, postclassico, dell’economia borghese. A questo si riferisce, ad esempio, la brillante liquidazione della «teoria» del noto professore di Oxford, Nassau W. Senior, sul significato dell’«ultima» ora lavorativa nel capitolo 7 e la «teoria», «scoperta» dallo stesso «serio studioso» in un’altra occasione e sopravvissuta nell’economia borghese sino al giorno d’oggi, della cosiddetta «astinenza del capitale». Queste parti della critica economica di Marx appartengono ai brani più divertenti del Capitale, e inoltre, sotto la loro corteccia criticamente satirica, nascondono quasi sempre una considerevole quantità di concetti importanti presentati al lettore quasi «giocando». A considerarli rigorosamente, però, non appartengono al nucleo del Capitale, ma avrebbero trovato il proprio posto altrettanto bene nel «quarto libro» progettato da Marx sulla «storia della teoria», del quale egli stesso scrive in un’occasione ad Engels (31 luglio 1865) che avrebbe dovuto avere, a differenza delle parti teoriche (i primi tre libri), un più marcato carattere «storico letterario», e che per lui stesso sarebbe stata «la parte relativamente più facile», poiché «tutti i problemi sono risolti nei primi tre libri, quest’ultimo quindi è più una ripetizione in forma storica». Un carattere completamente diverso ha il secondo gruppo dei brani che abbiamo distinto nelle argomentazioni «critiche» in senso stretto del Capitale. A questo appartengono numerosi brani meno fortemente evidenziati per dimensione, ma estremamente importanti per il contenuto. Tale è l’esposizione del conflitto, irrisolvibile secondo la leggi economiche dello scambio delle merci, attorno ai limiti della giornata lavorativa, soprattutto però il paragrafo conclusivo del capitolo 1 Sul Carattere di feticcio della merce e il suo arcano e il capitolo conclusivo dell’intera opera sulla «cosiddetta accumulazione originaria» e «l’arcano» in essa celato. La Critica dell'economia politica di Marx, che, in quanto teoria economica, inizia con la spiegazione concettuale delle vere leggi economiche del movimento e dello sviluppo della società borghese-capitalistica moderna, e che segue col massimo rigore scientifico sino alle loro ultime conseguenze teoriche tutte le tesi elencate su questo argomento dai grandi teorici economisti del periodo classico, cioè rivoluzionario dello sviluppo borghese, fa saltare in questi punti alla fine anche il quadro della teoria economica stessa. Se sulla nascita del capitale dal plusvalore oppure dal «lavoro non retribuito», nella sezione sul processo di produzione e poi nella sezione sulla riproduzione e accumulazione, è stato detto tutto ciò che si può dire su tale argomento dall’ottica economica, rimane tuttavia alla fine sempre da chiarire un residuo irrisolto, in fondo «extraeconomico», sotto forma della domanda: da dove è venuto, prima di una qualsiasi produzione capitalistica, il primo capitale e il primo rapporto capitalistico fra i capitalisti sfruttatori e i salariati sfruttati? Sino a questa domanda Marx ha continuato a portare avanti la propria ricerca con una esposizione teorica squisitamente economica per poi interrompere temporaneamente l’indagine. Solo nel capitolo finale ritorna su di essa. La sua critica distrugge dapprima duramente alla radice la risposta che viene data a questa «domanda ultima» dell’economia borghese, non solo dai semplici difensori interessati degli interessi capitalistici di classe (quelli che Marx definisce economisti volgari), bensì anche da certi «economisti classici» come Adam Smith. Egli dimostra che questa risposta non ha un carattere «economico» ma soltanto un carattere presuntivamente storico, in realtà semplicemente leggendario. Da parte sua passa alla fine con la stessa concretezza terribilmente radicale a chiarire il problema, rimasto ormai irrisolto e completamente aperto dal punto di vista «economico», non più economicamente bensì storicamente e a risolverlo infine non più teoricamente ma praticamente sotto forma di una tendenza di sviluppo dedotta dalla storia passata e presente e indicativa del futuro. Solo da questa chiarificazione della reale problematica del capitolo sull’«accumulazione originaria» si chiarisce il rapporto reale di questo capitolo conclusivo rispetto alle parti precedenti dell’opera marxiana, come pure all’interno di questo capitolo la posizione dell’ultimo paragrafo settimo, che conclude l’esposizione storica dell’origine ed evoluzione dell’accumulazione del capitale con «la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica». Da ciò risultano chiare le cogenti ragioni metodiche per le quali la «cosiddetta accumulazione primitiva» appartiene effettivamente non all’inizio o alla metà ma alla conclusione dell’opera di Marx. Per queste ragioni Marx l’ha posta là e anche il lettore del Capitale dovrebbe riservarsela per la conclusione. IV. L’altro punto ancora da chiarire qui riguarda la connessione non dei singoli capitoli e sezioni, bensì del vero e proprio sviluppo logico e concettuale. Incontriamo qui le uniche reali grandi difficoltà che certe parti dell’opera marxiana, non discusse sinora in modo più dettagliato, offrono effettivamente non solo al lettore non esperto ma persino al lettore con una preparazione scientifica specialistica ma non anche filosofica. Esse sono le responsabili principali dell’accusa spesso ripetuta di «difficoltà di comprensione del Capitale». I punti in questione sono soprattutto il terzo paragrafo, già brevemente ricordato sopra, del capitolo 1 sulla «forma di valore» e alcune parti, strettamente collegate, del capitolo 3 sul «denaro»; inoltre ancora, anche se in grado considerevolmente inferiore, alcuni altri brani, fra i quali i capitoli già indicati 7, 9 e 10 nel loro rapporto particolare con i capitoli 14-16, che a una considerazione superficiale sembrano una loro semplice ripetizione, sul «plusvalore assoluto e relativo». Le difficoltà ricordate dipendono tutte dal cosiddetto «metodo dialettico». Le spiegazioni date da Marx stesso nel Poscritto alla seconda edizione sul significato di questo metodo per la costruzione ed esposizione del Capitale sono state talvolta, in buona o mala fede, fraintese come se si trattasse solo del fatto che Marx, nell’elaborare la sua opera, e in particolare nel capitolo sulla teoria del valore, avesse «civettato qua e là» con il modo peculiare d’esprimersi della dialettica hegeliana. Considerando più attentamente la cosa, si riconosce che le spiegazioni stesse fornite da Marx a quel punto vanno molto al dì là e mirano ad un pieno riconoscimento non già dell’involucro mistificato hegeliano, bensì del nucleo razionale del metodo dialettico. Tanto rigorosamente empirico è il modo in cui il ricercatore scientifico Marx accoglie la piena realtà concreta dei fatti economici, sociali e storici, altrettanto schematicamente astratte e irreali appaiono a prima vista al lettore non ancora passato attraverso la rigorosa scuola della scienza quei concetti estremamente semplici, quali merce, valore, forma di valore, nei quali deve essere contenuta sin dall'inizio la piena, concreta realtà di tutto l’essere e divenire, origine, sviluppo e decadenza dell’intero modo di produzione e ordinamento sociale attuali. È contenuta come germe al momento non sviluppato, eppur di fatto presente — secondo il sapere in un primo momento tenuto segreto del «demiurgo» di tutto questo atto di ri-creazione intellettuale della realtà — difficilmente riconoscibile o del tutto irriconoscibile solo per occhi comuni. Così è soprattutto il concetto del «valore». È noto che Marx non ha inventato questo concetto e questa espressione, ma li ha trovati già presenti nell’economia classica borghese, in particolar modo nelle opere di Smith e Ricardo. Lo ha criticato e applicato in modo incomparabilmente più realistico dei classici alla realtà effettivamente data ed evolventesi. In modo completamente diverso che in Ricardo, in Marx l’effettiva realtà storico-sociale di quei rapporti indicati da tale concetto è un fatto indubitabile, tangibile. «L’infelice non vede», dice Marx in una lettera del 1868 a proposito di un critico del suo concetto del valore, che se nel mio libro non esistesse nessun capitolo sul «valore», l’analisi dei rapporti reali che fornisco conterebbe la dimostrazione e la prova del rapporto reale del valore. Le chiacchiere sulla necessità di dimostrare il concetto di valore si basano solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che ogni nazione andrebbe in malora se si sospendesse il lavoro non dico per un anno, ma per alcune settimane, lo sa qualsiasi bambino. E sa pure che le masse di prodotti corrispondenti ai diversi bisogni esigono masse diverse e quantitativamente determinate del lavoro sociale globale. È evidente che questa necessità della divisione del lavoro sociale in determinate proporzioni non può venir per nulla eliminata dalla forma determinata della produzione sociale, ma può solo mutare il suo modo di manifestarsi. Le leggi di natura non possono essere abolite in senso assoluto. Ciò che si può mutare in situazioni storicamente diverse è solo la forma in cui quelle leggi si affermano. E la forma in cui si attua questa divisione proporzionale del lavoro, in una situazione sociale in cui la struttura del lavoro sociale si afferma come scambio privato dei prodotti del lavoro individuale, è appunto il valore di scambio di tali prodotti. Si confrontino ora però con quanto riportato sopra le prime pagine del Capitale, come si offrono al primo sguardo di chi non sa ancora nulla di tutti questi «retroscena» realistici dell’autore: qui vengono sì presi inizialmente alcuni concetti realmente dal «manifestarsi», cioè dai fatti dell’esperienza del modo di produzione capitalistico, fra cui il rapporto quantitativo che appare nello scambio di diversi tipi di «valori d’uso» l’uno contro l’altro, ovvero il «valore di scambio». Questo rapporto di scambio casuale dei valori d’uso, ancora segnato da tracce empiriche, viene però subito sostituito con un qualcosa di nuovo ricavato dall’astrazione dei valori d’uso delle merci, che si manifesta solamente in questo «rapporto di scambio» delle merci o loro valore di scambio. Solo questo «valore» interno o «immanente» ottenuto prescindendo dal manifestarsi forma il punto di partenza concettuale per tutte le successive deduzioni del Capitale. «Il proseguimento dell’indagine», dichiara Marx espressamente, «ci riporterà al valore di scambio in quanto modo di esprimersi necessario o forma fenomenica del valore, che tuttavia deve essere trattato in un primo tempo indipendentemente da questa forma». Anche dopo di ciò però, non siamo assolutamente ritornati ancora a qualcosa che sia una manifestazione immediatamente data empiricamente, ma ci muoviamo attraverso uno sviluppo della forma di valore condotto da Marx con perfetta maestria, come un brano di sviluppo concettuale dialettico di un virtuosismo insuperato nonostante Hegel, sino a giungere alla forma del denaro. Solo nel quarto paragrafo, sul carattere di feticcio della merce, brillantissimo anche se difficile per il lettore comune, si svela il mistero che il «valore» non esprime come i corpi delle merci e i corpi dei proprietari di merce qualcosa di fisicamente reale, e neppure come il valore d’uso una semplice relazione fra un oggetto dato o prodotto e un bisogno umano, bensì viene decifrato come rapporto fra persone nascosto sotto un involucro di cose, che appartiene a un determinato modo storico di produzione e formazione sociale. Esso era completamente sconosciuto a tutte le precedenti epoche storiche, modi di produzione e formazioni sociali, in tale forma «travestita di cose», e ritornerà a essere completamente superfluo in futuri modi di produzione e organizzazioni sociali non più basati sulla produzione di merci. La forma dell’esposizione marxiana illustrata da questo esempio non ha soltanto il pregio scientifico e artistico di una penetrazione avvincente. È anche adatta in massimo grado a una scienza indirizzata nella sua tendenza non al mantenimento e all’ulteriore sviluppo dell’attuale ordine economico e sociale capitalistico, ma alla sua distruzione tramite la lotta e il suo rivolgimento rivoluzionario. Non lascia al lettore del Capitale nessun istante per distendersi contemplativamente di fronte alle realtà e ai nessi reali immediatamente manifestantisi, bensì indica ovunque l’irrequietezza interna in tutto ciò che esiste. In breve, si dimostra in massimo grado superiore a tutti gli altri metodi dell’indagine storica e sociale, perché «nella comprensione positiva di quanto esiste include contemporaneamente anche la comprensione della sua negazione, il suo necessario tramonto: coglie ogni forma divenuta nel flusso del movimento, quindi anche dal suo lato transitorio, non si lascia intimidire da nulla, è critica e rivoluzionaria nella sua essenza». Con questa caratteristica fondamentale del modo di esposizione marxiano deve fare i conti ogni lettore che vuol ricavare dal Capitale non solo alcune analisi parziali del meccanismo e tendenze di sviluppo dell’attuale società, ma vuole cogliere pienamente e radicalmente la teoria globale ivi contenuta. Ingannerebbe solo se stesso chi volesse — cosa di per sé non completamente impossibile — trovarsi un accesso «più comodo» al Capitale, leggendolo non secondo l’ordine progressivo, ma in un certo senso «all’indietro». Ci si risparmierebbe così comunque la fatica, ad esempio, di conoscere nel capitolo 9 una serie di «leggi» sul nesso di «saggio e massa del plusvalore» che valgono solo sotto la condizione che si prescinda ancora completamente dalla possibilità del plusvalore «relativo», che si presenta solo nel capitolo successivo, per poi, dopo un altrettanto «astratto» sviluppo delle leggi del plusvalore relativo nei capitoli successivi, giungere a sapere infine nel capitolo 14 che «da un determinato punto di vista, la differenza fra plusvalore assoluto e relativo appare del tutto labile», rilevando che «il plusvalore relativo è assoluto, il plusvalore assoluto è relativo» e che entrambi in effetti rappresentano solo momenti astratti del plusvalore concreto reale — di questo momento a sua volta ancora estremamente astratto di uno sviluppo alla fine orientato alle manifestazioni reali della realtà economica che ci circonda. Ma proprio su questo metodo rigoroso, che non tralascia nulla e nulla accetta a priori senza controllo dall’«esperienza» comune superficiale e viziata da pregiudizi, si basa tutto il pregio formale della scienza marxiana. Se si cancella senz’altro questo tratto dal Capitale, si giunge di fatto a quella posizione sprovvista di ogni scientificità di quella «economia volgare» così duramente schernita da Marx, che teoricamente in continuazione «decanta l’apparenza contro la legge del fenomeno» e praticamente difende alla fine solo gli interessi di quella classe che si sente sicura e soddisfatta nella realtà attuale, immediatamente data, come essa è, senza sapere o voler sapere qualcosa del fatto che a questa realtà appartiene, come dato recondito, più difficile da comprendere, eppure del tutto egualmente reale, anche la sua continua modificazione, origine ed evoluzione, il tramonto delle sue forme attuali e il passaggio a future, nuove forme d’esistenza, e la legge di tutte queste modificazioni e sviluppi. Comunque però, anche quel lettore che è pronto ad affidarsi fondamentalmente al modo di ragionare del Capitale che procede dialetticamente, sfoglierà con suo vantaggio prima della lettura del capitolo 9 alcune pagine del capitolo 14, per conoscere in tal modo almeno la via sulla quale va avanti il ragionamento iniziato nel capitolo 9 e — visto più acutamente — anche molto prima. Questo rapporto «dialettico», ora esposto con alcuni esempi, fra la prima forma del tutto astratta e le forme successive, progressivamente più concrete, della trattazione dell’unico e identico oggetto empirico o rapporto con il quale la sequenza della trattazione di realtà date, altrimenti ritenuta «naturale» nella vita extrascientifica, sembra essere formalmente capovolta, posta sulla testa, vale per tutta la struttura del Capitale. Così prima del capitolo 17 non c’è ancora per la sua indagine il concetto del «salario», ma solo il concetto del «valore» (come pure del prezzo) della «merce forza-lavoro»; solo nel capitolo 17, da questo concetto, che sta prima nello sviluppo concettuale, viene «derivato» quell’altro concetto del salario, che «alla superficie della società borghese appare quale prezzo del lavoro». A questo modo espositivo «dialettico» del Capitale è connesso infine anche l’uso, inizialmente difficile da comprendere per il lettore non preparato dialetticamente (quindi di fatto per la stragrande maggioranza dei lettori contemporanei, a prescindere dal grado di istruzione da essi altrimenti posseduto), che Marx ovunque nel Capitale, come nelle sue altre opere, fa del concetto e del principio della «contraddizione» e in particolare della «contraddizione» fra la cosiddetta «essenza» e la cosiddetta «apparenza fenomenica». «Tutte le scienze sarebbero superflue se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente» — a questo principio centrale della scienza marxiana il lettore del Capitale si dovrà abituare come all’osservazione abbastanza frequente nel Capitale che una qualsiasi «contraddizione», che si trova in un concetto o legge o formula, ad esempio nel concetto del «capitale variabile», non dice in realtà nulla contro l’uso di tale concetto, ma «esprime solo una contraddizione immanente alla produzione capitalistica». In moltissimi di questi casi un’analisi più dettagliata mostra (e nell’esempio appena portato del «capitale variabile» è stato espressamente detto da Marx stesso) che la presunta «contraddizione» non esiste in verità affatto in quanto tale ma ne viene data solo l’illusione tramite un modo d’esprimersi simbolicamente abbreviato o equivocato per altre ragioni. Ove non sia possibile un’esclusione così semplice della contraddizione, l'avversario antidialettico del discorso della contraddizione in un nesso logico deduttivo che si presenta come scienza rigorosa deve consolarsi con il detto di Goethe sulle metafore, già ricordato da Mehring nel suo interessante studio sullo stile marxiano: «Le metafore non dovete voi negarmi, altrimenti non saprei come spiegarmi». In effetti, l’accorgimento «dialettico», applicato da Marx in molti punti importanti della sua opera, di presentare i contrasti fra l’essere sociale reale e la coscienza dei suoi portatori, il rapporto, in uno sviluppo storico, fra una tendenza principale di fondo e le sue «controtendenze», che per intanto ancora la compensano o addirittura la ipercompensano, e gli stessi conflitti reali delle classi sociali in lotta fra di loro come altrettante « contraddizioni », ha in tutti i casi il carattere e il valore di una metafora non banale, bensì illuminante profonde connessioni. Esattamente lo stesso vale per l’altro concetto dialettico, presente meno spesso nel Capitale ma in punti determinanti, del rovesciamento della quantità in qualità oppure di un concetto, di una cosa o di un rapporto nel suo contrario (dialettico). V. Il capitale, nel suo contenuto stesso, dimostra quanto il fondatore della concezione materialistica della storia sia stato lontanissimo dal fare del suo nuovo principio una specie di «teoria storico-filosofica universale» portata dall’esterno sopra la storia reale. Come si è già visto a proposito del concetto di valore, la concezione della storia marxiana è stata considerata dal suo creatore non come un principio dogmatico, ma come un nuovo più utile approccio all’indagine del mondo dell’esperienza che è data in modo sensibilmente reale e pratico all’uomo che agisce e pensa. Già cinquant’anni fa Marx ha spiegato, respingendo un fraintendimento del metodo del Capitale da parte del sociologo idealista russo Michajlovskij, che Il capitale e in particolare il suo risultato riassunto nell’ultimo capitolo sull’«accumulazione originaria» non doveva essere che un abbozzo storico dell’origine e dello sviluppo del capitalismo nell’Europa occidentale. Al di là di questo, le tesi formulate nel Capitale hanno validità universale solo nel senso in cui ogni conoscenza sperimentale più profonda di una forma naturale o storica va oltre il caso singolo nella sua validità. In quale alto grado le teorie scientifiche del Capitale possiedano effettivamente questa validità — l’unica compatibile con i principi di una rigorosa scienza sperimentale — lo ha dimostrato in parte lo sviluppo di tutti i paesi europei ed anche di alcuni paesi extraeuropei, e per l’altra parte lo mostrerà il futuro. [traduzione di Gian Enrico Rusconi] * Si tratta dell’Introduzione ad un’edizione del Capitale uscita nel 1932 a Berlino presso la Verlagsgesellschaft des Allgemeinen Deutschen Gewerkschaftsbundes. Porta la data del 28 aprile 1932. Nel testo qui tradotto abbiamo omesso buona parte del quinto paragrafo dedicato ai problemi e criteri specifici dell’edizione in questione. Si ringraziano Gian Enrico Rusconi per aver concesso la riproduzione della sua traduzione, Valerio Valerio per averla trasferita in Word, Riccardo Bellofiore per alcune minime correzioni al testo e Matteo Di Figlia per la preparazione del pdf del testo. PalermoGrad è a disposizione degli aventi diritto per gli eventuali copyright di Marcello Benfante
– È vero che sta pensando di dar vita a un “romanzo-fumetto”? – Non è del tutto esatto. La sua domanda mi dà però il pretesto per ragionare insieme, elementarmente, dei fumetti; dei miei antichi rapporti e di quelli che potrebbero essere anche i rapporti futuri in questo settore. Per quanto riguarda il futuro, è vero che mi piacerebbe lanciare un personaggio a fumetti; cioè, invece di scriverlo, renderlo graficamente. Ma mi trovo di fronte a quello che è stato il problema chiave di tutta la mia vita cinematografica. Uno può fare oggi un romanzo a fumetti se sa anche disegnare. Sempre più io sono per un fatto unitario. (Piero Zanotto, “Zavattini contro la terra”, 1968) Sono di quelli, lo confesso subito, che si ostinano – e con fierezza – a chiamare i fumetti semplicemente fumetti. Vengo ora a spiegare l’apparente tautologia, che in realtà è una precisa opzione culturale. Ormai da parecchi anni è invalsa l’abitudine di denominare i fumetti o un certo tipo di fumetti (peraltro non ben precisato) con il termine magniloquente di Graphic Novel. Secondo la vulgata sarebbe stato il grande Will Eisner a coniare questa espressione per il suo struggente e imponente Contratto con Dio del 1978. In realtà il termine ‘graphic novel’ esisteva già da molto tempo, certamente fin dagli anni Sessanta o addirittura, secondo alcuni, dai Quaranta. E stava a indicare, evidentemente, opere molto diverse. A fomentare dubbi sulla validità categoriale del graphic novel è proprio la sua slittante retrodatazione: da Bloodstar (1975) di Richard Corben a (secondo Luca Raffaelli) La rivolta dei Racchi (1966) di Guido Buzzelli. Si tratta di quel tipo di marce indietro che un po’ alla volta riportano il discorso alla linea di partenza. Tutt’oggi non è del tutto chiaro cosa debba intendersi per graphic novel. Secondo Wikipedia si tratterebbe di “un genere narrativo del fumetto in cui le storie hanno la struttura del romanzo”. Sono cioè storie “autoconclusive” che possiedono un “intreccio sviluppato e di solito rivolto a un pubblico adulto”. Fermiamoci qui, per ora. Delimitata in questi termini, la questione appare subito infondata. Il fumetto racconta storie autoconclusive con un intreccio complesso, chiaramente rivolte anche a un pubblico adulto e maturo, fin dalla sua età d’oro, ovvero dai suoi classici. Mi limito a tre esempi dei fantastici anni Trenta che mi sembra possano chiudere la pretestuosa querelle fin sul nascere: Dick Tracy (1931) di Chester Gould, esempio di duro realismo narrativo che ha fatto scuola e non solo nel fumetto; Flash Gordon (1934) di Alex Raymond, epopea di rara eleganza artistica in cui serpeggia una sensualità raffinatissima; Terry e i pirati (1934) di Milton Caniff, saga bellico-avventurosa di notevolissimo livello grafico alla quale si sono ispirati molto cinema e una quantità di cartoonist anche di grande prestigio (come per esempio il nostro inarrivabile Pratt). Il to be continued non inganni: si tratta di opere che presentano o contengono una loro compiutezza in termini narrativi e formali. Già più di ottanta anni fa, quindi, esisteva la graphic novel, solo che nessuno la chiamava così, per fortuna! Era l’età dell’innocenza, è stato detto. Cioè di un’ineffabile grazia. Ma di questo si tratterà più avanti. Per ora resta da completare la nostra pars destruens. Esiste infatti un’altra specificazione riguardo al cosiddetto graphic novel, e ci corre l’obbligo di esaminarla. Esso, in modo generico, sarebbe sinonimo di “fumetto d’autore”, in contrapposizione al “fumetto popolare”, e quindi delimiterebbe il campo di quei fumetti che assurgono, per il loro straordinario valore, a fatto d’arte, equiparabile pertanto a opere eccelse di altro genere. Anche posta così, la faccenda suona falsa, oltre che irritante. I fumetti sono arte fin dalle loro origini, sia ben chiaro. Non tutti ovviamente, come d’altronde in ogni altro campo, dalla letteratura alla pittura, non tutte le opere sono capolavori. Come definire, infatti, se non artistici e autorali, fumetti meravigliosi come Little Nemo (1905) di Winsor McCay o Krazy Kat (1910) di George Herriman? Si tratta di fumetti che risalgono a un’aurora di autentica poesia e/o di incantevole splendore grafico. Fumetti di assoluta profondità e complessità che hanno influenzato radicalmente la cultura del loro tempo. La storia del fumetto d’autore coincide praticamente con quella del fumetto tout court, giacché non basta il criterio della serialità e della popolarità a escludere il valore intrinseco del prodotto e il talento dei suoi artefici. Ho selezionato due esempi illuminanti (in tutti i sensi), appositamente tratti dai primi del Novecento, ma l’elenco potrebbe proseguire lungamente. Per restare nell’ambito dei tempi eroici, dirò soltanto dell’immenso Bonaventura (1917) del nostro Sergio Tofano (Sto) attore, scrittore e illustratore (non necessariamente in quest’ordine) di formidabile e poliedrico genio. Sono risalito ai tempi più remoti dell’arte che si dice nona (sorvolando peraltro su un maestro di umorismo e di nitore come George McManus) solo per dimostrare come l’espressione graphic novel si fondi, ab origine, su un equivoco. All’occorrenza però si potrebbe aggiungere un elenco pressoché sterminato di autori. Apro una breve parentesi, non priva di pertinenza con il discorso finora affrontato in questo articolo. Che s’intende per autori di fumetti? Certamente sono molte le figure professionali che solitamente intervengono, a vario titolo e in varia misura, nel processo creativo di un fumetto. Fondamentalmente: coloro che scrivono i testi, i soggetti, le sceneggiature; e coloro che disegnano, inchiostrano, colorano. Tra le figure di secondo piano (ancorché preziose) ricordiamo i letteristi. In questa divisione di compiti, in linea di massima e con alcune importanti eccezioni (per esempio il mitico Lee Falk), la parte del leone spetta per ovvie ragioni al disegnatore. La mia predilezione (e devozione) va tuttavia agli autori completi che realizzano tutte le fasi principali della loro opera, controllando l’intero processo creativo (anche laddove ricorrono talvolta all’ausilio di collaboratori specialistici). Questi artisti completi a me paiono i veri Autori (con la maiuscola), per eccellenza, senza nulla togliere beninteso a felicissime collaborazioni da cui sono scaturiti fumetti assai validi che spesso sono tra quelli che più amo. È innegabile che perfino da alcune vere e proprie catene di montaggio, ovvero da un lavoro estremamente parcellizzato, siano nate epopee straordinarie (si pensi alla Marvel capitanata da Stan Lee). Tuttavia, mi pare di poter dire che raramente il fumetto consegue capolavori quando è frutto di una molteplicità di contributi creativi, ossia quando non è (a dirla con Zavattini) un “fatto unitario”. E mi pare anzi, per esempio, che l’ottimo Magnus (Roberto Raviola) se la sia cavata meglio senza il pur bravo Bunker (Luciano Secchi), pur riconoscendo tutti i notevoli meriti di inventiva e innovazione di quest’ultimo. Tirando le somme di quanto fin qui asserito, possiamo tentare una prima provvisoria conclusione. A chi abbia dato anche solo una sbirciatina a un qualunque saggio di divulgazione storica sulla comic art sarà subito apparso chiaro che ben presto il fumetto è pervenuto alla narrazione di storie autoconclusive di solida e ben impostata trama, cioè a uno status che giustificherebbe (ante litteram) la denominazione di graphic novel, se la si volesse usare (opportunità di cui faccio volentieri a meno). Quanto poi al suo valore artistico, non v’è dubbio che il fumetto praticamente fin dagli esordi raggiunge livelli qualitativi di estremo pregio. E non stiamo parlando di calligrafi del disegno, ma di artisti veri e propri che esprimono compiutamente un loro mondo e un loro stile. Artisti sopraffini come per esempio il nostro Dino Battaglia, che hanno anche fatto ricerca e sperimentazione, come l’argentino Alberto Breccia, o che si sono distinti per una acrobatica poligrafia come l’inimitabile Moebius-Gir-Jean Giraud. Tra i più figurativi o, se vogliamo, pittorici, citerei almeno Harold Foster e Burne Hogarth, per restare in un ambito classico. Tra i più totali, una menzione spetta al sommo Hergé, perfetto capocomico della sua Commedia Umana. Ma non si può nominare tutti, e in simili ardue cernite fanno da discrimine (più o meno arbitrariamente) il gusto personale e le strettoie dell’argomentazione. Resta un ultimo aspetto da affrontare. Forse graphic novel è un modo (in verità piuttosto equivoco) di sottolineare una crescita del genere fumetto, per cui quest’ultimo, a un certo punto della sua evoluzione, si sarebbe liberato del suo bozzolo infantile, divenendo un’espressione culturale più significativa in termini di critica sociale, di satira politica e di costume, di analisi psicologica, di rappresentazione del mondo. Non ci siamo neanche stavolta. Il fumetto è stato sempre anche questo, e forse lo è stato anche più quando il suo linguaggio era a misura di strip. Basti pensare a Blondie (1930) di Chic Young, dalle cui gag ha razziato a man bassa la commedia hollywoodiana; a Alley Oop (1933) di Vincent T. Hamlin, che ha reso popolare lo schema letterario (da Washington Irving a Mark Twain) e poi cinematografico del viaggio temporale come strumento di relativistica comparazione sociale; Li’L Abner (1934) di Al Capp, che ha creato buona parte dei prototipi dell’America rurale e “cafona”. O ancora prima al nostro Marmittone (1928) di Bruno Angoletta, irriducibile modello di antimilitarismo. E poi, a volo d’uccello, Pogo (1946) di Walt Kelly, Archie (1947) di Bob Montana, Beetle Bailey (1950) di Mort Walker, i Peanuts (1950) di Charles M. Schulz, Andy Capp (1957) di Johnny Hart, Bristow (1960) di Frank Dickens, Mafalda (1964) di Quino, Fritz The Cat (1968) di Robert Crumb, Sturmtruppen (1968) di Bonvi, Up il Sovversivo (1970) di Alfredo Chiappori, Lupo Alberto (1973) di Silver. Qui mi fermo, con molte dolorose omissioni (tra cui l’intero universo Disney, che meriterebbe una trattazione a sé), essendo giunto quasi alle soglie della contemporaneità e avendo messo in fila sufficienti esempi a dichiarare dimostrata la fondatezza della mia obiezione. Basterebbe seguire queste (e tante altre) strip per ricostruire un’intera storia della modernità. A ben vedere, anche il graphic journalism, che resta comunque la prospettiva più aperta del fumetto contemporaneo, non è affatto un’invenzione recente, bensì la molla stessa che ha dato origine ai comics fin dai tempi di Yellow Kid (1895) di Richard Felton Outcault: raccontare la realtà quotidiana partendo dalla strada e dalla folla amorfa che vi si riversa incessantemente. E allora? Quand’è che il fumetto sarebbe diventato finalmente adulto? A riesplorarne a ritroso il percorso, ci si accorge piuttosto che il fumetto è sempre stato una forma d’arte piena d’incantevoli sorprese a cui hanno attinto – in un dialettico rapporto di scambi e commistioni – tutte le altre discipline. E il discorso non pertiene soltanto alle arti, ma anche alla scienza, alla saggistica. In questo senso si consideri, per esempio, lo psico-erotismo (e onirismo) di Guido Crepax, grande artista di sublimi inquietudini. O, in campo storico, l’opera icastica e maestosa di Anna Brandoli e Renato Quierolo. Certo, davanti a un’opera monumentale come Maus (1986) di Art Spiegelman, che dà al lettore una sorta di vertigine della coscienza storico-civile, bisogna ammettere che non tutti i fumetti hanno il medesimo spessore. E ciò sembrerebbe avvalorare l’esigenza da cui probabilmente è sorto l’appellativo di graphic novel. Esistono – è vero – fumetti più letterari di altri. Fumetti che non si prestano a un consumo veloce e superficiale. Un esempio per tutti, Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt (che però, non a caso, perde molto nella versione integralmente letteraria che ne fece successivamente il suo autore). Ma anche questa più evidente letterarietà non è un fatto del tutto nuovo. Mi piace ricordare a questo proposito il mio amato professor Philip Mortimer di Edgar Pierre Jacobs, a cui ho dedicato vari sperticati omaggi: che magistrale architettura romanzesca è il suo Marchio giallo (1953), per scegliere, quasi a caso, un titolo del suo ciclo! Romanzesca in tutto e per tutto: per il vasto respiro del racconto, per le implicazioni drammatiche del testo, per la fitta tessitura dei dialoghi e la puntualità delle didascalie, per lo scrupoloso lavoro di documentazione e preparazione che sorregge ogni aspetto dell’opera, ogni tratto di matita, ogni parola. E si badi che stiamo parlando di una storia concepita in un tempo (come appunto la prima metà degli anni Cinquanta) in cui il fumetto era ancora oggetto di ottusi pregiudizi, perfino in Belgio e in Francia, sue patrie elettive, e nessuno (o quasi) osava ancora considerarlo alla stregua della cultura di alto profilo. Ciò non vuol dire però che nel fumetto sia tutto déjà vu. Tutta la sua storia è al contrario innovazione continua. Un gran laboratorio di idee, formule, tecniche, stilemi. E già molto prima dell’avanguardismo di riviste e movimenti come Metal Hurlant, Frigidaire, Valvoline, del futurismo-picassismo di Pablo Echaurren, di autori rivoluzionari ed eclettici come Andrea Pazienza o del frankzappismo coatto di Tanino Liberatore. Che dire infatti dell’umorismo anarco-demenziale di un Benito Jacovitti? Del suo ossessivo e inimitabile horror vacui? Non è forse una potente anticipazione del mondo tutto-pieno e tutto-a perdere in cui oggi viviamo? Ma non vorrei passare per un nostalgico laudator temporis acti. È chiaro che personaggi come il Ken Parker (1974) di Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo hanno profondamente rinnovato e arricchito il filone western nonché la comic art in generale, introducendo temi storici, etici, politici inusuali e affrontando con coraggio il tabù della morte stessa dell’eroe. Ma Ken Parker non è per questo diventato altra cosa rispetto a prodotti più ingenui, ma a loro modo deliziosi, come il Capitan Miki (1951) dell’onorato trio SGS (Sartoris, Guzzon e Sinchetto) o addirittura a un mito popolare come Tex (1948) di Bonelli e Galleppini. Pur nella sua complessità e profondità, Ken Parker resta (vivaddio) un fumetto. Uno splendido fumetto! Né l’arte geniale di un Gipi si colloca su un piano di alterità o superiorità rispetto alla tradizione alta del fumetto. Ci si stupì di Elio Vittorini quando nel progetto del suo Politecnico (1945) inserì i fumetti, dando inizio al loro sdoganamento nell’attardata e ancora provinciale cultura italiana del secondo dopoguerra. E fece scalpore, nel 1963, che Umberto Eco definisse tout court poesia le strisce di Charlie Brown. Ma è poesia pure Popeye. Pure Mandrake. Pure (eccome!) “Il Piccolo Re” di Otto Soglow. Questo è il punto che bisogna capire e rivendicare. Molto più facile è accettare che sia poesia (e perfino in qualche modo “romanzo”, alla Salinger) Calvin and Hobbes (1985) di Bill Watterson, che ha tutte le caratteristiche dell’opera intellettuale e irripetibile. Che sia arte l’espressionismo sulfureo di Lorenzo Mattotti o magari il notturno gotico di Frank Miller. Ma c’è un incanto nella semplicità del fumetto popolare che sarebbe davvero uno scempio buttare alle ortiche. Occorre che il fumetto, come tutta la cultura cosiddetta di massa (ma ormai tutto è di massa), non perda questa sua leggerezza originaria, non rinunci alla sua fragranza, al suo candore e non si precluda spocchiosamente alla fruizione e alla passione dei ragazzi. Altrimenti faremmo tutti, in termini di civiltà, un disastroso passo indietro. E allora, in conclusione, da dove sbuca fuori questa esigenza snob di etichettare il fumetto come graphic novel? A me pare si tratti di un’operazione di surrettizia nobilitazione del genere. Pensata e compiuta ovviamente da gente che non ama il fumetto e lo considera davvero qualcosa di minore e di sconveniente. Quando scatta il subdolo meccanismo eufemistico è segno inconfutabile che è avvenuta un’indicibile rimozione classista. Ciò che viene rinominato in termini asettici e neutri che sostituiscono le vecchie e scandalose definizioni è il vero marchio dell’infamia e del ripudio. Fumetto, a un certo punto, è stato ritenuto un termine sub-culturale. E proprio perché tale era ritenuto il fumetto in sé. Si è cercato quindi di dargli dignità con un appellativo più altisonante. Ma nello scambio furtivo, ovvero nel disguido, il fumetto, come pratica “bassa”, è stato ancora una volta maledetto e ghettizzato dai saccenti del midcult. Da vecchio amatore, mi tengo quindi stretta la definizione antica di fumetto, che è la più leggiadra e appropriata tra quelle tradizionali (comics, bande dessinée, historieta), quella che con felice metafora esprime l’anima, l’intimo mistero e la magia di un’arte semplice e nobile, piccola e immensa. |
Archivio
Novembre 2019
|