di Marco Palazzotto 28 luglio 2015
Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche. Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity. Sgombero subito il campo di analisi relativamente al secondo problema, considerato che l’argomento è stato già affrontato in questo sito con una critica alle nuove proposte legislative di SEL e M5S e, per chi vive a Palermo, con un prezioso contributo dell’economista Giovanna Vertova durante il seminario dello scorso 30 giugno (qui una breve descrizione del seminario). Sui presupposti teorici che hanno portato un certo numero di intellettuali ad elaborare queste proposte rimandiamo invece a questo articolo sulla teoria del valore-lavoro, scritto in occasione di due seminari organizzati quest’anno sul testo di Giorgio Gattei , Storia del valore lavoro, Giappichelli 2011. In queste occasioni abbiamo già evidenziato l’inutilità di una proposta di forme di sostegno al reddito. Abbiamo sottolineato addirittura la pericolosità delle misure nell’accelerare un processo di spaccatura nel mondo del lavoro, rischiando di realizzare una riforma Hartz “all’italiana”. Più che il reddito andrebbe affrontato un tema più importante che è quello della disoccupazione, quindi del lavoro, il quale può essere risolto solo da un intervento statale, un soggetto pubblico che si proponga quale “datore di lavoro di prima istanza”, magari facendo lavorare meno e tutti. Un sussidio semmai andrebbe erogato ai disoccupati in attesa, nella fase di realizzazione della piena occupazione. Tra l’altro questo nodo dovrebbe essere cruciale nella discussione a sinistra, dal momento che rappresenta l’elemento principale del ricatto politico nel conflitto capitale-lavoro. Ma il problema dell’occupazione è un tema difficile, e se non si mette in discussione il contesto europeo si rischia di vedere il dito e non la luna. Riguardo alla questione della dimensione geografica delle risposte alle politiche di austerità e “neoliberiste”, farò un passo indietro per sostenere le mie argomentazioni, cercando di fornire un quadro molto sintetico del capitalismo moderno per spiegare le motivazioni che portano a percepire come erronea l’estensione europea del conflitto. Un certo filone di pensiero a sinistra negli ultimi decenni ha offerto una lettura del capitalismo moderno basata su diversi assunti a parere nostro poco realistici. Assistiamo, secondo queste vulgate “post-anni ’70”, al dispiegarsi di un nuovo capitalismo “apolide” non legato alla dimensione nazionale ma ad una dimensione geografica transazionale, o globale. Gli stati-nazione smettono di rappresentare i dispositivi di potere capitalistico per lasciare il posto ad istituzioni che operano a livello mondiale fuori appunto da logiche di tipo nazionale, come invece succedeva nella fase “fordista” ed imperialistica del novecento. Una sponda critica a questo modo di vedere ce la offre proprio Yanis Varoufakis che nel suo saggio “Il Minotauro Globale” (tratto da un lavoro più complessivo intitolato Modern Political Economics scritto insieme a Joseph Halevi e Nicholas Theocarakis: una recensione di Vincenzo Marineo la trovate qui), spiega che dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods abbiamo assistito ad un aumento di afflusso di capitali dall’estero verso Wall Street, evidenziando (si badi bene: stiamo analizzando gli ultimi 40 anni) una sempre maggiore concentrazione di capitali verso gli USA. Varoufakis usa direttamente le parole di Paul Volcker, presidente della Federal Reserve ai tempi di Carter e Reagan, per spiegare tale fenomeno: “Quello che tiene insieme [la storia di successo dell’economia USA] è un massiccio e crescente flusso di capitale dall’estero, che assomma a oltre 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo e che continua ad aumentare […] L’aspetto più arduo di tutto ciò è che questo quadro apparentemente rassicurante non può andare avanti all’infinito. Non so di alcun paese che sia mai riuscito a consumare e a investire a lungo il 6 per cento in più di quanto produce. Gli Stati Uniti stanno assorbendo circa l’80 per cento del flusso netto di capitale internazionale”. Sappiamo cosa ha comportato questa politica, ovvero lo scoppio delle bolle come quella della dot-com e poi quella dei sub-prime. Questo fenomeno che spesso viene definito come “eccesso di finanziarizzazione” del capitalismo non ha di fatto modificato i rapporti classisti e geopolitici di sfruttamento, anzi dinamiche novecentesche sono state maggiormente accentuate come lo spostamento della produzione (altro che “morte dell’operaio di massa”) dagli Stati Uniti verso l’oriente per l’utilizzo di quell’enorme “esercito di riserva”. Semmai la finanziarizzazione ha comportato una modificazione del ruolo del sistema finanziario e bancario nel circuito monetario della produzione sociale (per approfondire il tema si consiglia la lettura di questo articolo di Marco Veronese Passarella). Tali eventi sono stati quindi influenzati, come afferma lo stesso Varoufakis, da una certa volontà della politica statunitense, tesa a plasmare il capitalismo globale cercando di mantenere un ruolo egemonico del paese americano attraverso il riciclo delle eccedenze mondiali dei capitali. In Europa questo andamento si è tradotto in una sempre maggiore centralizzazione dei capitali verso il centro-nord europeo, in un capitalismo ancorato a vecchie dinamiche: mercantilismo e conseguente “colonizzazione economica”. Sia nell’interpretazione post-keynesiana della crisi europea (principalmente squilibri delle bilance dei pagamenti di parte corrente e assenza di meccanismi di riequilibrio delle eccedenze; si veda ad esempio Cesaratto in Oltre l’Austerità, 2012); sia in quella marxista (crisi da sovrapproduzione per eccesso di indebitamento, centralizzazione dei capitali verso il centro-nord Europa, scoppio del debito estero e del debito pubblico per sostenere l’accumulazione e la produzione di extra profitti, come Rosa Luxemburg e Michał Kalecki insegnano), si nota una tendenza che non è affatto molto diversa rispetto al secolo scorso: tendenza che ha prodotto il risultato di “risuscitare un polo anche imperialistico imperniato sulla Mitteleuropa”, come hanno evidenziato Bellofiore e Halevi in questo scritto del 2006. Il ruolo del governo tedesco in Europa, e quindi del suo capitalismo, è quello di incentivare e mantenere condizioni di instabilità e di crisi a vantaggio del proprio settore manifatturiero, come ci illustra quest’ultimo rapporto del Centro Europa Ricerche. Pertanto i concetti di “globalizzazione” - come i suoi apologeti la interpretano - e “apolidia” del capitale, perdono di significato. Come rispondere allora da sinistra a questo capitalismo ancora legato ai dispositivi statuali? Sicuramente una strada percorribile non è la costruzione immediata di un soggetto europeo, che richiederebbe tempi lunghi e difficoltà enormi visti i rapporti di forza oggi in campo. Un modo più efficace potrebbe essere quello dell’organizzazione in una dimensione nazionale, meglio se coordinata a livello prima mediterraneo (per contrastare lo strapotere in Europa delle potenze del capitalismo europeo e d’oltre oceano) e poi europeo, e infine (magari!!!) internazionale. Già Marx ed Engels nel “Manifesto” suggerivano questa strada e successivamente Marx, nella sua Critica al Programma di Ghota, nel 1875 scriveva: “In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. S’intende da sé, che per potere avere, in genere, la possibilità di combattere, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la forma. Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente nell’ambito del sistema degli Stati. Anche il primo commerciante che capiti sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismark consiste appunto in una specie di politica internazionale.” Ritornando alla realtà di oggi e alla Grecia. Tsipras e Varoufakis (e Syriza in generale) avevano portato avanti eroicamente ed efficacemente la trattativa con l’Eurogruppo e la Troika. Lo scopo era prendere tempo e contemporaneamente creare il consenso in Grecia e nel resto dell’Europa. L’esito del referendum del 5 luglio infine ha offerto una carta importantissima da giocare. Ma tale capitale politico non è stato sfruttato al meglio con la scelta di capitolare. Un problema importante sta proprio nel fatto che Syriza non ha mai pensato ad un piano B, come la Grexit, piano che gli avrebbe permesso probabilmente di ottenere un accordo migliore. Ovviamente un’uscita dalla Grecia isolata, con gli attuali rapporti di forza e senza sponde esterne, oggi è meglio scongiurarla: ma la preparazione di un piano secondario sarebbe stata più che opportuna, considerato che proprio la Germania, attraverso Schäuble, aveva suggerito questa ipotesi. Vaorufakis dal canto suo (uomo politico più lucido di Tsipras in questa lunga vicenda) aveva fin dall’inizio pensato alla Grexit (come conferma in questa intervista al settimanale britannico “New Statesman” - qui il link della traduzione in italiano) e conferma che adesso è l’unica strada da percorrere. Va da sé che oggi sarà più faticoso pensare ad una permanenza nell’Euro da parte della Grecia (è sicuro che non vi rimarrà a lungo, o per volontà autonoma o per volontà della Germania), visto che l’accordo ultimamente firmato a Bruxelles abbasserà ulteriormente il reddito dei greci. L’aiuto dall’esterno con un finanziamento del debito estero per i primi anni, avrebbe facilitato sicuramente lo scenario della Grexit, e oggi più che mai si rende necessario mettere da parte la retorica europeista e mondialista e preparare una visione alternativa. Basta con la retorica dell’inflazione e la caduta dei salari (questioni superabili con governi di sinistra capaci di gestire l’uscita) che condiziona anche la sinistra nostrana. Sono stati elaborati centinaia di studi che dimostrano l’infondatezza di questi spauracchi, soprattutto se a gestire la rottura dei trattati europei sono governi di sinistra, come ha sostenuto ad esempio l’economista Emiliano Brancaccio che proprio ultimamente ha stigmatizzato questo terrorismo infondato con una critica alle dichiarazioni dello scrittore Erri De Luca in questo articolo sul blog de L’Espresso. Occorre invece prepararsi alla rottura della gabbia dell’EZ, concentrare le forze sulla creazione, nei singoli paesi, di soggetti politici capaci di gestire a livello nazionale (come successo con Syriza), e in coordinamento con altri paesi, una nuova fase costituente che però smantelli gli attuali trattati (immodificabili se non attraverso la completa cancellazione) per ricostruire una Europa fondata su un sistema produttivo che abbia caratteri diversi da quelli basati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il laboratorio Syriza oggi è un progetto da guardare con attenzione. La maggioranza del partito – lo sappiamo - è contraria alla firma dell’ultimo pacchetto di misure di austerità, anche se la maggioranza dei parlamentari ha votato a favore. Ma la forza di Syriza è stata proprio quella di creare un soggetto politico nel paese di appartenenza: lo stesso sta avvenendo in forme diverse in Spagna e speriamo accadrà anche in altri paesi. Questa forza ora deve essere moltiplicata a partire proprio da un lavoro all’interno di ogni paese. L’utopia del soggetto politico di sinistra a livello europeo, prima di aver fatto i conti in casa con il proprio capitalismo, rischia di lasciare un vuoto di rappresentanza del malessere dei cittadini. Proprio questo vuoto si appresta ad essere riempito (come sta succedendo in Italia con i partiti populisti dei 5 Stelle e Lega Nord) dalle destre xenofobe, antieuropeiste e neofasciste.
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di Salvatore Cavaleri 24 luglio 2015
Lo scorso 22 luglio, all'età di 84 anni, è morto lo scrittore E. L. Doctorow. Verrebbe da dire che se esiste un'accezione positiva da dare alla parola postmoderno, questa è da riferire a Doctorow. Magari non solo a lui, certo. Ci sono stati altri giganti come Don De Lillo e Kurt Vonnegut, per citarne un paio, ma i libri di Doctorow hanno rappresentato un tentativo prezioso di sottrarsi ad un uso labirintico e barocco del linguaggio, senza per questo rinunciare a giocare con i generi e compiere esercizi di stile. Non a caso Fredric Jameson, che del postmoderno resta uno dei maggiori critici, gli dedicò alcune pagine entusiaste del suo saggio più famoso, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo: “Doctorow è il poeta epico della scomparsa del passato radicale americano, della soppressione delle correnti e dei movimenti della tradizione radicale americana: nessun simpatizzante della sinistra può leggere questi splendidi romanzi senza struggimento, che è il modo più autentico di affrontare i dilemmi politici di oggi. Ma il dato più interessante sul piano culturale è che Doctorow ha dovuto comunicare questi temi formalmente e, più ancora, ha dovuto elaborare la sua opera mediante quella stessa logica culturale del postmoderno che costituisce il segno e il simbolo del suo dilemma”. Doctorow sta, in qualche modo, dentro e contro il postmoderno. Non segue le mode e non c'è mai alcun segno di compiacimento formale. Ciononostante, c'è un'attenzione geometrica per le regole del racconto, tanto che alcune pagine chiedono quasi di essere lette ad alta voce, per quanto sono stilisticamente impeccabili. Ma la narrazione non va mai a discapito della trama, l'affabulazione non serve a nascondere, ma a disvelare storie, anzi, la Storia. Il romanzo storico, infatti, è stato il suo campo di battaglia. Ha raccontato i grandi momenti della storia americana, facendo intrecciare, come poi avrebbe fatto James Ellroy, la storia ufficiale con le storie piccole. Le atmosfere di un'epoca sono rese attraverso un incrocio di prospettive che ha, evidentemente, un intenzione tanto poetica quanto politica. Pensiamo a Ragtime (la cui trasposizione cinematografica di Sidney Lumet non restituisce la complessità di livelli), in cui i conflitti sociali e le discriminazioni razziali dell'America dei primi del novecento vengono raccontati attraverso le vicende di una lunga serie di personaggi letterari, che si intrecciano con quelle di Henry Ford, J.P. Morgan, Emma Goldman e perfino di Houdini. Perché le grandi trasformazioni sociali hanno sempre ripercussioni sulla miriade di vicende singolari, che a loro volta, in modo circolare, le determinano. Salta, in questo modo, la linea di separazione tra macro storia e micro storia, proprio perché è esattamente questa polifonia a raccontare in profondità il senso ultimo degli eventi. Questi tratti sono ancora più evidenti in La marcia del 2005, in cui viene raccontata la traversata delle truppe abolizioniste dalla Georgia alla Carolina, all'apice della guerra civile americana. Qui troviamo le gesta del generale William Tecumseh Sherman alternarsi a quelle di una ventina di personaggi, tra cui quelle di Wrede Sartorius, medico militare che ritroveremo anche in L'acquedotto di New York, inevitabilmente quelle di Abramo Lincoln, ma soprattutto quelle di Pearl, ragazzina né bianca né nera, né bambina né donna, figlia di una schiava e di un possidente, vero controcanto alla storia ufficiale di cui generali e presidenti sono l'emblema. La marcia è un atto d'accusa contro la brutalità e l'insensatezza di ogni guerra, ma ancor di più contro il cinismo e l'ipocrisia di quei burocrati che, senza sporcarsi le mani, creano altrettante atrocità di cannoni e fucili. “E così dalla guerra si era passati alle parole. Ora la guerra riguardava la terminologia e veniva combattuta sopra un tavolo. La contesa si sviluppava a colpi di frasi. Trinceramenti e assalti, squilli di tromba e rulli di tamburi, marce, imboscate, incendi e battaglie campali si erano d'incanto trasformati in verbi e sostantivi. “Tutto è diventato molto silenzioso”, disse Sherman a Johnston, il quale, non capendo, alzò la testa per ascoltare. Né mitraglia né palle di cannone, la guerra è diventata il linguaggio che si parla qui, le parole scritte, pensò Sherman. Il linguaggio è la guerra con altri mezzi.” Questa frase nasconde in qualche modo anche un dichiarazione poetica. Perché dice molto sulla guerra ma, evidentemente, dice altrettanto sul linguaggio. Sulla sua potenza e sulla sua delicatezza. Doctorow ci parla della narrazione come di un campo minato, in cui le parole vanno usate con cautela, in cui è necessaria una precisione chirurgica nel trattare la potenza esplosiva delle parole. Questi sono i tratti comuni a tutta la produzione di Doctorow, li ritroviamo nei suoi racconti raccolti in Storie da una dolce terra, come nei suoi altri classici Billy Bathgate, L'acquedotto di New York o Homer & Langly, tutti libri ambientati nella Green mela, la sua città. Billy Bathgate la racconta attraverso i sobborghi, L'acquedotto di New Yorky ne ricostruisce possibili trame oscure, Homer & Langly invece è un tentativo di insidiare i confini della letteratura. Vengono ripresi due personaggi realmente esistiti, i fratelli Collyer, ma vengono ricollocati in un'altra epoca e resi testimoni di altre vicende. Si forzano i confini perché Langly, tornato dalla guerra tormentato dagli incubi, e Homer, Omero, il narratore cieco, vivono insieme a New York, la città del romanzo contemporaneo per eccellenza, ma in una condizione di autoreclusione dentro una casa dalla quale non usciranno mai, intrappolati in una bulimia accumulativa che rappresenterà la propria condanna. Al tempo stesso, però, saranno testimoni paradossali di tutto ciò che avviene fuori da quel rifugio diventato galera. Persino nel suo ultimo La coscienza di Andrew, incentrato sulle tragiche vicende di uno scienziato cognitivo e colmo di interrogativi propri delle sfide tra neuroscenziati e psicanalisti, c'è ben poco di intimista e alla fine il libro si rivela un tentativo di indagare l'inconscio collettivo di una nazione dopo l'11 settembre. Forse, l'unico calzino spaiato, l'unico libro in cui Doctorow abbandona i territori a lui più consueti è La città di Dio. Un libro duro da leggere, faticoso, pieno di frammenti, in cui ci si perde di continuo. Al tempo stesso un romanzo doloroso, tanto (immagino) per chi lo ha scritto, quanto (di certo) per chi lo ha letto. E' un libro sulla crisi di vocazione: c'è uno scrittore che ha perso il senso della scrittura che si imbatte in un prete che, arrivando a porsi le domande ultime sulla fede, finisce, inevitabilmente, per lasciare la Chiesa. Queste vicende si incrociano con incipit di romanzi abortiti, storie che riemergono dall'oblio, sottotrame di spionaggio e dispute di carattere teologico. La città di Dio è estremamente doloroso perché è un libro sulla resa dei conti, sul rispondere nel modo più scomodo possibile al crollo delle certezze, cioè abbandonando i ruoli e le posture che sarebbe semplice continuare a reggere, rifiutando le risposte convenzionali e andando al fondo nelle questioni definitive, anche quando questo percorso può rivelarsi tutt'altro che piacevole. In Italia, per qualche strano motivo, Doctorow ha sempre avuto un'accoglienza abbastanza distratta. Rispettato dalla critica, ma quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico. Basti pensare che a parte i romanzi degli ultimi anni tutto il resto della sua produzione è fuori catalogo ormai da tempo. Nelle scorse settimane il Corriere della sera ha proposto sul proprio sito un sondaggio nel quale si domandava quale fosse il più grande scrittore americano vivente. Con grande rammarico ho dovuto constatare che tra i vari Philip Roth, Jonathan Franzen e Richard Ford non fosse proposta l'opzione Doctorow. Solo pochi giorni dopo ho trovato, nella colonna accanto, la triste notizia che annunciava che Doctorow non rientrava più nella categoria scrittori americani viventi. Ci toccherà, allora, ricordarlo come uno tra i più grandi scrittori americani di sempre. GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
24/7/2015
di Tommaso Baris (*) 24 luglio 2015
Volendo ragionare sull’esito finale della vicenda greca non si può non partire dal riconoscimento di una durissima sconfitta. Alexis Tsipras e tutto il governo greco costruito da Syriza, pur con inevitabili limiti e ingenuità, hanno posto con forza nei lunghi mesi della trattativa, da febbraio ad oggi, il tema politico di un superamento delle politiche di austerità all’Unione Europea ma alla fine sono stati costretti a capitolare Atene si ritrova oggi sì a godere di un finanziamento creditizio più ampio rispetto a quello inizialmente previsto che le assicura (forse) un maggiore lasso di tempo rispetto alle scadenze debitorie più immediate, ma in cambio ha dovuto accettare una sostanziale continuità con le precedenti linee economiche, fatte di tagli alla spesa pubblica (alcuni dei quali anche comprensibili), compressione dei salari e delle pensioni, politiche di privatizzazione, per giunta assolutamente irrealistiche, come ammettono tutti gli esperti e i commentatori più seri. La posizione di partenza del governo Tsipras, quella della insostenibilità del debito, per un paese portato al default già nel 2010 dalle forze politiche greche oggi pro-austerity e poi impossibilitato ad uscire da quella spirale a causa dalle politiche recessive volute dall’Unione europea a guida tedesca, è stato di fatto condivisa, soltanto dopo l’accordo però, addirittura dal Fondo Monetario Internazionale e da BCE di Mario Draghi, che pure non poco ha contribuito a stringere Tsipras all’angolo limitando al minimo sindacale la liquidità delle banche greche, e quindi strangolando di fatto il paese. Rispetto a questo drammatico quadro di rapporti di forza a livello europeo, Tsipras ha giocato la sua partita fino in fondo, con la scelta del referendum come estremo e coraggioso atto politico, per chiedere una inversione di rotta rispetto alla linea economica dell’austerità non solo per la Grecia ma per l’intera area dell’Eurozona. La scelta tra il sì e il no, presentata come opzione contro o a favore dell’euro dai media un po’ in tutta Europa, Italia compresa, era invece il tentativo di posizionare un voto popolare, mettendo in gioco la propria permanenza al governo, contro la presunta inevitabilità delle scelte tecniche in favore del pareggio di bilancio e del risanamento. Di rispondere cioè con la politica e un di più di democrazia ad organismi europei che sempre più si presentano come espressioni di visioni tecnocratiche che in realtà rispondono a precise scelte politiche, e tutelano e garantiscono corposi interessi sociali sempre più ristretti. La ragione della durezza delle proposte dell’eurozona a guida tedesca nasce dalla radicalità della sfida portata con il ricorso al voto popolare: non deriva da presunte necessità tecniche e tanto meno si basa su ragionamenti economici realistici, visto che renderà ancor più insostenibile il debito greco nelle attuali condizioni, ma mira a colpire e seppellire la proposta politica rappresentata dal governo greco guidato da Tsipras. Dato questo quadro, più che partecipare al giochino che talvolta affiora a sinistra su Tsipras traditore, Tsipras riformista, eccetera, mi sembra più utile ragionare sugli elementi politici che lo scontro lascia sul terreno. La vicenda greca ci conferma, proprio per il suo esito finale, l’impossibilità di una via solamente nazionale alla lotta dell’austerità. Non basta cioè vincere a quel livello per cambiare le cose, specie se si è in un piccolo paese, per giunta importatore e non esportatore. L’uscita dall’euro e il ritorno a monete nazionali colpirebbe, in prima istanza, in Grecia come altrove, le classi popolari e i ceti medi, come ha ricordato lo stesso Varoufakis, che pure ha cercato di renderla credibile come minaccia per la stabilità della moneta unica ma sempre al fine di ottenere un accordo migliore e quindi di restare nell’euro. Anche paesi con un più significativo apparato industriale volto all’esportazione come l’Italia, avrebbero problemi visto che la spinta inflazionistica dovuta al deprezzamento della nuova moneta sarebbe affrontata, stante l’attuale quadro dei rapporti di forza interni ed internazionali, con la compressione di salari, stipendi pubblici, pensioni. Il primo dato dunque è che non c’è un “altrove”, un “luogo altro”, in cui rifugiarsi per sfuggire al capitalismo mondiale nelle sue attuali forme. Da qui dovrebbe scaturire un’altra acquisizione di fondo: se da un punto di vista economico Varoufakis ha ragione, politicamente non si può che restare dentro e, al contempo, restare contro e continuare a combattere contro la presente organizzazione politica ed economica dell’Europa costruita intorno alla moneta unica, allargando lo spazio politico della contrapposizione a tali assetti. Peraltro l’attuale assetto dell’eurozona, come fanno notare molti osservatori, ma anche uomini politici persino provenienti dalla socialdemocrazia (vedi Fassina), è insostenibile non solo per la Grecia, ma anche per i grandi paesi indebitati (come Francia, Spagna ed Italia), le cui economie non possono reggere in queste condizioni mantenendo un minimo di benessere diffuso e senza spaccarsi internamente. La stessa economia tedesca lascia intravedere segnali di scricchiolio interni non ignorabili sul lungo periodo. Siamo dunque ancora dentro la crisi e la partita non è chiusa, anche se la sconfitta è stata pesante e rischia di togliere la speranza di ogni cambiamento da sinistra. Il problema principale resta però con che strumenti scegliamo di giocare questa sfida. Incredibilmente proprio la dimensione continentale della crisi è venuta mancata nella discussione, anche da parte della sinistra radicale. Non siamo stati capaci di spostare il piano del ragionamento dal salvataggio della Grecia alla più generale questione di una Europa mercantilistica a guida tedesca, costruita sulla disoccupazione di massa, i bassi salari, i lavori precari ed intermittenti, in cui le stesse retribuzioni dei lavoratori dipendenti in Germania sono inferiori alla produttività reale, per mantenere in piedi un sistema incentrato sulle esportazioni competitive dentro l’eurozona, salvo poi gridare contro chi si indebita in una situazione di scambio diseguale destinato a rimanere tale. Si può inoltre dire che è mancata, perché evidentemente non siamo stati ancora in grado di costruirla, una mobilitazione sociale europea che ragionasse in questa prospettiva, che ponesse cioè a livello europeo la questione della redistribuzione della ricchezza, di un nuovo Welfare, di un’occupazione dignitosa. Non c’è dunque ancora una sinistra “europea” intesa non come sommatoria di singoli partiti nazionali ma come un unico soggetto politico con una proposta complessiva su democrazia, economia, e diritti sociali; non c’è una dimensione europea delle mobilitazioni dei diversi movimenti sociali, le cui battaglie hanno senso ma anche efficacia solo se riescono a proiettarsi nell’orizzonte continentale. L’esperienza di Syriza al governo, con tutte le sue contraddizioni e le attuali divisioni, nel suo insuccesso nel rompere l’austerità paga anche questo isolamento di fondo e l’assenza di un soggetto politico e sociale, europeo transnazionale su cui contare, che è il vero nodo su cui ragionare. I richiami alle necessità “nazionali” delle economie dei diversi paesi europei, “tecnicamente” corretti, rischiano di porci su un piano di subalternità rispetto ai nazionalismi rinascenti e all’estrema destra che si richiama strumentalmente al popolo. Per uscire da questa stretta tra presunta tecnocrazia e nuovi fascismi non possiamo che ripartire dalla battaglia per la costruzione di una Europa politica e democratica attraverso un processo costituente dal basso che riproponga la sovranità popolare come base delle istituzioni economiche chiamate a gestire il mercato unico. Dovremmo rilanciare ed intestarci la battaglia per una costituzione europea, magari costruita dal basso, coinvolgendo pezzi di istituzioni, partiti politici, movimenti sociali, intellettuali. Dovremmo rilanciare la proposta di una mobilitazione sindacale che miri ad un rialzo generalizzato dei salari dei lavoratori dipendenti, a partire dalla Germania, partendo dal posizionamento di un pezzo delle strutture sindacali (vedi la Fiom in Italia). Dobbiamo portare la battaglia per il reddito di cittadinanza a livello europeo, promuovendo mobilitazioni che mirino ad inserirlo tra i parametri dei trattati. Invocare una diversa politica estera, volta all’apertura verso il Mediterraneo e il Medio-Oriente, partendo dalla dignitosa accoglienza dei migranti e dei profughi. È assolutamente vero che gli attuali rapporti di forza, sia politici che economici sono del tutto sfavorevoli, ma costruire una agenda politica adeguata è il primo passo per attivare ad una mobilitazione collettiva capace appunto di modificare gli assetti esistenti. Syriza, nel suo essere troppo avanti rispetto ad un quadro europeo, sul versante della sinistra antiliberista, drammaticamente indietro, può ancora insegnare molto. La sua capacità di contaminazione tra l’alto e il basso, tra il politico e il sociale, diventando soggetto politico maggioritario ed in grado di rappresentare una speranza per un interno paese rimane una esperienza preziosa su cui riflettere. Ovviamente molto dipenderà da come riuscire a gestire questo delicato passaggio, e dalla sua capacità di riaprire, magari non oggi, ma già domani uno spazio di messa in crisi dell’austerità nel cuore dell’Europa. La riconquista di questa possibilità non può avvenire però senza la costruzione di un soggetto politico capace di conquistarla nel cuore della società europea, mutando istituzioni ed assetti sociali. Questa la sfida ineludibile, da cui non ci si può sottrarre, che chiama in causa tutti noi dopo la crisi greca.? (*) Tommaso Baris insegna storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali - Dems dell'Università di Palermo. Si è occupato di storia sociale della guerra, fascismo e partiti politici nell'Italia repubblicana. Ha pubblicato tra l'altro libri i seguenti volumi: Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav (2003); Il fascismo in provincia (2007) e C'era una volta la Dc. Intervento pubblico e costruzione del consenso nella Ciociaria andreottiana (2013). Scritto da Lucia Pradella (*) 17 luglio 2015
La crisi economica mondiale scoppiata nel 2007/8 si sta abbattendo con particolare forza sull’Europa: la situazione greca ne è l’esempio più lampante. A livello europeo, la disoccupazione ha raggiunto percentuali record, i salari reali stanno diminuendo, le diseguaglianze sono alle stelle e gli attacchi alla classe lavoratrice si sono intensificati. Secondo dati Eurostat (che sottostimano ampiamente la situazione reale), nel 2013 circa novantadue milioni di persone, un quarto della popolazione dell’Europa occidentale, era a rischio di povertà e di esclusione sociale: 8 milioni e mezzo di persone in più che nel 2007. La tendenza è più allarmante nei paesi più colpiti dalla crisi come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, ma è in crescita anche nel Nord dell’Europa, Gran Bretagna e Germania comprese. Condizioni di povertà, precarietà e super-sfruttamento prima ritenute “tipiche” del Sud del mondo stanno diventato sempre più diffuse anche nei paesi ricchi dell’Unione Europea. La crisi e i suoi effetti in Europa - compresa l’Europa “ricca”, occidentale - hanno suscitato ampio dibattito, tanto sulle sue cause che sulle strategie da adottare in risposta. Uno dei limiti principali di questo dibattito è che spesso si è concentrato sulla crisi in Europa senza considerare in modo organico la sua dimensione strutturale e internazionale. Il punto è che questa non è una “crisi europea”: è una crisi internazionale del sistema capitalistico. Nonostante i vari segnali di ripresa, inoltre, questa crisi non è una parentesi temporanea che a un certo punto si chiuderà con il ritorno dei “bei vecchi tempi” andati. No, questa crisi manifesta una tendenza strutturale verso l'impoverimento, e dipende da profonde dinamiche economiche e geopolitiche. La crisi di profittabilità di metà anni Settanta ha fatto emergere con ancor maggiore evidenza il carattere strutturale e internazionale dell’impoverimento. Ha mostrato che, come Marx afferma con forza nel Capitale, l’impoverimento non è una conseguenza di un mancato sviluppo, ma è il risultato dello sviluppo stesso dei rapporti di produzione capitalistici alla scala mondiale. Le politiche neoliberiste che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno imposto ai paesi del Sud del mondo e dell'ex blocco “sovietico” hanno causato l’impoverimento di ampi settori popolari, determinando un drammatico aumento della povertà globale (confermato dalla Banca Mondiale stessa). In quasi tutti i paesi del mondo, la quota dei salari rispetto al PIL è diminuita. Nella maggioranza dei paesi del Sud del mondo e dell’Est Europa, fatta l’eccezione della Cina, a ciò si è sommata la diminuzione dei salari reali e l’aumento della povertà estrema. Questo è avvenuto almeno fino all’inizio degli anni 2000, quando i movimenti di resistenza – dal Sud America all’Asia – hanno iniziato a mettere in discussione l’ordine neoliberista e neocoloniale. Guardiamo a qualche cifra. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, d’ora in poi ILO), quello che Marx avrebbe chiamato l’esercito industriale di riserva (in cui sono compresi anche i piccoli contadini impoveriti) è oggi composto di circa 2,4 miliardi di persone, ed è circa l’80 per cento più numeroso del numero complessivo di lavoratori salariati (1,4 miliardi). Nel 2010, l’ILO stimava che ci fossero circa 942 milioni di lavoratori poveri – quasi un terzo della forza-lavoro globale attiva – che vivevano sotto la soglia di 2US$ al giorno. Tali processi d’impoverimento hanno avuto come corollario un crescente sfruttamento dei lavoratori occupati. Potevamo davvero pensare che tali trasformazioni non incidessero sulle condizioni di lavoro e di vita nei centri dell’imperialismo mondiale? La domanda può sembrare retorica, ma vale la pena di porla in ogni caso. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica della vera, epocale trasformazione che ha avuto luogo nel periodo neoliberista: la globalizzazione della produzione industriale. Il processo di ristrutturazione internazionale della produzione industriale ha messo fine al monopolio industriale dei paesi occidentali, minando la divisione del lavoro (di origine coloniale) tra paesi industrializzati del Nord e produttori di materie prime nel Sud. Secondo l’ILO, dalla metà degli anni 1970 la forza lavoro industriale nel Sud ha rapidamente superato quella nel Nord, fino al punto che quasi l’80 per cento della forza lavoro industriale oggi vive nel Sud del mondo, rispetto al 34 per cento nel 1950 e 53 per cento nel 1980. Riducendo i costi di transazione all’interno dell’UE ed eliminando le incertezze dei tassi di cambio, l'euro ha facilitato l’internazionalizzazione del capitale europeo e la delocalizzazione produttiva verso i paesi a basso salario dell’Europa dell’Est e, sempre più, dell’Asia. Questi processi hanno determinato una progressiva concentrazione della produzione ad alta intensità di capitale e di servizi (finanziari e non) nel nord dell’UE, e una concentrazione della produzione a bassa intensità di capitale nel Sud. In seguito all’entrata della Cina nel WTO nei primi anni 2000, l'UE-15 ha perso costantemente quote di mercato nei confronti dei BRIC, in particolare la Cina. L'UE si trova ad affrontare una crescente pressione concorrenziale non solo nella produzione a basso contenuto tecnologico, ma anche in quella ad alto contenuto tecnologico. Ecco perché non è sufficiente guardare ai cosiddetti “costi del lavoro” all'interno dell'UE-15 e prendere il costo del lavoro in Germania come pietra di paragone, com’è stato fatto in molti dibattiti sulla crisi, anche a sinistra. Vari studi hanno mostrato che se ampliamo la gamma dei paesi considerati come concorrenti, il deterioramento della competitività del settore industriale in Europa è ancora maggiore (per esempio: Cambridge Econometrics 2011). Questo è uno dei motivi per cui, dopo un calo iniziale dopo il 2007, gli investimenti esteri dall'UE-15 si sono spostati verso i mercati emergenti, Cina in primis. Secondo l'UNCTAD, per la prima volta nel 2010 le “economie in via di sviluppo” hanno assorbito quasi la metà dei flussi d’investimenti esteri a livello mondiale. Questi processi colpiscono i lavoratori in tutta l'UE-15, in particolare quelli degli Stati del Sud dell’UE, paesi che sono bloccati a un livello medio di tecnologia e sono sempre più in concorrenza con i mercati emergenti. Questa prospettiva ci permette di comprendere perché la crisi sta colpendo così duramente il settore industriale (a livello UE, circa 4 milioni di posti di lavoro industriali sono stati persi tra il 2008 e il 2012, circa il 12 per cento dell’occupazione industriale); e perché colpisce i paesi europei in modo così differenziato. Ma c’è un altro punto centrale che emerge con chiarezza. Le feroci misure di austerità imposte dalla Troika non sono assurde o irrazionali. Non mirano tanto a ridurre il debito e la spesa pubblica in quanto tali, ma puntano a sostenere la competitività e la profittabilità del capitale riducendo la spesa sociale e smantellando i sistemi di contrattazione nazionale. È per questo che l’Unione Europea sta intervenendo nella legislazione sociale degli stati membri, soprattutto di quelli più indebitati, imponendo piani di riforma strutturale che molti paragonano, non senza qualche esagerazione, a quelli imposti al Sud del mondo e all’Est europeo. Ma anche nei paesi in apparente ripresa, le politiche di austerità stanno facendo crescere la precarietà e l’impoverimento dei lavoratori. A tutto questo si aggiunge un ulteriore generale inasprimento delle politiche contro gli immigrati e del razzismo di stato. L’obiettivo complessivo dell’UE e dei vari governi è smantellare le forme esistenti di solidarietà sociale e di organizzazione sindacale, atomizzando e dividendo ancor di più la classe lavoratrice. Solo in questo modo, infatti, l’Unione Europea può mantenere la sua posizione nel gruppo degli stati imperialisti. È per questo che la Troika si sta dimostrando così inflessibile con le richieste del governo Syriza-Anel e del popolo greco. Per continuare indisturbati nel loro massacro sociale, il capitale europeo, la Troika, devono dare una lezione esemplare ai lavoratori in Grecia, “colpevoli” di aver alzato la testa e di aver detto no. Con loro, la Troika vuole ammonire i lavoratori in tutta l’Europa, in particolare in un contesto di ripresa della conflittualità che dalla Spagna si sta allargando (in qualche misura) anche alla Germania. Come risponderanno i lavoratori nel resto dell’Europa? (*) Lucia Pradella è Research Associate alla School of Oriental and African Studies, University of London, e insegna economia del welfare all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È l’autrice dell’Attualità del Capitale (2010) e di Globalization and the Critique of Political Economy (2015), e co-curatrice di Polarizing Development (2014). Ha pubblicato di recente articoli sui lavoratori poveri in Italia, Gran Bretagna e Germania su Comparative European Politics, e su crisi e immigrazione in Europa in Competition & Change. MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
10/7/2015
Scritto da Giovanni Di Benedetto 10 luglio 2015
Belligerent ghouls Run Manchester schools Spineless swines Cemented minds Sir leads the troops Jealous of youth Same old suit since 1962 He does the military two-step Down the nape of my neck I want to go home The Smiths – The Headmaster Ritual Il progetto renziano della “buona” scuola è legge. In questi giorni si sono consumati gli ultimi passaggi di una vicenda drammatica e grottesca al tempo stesso. Dopo la fiducia al Senato, il ddl, in un unico articolo, è tornato in seconda lettura a Montecitorio. Quello che era stato sbandierato, nell’estate agostana dello scorso anno, come un grande momento di partecipazione democratica, si è tramutato farsescamente nel suo contrario e, seppur di fronte ad un inedito movimento di opinione pubblica palesemente contrario alla proposta dell’esecutivo, il governo ha operato secondo criteri tutt’altro che democratici e rispettosi del dettato costituzionale. Non so se è ancora il caso di entrare nel merito dei singoli passaggi del dispositivo legislativo approvato alla Camera. L’acutezza di molte analisi e la copiosità delle controproposte rende vana qualsiasi ulteriore aggiunta. Può essere più interessante provare a collocare il provvedimento sulla cosiddetta “buona” scuola all’interno di un quadro politico nazionale (e internazionale) caratterizzato da una crisi politico-istituzionale ed economica, nel nostro Paese, sempre più profonda e irreparabile. Proverò ad andare per flash: alcune settimane fa, sull’Huffington Post, Gianni Rossi osservava come fosse drammaticamente dilacerato il tessuto democratico del paese, denunciando la voragine sempre più profonda che separa il mondo del disagio sociale dal mondo barricato nei palazzi della politica. Da qui, oramai, l’esistenza, in Italia, di un’unica forma di opposizione presente sulla scena politica elettorale, quella del “Popolo dell’astensione”. Che l’astensionismo l’abbia fatto da padrone, lo dimostra il dato generale delle ultime consultazioni elettorali (ha votato il 53,90% dei cittadini rispetto al 64,13% del 2010), omogeneo in tutte le regioni. Scrive ancora Gianni Rossi: “i numeri del disagio sociale sono implacabili, la disoccupazione è oltre il 13%, quella giovanile ha raggiunto il picco storico del 43%, mentre nell’area Euro questi due indici sono rispettivamente all’11,3% e al 22,7%. Sono ben oltre 6 milioni i disoccupati, comprendendo i 3,2 milioni (ultima Relazione annuale Bankitalia), cioè quelli “espulsi” dal lavoro e coloro che lo cercano, insieme ai circa 3,7 milioni di Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), ovvero giovani tra i 15 e i 34 anni, che secondo gli ultimi dati Istat sono fuori da scuole secondarie o università, non hanno un impiego né lo cercano e non sono impegnati in attività assimilabili (stage o lavori domestici). Da tutti questi fattori nasce l’odierno astensionismo disperato, che coinvolge classi sociali una volta anche economicamente forti (ceto medio produttivo, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori), cui si aggiungono gli altri strati tradizionalmente colpiti dalle crisi, come operai, pensionati, donne e abitanti del Mezzogiorno”. La crisi di profittabilità e di accumulazione si riverbera sui livelli più bassi della società: disoccupazione, povertà, precarietà. Aumentano le disuguaglianze sociali e le disparità salariali mentre, come riconosce lo stesso presidente dell’Inps Tito Boeri, il reddito del 10% più povero della popolazione si è ridotto del 30%. È naturale che di fronte alla crisi vi sia una crescita del malcontento e delle proteste. È proprio da qui che si deve partire per indagare le risposte offerte dalle classi dirigenti che hanno formulato il progetto sulla “buona” scuola. Innanzitutto, una progressiva e sempre più evidente restrizione degli spazi di democrazia. Ripeto, l’astensionismo alle recenti elezioni regionali ne è soltanto l’ultimo esempio. Diventa addirittura secondario stabilire chi ha vinto e chi ha perso. Come sempre, nel nostro paese, ognuno trova ragioni per evidenziare aspetti del proprio presunto successo. Ma il vero campanello d’allarme è costituito dalla imponente diserzione dalle urne che fa il paio con l’esercizio di forme di autoritarismo populistico di cui Renzi è soltanto l’ultimo epigono. A fronte di un disagio che può potenzialmente trovare espressione in forme di opposizione politica ampie e sempre più organizzate, l’establishment restringe gli spazi, per quanto angusti, della democrazia rappresentativa e del controllo partecipato. In questo quadro, la “buona” scuola gioca un ruolo strategico e riveste una centralità risolutiva visto che la posta in gioco è la “formazione” di teste ben fatte, per dirla con Morin, ossia di cittadini dotati di pensiero critico e di autonomia culturale piuttosto che di soggetti passivi e omologati agli indirizzi del potere. In questo senso la scuola di Renzi ricorda fin troppo bene la “scuola fascista” del Ventennio, per come ce l’hanno illustrata qualche anno fa in un magistrale libriccino recante questo titolo, i due autori, Gianluca Gabrielli e Davide Montino. Dall’altro lato, la crisi offre l’occasione per ricercare nuovi ambiti di “intrapresa” a partire dai quali esercitare la ricerca del profitto: l’istruzione, come l’acqua o la gestione del ciclo dei rifiuti, rientra in questo ambito. Il disegno è chiaro: solo diminuendo l’efficacia, l’incisività e la forza dell’istruzione pubblica può decollare l’affare delle scuole private. L’operazione di immiserimento della prima è condizione sine qua non della seconda. Del resto, nel mondo occidentale gli esempi non mancano: distruggere la scuola pubblica negli Usa è stato l’obiettivo di chi ha voluto sistematicamente ostacolare obiettivi di promozione sociale e di integrazione etnica e culturale. In un articolo-inchiesta di “Aeon”, magazine online britannico, nell’Aprile di quest’anno lo scrittore Dwight Watkins racconta la violenza e il degrado delle scuole medie pubbliche di Baltimora e scrive: “nel 2015 a Baltimora chiuderanno altre scuole a causa della proposta di Larry Hogan, il governatore repubblicano del Maryland, di ridurre di 35 milioni di dollari le spese per le scuole pubbliche della città. Ma il problema non riguarda solo Baltimora. A Filadelfia ci sono scuole che ospitano fino a cinquanta studenti per classe e sono piene di topi. Spesso sento qualcuno lamentarsi che le nostre scuole sono in rovina. Ma è proprio così? Le nostre scuole sono in rovina oppure il sistema funziona esattamente come vorrebbero le persone che lo hanno creato?” Watkins infine si chiede: “se le scuole sembrano prigioni e le prigioni sembrano scuole, ci comporteremo come studenti o come detenuti?” Il problema è che nonostante la propaganda sulla “buona” scuola, ossia su una presunta scuola di qualità, sembra che il sistema vada in tutt’altra direzione. E non si tratta soltanto degli effetti devastanti sui docenti, con conseguenze nefaste sul reclutamento e sulla retribuzione, e sulle scuole, con prevedibili ripercussioni sul sistema di finanziamento e di scelta da parte degli studenti. Più in generale, è il retroterra culturale che prepara il campo all’intervento della “buona” scuola che occorre continuare, nonostante tutto, a mettere radicalmente in discussione. È la visione del mondo improntata sulla necessità di valorizzare il capitale umano, imperniata sul bisogno di rendere la scuola produttiva, efficiente e competitiva, insomma centrata sull’idea rozza e superficiale che il funzionamento di un’azienda privata, comandato da un esasperato efficientismo, e quello che presiede ai sofisticati e complessi meccanismi della costruzione e della trasmissione del sapere siano la stessa cosa. Tutto ha una logica: la “buona” scuola risponde al fine di organizzare la subordinazione della società al mercato, ossia ad uno spazio, quello dell’economia, nel quale tutto viene ridotto a merce. Tuttavia, occorre continuare a resistere e tentare di lavorare all’elaborazione, nelle scuole, di una cultura della ricerca pedagogica fondata sulla collegialità, su meccanismi di partecipazione democratica che rendano tutti i docenti protagonisti della costruzione dei percorsi didattici nei quali i meno attrezzati e preparati possano essere coinvolti in un proficuo scambio di idee, proposte e soluzioni, in vista di una società fondata su criteri altri, magari relativi alla centralità del soggetto e della sua identità in perenne mutamento e ricomposizione. Mi piace chiudere queste riflessioni ricordando Michel Serres, che esortava a resistere non solo alle droghe narcotiche, ma soprattutto alla chimica sociale, di gran lunga la più forte e dunque la peggiore. Resistete, resistiamo ancora, ai media, ai modi conformisti che dicono sempre la stessa cosa e, come il flusso dell’influenza, tutti discendono insieme la china generale. By Riccardo Bellofiore
The documentary by Terry Jones (member of Monty Python, director of many of the group's films and responsible for their “visual” style) and Theo Kocken (economist, professor of Risk Management for Institutional Investors at the VU University of Amsterdam), Boom Bust Boom, was shown in Bergamo on May 18th, the national premiere, in a screening reserved for students and staff at the University of Bergamo. These are some first impressions on seeing the film, requested from me by Marco Palazzotto (and I am indebted to Marco and Angelo of PalermoGrad for my initial contact with the producers of the film). They are a summary of comments I made in the debate with L. Randall Wray after the screening, which can be watched here. The film has much to praise it and without doubt will become a classic of the 2007-8 crisis (which many, perhaps almost everyone, continues to call the 2008 crisis), on a par with the Inside Job. It has perfect rhythm, is visually effective and its ironic tone works well from start to finish: it is also a perfect didactic instrument. It will be enough to relate two lines from the film. One is by Irving Fisher, the theorist perhaps most well known for his quantitative theory of money: in September 1929 he claimed that the price of securities had reached a high plateau, where it would comfortably sit in the coming years; the devastating rebuttal came within a month. Fisher nonetheless regained respect in 1933 by publishing a now classic article on debt deflation as a fundamental characteristic of financial crises. The other line is from Paul Mason, the radical British journalist, who believes that little remained of dominant economic theory after the crisis: which unfortunately is only true conceptually, and not practically. It is quite likely that this permanent ability of dominant theory to survive as a zombie goes along with the categorical and political fragility of the alternative economic theories. But the quality and quantity of interviews is noteworthy. Paul Krugman, James Galbraith, Steve Keen, Andy Haldane, John Cassidy, Steve Kinsella are just some of the names: some will be surprised to also find important voices such as that of the actor John Cusack, engaged with this among other matters. Above all, the film features the crucial presence of two “puppets”, brought back to life after the crisis, John Kenneth Galbraith and Hyman Philip Minsky: do not miss the dialogue with his son Alan (Minsky's puppet was transported from England as a paying traveller; and finding Minsky's last office at the Levy Economics Institute too modest, Jones decided that the conversation with Alan ought be filmed in a library in Manhattan). Here, nonetheless, are the film's limitations. The interpretation of Minsky's theories provided is the most widely acknowledged, but erroneous (notwithstanding Charles Kindlerberger's authoritative legacy): that of the alternation between prosperity and depression across “bubbles” as psychological, shifting between euphoria and panic (as, indeed, the first edition of his history of financial crises was called in the 1960s). Wray is right: we have not seen so much a Minsky “moment”, but rather one which has been half a century long. Consequently, we need to search for a more structural interpretation. And actually another, more interesting, Minsky exists, despite the importance maintained for his hypothesis on financial instability (which nonetheless, it must be said, in the canonical account, provides no explanation of the dotcom crisis, nor the subprime crisis and everything that followed). The other Minsky is the one who revived a Marxian vision of long cycles from his teacher (and first supervisor) Schumpeter, as well as from a certain reading of Keynes, and inserted this into a reading of financially developed capitalist economies based on the intersections of different agents' balance sheets. This should come as no surprise: not only was Minsky a son of two “socialists”, and himself a member of the American Socialist Party, he also defined Keynes and Schumpeter as “conservative Marxists”. From this derived his reading of the new capitalism as “money manager capitalism” (and which I qualify as the capitalism of the real subsumption of labour under finance and debt). Hence his proposal to combine ‘New Deal’ policies and Keynes in a “socialising” renewal of investment and the entire economy. Minsky saw very well that the crisis of so-called Fordism had began not in the middle of the 1970s, but already in the mid-1960s. And the capitalism which followed it was, again as Minsky saw quite clearly, a (very brief) monetarist reaction which died in 1982. What followed this in turn was not a capitalism which returned to the free market, but rather that reconstruction of subjectivity from on high which we incorrectly call Neoliberalism. Capitalism emerged from it ready to fight the depressive tendency within it, and to have a relatively vibrant dynamic, that which I have called elsewhere “privatised and financialised Keynesianism”. The reasons for its crises must be identified in the contradictions of the ascending phase, and therefore in the novelty of the relation between finance and production, a relation which for the most part eludes so-called heterodox economics. Instead of beginning from demand and distribution, as it does, such economics should start with finance and production (as Paul Sweezy and Augusto Graziani knew all too well). Two themes emerge in the final part of the film. The first is an explanation of the crises in terms of the natural tendencies of human beings: the point becomes to “broaden” and “complicate” that anthropological vision provided by typical dominant economy (something which is, as Wray effectively put it at Bergamo, “impossible”). To me this thesis seems not just a little limited but basically wrong. It is a kind of inversion of the Marxian thesis. For Marx, capital has a “fetish character”, and this fetish really does have (powerful) social characteristics in determinate historical conditions: it is not actually an illusion; while “fetishism” is quite another thing, i.e. that which attributes social characteristics to things like natural elements. In the film, again, the crisis is attributed to an unchanging nature of human beings, only that they are not quite as “banal” as we have been told. I think that one ought rather to start not from the individual or from human beings as such, but from a “holistic” vision of the capitalist system, characterised fundamentally by relations of class and money. The other theme to which I alluded is that of teaching economics. At the end of the film there is a series of interviews with some students who are part of the Rethinking Economics movement and various other initiatives for pluralism in economics (a small group of which, based in Bergamo, attended the premiere). To me, the demand for “pluralism” seems weak. The point isn't to make other voices heard, and then leave the students to choose: that way the mainstream will always win. The point is entirely different, namely that the dominant positions are wrong. The point ought be about reclaiming the plural nature, not pluralism, of economic theory: that is something else entirely. Keynes against Marshall, Schumpeter against Walras, Marx against Ricardo, each attributing to the other the “role” of antagonist to the claims of their own theory, nominating the candidate to fill the post of new orthodoxy. This is the battle. And in this battle, today, alternative economic thought is very weak, on the theoretical as much as political terrain. (translated by Richard Brodie) Scritto da Riccardo Bellofiore(*) 1° luglio 2015
Il film-documentario di Terry Jones (uno dei Monty Python, regista di molti film del gruppo e responsabile del loro stile “visuale”) e Theo Kocken (economista, docente di Risk Management for Institutional Investors alla VU University di Amsterdam), Boom Bust Boom, è stato proiettato a Bergamo lo scorso 18 maggio, in anteprima nazionale, in una proiezione riservata agli studenti e al personale dell’Università di Bergamo. Queste sono le prime impressioni dopo la visione del film-documentario, richiestemi da Marco Palazzotto (allo stesso Marco e ad Angelo di PalermoGrad debbo lo stimolo iniziale e il contatto con i produttori del film). Riprendono in forma sintetica ciò che dissi al dibattito che dopo la proiezione ha coinvolto anche L. Randall Wray, e che si trova on line, naturalmente in inglese, a questo indirizzo. Il film ha molti pregi e diventerà senz’altro un classico sulla crisi del 2007-2008 (che pure molti, forse quasi tutti, continuano a chiamare la crisi del 2008), al pari di Inside Job. Ha un ritmo perfetto, ed è visivamente efficace e felice nell’ironia che lo pervade da capo a fondo: anche solo per questo un ottimo strumento didattico. Basti ricordare due battute che si trovano nel film. Una è di Irving Fisher, il teorico forse più noto della teoria quantitativa della moneta: nel settembre 1929 sostenne che il prezzo dei titoli aveva raggiunto un elevato plateau, dove sarebbe comodamente rimasto negli anni a venire; la smentita devastante giunse in un mese. Fisher in qualche modo si rifece l’onorabilità nel 1933 pubblicando un articolo ormai classico sulla deflazione da debiti come caratteristica della crisi finanziaria. L’altra frase è di Paul Mason, giornalista britannico molto radicale, e ricorda come la teoria economica dominante sia uscita a pezzi dalla crisi: il che purtroppo, benché sia vero concettualmente, non lo è praticamente. E probabilmente a questa permanente capacità della teoria dominante di sopravvivere come uno zombie non è estranea la fragilità categoriale e politica delle teorie economiche alternative. Ma la qualità e quantità di interviste è notevole. Paul Krugman, Jamie Galbraith, Steve Keen, Andy Haldane, John Cassidy, Steve Kinsella sono solo alcuni nomi: qualcuno si stupirà di trovarci una voce importante come quella dell’attore John Cusack, impegnato su questo e altri fronti. Il film vede soprattutto la presenza cruciale di due “pupazzi” ritornati di attualità dopo la crisi. John Kenneth Galbraith e Hyman Philip Minsky: da non perdere il dialogo con il figlio Alan (il pupazzo di Minsky venne trasportato dall’Inghilterra come viaggiatore pagante; e trovando troppo modesto l’ultimo ufficio di Minsky al Levy Economics Institute, Jones ha deciso che il dialogo con Alan andasse videoripreso in una biblioteca di Manhattan). Qui però cominciano i limiti del film. La lettura delle tesi minskiane è la più diffusa, ma sbagliata, nonostante l’autorevole discendenza da Charles Kindlerberger: l’alternanza che porta dalla prosperità alla depressione attraverso le “bolle” sarebbe psicologica, quella di euforia e panico (come in effetti si intitolava negli anni Settanta la prima edizione della sua storia delle crisi finanziarie). Ha invece ragione Wray: non abbiamo vissuto un Minsky “moment”; si tratta semmai di un momento lungo mezzo secolo. Bisogna dunque cercare una lettura più strutturale. E in effetti il Minsky più interessante, nonostante il rilievo che pure mantiene la sua ipotesi della instabilità finanziaria (che però, va detto, nel suo modello canonico non dà conto né della crisi delle dotcom né di quella dei subprime e ciò che ne è seguito), è un altro. È il Minsky che dal suo maestro (e primo supervisor) Schumpeter, e da un certo Keynes, recupera una visione marxiana dei cicli lunghi, e la inserisce in una lettura delle economie capitalistiche finanziariamente sviluppate fondata sulla intersecazione degli stati patrimoniali degli agenti. Non c’è da stupirsi: non solo Minsky era figlio di due “socialisti”, e fu egli stesso iscritto all’American Socialist Party; definiva anche Keynes e Schumpeter “conservative Marxists”. Di qui esce la sua lettura del nuovo capitalismo come money manager capitalism (e che io qualifico come il capitalismo della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito). E di qui la sua proposta in positivo di coniugare New Deal e Keynes in una rinnovata “socializzazione” dell’investimento e dell’economia tutta. Minsky ha visto bene che la crisi del c.d. fordismo è iniziata non a metà anni Settanta, ma già a metà anni Sessanta. E’ un capitalismo a cui è seguita, come ben vedeva Minsky, una (molto breve) reazione monetaristica, morta nel 1982. Quello che ne seguì non è un capitalismo di ritorno al libero mercato, semmai di una costruzione dall’alto delle soggettività in quello che chiamiamo impropriamente neoliberismo. Ne è venuto fuori un capitalismo in grado di combattere le tendenze depressive al suo interno, di avere una sua relativamente vivace dinamica, quello che altrove ho chiamato keynesismo privatizzato e finanziario. Le ragioni della sua crisi vanno individuate nelle contraddizioni della fase ascendente, e dunque nelle novità del rapporto tra finanza e produzione, che sfuggono a gran parte della stessa economia c.d. eterodossa. Invece di partire da domanda e distribuzione, come fa quest’ultima, si deve partire da finanza e produzione (come ben sapevano Sweezy e Graziani). Nella parte finale del film emergono due temi. Il primo è quello di una riconduzione della crisi a tendenze naturali dell’essere umano: il punto sarebbe dunque quello di “allargare” e “complicare” la visione antropologica tipica dell’economia dominante (il che è, come ha detto efficacemente a Bergamo Wray, semplicemente “impossibile”). Mi pare questa una tesi non poco limitata e in fondo profondamente sbagliata. È una sorta di inversione della tesi marxiana. Per Marx il capitale ha un “carattere di feticcio”, e questo feticcio è davvero dotato di (potenti) proprietà sociali in determinate condizioni storiche: non si tratta affatto di una illusione; tutt’altra cosa è il “feticismo”, l’attribuire tali proprietà sociali alle cose quali elementi naturali. Nel film, di nuovo, la crisi è attribuita alla natura invariante dell’essere umano, solo che essa non sarebbe così “banale” come ci viene raccontata. Credo che si debba invece partire non dall’individuo o dall’essere umano in quanto tale, ma da una visione “olistica” del sistema capitalistico come caratterizzato alla sua base da relazione di classe e monetarie. L’altro tema a cui alludevo riguarda l’insegnamento dell’economia. Al termine del documentario sono intervistati una serie di studenti che fanno parte dei movimenti Rethinking Economics e delle varie iniziative per il pluralismo in economia (vi era un piccolo raggruppamento bergamasco presente alla prima). La richiesta di “pluralismo” mi sembra debole. Il punto non è far sentire altre voci, e lasciare poi che gli studenti scelgano : vincerà sempre il mainstream. La questione è tutt’altra, ossia che le posizioni dominanti sono sbagliate. La questione è rivendicare la natura plurale, non il pluralismo, della teoria economica: che è tutt’altra cosa. Keynes combatte Marshall, Schumpeter combatte Walras, Marx combatte Ricardo, tutti riconducendo l’antagonista a “parte” della propria teoria rivendicata più generale, e candidata come nuova ortodossia. La battaglia è questa. E in questa battaglia, oggi, la teoria alternativa è debolissima, in teoria come in politica economica. . (*)Riccardo Bellofiore è Professore di Economia Politica al Dipartimento di Scienze Economiche ‘Hyman P. Minsky’ dell’Università di Bergamo, dove insegna Economia Monetaria, Storia dell’Economia Politica e International Monetary Economics. Gli interessi di ricerca includono la teoria marxiana del valore e della crisi, le tendenze del capitalismo contemporaneo, gli approcci endogeni alla moneta, la filosofia dell’economia. Fa parte del Comitato Scientifico dell'edizione italiana delle Opere Complete di Marx ed Engels e dell'International Symposium on Marxian Economic Theory. Oltre ad una monografia su Claudio Napoleoni (Unicopli 1991), ha curato, tra gli altri, volumi su Sraffa (Angeli 1986), von Mises (ESI 1999), Marx (Macmillan 1998, Palgrave 2004 e 2009; manifestolibri 2007; Città del Sole 2009, Editori Riuniti 2009), Luxemburg (Routledge 2009), l'operaismo (Edizioni Alegre 2008), Minsky (Elgar 2001; Bollati Boringhieri 2009), la globalizzazione (BFS 1998; Elgar 1999, Feltrinelli 2002). Ha collaborato a varie riviste, tra cui Quaderni Piacentini, Primo Maggio, Unità Proletaria, Metamorfosi, l’Indice dei libri del mese, Nuvole, Altre ragioni, Vis-à-Vis, la rivista del manifesto, Critica Marxista, Alternative per il socialismo, l’Ospite Ingrato. Con Giovanna Vertova tiene la pagina Facebook Economisti di classe. |
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