C'ERA UNA VOLTA IN GRAN BRETAGNA
29/6/2021
di Vincenzo Scalia
La pandemia, combinandosi con la Brexit, sta sconvolgendo in profondità gli assetti socio-culturali del Regno Unito. Alla base di questo sconvolgimento troviamo le trasformazioni socio-economiche dell’ultimo mezzo secolo, che hanno esercitato un’influenza ben rilevante sugli assetti socio-culturali britannici. Sul piano economico, l’esodo dei 4 milioni di lavoratori europei, appena iniziato, potrebbe risultare disastroso per l’economia d’Oltremanica. Fin quando il Regno Unito era parte dell’Unione Europea, i lavoratori UE si sentivano garantiti sotto il profilo della libertà di movimento e di residenza, che, più degli stipendi competitivi, ammortizzavano la distanza dai luoghi d’origine, consentendo periodici rientri a casa. Dal canto suo, il Regno Unito poteva usufruire di una manodopera iper-qualificata: accademici, medici, infermieri, designers, professionisti della ristorazione, ma anche accountants - ovvero i commercialisti - supplivano a un vuoto occupazionale che sconta un’istruzione superiore deficitaria. E di fatto sin dalla fine degli anni Ottanta gli Italiani in possesso di un mero diploma di ragioneria quando approdavano a Londra e dintorni, riuscivano facilmente a inserirsi nella nicchia degli accountants, lavoro per il quale non esisteva, e non esiste, un vero e proprio diploma. Gradualmente anche chi era in possesso delle altre professionalità sopraccitate, oltre a chi disponeva di capitali da investire nella moda e nell’industria dell’intrattenimento, veniva accolto dal Regno Unito. Londra invece delocalizzava i suoi pensionati, principalmente in Spagna e in Grecia, mentre dal secondo dopoguerra, la manodopera più qualificata in eccesso di origine britannica, infoltisce le schiere dei cosiddetti ten pounds poms, ovvero i cittadini britannici che scelgono di emigrare in Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Canada, chiamati cosi perché nel dopoguerra il viaggio oltremare costava dieci sterline, erogate dal governo. Oltre 5 milioni di cittadini del Regno Unito, dal 1947 in poi, hanno scelto la strada dell’emigrazione. In altre parole, si era creato un delicato equilibrio socio-economico tra il Regno Unito, i paesi del Commonwealth e l’Unione Europea, che consentiva all’ex potenza coloniale di avvalersi di manodopera internazionale, dotata di gradi diversi di qualifiche, a buon mercato, e, allo stesso tempo, di contenere i costi del welfare e di governare le tensioni sociali. Lo si vide negli anni Ottanta, quando il governo di Margaret Thatcher diede vita alla più grossa ristrutturazione economica del dopoguerra, cancellando per certi versi tre secoli di patrimonio industriale. Fu proprio l’importazione di manodopera dall’estero, priva di memoria storica e di legami coi lavoratori locali, a evitare la degenerazione delle tensioni sociali. I muratori afrocaraibici, gli shopkeepers indiani cacciati da Uganda e Tanzania, gli accountants italiani, non avevano nulla in comune coi portuali di Liverpool, i minatori dello Yorkshire e i lavoratori delle acciaierie di Sheffield. I cittadini dell’Unione Europea – non infrequentemente affluiti Oltremanica a rimorchio della controcultura punk, squatter e skinhead - erano travasati di buon grado nella new economy blairiana, fungendo da calamita che richiamava altri loro concittadini. Sotto l’egida della crescita post-industriale, si era creata una nuova società multiculturale, che ricalcava le orme della Gran Bretagna che fin dal XVI secolo aveva accolto ugonotti francesi, ebrei, patrioti italiani e dell’ex-impero asburgico, e aveva formato le élites politiche anti-coloniali che avevano contribuito a smembrare l’Impero. L’accordo del Venerdì Santo, siglato con gli indipendentisti irlandesi, sembrava avere sanato un’ennesima frattura della società britannica, con le 26 contee che si avviavano a diventare la tigre celtica e i cattolici delle sei contee integrati nel power sharing avallato da Downing Street sotto la pressione degli americano-irlandesi di Washington. La crisi del 2008 ha rappresentato lo spartiacque per la società britannica, con il multiculturalismo della new economy che ha trascinato a fondo la proverbiale tolleranza d’Oltremanica. Con l’Irlanda diventata l’hub delle multinazionali hi-tech in Europa, la manodopera impiegata nell’edilizia è stata tratta da paesi dell’est come Romania e Polonia, suscitando un certo sciovinismo non soltanto tra i lavoratori britannici di origine autoctona, ma anche in mezzo alla manodopera afrocaraibica e agli shopkeepers indiani, di colpo scalzati da polacchi e romeni. Inoltre gli attentati islamici verificatisi a partire dal luglio del 2005, a cui hanno fatto seguito quelli di Westminster del 2017 e quelli di Manchester 2019, hanno fomentato il risentimento anti-islamico. Anche quest’ultimo, tuttavia, ha seguito “canali” europei. Come i polacchi e i romeni sono accusati di togliere lavoro ai britannici, così un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea veniva visto come un fattore di potenziale pericolo, perché, come dicevano i volantini dell’UKIP durante la Brexit, rischiava di introdurre nel Regno Unito 80 milioni di musulmani (sic!). Il risentimento anti-europeo si è diffuso rapidamente in Inghilterra, laddove Scozia e Galles hanno canalizzato la loro frustrazione per la crisi economica in direzione di un indipendentismo che si traduce, nel Galles, nella creazione di canali preferenziali per chi parla il Cymraeg, ovvero la lingua gallese, conosciuta solo da una vera e propria nicchia della popolazione gallese. La Brexit si connota quindi come una reazione al malessere provocato dalla crisi economica del 2008, che ha mostrato la fragilità del progetto thatcheriano-blairiano di sostituire per intero il settore manifatturiero coi servizi, oltre a disvelare come, sotto la coltre di un multiculturalismo tanto sbandierato, si celassero in realtà un’acuta segmentazione sociale e un forte scollamento culturale, tra le cui pieghe covavano risentimenti che non avrebbero tardato ad assumere un risvolto conflittuale. D’altra parte, la cifra della tolleranza britannica è sempre stata quella di un’integrazione al di qua della soglia dell’economia politica, con la tolleranza preposta ad occultare le disuguaglianze e le discriminazioni che attraversano il tessuto sociale. Lo scoppio della pandemia di Covid 19 ha ulteriormente acuito il processo di involuzione sciovinista del Regno Unito. La crisi economica prodotta dalla pandemia, si è saldata in una prima fase con la difficoltà a portare avanti i negoziati con Bruxelles, in un secondo momento nelle ambiguità dell’applicazione degli accordi. La permanenza delle sei contee irlandesi nel mercato comune per ragioni doganali, oltre a solleticare le rappresaglie della UE nei confronti dell’ex-partner, ha provocato la reazione dei protestanti unionisti, preoccupati da un’attrazione verso Dublino ogni giorno di più inesorabile. Anche l’opinione pubblica inglese, in particolare la più conservatrice, da qualche anno vede le spese da sostenere per il mantenimento di quelle che è stata la prima ed è l’ultima colonia inglese, come un fardello economicamente e politicamente insostenibile da sopportare. Inoltre, il crollo del 40% delle esportazioni verso la UE, sommato al 20% di aumento dei prezzi delle merci provenienti dagli ex-partners, ha provocato un disagio economico che il governo in carica ha elaborato in termini nazionalisti. Al disagio economico si affianca quello relativo alla pandemia. L’iniziale successo della campagna vaccinale sembra essere messo in discussione dalla variante Delta del Covid. In ogni caso, sia il successo dei vaccini, sia la ripresa dei contagi, vengono messi in relazione col pericolo che proviene dall’esterno, malgrado sia stato proprio il Regno Unito a registrare per primo lo sviluppo delle varianti più pericolose. Ecco allora una chiusura quasi ermetica delle frontiere, rivolta in particolare verso i cittadini dei paesi ex-partner della UE, che si è tradotta in alcuni casi nella reclusione temporanea di alcuni italiani e spagnoli all’interno degli Immigration Removal Centres, ovvero i centri dove vengono reclusi i migranti privi di status legale. Anche quest’ultimo aspetto va inquadrato all’interno dell’involuzione sciovinista britannica, laddove la precedente libertà di soggiorno per chi proveniva dall’UE è stata sostituita da un visto turistico fino a tre mesi, mentre il visto per ricerca di lavoro, fino a sei mesi, viene concesso a chi mostra di possedere certi pre-requisiti, a partire dalla conoscenza della lingua. Per un paese di immigrazione, che accoglieva manodopera spesso proveniente tra le schiere di chi approdava Oltremanica per imparare l’inglese, queste misure rappresentano un’involuzione significativa, che vanno a scalfire quell’immaginario, in particolare giovanile, che nell’ultimo mezzo secolo ha visto nel Regno Unito il primo approdo verso la libertà, la maturazione esistenziale e la rampa di lancio verso il mondo. Molti lavoratori dell’UE stanno considerando la possibilità di andarsene, o hanno già cominciato a farlo. A lungo andare, la variante BB (Brexit e Boris), potrebbe essere più perniciosa della variante Delta….
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