di Marco Palazzotto Ai meridionali sono stati affibbiati da secoli gli appellativi di corrotti, parassiti e mafiosi, eppure oggi la Lega di Salvini Premier raccoglie largo consenso al Sud, come si è visto alle ultime elezioni europee. Il 23% circa degli elettori meridionali che ha votato per la Lega però non sa di stare peggio, a livello aggregato, dopo un anno di governo gialloverde. Ad esempio l’ISTAT rileva che nel 2018 l’incidenza della povertà assoluta è stata maggiore nel Mezzogiorno sia per le famiglie (da 8,5% del 2016 al 10,3%) sia per gli individui (da 9,8% a 11,4%)[1]. La Banca d’Italia rileva che il tasso di disoccupazione aumenta al 22,3% in Sicilia, più del doppio della media nazionale[2]. Le cause ovviamente sono politiche e non sono - a parere di chi scrive - ascrivibili alla fannullaggine del popolo meridionale o alla sola presenza della criminalità (che è comunque effetto che si scambia con la causa), dacché le politiche economiche continuano a non aiutare la gente del Sud. Mauro Gallegati rilevava qualche giorno fa sulle colonne del Manifesto che la Corte dei Conti registra una pressione fiscale maggiore al Sud e una contemporanea diminuzione di trasferimenti di risorse pubbliche[3]. Insomma la questione meridionale rimane, anche se è ormai scomparsa dai dibattiti politici. Se è vero che la Sicilia, e in generale il Meridione, è stata la culla della criminalità organizzata di stampo mafioso, non possiamo però approcciarci al fenomeno con l’ottica convenzionale che vede lo Stato da una parte e la criminalità dall’altra, in contrapposizione. Anzi, per dirla con Umberto Santino, che usa il paradigma marxista nella sua lettura, il fenomeno mafioso è stato caratterizzato da un patto che vedeva la nascita di un blocco interclassista, formato dall’unione di pezzi della società illegale e pezzi della società legale (politici, imprenditori, professionisti), dentro lo svilupparsi di una sorta di “accumulazione primitiva”[4]. Interpretare il problema come presunta mentalità dei meridionali o come tendenza antropologica al crimine è frutto di una visione miope. La lettura che spesso ne fanno sia leghisti che commentatori mainstream è quella di una presenza della criminalità in tutti i gangli della società. In realtà esiste una classe che gestisce tali circuiti, quella classe che Santino, mutuando un termine introdotto per primo da Mario Mineo, chiama “borghesia mafiosa”. Questa riflessione ci porta verso un’altra più avanzata. La Questione Meridionale non è stato solo il risultato del processo di unificazione di fine Ottocento, come già Gramsci aveva rilevato negli anni Venti del secolo scorso, ma ha segnato tutta la storia successiva. “L’accumulazione primitiva” di un capitalismo arcaico meridionale - con la presenza della criminalità - è qualcosa che è stato pensato e attuato dalle classi al potere in Italia per garantirsi la pace sociale. Come evidenziano i Clash City Workers in Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi (La Casa Usher, 2014), il Mezzogiorno è stato plasmato come bacino reazionario che serviva a rallentare le trasformazioni del paese in senso socialista, smorzando ogni impeto della classe operaia del Nord. La presenza delle basi militari nel Sud è la testimonianza di questa tendenza. La criminalità organizzata da parte sua svolge anche un ruolo di contenimento sociale, integrandosi con il mondo legale. Questo è anche il motivo per il quale la mafia rimase impunita per più di un secolo. Questo schema si può dire che è cambiato con la caduta del muro di Berlino. Le stragi di Capaci e Via D’Amelio rappresentano infatti l’ultimo disperato tentativo del braccio violento della mafia siciliana di mantenere il legame con i referenti politici locali e nazionali. Venendo meno il collante che teneva insieme quel modello – a causa della sconfitta del movimento operaio, della conseguente controrivoluzione neoliberale, nonché dell’abbandono da parte della criminalità organizzata del modello di accumulazione primitiva, abbracciando una più matura dimensione globalizzata - il Meridione oggi si ritrova più isolato. Rimane soltanto un certo assistenzialismo clientelare che serve ai partiti che si susseguono al governo per raccogliere consensi, senza però il legame elettore-eletto che ha caratterizzato la Prima Repubblica. A queste considerazioni potremmo anche aggiungere che in Italia, fino alla creazione dell’Unione Europea, le classi dominanti applicavano uno schema di imperialismo interno con un nord che si è sviluppato soprattutto grazie ad un mercato di sbocco costituito dal sud, che invece si è via via indebitato. I dati infatti dimostrano che la bilancia dei pagamenti di parte corrente tra nord e sud è sempre negativa per il Meridione, positiva invece per il centro-nord (dati Banca d’Italia). Il saldo delle partite correnti del Meridione dal 1960 al 2005 è stato negativo in media del -17%, ciò significa che il complesso di imprese e famiglie del sud si è indebitato verso il centro-nord in media per circa 17 punti di PIL. Un sistema che abbiamo visto in altre parti dell’Europa, come successo ad esempio alla Germania durante il processo di unificazione dopo la caduta del muro di Berlino. Oggi il nostro Meridione si trova in una situazione relativamente ben peggiore di quella del secolo scorso. Il sud rappresenta infatti il mezzogiorno del mezzogiorno dell’Europa. I processi di centralizzazione senza concentrazione e transnazionalizzazione delle catene produttive (come rilevato da Riccardo Bellofiore) degli ultimi 30 anni, hanno di fatto spostato i problemi su scala Europea e, in generale, internazionale. Vista la situazione di frammentazione in cui si trovano le classi meno abbienti, non si può far altro che denunciare e lottare per ottenere condizioni migliori. Organizzare una mobilitazione generale, come potrebbe fare ad esempio la CGIL che ancora possiede la forza per raccogliere energie nella società, rappresenterebbe un primo passo importante. Note: [1] https://www.istat.it/it/archivio/217650 [2] Banca d’Italia: Economie regionali, l’economia della Sicilia, n. 43, novembre 2018 [3] https://ilmanifesto.it/la-trappola-del-debito-e-lavanzo-primario/ [4] Umberto Santino: Mafie e globalizzazione (DI Girolamo, 2007) (*) Una versione leggermente diversa di questo articolo è stata pubblicata nel periodico Progetto Lavoro dell'area di minoranza CGIL Democrazia e lavoro, in data 25 giugno 2019
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di Giordano Sivini
L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. “La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche”[1]. Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio[2]. L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze. A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI)[3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97. La rielaborazione di questi dati, dei quali si dà conto più avanti, mette in evidenza che è in atto nell’ultimo ventennio un processo crescente che MGI definisce di “distruzione di valore” le cui cause vengono attribuite al capitale finanziario. Una interpretazione basata su categorie marxiane del rapporto di MGI porta a conclusioni fondate empiricamente. Il capitale fittizio, a fronte del credito anticipato per la valorizzazione, obbliga il capitale produttivo di merce (inteso come insieme delle più grandi società mondiali), a trasferire a chi lo detiene una quantità sorprendentemente alta di rendimenti che riduce drasticamente il profitto. La centralizzazione viene accelerata perché gli effetti sulla realizzazione delle merci sono selettivi. La dinamica competitiva spinge le società con margini di ricavo più alti verso posizioni oligopolistiche e le altre verso condizioni zombie che rimangono in vita fino a che il capitale fittizio trova modo di appropriarsi del valore che a fatica producono. Grande inversione e caduta del tasso di profitto Nello schema marxiano dell’accumulazione il capitale produttivo di merce è denaro che si accresce attraverso il plusvalore, prodotto dal lavoro vivo, appropriato privatamente per essere realizzato nella forma della merce e generare profitto. Il capitale produttivo di interesse è invece denaro che si accresce con una parte di quel profitto, come interesse eccedente il rimborso del credito anticipato al capitale produttivo di merce affinché si riproduca in maniera allargata. Si tratta di due forme di capitale prodotte dalla valorizzazione, che alimentano il processo di accumulazione, entrando in relazione all’interno del circuito industriale in cui si muove il capitale nelle sue forme di denaro e di merce. Quando la relazione viene formalizzata, il capitale produttivo di interesse ottiene un titolo di credito in base al quale il capitale produttivo di merce si impegna con il profitto risultante dalla valorizzazione a pagare interessi e a rimborsare il debito. Se, invece di erogare credito, il capitale produttivo di interesse entra in compartecipazione con il capitale produttivo di merce, questo emette un titolo azionario impegnandosi a versargli parte dei profitti come dividendi. Gli accordi avvengono nel circuito industriale, i titoli si generano nel circuito finanziario, nel quale entrano anche i titoli pubblici che lo Stato emette facendo gravare gli oneri degli interessi e del debito sul bilancio pubblico. I titoli sono definiti da Marx capitale fittizio in quanto, a differenza delle merci, non sono frutto di un processo di produzione che attribuisce loro un contenuto di valore. Sono emanazione del capitale produttivo di merce, al quale restano legati in quanto ‘attività sottostante’ che li remunera. Si muovono nel circuito finanziario come strumenti per incanalare verso chi li detiene il denaro proveniente dal settore industriale nella forma di rendimenti (interessi, dividendi) e di plusvalenze generate da variazioni del loro prezzo negli scambi. La relazione D-D’ è incardinata nel circuito industriale, in quanto D’ è la quantità di denaro, comprendente il rimborso del credito e degli interessi, al quale deve far fronte il capitale produttivo di merce con parte del profitto. L’incremento ∆D, costituito dal denaro corrispondente ai rendimenti, passa dal circuito industriale ai detentori del capitale fittizio. Se la valorizzazione momentaneamente si blocca e il profitto non viene realizzato, la relazione col capitale produttivo di interesse resta aperta e deve essere rinegoziata. Quando invece viene realizzato il profitto, ma la parte che resta dopo la liquidazione del debito non trova occasioni di reinvestimento produttivo, il relativo denaro si riversa nel circuito finanziario per l’acquisto di titoli e per attività speculative. I titoli sono dunque lo strumento del trasferimento della quantità di denaro ∆D, che esiste nella forma di ricchezza reale nel circuito industriale, a coloro che ne detengono la proprietà in forza del credito che hanno anticipato o dell’acquisto del titolo sul mercato finanziario. Se questo denaro viene investito nel percorso D-M-D’ nella forma di capitale produttivo di interesse, come credito che origina titoli e rendimenti, oppure nel percorso D-D’ come ricchezza per acquistare altri titoli, dipende dalla prospettiva di maggiori ricavi a parità di rischio. Gli economisti marxisti citati da Mayroudeas definiscono il risultato ∆D del processo D-D’ come profitto senza accorgersi che consiste in una sottrazione di valore. Profiting without producing, è l’espressione più evidente della confusione tra incremento di denaro nel circuito finanziario e in quello industriale[4]. Il processo di accumulazione è soggetto a ricorrenti crisi, che nell’interpretazione di Harvey sono definite di sovra accumulazione. Sono dovute ad un blocco del movimento del capitale che viene superato con l’intervento del capitale produttivo di interesse, previa svalutazione di ciò che lo genera. “Il capitale detenuto sotto forma di denaro può essere svalutato dall’inflazione; la forza lavoro può essere svalutata dalla disoccupazione e dalla caduta dei salari reali; le merci detenute in forma finita o parzialmente finita vengono vendute in perdita; il valore incorporato nel capitale fisso può essere perso perché giace inattivo. I meccanismi sono diversi in ciascun caso e gli impatti variano a seconda del tipo di svalutazione”[5]. Ogni crisi fa storia a sé, dal momento che, secondo Harvey, al suo superamento il capitale si ridefinisce. “Ritengo”, scrive invece Bellofiore, “che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto (...) interpretata come una sorta di meta-teoria delle crisi, che ingloba al suo interno le altre diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale”[6]. Il saggio di profitto esprime il grado di valorizzazione dell’intero capitale anticipato, risultando dal rapporto tra plusvalore e capitale costante più capitale variabile. Marx ritiene che la caduta sia determinata dal processo storico non lineare ma cumulativo della crescita incessante della produttività costretta dalla concorrenza. Cambia la composizione tecnica del capitale in quanto il lavoro viene sostituito da macchine, e cambia anche la sua composizione organica, poiché il rapporto in valore tra capitale costante e capitale variabile si modifica in favore del primo. Poiché solo la parte variabile, nella forma del lavoro vivo, crea valore, la sua riduzione si ripercuote negativamente sul plusvalore e sul profitto. Se la riduzione del profitto limita la capacità di riproduzione del capitale produttivo di merce, il capitale produttivo di interesse interviene con il credito per colmare il deficit di investimento. L’inversione provvisoria del suo rapporto con il capitale produttivo di merce rimette quest’ultimo in movimento con le proprie gambe realizzando una controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto. La ripresa della produzione di plusvalore può dipendere dal contenimento dei costi del capitale costante o dalla espansione del commercio. Ma risulta soprattutto dall’indebolimento della forza contrattuale o della forza strutturale del lavoro, che consente il prolungamento e l’intensificazione del tempo lavorativo, la compressione del salario al di sotto del valore dei beni di sussistenza, l’aumento dell’esercito di riserva. Si aggiunge come controtendenza, secondo una recente letteratura, la finanziarizzazione, quando mitiga le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori con il loro indebitamento, e quando mobilita risorse a disposizione del capitale produttivo di merce per investimenti profittevoli su beni messi sul mercato dallo Stato. “In questo modo essa ha rallentato – e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta del saggio di profitto”[7]. La grande inversione tra capitale produttivo di merce e capitale produttivo di interesse sembra prospettare per il modo di produzione capitalistico la resa dei conti. Tutti i fattori che nel passato hanno stimolato processi di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto si rivelano inefficaci per rilanciare l’accumulazione allargata. Su questa resa dei conti si sviluppa nel marxismo una divaricazione interpretativa che trova fondamento teorico nella diversa concettualizzazione del capitale, come rapporto antagonistico tra capitale e lavoro oppure come soggetto automatico. Entrambi i fronti incontrano difficoltà ad elaborare una prassi adeguata alla situazione. In continuità con la storia dal movimento operaio, si postula la riattivazione del conflitto di classe pur senza individuare il terreno in cui far emergere la classe come soggetto. Per imboccare una qualche via che porti a una qualche forma di socialismo sarebbero necessarie nuove mediazioni con il capitale e con lo Stato. All’opposto, viene sostenuto un atteggiamento intransigente verso tutte le forme di cui si nutre un capitale, in esplicita rottura con il movimento operaio in quanto soggetto storico che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo rinunciando all’obiettivo del suo superamento, Manca però una strategia di mobilitazione per resistere alla compressione inarrestabile delle condizioni di vita. La ricerca della classe incontra i frammenti del lavoro salariato e del terzomondismo. La lotta al capitale sembra esprimersi con la precaria insorgenza dei gilet gialli che faticano a liberarsi delle categorie storiche legate al lavoro. Caduta del tasso di profitto e centralizzazione del capitale Sulle sorti del capitalismo possono far luce alcune dinamiche del capitale produttivo di merce, sul quale il capitale fittizio è radicato. La centralizzazione del capitale è un processo legato all’andamento storico non lineare del tasso di profitto. Marx definisce la caduta del tasso di profitto come una minaccia per lo sviluppo dell’accumulazione e come leva della centralizzazione del capitale. A questa concorre il capitale produttivo di interesse, il quale, come credito e come capitale fittizio, è definito da Marx “immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” utilizzato dal capitale produttivo di merce nella “espropriazione del capitalista ad opera del capitalista” e nella “trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi”. Tra i diversi modi in cui viene definita la centralizzazione del capitale due sono prevalenti. Uno registra il livello di controllo di pochi soggetti su consistenti insiemi di grandi capitali individuali. L’altro analizza la dinamica che rafforza alcuni grandi capitali a spese di altri. In un recente articolo è stata rilevata la mancanza di studi, e in particolare di studi accademici empirici, sulla relazione tra centralizzazione e crisi economica. “Ne consegue che l’esistenza o meno di una tendenza globale del capitale a centralizzare in poche mani, e le relative complesse dinamiche economiche strutturali che possono implicare, rimangono un mistero irrisolto”[8]. Il contributo conoscitivo che viene dato da questo articolo riguarda la convergenza della proprietà azionaria relativa ad un insieme di 2750 società che nel mondo hanno una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari, e la sua dinamica tra il 2001 e il 2016. Riprendendo una metodologia adottata da altri studiosi limitatamente al 2007[9], è stata costruita una “rete globale di controllo” sulle società costituita da nodi di relazioni tra grandi investitori. È stato constatato che un piccolo gruppo, non superiore al 2 per cento, è presente in un insieme di società monitorate, alle quali fa capo l’80 per cento del valore economico globale, e che nel periodo considerato c’è una tendenza all’aumento della concentrazione. Lo studio citato non ne indaga le cause. Indicazioni in proposito emergono invece dal citato rapporto del McKinsey Global Institute, che tuttavia non affronta il problema del controllo proprietario. Si occupa della ‘creazione di valore’, intesa come ‘profitto economico’, cioè profitto al netto dei costi finanziari[10] delle società madri che nel mondo realizzano un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari nei trienni 2014-16 e 1995-97. Per il 2014-16 sono prese in considerazione 5750 società, sia quotate in borsa sia a capitale privato, di cui il 20 per cento nel settore finanziario e nei servizi. Realizzano i due terzi dell’attività economica societaria globale con 10.7 triliardi di ricavi lordi medi annui sui 15.9 triliardi di tutte le grandi e piccole società[11]. Stanno nella fascia più alta di un insieme di 33 mila società madri che hanno un fatturato superiore a 200 milioni di dollari, comprese a loro volta in una base dati di 600 mila società monitorate. La loro distribuzione in decili secondo profitti economici (tabella 1) mette in evidenza che l’81 per cento del totale, pari a 1355 miliardi di dollari, sono centralizzati nelle 575 società del primo decile; il resto si distribuisce in misura decrescente tra il secondo e il quinto decile; mentre in quelli successivi ricadono società che non realizzano profitti economici, che cioè, nei termini del rapporto MGI, ‘distruggono valore’. Il risultato complessivo delle 5750 società madri è negativo per - 345 miliardi. Una comparazione tra primo e ultimo decile sulla base di indicatori relativi alla struttura e alla dinamica societaria (tabella 2) mostra che la consistente produzione di profitti economici del primo decile e l’altrettanta consistente distruzione di valore dell’ultimo decile fanno capo a due aggregati di società divergenti quanto a dinamiche produttive. Tra ricavi medi annui e numero di dipendenti c’è un modesto scarto tra i decili estremi, ma marcatamente più elevato rispetto alle società che ricadono nei decili intermedi. La dinamica positiva del primo decile è data, rispetto all’ultimo decile, da un rendimento sul capitale (ROIC) quasi 5 volte più elevato, e da ricavi dalla produzione al netto dei costi finanziari, delle imposte e degli ammortamenti (EBIT) di 3 volte superiore, conseguenza di una struttura molto meno gravata da capitale fisso utilizzato in maniera 3 volte più produttiva; da investimenti in R&D molto più alti; da una maggiore apertura al mercato estero. Le società dell’ultimo decile si distinguono per capitale fisso alto con risultati produttivi molto scarsi a fronte di una alta produttività del lavoro, bassi ritorni sul capitale investito, bassi investimenti in R&S. La mancata capacità di creare profitto è conseguenza di una struttura che non si rinnova. Il rapporto aggiunge che un quinto di queste società ricade nella categoria delle imprese zombie, aumentate dopo la crisi finanziaria, che stanno sul mercato competendo sui salari e sui prezzi, senza essere in grado di far fronte a tutti gli interessi sul debito[13]. Tra i due decili estremi si colloca il 60 per cento di società con profitti economici che si aggirano attorno allo zero, molto più piccole in termini di struttura produttiva (capitale fisso e dipendenti) e ricavi. Nel complesso sono un po’ più dinamiche rispetto alle società dell’ultimo decile quanto ad investimenti in R&D, margini operativi e ritorni sul capitale investito, tuttavia hanno più bassa apertura all’estero e soprattutto la più bassa produttività del lavoro. I dati del 2014-15 messi a confronto con quelli relativi a 2450 società madri (il 30 per cento delle quali appartiene al settore finanziario e dei servizi) che nel 1995-97 hanno un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari (tabella 3) indicano che, nell’assetto societario complessivo monitorato da MGI, si verificano nel ventennio due movimenti di centralizzazione, a livello complessivo e a livello societario: il numero delle grandi società aumenta di 2,4 volte, i profitti del primo decile di 1,6 volte, la distruzione complessiva di valore di 1,7 volte (nel 2014-16 il risultato negativo complessivo delle 5750 società è di -341 miliardi di dollari rispetto ai -205 delle 2450 società di venti anni prima). La crescita dei profitti economici della fascia societaria più alta, che si rispecchia nelle perdite economiche crescenti della fascia più bassa, suggerisce, secondo il rapporto, “che oltre alle dinamiche specifiche delle società, potrebbe operare una dinamica macroeconomica più generale”[14]. Questa osservazione, riferibile al processo di concentrazione, non viene tuttavia sviluppata. Anzi nel rapporto, al di là delle osservazioni relative ai decili, non si tirano neppure le somme del profitto economico totale nei due periodi, trascurando la persistente e crescente complessiva distruzione di valore. Un’altra equipe di MGI fornisce però alcune indicazioni in una pubblicazione rivolta ai manager[15]. Con ricchezza di riferimenti a situazioni societarie concrete vengono esaminati i risultati delle 2393 più grandi società non finanziarie del mondo dal 2010 al 2014. “Hanno avuto ciascuna un profitto operativo medio annuo di 920 milioni di dollari. Per realizzarlo hanno investito circa 9,3 miliardi di capitale, acquisizioni incluse. Dividendo una cifra per l'altra si ha un ritorno sul capitale investito del 9,9 percento. Ma gli investitori e i prestatori per compensare l'uso dei loro fondi hanno richiesto un rendimento di 8.0% (costo medio ponderato del capitale), pari quindi ai primi 740 milioni di profitti. Restano dunque 180 milioni di profitto economico”[16]. Questi dati si riferiscono ad una società media, “ma il mercato intacca continuamente i profitti di ciascuna società” e provoca un andamento differenziato tra quintili che “sta diventando più ripido nel tempo”[17]. Il primo quintile aveva un profitto economico annuo di 186 miliardi nel 2000-4 e dieci anni dopo di 684 (3.7 volte); l’ultimo quintile un risultato negativo di 61 miliardi aumentato a 321 (5,3 volte). Conclusioni Il rapporto MGI non analizza la distribuzione societaria del profitto netto realizzato con il capitale investito, ma quella del profitto economico, che risulta detraendo dal profitto netto il costo annuo di questo capitale, costituito sostanzialmente da interessi e dividendi destinati a chi lo ha anticipato. Già si è visto, per la società media non finanziaria nell’analisi per quintili, che il capitale complessivo di 9.3 miliardi di dollari costa annualmente 740 milioni tra interessi e dividendi, i quali vanno dedotti dal profitto operativo netto annuo di 920 milioni di dollari, così che il profitto economico è di soli 180 milioni, pari al 20 per cento del profitto netto. Il restante 80 per cento, secondo MGI, va ad alimentare il capitale finanziario[18]. Per estendere l’esame alle società analizzate da MGI secondo decili si può fare riferimento all’indicatore EBIT della tabella 3, che esprime, in percentuale rispetto al profitto operativo netto, il risultato societario prima delle imposte, degli oneri finanziari e degli ammortamenti. Le società del primo decile hanno un EBIT di 10.1, quelle dell’ultimo di 3.3, e per quelle dei decili mediani 3.8. Posto 100 il profitto operativo, ciò che gli viene sottratto da oneri finanziari, imposte e ammortamenti è pari rispettivamente a 89.1, 96.7 e 96.2 per cento. Si ricorderà che secondo MGI solo le società del primo decile realizzano un profitto economico positivo, quelle mediane si aggirano attorno allo zero; quelle dell’ultimo decile distruggono valore. La distruzione complessiva di valore in aumento nell’ultimo ventennio è dunque dovuta all’appropriazione del ricavato delle attività produttive da parte del capitale finanziario. Al fine di una sintesi basata su categorie marxiane si può assumere che le informazioni fornite da MGI siano tutte riferite a società non finanziarie, dal momento che queste ultime, non separabili dalle altre, costituiscono solo il 30 per cento del totale nel 1995-97 e il 20 nel 2014-16. Nel processo produttivo – si sa – il capitale variabile produce valore come lavoro vivo; il capitale costante trasmette invece al prodotto il valore che già incorpora. L’uno e l’altro realizzano valore e plusvalore se ne vengono anticipati i costi: il capitale costante in quanto materie prime e mezzi di lavoro, il capitale variabile in quanto salari. Il costo del capitale costante è determinato dal mercato; quello del capitale variabile può essere compresso a seconda della forza contrattuale e strutturale del lavoro. L’anticipazione dei loro costi viene fatta dal capitale produttivo di interesse dietro emissione di titoli che esigono rendimenti i quali aumentano questi stessi costi. I titoli si incuneano dunque tra il plusvalore e il profitto riducendo quest’ultimo, che è eguale al plusvalore una volta detratti i costi di produzione. Si riduce anche il saggio di profitto in quanto costituito dal rapporto tra plusvalore e costi di produzione. Naturalmente per realizzare il plusvalore e il profitto è necessario che siano vendute le merci prodotte. Il trasferimento sui loro prezzi dei maggiori costi di produzione dipende da diversi fattori. Per definirli è utile distinguere in seno al capitale produttivo di merce tra le società che si trovano ai decili estremi della distribuzione MGI per profitto economico. Quelle collocate nel primo decile cedono mediamente l’89 per cento dei ricavi al capitale fittizio. Realizzano però una alta redditività dal credito anticipato, che consente loro di contenere il trasferimento sul prezzo delle merci di tutti gli oneri che il debito comporta. Dispongono anche di risorse aggiuntive per svilupparsi dinamicamente rispetto alle imprese concorrenti. Si muovono verso posizioni oligopolistiche o le hanno raggiunte. Per esempio, “Apple e Samsung insieme, le due società produttrici top di smartphone, realizzano tutto il profitto economico del settore, mentre gli altri produttori distruggono valore”[19]. Queste società investono in R&S per aumentare la sua produttività e ridurre gli immobilizzi in capitale fisso e quindi i costi del capitale costante e i sovra costi delle anticipazioni creditizie. Si allargano nel mercato, si espandono con fusioni e acquisizioni e probabilmente traggono ricavi da attività di credito al consumo e da investimenti speculativi in titoli. Distribuendo dividendi 2,4 volte più alti delle società dell’ultimo 60 per cento, vengono premiate dagli investitori “perché offrono ritorni in grado di battere il mercato”[20]. Guidano il processo di centralizzazione del capitale produttivo di merce. Le società che in varia misura hanno invece un peso del capitale fittizio tanto alto da non disporre di risorse per innovare, continuano a produrre valore riproducendosi in maniera non contingente. Si basano su una alta produttività di un ristretto numero di dipendenti fissi per ricavare ritorni economici scarsi da una quantità enorme di capitale fisso. L’OCSE lamenta che le imprese zombie, pur con persistenti difficoltà nel pagamento degli interessi, non scompaiono. Sono la manifestazione empiricamente eclatante della parte di capitale produttivo di merce che arranca, tenuto in piedi dal capitale fittizio che succhia valore fin che c’è. Mantiene l’ancoramento all’attività sottostante in maniera flessibile, allungando le scadenze dei rendimenti, rinnovandone le condizioni, moltiplicando i titoli. Nella grande inversione il capitale fittizio spinge ad innalzare la produzione di plusvalore e di profitto oltre la soglia della sua remunerazione. Il capitale produttivo di merce può così disporre delle risorse necessarie per realizzare in maniera competitiva il valore prodotto nel percorso oligopolistico competitivo che lo centralizza, riproducendo su scala allargata solo la parte che le utilizza in maniera efficace. Condizione di competitività è l’aumento incessante della produttività del lavoro rispetto al capitale costante selettivamente investito per aumentare la massa di merci in un processo produttivo che riduce il lavoro vivo. Questo processo di centralizzazione, diversamente dal passato, non elimina le sopravvivenze della parte di capitale produttivo di merce gravato da elevati immobilizzi fissi, che danno scarsi ritorni economici nonostante l’alta produttività del lavoro. Le trascina invece fino a quando il capitale fittizio può nutrirsi del loro valore. Note [1] Mavroudeas S.T., The Financialisation Hypothesis and Marxism: a Positive Contribution or a Trojan Horse? Counterpunch, May 11, 2018. [2] Sivini G., La grande inversione: dalla valorizzazione alla finanziarizzazione, Palermograd, 18 e 25 gennaio 2019. [3] McKinsey Global Institute, Superstars. The dinamics of firms, sectors, and cities leading the global economy, Discussion Paper, October 2018. [4] Lapavitsas C., Profiting without producing, London, Verso, 2013. Per legittimare nella prospettiva di Marx il termine profitto come risultato di operazioni finanziarie Lapavitsas fa incredibili contorsioni: cfr. pp. 141-144. [5] Harvey D., Limits to capital, London, Verso, 2006, p. 196 [6] Bellofiore R., La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2012, p. 14. [7] Giacché V., La caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi attuale, in Ponzi M. (a cura di), Karl Marx e la crisi, Macerata, Quodlibet, 2017. [8] Brancaccio E., Giammetti R., Lopreite M., Puliga M., Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis. Structural Change and Economic Dynamics, 45, 2018. [9] Vitali S., Glattfelder J.B., Battiston S., The Network of Global Corporate Control. PLoS ONE, 6, 10, 2011. [10] Il profitto economico eguale al profitto operativo netto sottratti i costi finanziari per remunerare investitori, azionisti e debitori. [11] McKinsey Global Institute, Superstars. cit, p. 7. [12] Ivi. p. 26. [13] McGowan M.A., Andrews D., Millot V., The Walking Dead? Zombie Firms and Productivity Performance in OECD Countries, OECD Economic Department Working Papers 1372, 2017. [14] Ivi, p. 2. [15] Bradley C., Hirt M., Smit S., Strategy beyond the hockey stick: People, probabilities, and big moves to beat the odds, Hoboken, Wiley, February 2018. [16] Ivi, p. 41 [17] Ivi, p. 47. [18] Tecnicamente si tratta del WACC (Weighted Average Cost of Capital), costo ponderato dei rendimenti di tutte le fonti del capitale (azioni, obbligazioni e ogni altro tipo di debito a lungo termine). [19] Ivi, p. 57. [20] Ivi, p. 41. di Vito Bianco
Al termine di una lunga opera di persuasione da parte di una vecchia amica che me ne vantava le potenzialità, lo scorso ottobre ho fatto il mio ingresso in Facebook. Dopo un periodo di assidua frequentazione della piattaforma, di partecipazione a quella che mi è subito apparsa come una sorta di esistenza parallela, me ne sono progressivamente allontanato fino a una quasi totale sparizione: niente più commenti, interventi, o brevi testi letterari. Nessuno dei miei ottocento amici, che io sappia, ha sentito la mia mancanza. E perché mai avrebbero dovuto sentirla? L’attualità incalza e non c’è tempo di fermarsi sulle defezioni. Confesso di trovare irritanti alcune caratteristiche di FB, per esempio il narcisismo – compreso il mio – che in certi casi raggiunge livelli francamente insopportabili. Ma la fascinazione forse un po’ perversa mi è rimasta, insieme al desiderio di capire. Ci ho provato con queste sei voci, in modo libero e personale, usando un po’ di ironia e senza neppure sognarmi di chiudere il discorso ma al contrario di aprirlo. (La volontà di concludere è tipica del cretino, pare fosse solito dire Roland Barthes). Amici (Amicizia) L’amicizia è una cosa seria, si è sempre detto. Gli amici si scelgono, i parenti no. L’amico vero è quello con il quale condividi passioni, idiosincrasie e un certo modo di vedere il mondo. A volte l’amico può prima, per età, essere un maestro, una guida, uno che senza dirti nulla ti indica il cammino. Qualche volta ti dà un consiglio, se glielo chiedi, o ti consiglia un certo libro da leggere perché pensa che sia arrivato il momento di farlo. A volte può capitare che sorga il dilemma: è più importante l’amico o la verità. Un dilemma lacerante, in certi frangenti della vita. Che fare, come agire, quale decisione prendere? Aristotele direbbe che bisogna sempre stare dalla parte della verità; e lo stesso Kant, col suo piglio rigorista che non contempla eccezioni. Talvolta è davvero difficile salvare la capra e i cavoli, l’amico e la verità. Nella vita reale e su FB. Se un amico dice una sciocchezza mentre seduti al bar stiamo bevendo un caffè, posso sorridere e far finta di nulla, magari rischiando di fargli credere che con quella sciocchezza sono d’accordo. Oppure posso dirgli che secondo me ha detto una cosa sbagliata provando a dimostrargli perché è sbagliata. Se lo stesso amico la scrive (la posta) su FB posso o ignorare quello che ha scritto senza nemmeno il bisogno di sorridere per dissimulare l’imbarazzo o il desiderio di dirgli che no, le cose non stanno affatto come lui sostiene. Oppure, anche in questo caso, posso provare a dimostrargli che la sua affermazione è errata, priva di fondamento o frutto di un pregiudizio, come sovente accade. Per iscritto. Quindi dalla salutare distanza che mi consente il confronto virtuale, in assenza; e avendo più tempo a disposizione per ponderare la migliore risposta possibile. Pesando le parole; scegliendole accuratamente al fine di non offenderlo, di non urtare la sua suscettibilità. Per conservarne l’amicizia, innanzitutto; e perché quell’amico presto o tardi lo rincontrerò nella vita vera. Se invece l’amico che ha detto la castroneria è un amico di FB, uno dei molti contatti acquisiti attraverso una catena prevedibile e imprevedibile di contatti (l’umore o le imperscrutabili regole di connessione dell’algoritmo che lo governa) le cose possono cambiare; oppure no. Posso, se voglio, essere più sbrigativo, più sicuro, più diretto, meno diplomatico, perché tanto quell’amico virtuale quasi certamente non lo vedrò mai, fuori dallo spazio immateriale di FB. Ma potrei invece decidere di comportarmi allo stesso modo, considerare cioè l’amico virtuale alla stregua di uno vero; ossia comportarmi esattamente come mi comporterei nella vita vera. In fondo, per quale motivo dovrei comportarmi diversamente? Qual è la differenza tra un’amicizia vera e una virtuale? Cosa le distingue? L’obbligo di lealtà dovrebbe valere sempre e comunque. O quasi. Forse in amore e in guerra no, come sentenzia la massima popolare. Nel primo caso entra in campo l’amore, un “maggiore”, o presunto tale, il quale farebbe venire meno il caposaldo dell’amicizia, la lealtà; nel secondo, analogamente, il valore superiore è la fazione o la patria, se i due ipotetici amici sono di paesi diversi e ora nemici. E dunque dire “Siamo amici su FB” non dovrebbe essere diverso dal dire, semplicemente, “Siamo amici”. Allora io da qualche mese ho ottocento amici, anche se settecentocinquanta non li ho mai incontrati nel mondo tridimensionale in cui soffro e vivo (e viceversa) ogni giorno che qualcuno manda in terra. Ma, mi chiedo, posso amarli così come amo gli altri? Insomma, quello che vorrei sapere è questo: può darsi vero amore su Fb? Essere Il punto dolente del pensiero occidentale. Il punto di massima densità speculativa, potente e inafferrabile al tempo stesso. Possiamo considerarlo il Big Bang da cui è scaturito, venticinque secoli fa, il nostro mondo filosofico. Attorno a esso da secoli si accapigliano pensatori d’ogni sorta. Per cominciare: perché l’essere e non il nulla? Poi: si muove o sta fermo? Muta o è immutabile? E ancora: coincide con la coscienza che qualcuno chiama pensiero? Se l’essere che ci è dato di esperire non è che coscienza, allora possiamo dire che la nostra presenza su FB è una presenza dotata di essere, dunque reale. Ma se anche decidessimo di dare ragione all’enigmatico Eraclito, noto per la massima “Tutto scorre”, secondo cui per l’appunto tutto è conflitto e mutamento, potremmo ugualmente concludere che la nostra presenza su FB è altrettanto reale, poiché anche lì tutto scorre come nel fiume eracliteo dove non è possibile bagnarsi due volte, poiché la seconda volta a bagnarci sarà un’acqua diversa (ma in un altro frammento il filosofo dice che “Nello stesso fiume stiamo e non stiamo”, problematizzando parecchio la faccenda e introducendo il primo germe di confutazione del principio di non contraddizione). Scorre e si ferma, dato che questo tutto si fissa nelle singole “bacheche” che gli amici sono liberi di visitare lasciando, se ne hanno voglia, un commento. Quindi su FB si è veri amici perché lo si è, in un certo complicato senso, allo stesso modo, o quasi, in cui lo si è nella realtà, stando seduti al tavolo di un bar con il ritrovato compagno di liceo, il quale probabilmente dirà una scempiaggine che sono libero di confutare o di non confutare. Ma, più verosimilmente, su FB si è enon si è, si esiste enon si esiste, si soffre e non si soffre, e così via. È questo il bello; possiamo sospendere il giudizio, come facciamo spesso senza rendercene conto, guardando un film, leggendo un romanzo, assistendo al rito dell’eucarestia, osservando un istruttore di tennis: lavora o gioca? Presenza La presenza su FB degli iscritti è solitamente assidua, costante, continua. Perlopiù quotidiana. Chi comincia ad assentarsi viene presto dimenticato. Nessuno si chiede pubblicamente che ne è stato del tale che fino a qualche settimana fa aveva ogni giorno qualcosa da dire su tutto lo scibile umano. È morto, sta male, ha rinnegato la comunità della quale faceva orgogliosamente parte? Comunque sia, va dimenticato; come se parlare di una defezione volesse dire interrogarsi sulla natura profonda del mezzo; sul suo senso o non senso; sul flusso di parole e immagini che da quindici anni non smette di autoalimentarsi. Un vero fedele della piattaforma scrive ogni giorno un post, anche brevissimo, anche di una sola frase, meglio se sarcastico o ironico, ma va bene anche lo sfogo sintetico, al limite l’insulto rivolto a una categoria (i politici en masse) o a una singola personalità pubblica di cui non si condivide l’ultima dichiarazione o decisione (se uomo di potere, per esempio un ministro). È la traccia, il graffio, l’alzata di mano che segnala la presenza: sono qui, non manco, dico anch’io la mia, ho visto, ho sentito, posso testimoniare per il presente e il futuro. L’iscritto assiduo vive nella vita reale portandosi dietro due ombre: quella del proprio corpo, e quella di FB. Se parte per un viaggio, si fotografa o fotografa il piatto che sta mangiando nella trattoria tipica; lo scatto o l’autoscatto sono un prolungamento della piattaforma che fanno circolarmente ritorno alla piattaforma, dove acquistano l’unica forma di esistenza possibile, quella pubblica, e finalmente si inverano, nel senso che raggiunge la verità alla quale era destinato. Molti filmano quello che stanno facendo (gita nel bosco, manifestazione di protesta, incontro con l’autore), perché “la vita in diretta”, la vita che si raddoppia nel momento stesso in cui vive prende subito il sapore dell’evento, diventa storia senza dover aspettare la lenta stagionatura degli anni. Parafrasando, “la vita è qualcosa che ti accade mentre sei impegnato a trasformarla in immagine”, in attesa – breve – di vedere quanti “mi piace” ha collezionato. E allora la domanda è: dove si è davvero presenti, su FB o nella vita? Viviamo nella realtà perché non possiamo ancora vivere esclusivamente su Fb? E ancora: che vita fanno quelli che compaiono sei, sette volte al giorno sulla piattaforma? O meglio: vivono? Troppe domande. E nessuna risposta. Ma bisogna pur cominciare. Vero (Verità) La verità fa male. La verità è rivoluzionaria. La verità è dialogica. No, la verità è uno svelamento, una luce che abbaglia. Su FB il vero e il falso convivono. Il falso passa per vero fino a quando non viene smentito dall’autorità di un opinionista di indiscussa autorevolezza. Ma intanto la menzogna ha circolato, è stata ripetuta, ha avuto il tempo di prendere posto nelle menti di migliaia di utenti che non sono in grado di leggerla per quello che è: una bufala, un’invenzione, un ballon d’essai che ha lo scopo di saggiare le reazioni di una certa porzione di opinione pubblica, o di una lobby. La verità della piattaforma è una categoria instabile, mutevole, oggetto di un dibattito quasi sempre disordinato, passionale, che non riesce a mettere da parte insofferenze e pregiudizi. Non che siano assenti i confronti di segno opposto, ma sono più rari, e durano poco, e presto le opinioni si accavallano e la confusione prevale. Il mezzo ha una natura assertiva, si presta meglio al proclama, all’affermazione apodittica, all’esortazione che si chiude nell’arco di una decina di righe. La verità o, più prosaicamente, le cose come a un di presso stanno, su FB tende formalmente al dialettico ma inclina per essenza al monologo, alla sentenza. L’unica verità indiscutibile è quella del post con il quale ti racconto la mia giornata a scuola o in ufficio con al centro un aneddoto per me significativo. È la verità del diario, dell’io che si mette in scena e costruisce giorno dopo giorno la sua identità; un’identità narrativa, quindi più vivace e accattivante, che gli amici sono chiamati a commentare e approvare, poiché senza riscontro il mio parlare sarebbe vano e il mio diario in pubblico ridiventerebbe privato, segreto, “novecentesco”, insomma. “Sì, hai ragione, è proprio così” mi aspetto e spero che mi dicano, in un costante rispecchiamento del simile nel simile, in una catena potenzialmente interminabile di esternazioni e contro esternazioni. Io sono vero. O almeno io propongo il mio incontestabile discorso di verità che riguarda prima di tutto la mia persona. Che può anche essere una “maschera”. Ma chi ha la voglia – e l’impudenza – di dirlo? Virtuale Virtuale è ciò che (ancora?) non è reale; o ciò che simula la realtà sapendo però che non potrà mai definitivamente surrogarla. È il sostituto momentaneo velato di nostalgia. Una cosa finta al posto di quella vera. Potremmo dire che è la realtà senza gli spigoli e la durezza del reale. (O meglio, ci sono ma sono facilmente aggirabili). Facebook non è la vita ma il suo simulacro; lo specchio digitale in cui la nostra vita si riflette e si osserva. È una vetrina affollata di scritture e di volti, il luogo dove la vita si trascrive, si trasfigura, si mette in mostra ed esibisce le sue virtù e le sue note caratteristiche. Ma che ne è del virtuale, per dirla con una formula filosofica, se la mia vita è priva dell’altra faccia, della cosa reale; se il fenomeno che devo trascrivere o mettere in vetrina è quasi assente o del tutto assente? Ma è ipotizzabile un’esistenza completamente disincarnata, un’esistenza così sottile da non poter avere altro luogo se non la piattaforma digitale? Sembra di no. Anche i maniaci di FB hanno una vita carnale; mangiano passeggiano fanno la spesa hanno mal di stomaco. Eppure si ha la sensazione che il confine tra i due mondi tenda a sfumare. Che l’interscambio frequente trasformi la vita e la piattaforma, che una nutra l’altra e viceversa. “L’ho messo su FB”. “Mettilo su FB”. “Mettiamolo su FB”. Frasi consuete che indicano una presenza costante, l’ombra di cui abbiamo già parlato. Manca “Viviamolo su FB”. O: “Facciamolo per FB”, ossia, facciamo tutti insieme in modo che la piattaforma continui a vivere, a prosperare, a farci sperare in un mondo integralmente visibile e leggero, dove un pollice che punta in alto e una faccina che sorride non manchino mai. Vita È l’ultima parola. Ma anche la prima. Senza vita niente FB. E senza FB? Ancora vita. Pur sempre vita. Anche se non la stessa: indietro non si torna. Ma a quanto pare la vita è sempre altrove, in un posto dove vorremmo ma non possiamo essere. Però c’è sempre uno che ci va per noi, e ce lo racconta, con parole e immagini. “La vita” diceva Lennon, nell’originale della frase che abbiamo parafrasato sopra, “è qualcosa che ti accade mentre sei impegnato a fare altro”. Cosa? Per esempio pubblicare sul tuo social preferito l’ultimo selfie nel quale, alle tue spalle, si stagliano ben visibili il ponte di Rialto e la laguna. E mentre sorridi davanti al rettangolo dello smartphone, ti chiedi: piacerà ai miei amici? |
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Gennaio 2021
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