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      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
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      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
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      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
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      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
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      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
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      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
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PALERMOGRAD

IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE (prima parte)

28/6/2018
Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti *
​(prima parte)

di Riccardo Bellofiore 
​Pubblichiamo questo intervento di Riccardo Bellofiore del 1988 come base di discussione per l'incontro che si terrà, con lo stesso autore, il prossimo 6 luglio a Palermo. Qui maggiori informazioni .
 
​Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana naturagli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità.
 
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo)
 
Don’t you know
They’re talkin’ about a revolution
It sounds like a whisper
 
(Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution)
 
 
 
Introduzione
 
 
Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo.
Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica.
Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale.
D’altro canto, femminismo e ambientalismo pongono problemi reali, su cui è grave il sottosviluppo della riflessione della sinistra: mi riferisco, in particolare, alla questione della articolazione di eguaglianza e differenze, ai pericoli della rottura dell’equilibrio ambientale, alla messa in discussione della centralità della produzione. Se dunque non è possibile limitarsi a cercare altrove, fuori dalla produzione, altre identità antagoniste, irrelate alla questione operaia – come è ormai di moda fare – va anche detto che il ritardo del marxismo critico (non solo, dunque, quello del marxismo e del movimento operaio tradizionali) non può essere semplicisticamente superato inglobando i problemi della liberazione della donna e dell’equilibrio uomo-natura dentro la classica contraddizione capitale-lavoro vista come esaustiva, riaffermando la centralità della produzione – come per esempio ha fatto nel numero scorso di questi “Quaderni” Mimmo Porcaro, ed in varie sedi Costanzo Preve.
Così, Porcaro scrive che il movimento delle donne “difficilmente trae tutte le conseguenze dal semplice fatto che le mansioni lavorative maggiormente subordinate siano spesso assegnate alla forza-lavoro femminile: un vero processo di liberazione ha come componente decisiva la critica teorica e pratica di un modo di produzione che, dovendo inserire gli individui in funzioni lavorative gerarchizzate, si appoggia su altre gerarchie presenti nella società, ne impedisce il superamento, ed anzi le riproduce e le rende funzionali al proprio movimento” (Una gelida utopia, in “Quaderni del Cric”, n.2, p.30): il che è probabilmente vero (anche se personalmente sostituirei quel ‘decisiva’ con ‘necessaria anche se non sufficiente’), ma, come chiarirò nei prossimi paragrafi, dà una rappresentazione, ed anche una critica, riduttiva del femminismo, e dunque non ne coglie la possibile ed autonoma convergenza con la critica dell’economia politica per un superamento del paradigma della produzione. Ed ancora, sempre nel numero scorso, Preve lamenta come una sciagura la prevalenza nella cultura della nuova sinistra del femminismo differenzialistico e della critica della politica, “che hanno fatto ‘saltare’ il valore portante della idea di eguaglianza” (Soffia ancora il vento dell’Est?, ivi, p. 51): idea che però deve essere ben povera se i suoi sostenitori si rivelano capaci solo di anatemi e non anche di trasformazione – se cioè l’eguaglianza è ‘saltata’ come valore portante, ciò è avvenuto anche perché è apparsa obiettivo contrapposto allo, e non arricchita dallo, sviluppo delle differenze.
 
 
Una nuova eguaglianza
 
Comincerò proprio dalla questione della relazione tra eguaglianza e differenze, prendendola un po’ alla lontana: partendo cioè dal sessantotto. La ragione è in parte occasionale, e me ne scuso: l’eco del ventennale è probabilmente troppo forte per sfuggirne. Ma vi è anche una ragione di contenuto, ed è che sono convinto che allora si propose, sia pure in embrione ma con estrema chiarezza, una nuova nozione di eguaglianza, e che solo a partire da essa è possibile capire gli avvenimenti seguenti, e gli avanzamenti e le impasse successivi.
Questa tesi è stata già sostenuta, con argomentazioni che condivido in larga parte, da Marco Revelli in un recente articolo su “Rinascita”. Nel sessantotto, scrive Revelli, si afferma una nozione di eguaglianza che è diversa tanto dalla eguaglianza formale, l’eguaglianza dei diritti, e dunque dei punti di partenza e delle opportunità, tipica del pensiero liberaldemocratico, quanto dalla eguaglianza sostanziale, livellatrice, uniformante del modello vetero-comunista, e dunque dei punti di arrivo e del trattamento (Il discorso sull’eguaglianza, in Per capire il’68, “Il Contemporaneo”, supplemento a “Rinascita”, n.9, 12/3/1988). Aggiungerei, come corollario a questo discorso di Revelli, la considerazione che la nozione di eguaglianza che si afferma come valore cardine del ’68 è anche diversa dall’idea che l’eguaglianza sia il portato di processi di massificazione o, per usare un concetto meno connotato con echi di destra, di omogeneizzazione reale (materiale) dei soggetti. Una tesi, questa, che ha avuto versioni secondo e terzo-internazionaliste (lo sviluppo delle forze produttive e il generalizzarsi della figura operaia), ma ha anche possibili, e certo più interessanti, versioni nel marxismo critico di questi anni: come in quegli autori che si pongono il compito teorico-pratico di individuare come perno della composizione di classe un settore la cui attività sia ‘materialmente’ omogenea (a questo portati da una interpretazione del lavoro astratto come eguagliamento materiale dei lavori che ne annulla la dimensione concreta, interpretazione che reputo scorretta per ragioni che ho esposto altrove). Un esempio di questa posizione è nei lavori recenti di Roberto Finelli.
Quale è allora questa nuova nozione di eguaglianza che si impone nel sessantotto, e ne diviene il valore cardine? Si tratta del riconoscimento di una pari dignità dei soggetti, pari dignità che è invece negata realmente da un processo sociale che è profondamente disegualitario: “questo nuovo concetto di eguaglianza, come pari diritto di ognuno alla propria autonomia e indipendenza personale – come libertà, quindi – è incompatibile, contrariamente al concetto formale di eguaglianza, con ogni gerarchia, ma non – contrariamente al concetto sostantivo, veterocomunista – con la differenza” (ivi). L’eguaglianza è perciò pari dignità dei diversi: essa però, possiamo aggiungere, non viene vista dal sessantotto come data nel processo sociale, ma è una eguaglianza tutta da produrre, rompendo le diseguaglianze di potere e di sapere che realmente instaurano e riproducono gerarchie ed eteronomia. Se dunque, per un verso, questa nozione di eguaglianza, lungi dall’essere negatrice delle differenze, dà loro spazio affinché si manifestino, e nel loro proliferare e riconoscersi pari dignità trova la sua realizzazione, per l’altro verso essa si propone come critica e negazione tanto dell’eguaglianza intesa come massificazione e conformismo quanto della differenza intesa come gerarchia e come destino imposto e non scelto.
A conferma di quanto appena detto si può rilevare che lo stesso intersecarsi di diversi movimenti (studenti, donne, neri, per non citare che i più ovvi) dentro il ’68, questa pratica sincronia dell’asincronico – per usare l’immagine blochiana – è una delle caratteristiche più ‘visibili’ del sessantotto, come ci ricorda anche Peppino Ortoleva nel suo bel libro pubblicato dagli Editori Riuniti (Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma 1988): “si trattò di una di quelle grandi, e rare, crisi sociali il cui elemento caratterizzante è il coincidere, il simultaneo venire ad un punto di svolta, di processi di trasformazione sociale differenti” (p. 15). Ad accomunare i diversi movimenti è una visione del meccanismo sociale come sistema astratto che generalizza l’oppressione – se si vuole, dalla fabbrica alla società. La lotta è insubordinazione di ognuno, ‘a partire da sé’, nei confronti di una società che tratta le particolarità come indifferenti (senza per questo tornare ad una visione da antico regime in cui il riconoscimento delle differenze è la giustificazione di un ordinamento gerarchico). In ciò, dunque, il sessantotto si costituisce come critica dall’interno della modernità: dentro e contro.
Ad essere comune alle diverse insubordinazioni è, cioè, il mettere in questione ovunque l’eteronomia. Quello che però mi pare vada sottolineato – e che sfugge invece a Revelli nell’articolo citato, in cui descrive il sessantotto come “un’uscita in massa (dalla città dei diritti formali. NdR). Una grande secessione attraverso cui costituire una nuova città: la città degli ultimi, degli sfavoriti, dei sofferenti e degli oppressi” (ivi) – è che nei momenti più alti dell’autocoscienza teorica del sessantotto (si pensi, per fare un nome, ad Hans Jurgen Krahl) la lotta all’eteronomia, il partire da sé, l’essere dentro e contro, sono inseriti in una analisi della ‘totalità’ capitalistica. Contro cui si lotta, ma cui non si può non riconoscere sul piano conoscitivo e reale (di una realtà che si vuole rovesciare) un primato. Affermare la propria autonomia è mettere in crisi il sistema presente, non separarsene. La possibilità sperata dell’uscita in massa dalla comunità sociale per costituire un’altra comunità, di cui parla Revelli, non è una possibilità concreta: semmai, quando i movimenti prenderanno questa via, negando l’universalismo del momento iniziale – quando cioè ognuno andrà per conto proprio – ciò sarà effetto (e in parte causa) della fine del sessantotto, della sconfitta dei movimenti, a duro rammento dell’illusorietà di quella prospettiva: e così come la musica rock aveva anticipato e accompagnato i movimenti del 1968, così ne fotografa tempestivamente la crisi – per citare solo uno dei molti possibili esempi, passa solo un anno tra il militante Volunteers of America (1969) dei Jefferson Airplane, che si apre con un battagliero “We can be together”, e il successivo Blows against the Empire (1970) dei Jefferson Starship, che della fuga nello spazio fa il proprio tema (Earth getting too thick. Move on out to the cool & the dark).
 
 
Operai al centro
 
La fine del ‘sessantotto’ in realtà è databile in anni diversi da luogo a luogo: in Italia, per esempio, l’onda del sessantotto durò poco meno di un decennio. Sostenere che in Italia il sessantotto va molto al di là di quanto indichi l’anno solare è ovviamente posizione controversa, ed in una certa misura minoritaria, almeno da qualche tempo in qua. È difatti diffusa l’opinione secondo cui il sessantotto, antiautoritario e movimentista, sarebbe poi stato sopraffatto e soffocato da un sessantanove operaista e dallo sciagurato politicismo degli anni Settanta, dei gruppi prima e del terrorismo poi. Non è dunque scontato che esista un legame tra il sessantotto e ciò che viene dopo. Questo legame c’è, comunque, a mio parere, e sta proprio nel fatto che nelle lotte operaie del ciclo ’69-’73 al centro è ancora il tema dell’eguaglianza, e nel fatto che è comune al movimento degli studenti ed all’autunno caldo la rivendicazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione.
Lungo tutti gli anni Sessanta si era andata preparando la svolta nei rapporti di forza tra capitale e lavoro che si realizza a fine decennio: svolta che ha il suo elemento principale nell’autonomia del valore di scambio e del valore d’uso della forza-lavoro dalle esigenze cicliche del capitale. Il conflitto operaio non si limita alle classiche lotte distributive ma diviene in primo luogo lotta allo sfruttamento: le lotte sul salario vengono affiancate da lotte sulla produttività, le lotte sull’orario dalle lotte sulla gerarchia nel processo di lavoro. All’interno di una base tecnico-organizzativa taylorista-fordista ormai matura – con la sua riduzione della prestazione lavorativa a erogazione continua, di cui è trasparente il nesso con il prodotto e con le relazioni di potere dentro la fabbrica – le lotte dell’operaio massa si concentrano sull’organizzazione e sul tempo di lavoro: lotte, dunque, che mettono immediatamente in questione l’ottenimento da parte del capitale di un pluslavoro, e più in generale minano la base del potere padronale, il controllo stesso della prestazione lavorativa.
Se le lotte di quegli anni non possono essere semplicisticamente viste come lotte per l’ottenimento di più valori d’uso, di più merci, di maggiore consumo reale (che sarà comunque una conseguenza del maggior peso politico, nella fabbrica e nella società, degli operai), ciò non significa che in esse la dimensione del valore d’uso sia irrilevante. Le lotte di quegli anni sono, anzi, proprio lotte sul valore d’uso della forza-lavoro. Si riscopre allora, praticamente, quello che è il cuore della teoria marxiana del valore-lavoro (ed è questa scoperta a consentire di rileggere in modo nuovo Marx): la valorizzazione del capitale è un processo la cui riuscita richiede come condizione necessaria, anche se non sufficiente, che il capitale riesca a mantenere la forza-lavoro nel suo ruolo di parte del capitale, di variabile dipendente dell’accumulazione, impedendole il movimento inverso, di farsi tutto da semplice parte, variabile autonoma da variabile dipendente, classe operaia da forza-lavoro. È questo capovolgimento che ha luogo dopo il sessantotto, e si esprime, appunto, nell’indipendenza dei movimenti della composizione di classe dalle esigenze cicliche dell’accumulazione, nel veto operaio all’estrazione di pluslavoro, nella messa in discussione dell’ordine capitalistico, dalla fabbrica alla società.
Vale la pena di insistere su quanto appena detto, perché proprio in ciò che è il punto più essenziale, e che dovrebbe anche essere (ma non è) il più scontato, del pensiero di Marx, proprio lì è forse possibile incontrare, insieme al noto, l’ignoto: individuare cioè intersezioni con i temi del sessantotto, e perciò anche possibili nuove letture di ciò che altrimenti potrebbe apparire tradizionale. Come sempre nel capitalismo, il capitale ha bisogno di trovare dentro all’immane raccolta di merci una merce particolare, dal cui acquisto possa venire un di più di valore. Questa merce è la forza-lavoro, il cui valore d’uso è il lavoro vivo, la sostanza del valore, che dunque può eccedere il lavoro contenuto nel suo valore di scambio, nelle merci che vanno a costituire i beni salario. La particolarità di questa merce sta però anche nel fatto che il valore d’uso della forza-lavoro non è separabile dall’operaio come individuo concreto. Il capitale, perciò, per ottenere lavoro e pluslavoro deve incidere sulla vita reale dell’operaio in quanto persona, deve sfruttarlo in quanto corpo, in quanto essere naturale. Nelle lotte dell’operaio massa il fatto che il conflitto si svolga immediatamente sul potere capitalistico di disposizione del tempo rende questo carattere generale del capitalismo cruciale nel definire le forme stesse dell’antagonismo: la lotta tra operai e capitale si manifesta come lotta dell’uomo concreto (nelle diverse stratificazioni di culture interne alla composizione politica di classe) contro il meccanismo impersonale della valorizzazione capitalistica.
Riemerge qui un tema che abbiamo visto essere tipico del sessantotto ‘studentesco’, e si anticipa in un certo senso una tematica ecologista (ci tornerò più avanti): basti pensare alle lotte per la salute, e dentro la fabbrica alla parola d’ordine – tutt’altro che scontata, come mostra la storia prima e dopo di allora – ‘la salute non si vende’. È presente anche, del sessantotto, la tensione tra eguaglianza e differenze: l’egualitarismo di quegli anni si accompagna difatti non alla negazione delle diverse culture presenti con diverso peso nella composizione della classe operaia di allora – dall’operaio di mestiere all’operaio massa, dall’etica del lavoro al rifiuto del lavoro – ma al loro comunicare e riconoscersi pari dignità ed efficacia, nel rifiuto di un meccanismo omologante. Il limite, semmai, sta nel fatto che la valorizzazione delle differenze interne alla classe ed il superamento di una nozione di eguaglianza come portato materiale e ineluttabile della tecnica e del ‘progresso’ è possibile solo nella comune negazione del comando capitalistico: continua a dipendere, in questo senso, da ciò che si nega; non è, in altri termini, un valore autonomo. È questa, come vedremo, una delle ragioni dell’instabilità e della debolezza del compromesso tra eguaglianza e differenze nella cultura operaia di allora.
Se questi sono alcuni dei caratteri di quel ciclo di lotte, si può dire a ragione che esse erano anche lotte contro il primato della produzione. Vi è, da un lato, la scoperta del potere di veto che gli operai possono esprimere come classe interrompendo la valorizzazione e mettendo temporaneamente in crisi l’accumulazione: per questa via, certamente, si riafferma la base materialistica e rivoluzionaria del cambiamento. La centralità operaia, in questa accezione, è dovuta alla centralità della valorizzazione nella società capitalistica, ed alla centralità del lavoro nell’accumulazione. La centralità che gli operai rivendicano è, in altri termini, nient’altro che la centralità delle lotte operaie nella messa in crisi di una data forma dell’accumulazione e, dunque, della società capitalistica. Ma, dall’altro lato, le forme che assumono tali lotte (nesso eguaglianza-differenze, autonomia dei movimenti della composizione di classe, primato dei bisogni concreti degli operai contro il meccanismo astratto della valorizzazione) costituiscono una critica pratica di straordinaria violenza alla tesi del primato delle ragioni dell’economia su quella delle altre sfere della connessione sociale – primato che in effetti Marx riconosceva reale, ma come carattere che si afferma solo con il capitalismo, e di cui appunto la sua teoria vuole dare una critica teorica. Per quanto paradossale ciò possa apparire, le lotte operaie di quegli anni, proprio per la loro (diciamo pure quella che oggi viene quasi universalmente considerata una brutta parola) ‘oggettiva’ radicalità anticapitalistica, sono lotte contro un meccanismo produttivo e sociale che in un certo senso è la loro condizione di vita. Anche qui Marx si rivela più moderno di quanto sia d’uso ritenere, quando scrive “Se vince, il proletariato non diventa il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto”(La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1972, p.37).
 
 
Altri tempi
 
La centralità operaia è stata oggetto, soprattutto dalla metà degli anni Settanta, di attacchi da più parti. L’attacco più efficace è stato, senza dubbio, quello del capitale: riaffermando la centralità della produzione contro la centralità operaia, riducendo nuovamente gli operai da classe operaia antagonista a forza-lavoro frammentata e dispersa, ha rimosso l’ostacolo principale alla sua valorizzazione, e alla sua egemonia. Riprendendo subito dopo a dividersi, come sempre, in frazioni antagoniste, per spartirsi il bottino dello sfruttamento.
Ma la centralità operaia è stata anche oggetto di attacco da parte di molte delle riflessioni emerse dai ‘nuovi movimenti’, in particolare quella femminista e quella verde. L’imputazione, schematicamente, è quella secondo cui la centralità operaia comporterebbe una ideologia dell’‘uomo produttore’. In quanto predicata su una generica, non sessuata, nozione di ‘uomo’, tale ideologia altro non sarebbe che una falsa universalizzazione, che attribuisce un indebito primato nell’agire umano alla dimensione del lavoro e della produzione di beni, cioè ad una dimensione che storicamente è stata solo o prevalentemente maschile. Di conseguenza, si sostiene, si finisce con l’attribuire ad entrambi i sessi ciò che è proprio solo di uno di essi, e con il negare valore ad altre sfere dell’attività umana come quella della riproduzione, storicamente delegata al genere femminile.
Inoltre, in quanto ideologia dell’uomo ‘produttore’, tale posizione sarebbe solidale rispetto ad un atteggiamento di dominio illimitato dell’uomo sulla natura, con tutte le conseguenze distruttive dell’equilibrio ambientale che abbiamo tragicamente sotto gli occhi. Di fronte a chi, a partire da una prospettiva marxista, replica sostenendo che è il capitale oggi la leva principale della discriminazione sessuale e della distruzione della natura, la risposta è quella secondo cui è semmai il capitale ad essere un momento di una vicenda, tutta maschile, di dominio sul diverso da sé; la lotta anticapitalistica non ha dunque ragione di pretendere una qualsiasi centralità, dal momento che l’abolizione dello sfruttamento di classe non comporterebbe né la fine del conflitto di genere né l’uscita dal produttivismo e dall’industrialismo.
Per mio conto, ho in parte anticipato di non condividere una visione che imputa ai movimenti nati nel sessantotto, alle lotte dell’operaio massa, o al marxismo (ad un certo marxismo, e ad un certo operaismo) una negazione delle differenze o una affermazione di un primato della produzione in quanto tale. E ho anche fatto capire in che senso, limitato ma potente, mi pare che una centralità operaia vada ristabilita (centralità di un’altra composizione di classe, in un diverso modo dell’accumulazione): allo scopo, precisamente, di far marciare su gambe reali la lotta alla centralità della produzione. Mi pare però che un nodo vero venga colto dalle critiche femministe e verdi alla nozione di centralità operaia come era pensata all’interno della sinistra classista: si tratta della metamorfosi, che effettivamente ha avuto luogo nella seconda metà degli anni Settanta, della centralità che potremmo chiamare ‘sociale’ degli operai in una nozione di centralità ‘politica’ nel movimento anticapitalistico; questa metamorfosi, dal mio punto di vista non ineluttabile ma di cui è il caso di chiedersi perché sia avvenuta, ha implicato un offuscamento prima ed una subordinazione dopo del ruolo degli altri soggetti. Il conflitto operaio, che dalla fabbrica si era esteso alla società, si concentrò nuovamente nella fabbrica, e da lì non fu più in grado di uscire.
La storia della divaricazione tra operai e nuovi movimenti, nella seconda metà degli anni Settanta, può essere sintetizzata in un doppio processo. Un versante ne è ampiamente noto: quello di cui, appunto, è paradigmatico il femminismo post ’75, con le differenze che si affermano fuori e contro l’eguaglianza, rivendicando l’autonomia dei propri tempi da quelli degli operai, ed in genere dagli altri soggetti sociali: una autonomia che diviene presto totale separazione. Abbiamo qui un’altra versione del tentativo – comprensibile, ma a mio parere profondamente contraddittorio – di fondare un’altra, diversa, comunità. Il versante meno noto, almeno all’interno della cultura di cui faccio parte, è quello che rivela la faccia negativa, in qualche misura dispotica e fragile al tempo stesso, della centralità politica degli operai così testardamente proclamata, e altrettanto vivacemente contestata, in quegli anni.
Una classe operaia forte era riuscita a bloccare la valorizzazione tra il ’69 e il ’73. Vi aveva fatto seguito uno stallo nei rapporti di forza tra le classi, che il Partito e il Sindacato utilizzavano sul mercato politico per ottenere potere in cambio della loro compartecipazione alla destrutturazione dei luoghi di forza operai. Nella seconda metà degli anni Settanta abbiamo così una classe operaia che si ritiene illusoriamente forte dentro la fabbrica, ma si sa in trincea e misura il proprio isolamento nei confronti della società. Non vede che il ‘progresso’ tecnologico, la rivoluzione del capitale fisso, svuota i presupposti della rigidità nell’uso della forza-lavoro degli anni precedenti, e prepara la flessibilizzazione del capitale negli anni Ottanta. Quella classe operaia legge anzi l’innovazione nei processi produttivi come una propria conquista: o vaneggiando un controllo degli investimenti, o credendo irreversibile l’aumento del tempo libero in fabbrica.
Esemplare a questo proposito la vicenda della Fiat. Nella seconda metà degli anni Settanta quasi nessuno si rese conto di ciò che avveniva nella grande fabbrica torinese. Si era di fronte ad una  circostanza del tutto peculiare ed eccezionale, al fatto cioè che la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario frutto dei mutamenti tecnologici aveva luogo in una situazione sociale in cui la classe operaia era ancora in grado di impedire che aumenti della forza produttiva del lavoro o riduzioni della domanda si traducessero in disoccupazione. Si trattava cioè della conseguenza del permanere di una rigidità nel mercato e nel processo di lavoro: ma era proprio quella rigidità ad essere erosa dalla rivoluzione dall’alto del capitale, che prima aggirava e poi attaccava i punti di forza del controllo operaio sul ciclo produttivo. Quando ciò si verificò – quando cioè la flessibilità del nuovo sistema di macchine consentì al capitale di rendere nuovamente flessibile il mercato del lavoro e la prestazione lavorativa, espellendo gli operai dalla grande fabbrica e aumentando vertiginosamente la produttività per addetto – quel ‘tempo libero’ in fabbrica diverrà tempo vuoto fuori dalla fabbrica. Realtà dei fatti, questa, su cui l’unico che negli ultimi anni ha avuto parole chiare, e del tutto condivisibili, è stato Cesare Romiti.
Una classe operaia che sente fragile la propria forza e che sperimenta un isolamento crescente è lo sfondo che vede molte avanguardie proporsi come centro del soggetto collettivo più ampio rivendicando un primato sugli altri soggetti sociali. In questo modo, però, finisce con l’andare perso quello che mi pare uno degli elementi più originali del ciclo di lotte dell’operaio-massa: l’essere insieme lotte ‘dentro’ e lotte ‘contro’ il capitale; il realizzare una critica pratica dell’economia politica; l’affermare, insomma, la centralità operaia solo in quanto critica della centralità dell’economico tipica del capitalismo.
La forza delle lotte dell’operaio massa si rivela al tempo stesso come il suo limite. Proprio in quanto vincente, quella classe operaia aveva finito con il mettere in questione anche la propria centralità nel soggetto anticapitalistico: lì, nel punto più alto del proprio percorso, si era rivelata priva di una capacità autonoma di prefigurare nuove forme di organizzazione sociale e nuovi valori, a partire dalla compresenza e dalla comunicazione di diversi linguaggi e di diverse ragioni: più per la novità e la radicalità della posta, dunque, che per l’essere il conflitto operaio conflitto di tipo tradizionale, come invece suggerisce la critica femminista e verde. Lotta (operaia) al capitale come dominio dell’astratto e (dentro e oltre quella lotta) sviluppo e arricchimento delle differenze concrete si separano: come conseguenza anche di questa frattura, gli operai saranno ridotti nuovamente a forza-lavoro, a parte del capitale, e si faranno a volte (e senza contropartita) solidali con le ragioni della produzione per la produzione, cui è legata la loro condizione.
 
 
Critica del femminismo
 
Il femminismo italiano della seconda metà degli anni Settanta è un femminismo caratterizzato dalla estraneità rispetto al conflitto di classe; è, più in generale, un femminismo che proclama di essere indifferente, quando non ostile, all’idea di eguaglianza. Si è appena detto che questo movimento di separazione e allontanamento dalla sinistra operaia ha cause reali, trova giustificazione in limiti precisi della cultura marxista e operaista anche più avvertita. Ciò non toglie che si tratti di un arretramento, e che sia opportuno sviluppare una critica di molte delle forme che questo femminismo, quello dell’ultimo decennio, ha preso.
Vi sono, certamente, delle posizioni femministe che accentuano la fondazione biologica della differenza sessuale: il passo verso l’affermazione della differenza come diseguaglianza naturale ed originaria è qui breve, e pericoloso. Si tratta però di posizioni poco interessanti, anche perché poco rilevanti: sarebbe un errore ridurre il nuovo femminismo a ciò. Più interessanti sono le posizioni che riconducono il femminismo alla differenza di ‘genere’, cioè ad una differenza tra maschile e femminile che trova origine in un impasto di natura e cultura, in cui il secondo termine ha la prevalenza sul primo, gli dà forma. All’interno di questo modo di impostare la questione, tanto la ricerca quanto il movimento delle donne hanno avuto certamente il merito di dare peso, scientifico e politico, a temi non a caso a lungo disattesi dalla ricerca ‘maschile’: dalla maternità al lavoro domestico; dalla finta neutralità asessuata del linguaggio alla tutt’altro che ‘naturale’ formazione psicologica delle personalità maschile e femminile; dalla critica del prometeismo della scienza e della tecnica attuali alla accettazione della logica del rischio come costo del progresso tecnico. E si potrebbe continuare.
La ricchezza delle scoperte è stata però ingabbiata in due atteggiamenti antitetici, ambedue inaccettabili. Il primo consiste nel dare veste postmoderna al pensiero della differenza: si accetta la dissoluzione dell’unità sociale in frammenti non solo diversi ma incomunicanti come un fatto positivo, e che anzi non può non riprodursi all’infinito nello stesso movimento delle donne, dando luogo ad un benefico proliferare delle differenze (plurali). Quanto meno esse si toccheranno, quanto più contraddittorie esse saranno, tanto più ricco si rivelerà il movimento delle donne. In questa posizione l’ambiguità iniziale del femminismo della differenza – che nel porre l’accento sull’identità sostantiva femminile si dichiara indifferente all’affermazione di una eguaglianza tra gli individui, la quale effettivamente comporta un processo di astrazione dalle differenze, l’accettare che per certi aspetti e per convenzione non si tenga conto di ciò che rende diversi – sfocia in una sorta di programmatica e rivendicata irrilevanza: solo la convinzione che punti di vista diversi conducano a vivere realmente in mondi diversi può difatti rendere irragionevole giungere ad un progetto comune, può trasformare l’incoerenza da limite in ricchezza.
Ciò che totalmente sfugge a questo punto di vista è il fatto che la pluralità irrelata dei soggetti sociali non è che l’altra faccia del medesimo processo di ristrutturazione sociale ed economica di cui ho parlato prima: la ‘debolezza’ delle pretese, conoscitive e trasformative, dei nuovi soggetti, che segnerebbe in modo ‘femminile’ gli anni recenti, è il risultato di un potere sistemico capillarmente diffuso e invisibile, ma proprio per questo ‘fortissimo’, ed in questo senso ‘maschile’. Mi pare, per esempio, significativo che il movimento delle donne dopo Chernobil si sia trovato diviso tra posizioni che si limitavano a dichiarare una estraneità rispetto al mondo degli uomini, e posizioni che invece mettevano i piedi nel piatto di una critica globale al sistema scientifico, industriale e militare: percorrere la seconda strada porterebbe probabilmente lontano da un pluralismo in cui tutto va bene perché nulla conta.
Il secondo atteggiamento che ha egemonizzato la discussione femminista negli ultimi due anni è bene rappresentato dalle posizioni dominanti nella Libreria delle Donne di Milano e nel gruppo di filosofe di Diotima (rispettivamente Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, e Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987): tale atteggiamento può essere definito, in opposizione al primo, come premoderno. Al contrario che nella posizione precedente, abbiamo qui una critica del pluralismo e del pensiero debole, e la proposizione di un pensiero forte della differenza sessuale, che non annega la differenza di genere nelle altre differenze. Qui il richiamo all’identità si fa però talmente forte da cadere in un essenzialismo dai tratti hegeliani: è l’essere donna, esperito come un fatto, a dover trovare una significazione, ed in ciò sta il compito principale attribuito oggi al movimento delle donne, nella costruzione separata di un linguaggio, di un pensiero, di una cultura, persino di un immaginario femminili – il ‘persino’, va chiarito, è dovuto al fatto che questo obiettivo appare essere proposto come obiettivo attuale, con un ottimismo idealistico per certi versi invidiabile. L’essere differenti tra donne potrà prendere senso solo una volta dato significato a questa comune origine, a questo comune essere donne. Questo ‘fatto’, l’essere donne, assunto aprioristicamente (e irrazionalmente) come fondamento di unità, si sviluppa in un separatismo che non è più momento di individuazione per riconoscersi ed andare poi all’incontro con l’altro, ma che diviene anzi progetto strategico. L’affermazione – che condivido – secondo cui la duplicità di genere dà luogo a punti di vista differenti si prolunga nella tesi, che mi pare invece inaccettabile, secondo cui non avrebbe senso l’universalismo (l’affermazione della presenza di caratteri comuni ai generi: caratteri certo sempre da costruire, e sempre transitori, ma nondimeno tali da poter parlare, appunto, di ‘un’ genere umano); e trascolora quindi da differenza di genere a differenza di specie. Siamo qui, di nuovo, alla costruzione di una comunità altra, ma in una forma estrema, tale da rompere per principio la possibilità di dialogo razionale. In qualche modo, se si vuole, si tratta anche di una posizione rassicurante per il ‘maschile’: cosa infatti ne sia del mondo maschile, fintamente neutro, che le donne dovrebbero così radicalmente abbandonare, non importa; ad ognuno le sue regole.
Quando poi si va a guardare il tipo di rapporti che questo femminismo propone dentro la comunità delle donne – di cui è emblematico l’‘affidamento’ della Libreria delle Donne di Milano (“Affidarsi – recita la controcopertina del loro libro – non è uno specchiarsi pari pari nell’altra per confermarsi quello che si è, ma chiederle e offrirle il mezzo di avere nel mondo esistenza vera e grande”) – si scopre che in realtà nemmeno lì l’eguaglianza degli individui (sia pure donne) vi ha molto peso: “l’ideale dell’uguaglianza non aveva e non ha niente a che vedere con la storia e lo stato dei rapporti fra donne. Tant’è che l’uguaglianza s’intende, parlando di donne, delle donne con gli uomini” (p.146). Anzi, dentro l’insieme, dentro il ‘corpo’, delle donne appare non solo accettabile ma in qualche modo da valorizzare un essere diverse che ha il sapore delle gerarchie: perché la riproduzione di ruoli diversi, fissati in una divisione del lavoro ed in una asimmetria di poteri, appare qui una naturale articolazione del tutto femminile. Ciò che conta è la comune identità, ed i comuni interessi: “Prima di tutto viene la fedeltà a quello che è, a quello che si è” (p.162). Le singole sono libere solo in quanto riconoscono la necessità del loro essere donne, e dunque si riconoscono come parte del mondo delle donne: libertà dunque non è autonomia dell’individuo-donna, ma appartenenza; libertà ed eteronomia cessano di essere termini opposti, e possono coniugarsi insieme, con un salto netto a prima della rivoluzione francese (non a caso il libro della Libreria delle Donne di Milano ha per titolo Non credere di avere dei diritti). Alla frammentazione sociale del postmoderno si oppone così il ritorno a logiche da antico regime.


* Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità.
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L’ARTE DELLA MATEMATICA

19/6/2018
​di Giovanni Di Benedetto

Venerdì 22 giugno alle ore 18.00 presso la libreria laFeltrinelli di Palermo, in via Cavour 133, si terrà la presentazione del libro di Simone e André Weil 
L’arte della matematica (Adelphi edizioni, 2018) curato da Maria Concetta Sala. Insieme alla curatrice parteciperanno alla presentazione Ina Castellino e Giovanni Di Benedetto. Pubblichiamo qui di seguito una recensione del libro scritta da Giovanni Di Benedetto. 



Nell’aprile del 1940 Simone Weil scriveva al fratello André, detenuto a Rouen in attesa di giudizio di fronte al tribunale militare per renitenza alla leva, una bozza di lettera probabilmente mai spedita. André Weil è un giovane matematico, un ragazzo prodigio che ha scelto di consacrare tutta la propria esistenza allo studio della matematica. Ecco uno stralcio di quella missiva della sorella, indicativo del clima che si respirava in Francia al momento dello scontro bellico contro il nazifascismo: “Un’atmosfera pesante, fosca, soffocante è calata sul paese, così che la gente è giù di corda e scontenta di tutto, ma, per contro, è disposta a incassare qualunque cosa senza protestare e perfino senza stupirsene. Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento generale, considerato sempre dagli osservatori superficiali come un indice della fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario. Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una sottomissione pressoché illimitata per decine e decine d’anni; quando al sentimento della sventura si unisce l’assenza di speranza, come sta accadendo ora, gli uomini obbediscono sempre, fino a quando uno shock esterno non restituisca loro la speranza” (L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018, p. 101). Sono parole dalle quali si evince, anche se sottotraccia, la denuncia per la crisi di senso che investe la società francese durante gli anni del secondo conflitto mondiale (ma forse, declinate nella direzione dell’attualità, che investe anche il nostro tempo) e che rimandano a un sentimento di spaesamento e frammentazione. Anche se l’occasione da cui muovono queste considerazioni, come si è detto, è strettamente connessa ai tragici eventi del secondo conflitto mondiale, tuttavia come non cogliere quel sentimento di estraneità con cui si è svuotata, nel contemporaneo, la vita sociale, caduta in preda di una crisi di senso che intossica in modo pervasivo la trama delle relazioni sociali?

Il bellissimo libro L’arte della matematica (Adelphi, Milano, 2018), di Simone e André Weil, curato da Maria Concetta Sala, si legge tutto d’un fiato: dal testo affiora nitidissima l’affettuosa complicità, la profondità dell’intesa e il tenero legame che accomuna fratello e sorella. L’erudizione dei due giovani interlocutori, che traspare dallo scambio epistolare, è davvero emozionante e, allo stesso tempo, sconcertante. I due sorvolano con una disinvoltura strabiliante i più svariati campi del sapere, dalle scienze matematiche, geometria e algebra in primis, alla filosofia antica, dalla sapienza orientale alla cultura del Seicento e illuministica, dalla letteratura alla riflessione sulla scienza contemporanea. A questo si aggiunge la forza con cui i due riescono a fare degli argomenti trattati materia viva e concreta dell’esistenza quotidiana, esperienza pratica, oltre che teorica. In loro il sapere si innesta vivamente nel travaglio quotidiano, l’uno che si fa incarcerare pur di ribadire la propria obiezione di coscienza contro la guerra, l’altra che riconduce ogni bisogno intellettuale e religioso all’impegno, per così dire, militante.  

Ne La prima radice Simone Weil definisce lo sradicamento come la mancanza di “partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro” (La prima radice, SE, Milano, 1990, p.49). La sua causa è individuabile in una qualsivoglia forma di conquista, a volte militare, più spesso determinata dal potere del denaro e dalla dominazione economica. Ma anche l’istruzione e la trasmissione del sapere possono configurarsi come fattori che concorrono allo sviluppo di una pseudocultura sviluppatasi in un ambito molto ristretto, orientata verso lo specialismo e separata dal mondo. Scrive la giovane filosofa: “Ai giorni nostri, un uomo può appartenere alla società cosiddetta colta, senza avere nessuna idea sul destino dell’uomo, e d’altra parte, senza sapere (per esempio) che non tutte le costellazioni sono visibili in ogni stagione” (ibidem, p.51). 

Forse la richiesta che Simone Weil rivolge al fratello André, di riflettere sul modo di fare intravedere ai profani la natura degli studi matematici per renderli fruibili anche al di fuori della ristretta cerchia di iniziati e specialisti della materia, può essere collocata entro quello sfondo teorico impregnato di riflessioni sulla crisi degli attuali sistemi sociali e dei modelli di trasmissione del sapere ad essi coerenti, entrambi tendenzialmente totalitari. Da questa prospettiva è comprensibile che emerga, nella giovane filosofa, il bisogno di ripensare i fondamenti del sapere tutto, e dunque anche di quello matematico, connettendoli alle istanze di cambiamento sociale e politico e al tentativo di ricongiungere armoniosamente dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione mondana e dimensione spirituale, immanenza e trascendenza. Perché, come scrive la sorella di André, “concepire l’universo come un equilibrio, un’armonia, è come farne uno specchio della salvezza” (95) (Da qui a seguire, ove non esplicitato diversamente, i numeri tra parentesi rimandano alle pagine de L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018). 

Da qui segue, innanzitutto, la particolare concezione, di Simone Weil, della scienza e della matematica antiche, in particolare della aritmo-geometria dei pitagorici e poi dei platonici. Tutto si svolge a partire da una serie di impegnative riflessioni sul problema degli incommensurabili. Aristotele ci informa che i pitagorici spiegavano il mondo naturale rinviando a relazioni numeriche. I fenomeni naturali, infatti, sarebbero stati spiegabili attraverso rapporti tra numeri: in questo modo si sarebbero potute evidenziare le analogie che sarebbero sussistite tra i fenomeni naturali e i rapporti numerici. Visto che attraverso i numeri si potevano esprimere e conoscere le cose della natura, i pitagorici concludevano che attraverso i numeri sarebbe stato possibile spiegare tutto. 

La concezione pitagorica del numero era di tipo qualitativo, fisico-geometrico, e si risolveva nella disposizione spaziale di punti. È chiaro che questo modo di intendere il numero comportava il riferimento ai soli numeri interi concepiti come insiemi di più unità. Vale la pena di aggiungere, incidentalmente, che anche il fenomeno qualitativo del suono, da questo punto di vista, obbedisce a rapporti di natura quantitativa. Ma proprio il fondarsi del pitagorismo esclusivamente sui numeri interi faceva della concezione matematica una concezione basata sul discontinuo che rendeva impossibile tenere conto dei numeri irrazionali, ovvero dei numeri che esprimevano un rapporto tra due grandezze incommensurabili. Proprio l’applicazione del teorema di Pitagora a uno dei due triangoli isosceli in cui è possibile dividere un quadrato, dimostra che non può esistere alcun segmento, per quanto piccolo, che sia contenuto, per un numero esatto di volte, tanto nel lato quanto nella diagonale del quadrato: lato e diagonale sono incommensurabili e questo comporta l’impossibilità che ciascuno di essi sia costituito da un numero finito di punti. È dunque l’impossibilità di esprimere numericamente il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato.

André Weil usa l’espressione logoi alogoi (le ragioni irrazionali, i rapporti senza rapporto), si potrebbe anche dire parole senza parola, per fare notare alla sorella che la scoperta dei numeri irrazionali e il problema dell’incommensurabilità avrebbe rappresentato un vero e proprio trauma per i Greci. Tuttavia sul problema degli incommensurabili e della proporzione scrive Simone Weil: “Non posso ammettere che si dica che i Greci si sono applicati «disperatamente» alla proporzione (…) o che abbiano avuto un sentimento così intenso della sproporzione fra l’uomo e Dio. Tutti gli uomini hanno il sentimento di una distanza infinita e al tempo stesso di un’unità assoluta fra l’uomo e Dio; questi due sentimenti contraddittori si combinano ovunque con infinite sfumature. Nei Greci l’angoscia e la disperazione erano estranee al sentimento del loro rapporto con il mondo, giacché essi preservavano sempre il senso della felicità” (80-81). Proprio la formula secondo la quale tutto è numero avrebbe, è vero, comportato uno scandalo, ma gioioso: “Se in un dato caso si è scoperto che anche ciò che non è numero continua nondimeno a essere in un certo senso numero, si può dire allora che tutto è numero – ossia rapporto” (79). Dunque “in tutte le cose, nessuna eccettuata, vi sono rapporti analoghi ai rapporti fra numeri” (88). Da qui l’idea che i numeri rappresentassero il principio. 

Il problema degli incommensurabili nei pitagorici rimanda, secondo Simone, alla possibilità che un rapporto numerico, che non può essere espresso in numeri, non solo esista ma sia addirittura più puro perché svolto esclusivamente dall’intelletto senza l’ausilio dei sensi. Per inciso, un convincimento analogo mi pare si possa cogliere nelle considerazioni di Alain Badiou quando scrive che “la semplicità della matematica, la sua nudità, la sua assenza di compromessi rispetto al livello medio delle cose e al magma delle opinioni, tutto questo orienta il pensiero e l’esistenza, di chi vi si dedica, verso la direzione della vera vita” (Badiou, Elogio delle matematiche, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p.66). Insomma, “quello che ha causato la rovina del pitagorismo non sono gli incommensurabili, ma semplicemente il massacro dei pitagorici verso la metà del V secolo” (25).
Vale sottolineare che, come ricorda Platone nella Repubblica, l’insegnamento di Pitagora finalizzava l’attenzione per le matematiche alla preoccupazione etica per la condotta umana, per il conseguimento della felicità e della salvezza. Quest’ultima dipendeva dalla qualità dell’esistenza e dall’assunzione di regole e norme da applicare per la condotta e il comportamento umani. Scrive Platone che “Pitagora (…) fu in sommo grado amato per questa attività (educazione) e i suoi successori, che hanno chiamato il loro modo di vita pitagorico, risaltano in un certo senso tra tutti gli altri” (Repubblica 600 b). La contemplazione dei numeri, disvelando l’ordine matematico complessivo (kósmos) e l’armonia musicale dell’universo di cui si sarebbe dunque acquisita la consapevolezza, si configurava come tramite per la purificazione etica (del corpo) e spirituale (dell’anima). Come se, secondo i Greci, si potesse istituire una relazione tra l’armonia dell’ordine cosmico e l’armonia interiore dell’uomo impegnato nel perseguimento del bene, del bello e del vero. “Le matematiche, infatti, costituivano a loro giudizio – dice Simone Weil – non un esercizio della mente, ma una chiave della natura; chiave ricercata non in vista della potenza tecnica sulla natura, ma al fine di stabilire un’identità di struttura fra la mente umana e l’universo” (27), “un’affinità fra la mente umana e l’universo” (40).

Ora, la purificazione stessa consisteva “nel fatto che l’ordine dell’universo diventa oggetto d’amore” (82). È l’amore dell’uomo nei confronti della natura, una sorta di saggezza sistemica come sentimento di solidarietà che si fonda sull’indissolubile legame e sulla sostanziale identità dell’uomo con la natura. Per esistere l’uomo ha bisogno di relazioni, di essere in relazione con ciò che lo circonda perché l’individuo davvero indipendente è l’individuo che ama la natura, l’individuo che, per dirla con Spinoza, nell’amore intellettuale di Dio si comprende come più esteso, più gioioso e più amante. Più gioioso per l’appunto: secondo Simone Weil i Greci, che avevano una concezione dolorosa della vita perché coscienti del gravame della necessità delle forze naturali, sapevano anche cos’era la felicità: “Concepivano la felicità come equilibrio; equilibrio fra le parti dell’anima, equilibrio fra gli uomini, equilibrio fra il pensiero e il mondo. L’affinità fra geometria e giustizia, l’idea che il mondo è costituito da un’armonia, così come l’anima quando è ciò che deve essere, sono considerate da Platone come il tesoro di un’antica sapienza” (81). 

Questa riflessione richiama una concezione della vita beata e felice che non comporta l’inerzia nei confronti della ineludibile necessità naturale, ma amore nei confronti delle cose per come ci appaiono nella loro necessità e gioia derivante dal nostro concreto agire. Qui, forzando un po’ le cose, ma mi auguro nella direzione pensata da Simone Weil, essere gioiosamente consapevoli di tale necessità non vorrà dire accontentarsi della realtà per come la si percepisce, ma agire e lottare per cambiare i contesti di cui l’uomo fa parte: non bisogna restare inermi nei confronti di coloro che fanno del male, né bisogna approvare chi pretende di affermare di vivere nel migliore dei mondi possibili. Dalla prospettiva indicata da Simone Weil il sapere dell’individuo è utile nella misura in cui comprende di essere armonicamente parte della totalità più vasta nella quale è inserito. 
Un’ulteriore questione mi pare investa la delicatissima riflessione sulla natura e il carattere della scienza moderna. Si aggiunga, anche se indirettamente, la lucida critica dei limiti di quella concezione dello svolgimento storico che si fonda su una distorta fede nel progresso. A esemplificare i limiti della scienza moderna è l’algebra, quale tecnica dei segni che si sostituiscono al significato e che impediscono di pensare. L’algebra è sinonimo di automaticità meccanica che ha come fine la presunta efficacia della scienza moderna. Al contrario, secondo Simone Weil, lo spirito della scienza greca è, come si è detto, indisgiungibile dalla ricerca etica del bene e dal perseguimento di una condotta in grado di armonizzarsi con la collettività, la natura e l’universo intero. Da qui l’attenzione dedicata alla geometria che viene contrapposta, seguendo il percorso della riflessione sui greci, proprio all’algebra. Entra in gioco, come si è detto, l’attenzione per l’aritmo-geometria dei pitagorici secondo i quali il numero è rapporto che lega tutto. Dio, dice Simone Weil, non è un algebrista (p.15). Ecco perché, continua la sorella di André, “la matematica attuale (…) sembra molto lontana dal mondo” (28). Del resto, come scrive Carl B. Boyer, nella sua Storia della matematica, “la matematica del ventesimo secolo ha dato grande rilievo all’astrazione e si è sempre più interessata all’analisi di strutture generali. Ciò è visibile più chiaramente che altrove nelle opere pubblicate intorno alla metà del secolo dal matematico policefalo noto sotto il nome di Nicolas Bourbaki” (C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1968, p.718). Ma in fondo sarebbe questo, fin dagli albori dell’epoca moderna, il carattere, secondo Hume, delle proposizioni dell’aritmetica e dell’algebra: le loro conoscenze si ricaverebbero esclusivamente su un piano ideale, disgiunto da qualsiasi pretesa di corrispondere alla realtà esterna dell’esperienza. La conoscenza concettuale si rivela così un sapere riduzionistico che non si accorge dei limiti e dell’inadeguatezza con cui si accosta al mondo circostante. Spesso si confonde la rappresentazione della realtà con la realtà stessa, dimenticando il valore relativo dei simboli concettuali di cui si sostanzia la conoscenza. Di conseguenza, diventa arduo accorgersi non solo di essere inseriti ma anche di partecipare alle molteplici modificazioni che avvengono entro il contesto nel quale ci si trova.

Ci sono, infine, un paio di suggestioni che vale la pena ricordare. Alle pagine 84 e 85, riferendosi ai grandi artisti che associano concezioni del mondo e lavoro degli occhi e delle dita, scrive Simone Weil: “In generale penso che negli uomini di primissimo ordine nessuna attività sia senza intimi legami con tutte le altre”. Si veda anche pagina 97 dove la Weil ribadisce, forse precisandolo, tale convincimento: “In generale non penso che un uomo di primissimo ordine accetti una concezione della vita umana, del bene, ecc., dall’esterno, a casaccio (…), né che in un tale uomo possa esservi una qualche forma di attività senza strette relazioni con tutte le altre”. Uno degli aspetti più inquietanti della crisi contemporanea attiene alla frammentazione e liquefazione della soggettività, e dunque alla sua estraneazione. Il tema si può prestare a differenti interpretazioni e rischia di essere viscido e complesso. Tuttavia è certo che è necessario ripensare una nuova concezione dell’umanità che, entro una rinnovata ricomposizione unitaria,  non si sottragga al dovere di affrontare le grandi tragedie del nostro tempo. 
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In questo senso, il pensiero della differenza, e insieme a esso la psicanalisi, la cultura ecologica della complessità, la cultura della nonviolenza e il marxismo, sono da annoverare tra le più importanti risorse cui formarsi e attingere tutto quanto può concorrere a perseguire questo compito di rinnovamento dell’umanità. Le considerazioni di Simone Weil fanno pensare a un’idea della coerenza che non si riduca a un becero e superficiale monolitismo comportamentale ma alla capacità di costruire, di fronte alla precaria fragilità delle esistenze flessibili che affrontano l’epoca contemporanea, un ideale regolativo che sappia tenere conto della complessità del tempo presente, che sappia meditare la relazione tra il fare e il pensare, che sappia considerare in modo pertinente il nostro stare al mondo in relazione plurale con gli altri e le altre.
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UNA CRISI, TANTE TEORIE

15/6/2018
di Marco Palazzotto

​Pubblichiamo la relazione introduttiva di Marco Palazzotto all’incontro con Vincenzo Comito, “Banche tra normativa europea e digitalizzazione”, tenutosi a Palermo il 16 maggio 2018. Qui il video dell'incontro. 

 
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a vari dibattiti sulla crisi finanziaria scoppiata nel 2007/2008. Tenterò di sviluppare sinteticamente alcune analisi che più meritano attenzione, a mio parere, nella discussione a sinistra.
Un primo esame della crisi si può far rientrare nel filone del cosiddetto ‘marxismo ortodosso’ e fa riferimento alla legge, che Marx espone in buona parte nella sua principale opera Il capitale, chiamata teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.
In breve: il saggio di profitto (Sp) è dato dal rapporto tra plusvalore (Pv) e capitale (quest’ultimo è pari alla somma tra capitale costante [C] e variabile [V]):
Sappiamo anche che il saggio di plusvalore (Spv) prodotto dalla classe lavoratrice è uguale al rapporto tra plusvalore e capitale variabile (investimento in forza lavoro):
​Marx afferma che esiste una tendenza – apparentemente dovuta al progresso tecnologico, e che si manifesta nei relativi investimenti in capitale costante – che fa aumentare la composizione organica del capitale (rapporto tra capitale costante e variabile). Tale tendenza è dovuta al continuo tentativo di aumentare la produttività per ottenere maggiore plusvalore (diviso in plusvalore assoluto e relativo). Più aumenta il capitale costante in rapporto al capitale variabile (denominatore della formula 1) più diminuisce il saggio di profitto.
Tale teoria, viste le controtendenze in atto nel capitalismo (ad esempio: consumismo nel fordismo del dopoguerra; oppure  finanziarizzazione nel neoliberismo) viene criticata, in diversi casi, come poco aderente alla realtà.
Solo per accennare ad alcune critiche più autorevoli, Sweezy ad esempio fa notare che, partendo dalla formula del saggio di profitto, la presenza di una variabile al numeratore ed una al denominatore (ovvero il saggio di plusvalore e la quota di capitale costante) rendono la teoria poco applicabile empiricamente. Sweezy, infatti, asserisce che: “se si afferma, come noi affermiamo, che tanto la composizione organica del capitale quanto il saggio del plusvalore sono delle variabili, la direzione nella quale il saggio del profitto cambierà diviene indeterminata” (“La teoria dello sviluppo capitalistico”, tratto da “The communist – Contro l’economia politica di Sweezy” – quaderni 1979). Infatti, sarebbe tautologico, usando un’espressione di Joan Robinson, descrivere come tendenzialmente calante un rapporto che vede costante il saggio di plusvalore (Stefano Perri, Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio di profitto, tra teoria ed evidenza empirica. Convegno The Global Crisis, Siena 2010).
Un’altra chiave di lettura può essere fornita dagli studi sulle variabili distributive di Kalecki o Sraffa. Kalecki, per esempio, nella sua Teoria della dinamica economica afferma che il saggio di profitto è una variabile ‘esogena’. In altre parole il capitalista fissa tale variabile dopo aver deciso quale quota del suo reddito destinare ai consumi e che investimento realizzare basandosi sulle aspettative future dell’efficienza marginale del capitale (Sulla dinamica dell'economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Einaudi 1975). Se la classe capitalista fissa quindi il saggio di profitto, le variabili che lo influiscono diventano dipendenti e non il contrario.
Una seconda analisi della crisi è stata sviluppata da alcuni accademici post-keynesiani. L’Europa, che è stata investita dalla crisi dei subprimes proveniente dagli USA, non costituendo un’area valutaria ottimale, ha fatto emergere gli squilibri commerciali derivanti dalla ‘gabbia’ dell’Euro che non permette svalutazioni competitive e politiche espansive (Bagnai e Cesaratto dal 2011). Una tendenza al mercantilismo della Germania e dei satelliti dell’ex area del marco hanno prodotto avanzi di bilancia dei pagamenti di parte corrente, che si sono tradotti in crediti finanziari verso i debitori dei paesi del sud Europa. I target 2 rappresentavano un termometro di questi squilibri. Quando le banche del centro nord hanno richiesto di rientrare dalle posizioni debitorie sono esplosi i debiti pubblici. Sappiamo come è andata poi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.
Una soluzione a tale crisi, secondo alcuni, potrebbe derivare dalla rottura degli accordi monetari. Ritornando ad una moneta fluttuante, che segue i differenziali di prezzo tra le diverse economie, si manterrebbero i rapporti tra importazioni ed esportazioni in equilibrio e si neutralizzerebbero le tendenze mercantiliste dei pesi in surplus come la Germania. In verità tale soluzione dovrà essere accompagnata da una politica monetaria espansiva di banche centrali sotto il controllo statale. Una maggiore ingerenza nell’economia da parte governativa dovrebbe avvenire anche per alcuni settori chiave e trainanti, come il settore energetico, delle telecomunicazioni, dell’industria pesante, dei trasporti.
Una variante marxista di tale interpretazione individua il problema nella politica di costruzione europea: i vincoli imposti dalle varie politiche di austerità, come il fiscal compact, non sarebbero altro che il frutto di volontà di oligarchie internazionali per tenere sotto controllo le economie dei paesi meridionali. In particolare, i più colpiti ne uscirebbero i lavoratori in un contesto di conflitto tra classi sociali antagoniste. Tale comitato d’affari europeo può essere sconfitto solo attaccandolo sulla costruzione continentale e quindi ponendo come obiettivo lo smantellamento delle istituzioni europee, ottenendo la tanto agognata “sovranità nazionale”.
Una terza interpretazione della crisi, riformista e ‘compatibilista’ rispetto alla struttura istituzionale europea, è quella che potremmo chiamare più puramente keynesiana (un esempio è quello francese de Les Economistes atterrés). Tale lettura prende in considerazione la sproporzione tra i profitti del settore finanziario e quelli dei settori produttivi. Ci sarebbe un intervento esagerato nella finanza dei pochi. Inoltre, esiste un problema distributivo: quote sempre maggiori di reddito, nella ripartizione del surplus mondiale, vengono accentrate presso una classe, mentre i percettori di salari ottengono quote sempre minori. Soluzioni vengono ricercate nella diminuzione del potere della finanza. Una proposta verte sulla Tobin Tax. Gli squilibri distributivi potrebbero essere ridotti grazie ad un aumento della domanda aggregata su impulso dei consumi via aumenti salariali, e diminuzione della disoccupazione via investimenti pubblici. Infine i debiti pubblici e gli investimenti pubblici potrebbero essere stimolati solo da una Banca Centrale Europa che assuma il ruolo di Lender of last Resort (prestatore di ultima istanza).
Una quarta ed ultima valutazione della crisi viene da altri economisti che pongono al centro l’interpretazione marxiana mista alle teorie post-keyenesiane che utilizzano modelli come quelli elaborati per spiegare l’instabilità finanziaria (Minsky) o il circuito monetario (in Italia Augusto Graziani).
Secondo tali pensatori (in Italia ad esempio Halevi e Bellofiore), la crisi che stiamo vivendo ormai da un decennio potremmo definirla un ‘Minsky Moment’, dal nome del noto economista americano post-keynesiano, padre del modello dell’instabilità finanziaria.
Secondo tale visione la crisi del 2007/2008 deriverebbe da una Capital asset inflation che ha generato a partire degli anni ’80 una inflazione dei prezzi delle attività grazie ad un “capitalismo dei fondi”. L’afflusso crescente di risorse finanziarie sui mercati e proveniente dai fondi pensione e fondi istituzionali, ha consentito alle imprese produttrici di autofinanziarsi, con l’emissione più cospicua di azioni a condizioni più convenienti. È aumentata quindi la componente speculativa del guadagno a fronte della componente produttiva. Ne è derivata una ‘centralizzazione senza concentrazione’, ovvero grandi fusioni e acquisizioni (centralizzazione), a fronte di una frammentata rete produttiva (a scapito dunque della concentrazione).
Intanto, è cambiata la forma tipica del circuito monetario del capitalismo “fordista”. Nel secondo libro del CapitaleMarx ci spiega che la finanza occupa un ruolo importante nel circuito del capitale il quale assume la forma prima del capitale monetario, all’inizio del circuito, poi come capitale produttivo e infine come capitale-merce. La valorizzazione del capitale avviene nella fase in cui il capitale assume la forma di capitale produttivo. Da questo circuito, Marx dimostra che il capitalismo è un’economia monetaria di produzione e che il circuito del capitale ci consente di capire dove entra la finanza.
Con la teoria del circuito monetario Graziani e altri rappresentarono il capitalismo come un circuito (come fece Marx) nel seguente modo:
La sequenza viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di moneta (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro da impiegare nel processo produttivo. Tale sequenza si chiude soltanto quando le imprese, una volta che hanno venduto le merci e quindi monetizzato la produzione, ripagano il debito verso le banche, suddividendo il profitto tra profitto industriale e profitto bancario (l’interesse).
Senza la creazione di moneta-credito da parte delle banche (che possono semplicemente annotare contabilmente con impulsi elettronici), non si può avere il processo di produzione e scambio. In questo modello i mercati finanziari assumono un ruolo ancillare di intermediari tra imprese e mercato per la collocazione di titoli emessi dalle stesse imprese, recuperando una parte della moneta bancaria immessa nel circuito sotto forma di salari. Come rileva Marco Veronese Passarella (in Augusto Graziani tra Keynes e Marx, 2014) sin dagli anni ’70 sembra che il mercato finanziario abbia assunto un ruolo centrale nella produzione capitalistica e quindi nel circuito del capitale, soprattutto nei paesi anglosassoni. L’utilizzo di carte di credito, mutui, credito al consumo, ha trasformato il salariato da risparmiatore a debitore netto. L’asse tradizionale banche - imprese - famiglie è stato gradualmente rimpiazzato quindi dall’asse banche - mercati finanziari - famiglie. Succede quindi che le banche concedono crediti alle famiglie, queste destinano risorse ai consumi maggiori rispetto al proprio salario. Le imprese destinano i maggiori profitti ad investimento finanziario in prodotti derivati creati dal sistema bancario (i derivati hanno come base “collaterale” proprio il rapporto creditizio con le famiglie). Bastano delle perturbazioni finanziarie esterne al circuito che fanno crollare tale sistema appartatamente stabile. In questo quadro i mercati finanziari sono in grado di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di creazione di valore e di plusvalore.
La scommessa per il futuro sarà capire come il capitalismo reagirà a questa crisi, e come rimodellerà il circuito del capitale. Assistiamo certamente ad una fase di reindustrializzazione protettiva degli USA. La Cina ormai rappresenta un’economia matura e superpotenza mondiale seconda, forse ancora per poco, agli USA. Sicuramente la nuova rivoluzione tecnologica, oggi di fatto trainata da pochi operatori (soprattutto cinesi e statunitensi), farà la differenza. L’Europa pare destinata ad un ruolo marginale, mentre l’Africa potrebbe diventare il nuovo bacino di fornitura di lavoro salariato, prendendo il posto che fu dell’Asia nel secolo scorso. 
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PUNK A PALERMO

11/6/2018
di Giovanni Di Benedetto

​Un tuffo al cuore: è questa la sensazione che provocano le fotografie di Fabio Sgroi a chi, come il sottoscritto, ha vissuto quella stagione, al tempo stesso mitica e reietta, che sono stati gli anni ’80, gli anni, per così dire, del grande riflusso. Il ciclo progressivo di lotte e di conquiste del ventennio precedente si era inesorabilmente e drammaticamente concluso, sembrava restassero solo macerie e una grande e rampante solitudine. Eppure, in quel tempo oscuro, qualcuno tra chi aveva quindici o venti anni sopravviveva, provava, anche se in forme acerbe e inesperte, a porsi domande, resisteva tra le angosce giovanili, gli strapazzi e gli eccessi deliranti. In fondo, nel continuare a cercare c’era poco da perdere e, certo, la rassegnazione non appartiene a tutti.  


La mostra fotografica di Fabio Sgroi si intitola Palermo 1984-1986, Early works e rimarrà aperta dal 6 al 18 Giugno al Dom art space, in Piazza Giovanni Meli, per l’appunto a Palermo. Si diceva, più sopra, di un’atmosfera ribelle: dagli scatti in bianco e nero di Sgroi risuona una precisa attitudine, traspare una, riconoscibilissima a chi scrive, resistenza disperata e creativa ad un tempo, uno sforzo di ricerca quasi sovraumano, dissipativo di energie ma carico di vita e emozione. Sembra quasi di cogliere la sopravvivenza di quella pulsione contestataria che aveva animato il mondo giovanile fin dagli anni ’60 e che, di fronte al principio di realtà personificato dalla legge del Padre, di per se stessa arbitraria e autoritaria, sceglieva il diritto alla protesta per garantirsi l’accesso al godimento assoluto. Da qui, e gli scatti fotografici sono quanto di più eloquente possa esserci, lo svacco ai giardinetti con l’immancabile mangianastri, il rito pagano e fraterno dei concerti le sere d’estate, la balorda sconcezza di una certa promiscuità collettiva, la perturbante e dissacrante provocazione contro il banale perbenismo piccolo-borghese, l’ottundimento narcotizzato al ritorno da certe lontane avventure su vagoni ferroviari più simili ai carri bestiame. 

Di questo sentire, a dire il vero poco comune, la musica era sintesi massima. Ed è come se dalla quasi totalità delle fotografie contenute nel catalogo della Yard Press (2018) emergesse il raro dono di un soave sottofondo sonoro. Punk, post-punk, new wave, il fatto è che le foto hanno un respiro largo, internazionale, potrebbero essere state scattate a Londra o a Berlino, piuttosto che a Palermo. A volte i balordi figuri ritratti nelle immagini danzano ma, anche quando assumono posture più statiche e quiete, i ritratti umani appaiono quasi caricarsi, per motu proprio, di un tumulto ritmico in grado di risalire indietro fino a riecheggiare i latrati punk di Johnny Rotten dei Sex Pistols, il combat rock dei Clash di Joe Strummer o le sonorità, più o meno darkeggianti, dei Siouxsie and the Banshees. Potenza del ricordo e, ancor più, magia delle foto che lo evocano. Come se i linguaggi, soprattutto quelli musicali, non fossero il sintomo di una più generale atmosfera intessuta di valori e di culture antagonisti. 

Ma non è solo il richiamo nostalgico per un passato che rischia di assomigliare a un feticcio macabro irreversibilmente spazzato via, all’indomani del crollo del 1989, dalle palline colorate e dai giochi d’artificio della vittoriosa controrivoluzione capitalistica al seguito del successo a stelle e strisce della tecnologia digitale, non solo quella militare. Se penso al fatto che Sgroi avrà dovuto riesumare ingranditore, spirali e pozioni chimiche per sviluppare e stampare i negativi in bianco e nero quasi mi commuovo. L’ingenua durezza di certe posture giovanili, da un certo punto di vista, ricorda più il candore innocente della vita selvaggia, ma anche schietta e genuina, a cui ci si vuole aggrappare con le unghie e con i denti, piuttosto che l’ipocrita luccicore e i perfidi bagliori dell’apatica mercificazione totalitaria dei giorni nostri. Il punto è che, saranno stati gli ardori giovanili o non so cosa, in quei catastrofici anni ’80 sembrava si respirasse un dirompente eccitamento per il futuro e, di conseguenza, per ciò che non era ancora. 

​Come se in quegli anni le giovani generazioni potessero ancora permettersi il lusso di immaginarsi il domani come differente dal presente e quindi, anticipatamente, rifuggire dalle tristi passioni del contemporaneo, con tutto il loro carico di cinica tossicità: competizione, arrivismo, individualismo sfrenato, aggressività, egoismo narcisistico, inimicizia, rancore e chi più ne ha più ne metta. Al riguardo, si veda il consistente numero di fotografie nelle quali compare il gesto solidale dell’abbraccio come cifra della vitale natura umana, dell’essere in comune, dell’affratellamento, della comunità. E, ovviamente, ad accompagnare il tutto, l’ebrezza dionisiaca dell’alcol a fare da naturale complemento.

Musica, amicizia, convivialità ma anche rabbia, sconforto, straniamento. Una miscela esplosiva che, pazza idiozia si direbbe oggi, ambiva a funzionare come critica militante dell’età del consumismo oramai dominante e, al contempo, come dispositivo sovversivo del cambiamento. Di fronte all’imperativo thatcheriano che, proprio in quegli anni, ammoniva a rinunciare a pensare alternative al capitalismo, si ergeva una piccola schiera di fanatici esistenzialisti che rivendicava spazi di autonomia e libertà. Oggi tutto questo suona stonato, e per più ragioni. La più importante delle quali può essere rintracciata nel potente e mortifero movimento di introiezione, da parte dell’inconscio collettivo, dell’immaginario consumistico e mercificante fondato sul profitto. Ma allora si credeva ancora nelle potenzialità prefigurative e proiettive di un mondo diverso, più umano, più sobrio e più eguale. 

È proprio vero, il capitalismo occupa tutta la scena del pensabile e immaginare possibili mondi diversi e alternativi è quasi impossibile. Le semplici pose estetizzanti o le illusorie scorciatoie evocanti metafisiche ribellioni virtuali, o peggio ancora, da talk show televisivi, non sono più sufficienti. Probabilmente non lo erano già negli anni ’80, ma ancora di più oggi sappiamo che, se è necessario riformulare un progetto complessivo di cambiamento, per realizzarlo sono indispensabili la consapevolezza che anche il cliché della protesta fine a se stessa finisce per essere un ingranaggio della società dello spettacolo. Tuttavia, di fronte alla autentica sofferenza di soggettività sempre più frantumate e sussunte all’interno dei circuiti di controllo e intrattenimento del capitalismo globalizzato, il ricordo incredulo di quegli anni, attraverso la rievocazione operata dalle immagini fotografiche di Sgroi, può servire a riattivare, come se si realizzassero per la prima volta, vecchi gesti di rivolta e contestazione, azioni che abbiano la forza di squarciare quel velo di straziante apatia edonistica e di angosciante inedia narcisistica che contrassegna le generazioni cresciute, secondo i vaneggiamenti di Fukuyama, nel tempo della fine della storia e dell’eterno presente. 
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SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA

8/6/2018
di Annibale C. Raineri

«Ascoltate le nostre sconfitte» detto con voce appena percettibile, ma insieme ferma, decisa. Così sento le parole che compongono il titolo del romanzo di Laurent Gaudé tradotto nel 2017 per le edizioni e/o da Alberto Bracci Testasecca.
«Ascoltate … sconfitte», invito accorato a non voltare lo sguardo di fronte al racconto di ciò che espone l’essenza dell’essere-in-guerra: la sconfitta inscritta nello stesso atto della vittoria, la sconfitta dell’umano, di sé in quanto essere umano, di cui fa esperienza il protagonista indipendentemente dal vincere o perdere una battaglia o la guerra stessa. «Perché ho combattuto? Cosa ne è rimasto di me nell’atto stesso in cui la battaglia ha preso corpo?»

Libro bellissimo, dal ritmo incalzante, che prende il lettore costringendolo alla lettura senza possibilità di separazione, fino alla fine, alla fine del racconto, ma insieme alla fine del cammino, a quel punto in cui, assieme al protagonista, si comprende come la storia, quella storia, la nostra da parecchi secoli, è giunta al punto di conclusione, e da essa non c’è punto d’aggancio per il suo oltrepassamento. Giunti al punto; del libro, della storia del protagonista, al punto di conclusione della cosa stessa che il libro ci mostra, per necessità intrinseca e non per mero accidente cronologico.

Fin ora ho detto «il protagonista», «la storia raccontata». Singolari, ma nel senso di quel essere-pluralmente-uno del protagonista/protagonisti che ci cattura nel seguire riga dopo riga il fluire segmentato del racconto, delle storie che nella loro pluralità dicono di uno stesso.
Il romanzo è la storia di un agente francese, Assem, cui sono assegnate operazioni sporche, “un cacciatore” che ha operato in Afganistan, Sahel, Iraq, Libia nella cattura di Geddafi, e che sta per essere ingaggiato nella caccia ad un agente americano, Sullivan Sicoh – su richiesta degli stessi servizi statunitensi a quelli francesi – quello stesso che ha catturato Bin Laden e che da allora ha fatto perdere le sue tracce e sembra essersi “messo in proprio”.
La trama di questa storia, ambientata nel presente, si intreccia con altre storie ed altri protagonisti di epoche remote: Annibale, il generale nordista Grant, Hailè Selassiè. La tecnica narrativa costruisce questi intrecci in un montaggio perfetto che ci costringe a passare da una storia a un altra senza preavviso, producendo in tal modo un effetto di straneamento che, invece di allontanare il lettore, lo cattura sempre più, costringendolo ad una attenzione che lo vincola al nodo che unisce tutte quelle storie: «Lei ha vinto, tenente?» chiede Sullivan Sicoh, l’agente americano, ad Assem, il francese protagonista, la stessa domanda che Sullivan aveva fatto a se stesso nell’attimo in cui aveva catturato Bin Laden, la stessa che attraversa lo sguardo di Annibale mentre contempla la sua vittoria a Canne, o il generale Grant quando vede la sconfitta di Lee, o ancora Hailè Selassiè, la domanda che sorge dall’immagine delle migliaia di corpi senza vita che coprono le terre d’Italia, d’Africa, d’America. «Chi, cosa ha veramente vinto?»

La storia di Assem, l’agente francese, si incrocia con quella di Miriam, un’archeologa irachena presa dal dramma per la cancellazione di una parte importante della storia umana consegnata ai posteri negli oggetti presenti nei siti archeologici della sua terra, ed ora distrutti dalla furia dello Stato islamico. Una notte d’amore, il caso di un incrocio in un luogo – ogni città del romanzo è luogo d’incrocio delle storie dei suoi protagonisti disperse nel tempo – amore «per sempre», il per sempre di una notte sola che dura per l’eternità di una (due) vita. Attimo in cui l’incrocio delle storie di vita è il punto cruciale del cambiamento, dell’attraversamento di ciò che si è vissuto: il fare esperienza del proprio vivere. Incrocio reso possibile dalla parola poetica: «Corpo, rammenta, e non soltanto come amato fosti» «Allora ho capito che avrei amato quell’uomo che mi stava regalando le parole di Kavafis perché sentiva, per chissà quale intuito, che mi avrebbe fatto bene (…) perché in quel momento avevo conosciuto qualcuno che come me aveva tremila anni».
Il romanzo è così il racconto di un’esperienza, della esperienza della coscienza che fa esperienza dell’uccidere, non solo perché ha ucciso, ma perché riesce ad attraversare quell’atto. Essa mette capo così ad una dimensione che non posso non chiamare del sacro (termine che non mi sembra compaia mai nel testo), ma che connette, riempie di valore la terra in cui sono sprofondati i corpi ormai privi di vita di tanti massacri, con i luoghi in cui sono custoditi i resti sepolcrali di antichi riti (i tori sacri del dio Api), violati dagli archeologi, la terra in cui alla fine torna, a conclusione del libro, la statuetta del dio Bes – che Miriam ha nascosto nelle tasche di Assem in quella notte d’amore – lì, a Canne, a vegliare sui morti della battaglia.

Quest’opera così coinvolgente – almeno così è stato per me – ha un valore particolare per chi nella propria vita ha attraversato attivamente la dimensione della lotta e del conflitto, in quanto costringe a guardare a quella dimensione con un altro sguardo. Non è lo sguardo della vittima, come accade in tante opere di ispirazione nonviolenta, è lo sguardo del combattente che vede l’oggetto della propria violenza, anche quando essa è giustificata, e da quella visione si lascia interrogare. Per questo è un libro che invito a leggere.
Alla fine della lettura, però, si aprono delle questioni che vanno oltre ciò che nel libro è mostrato, questioni di ordine logico-speculativo ed etico-antropologico.
Il racconto è costruito attraverso lo sguardo sulla morte. L’esperienza che narra è l’esperienza della coscienza che alla fine diviene capace di questo sguardo, diviene capace di sostare con lo sguardo sulla morte. Questo sguardo interroga ogni dimensione del confliggere violento, indipendentemente dall’obiettivo che tale confliggere muove. Ma sostare con lo sguardo sulla morte non apre per se stesso alla vita: è la coscienza del limite, ma, per se stesso, è incapace di oltrepassamento, è incapace di produrre il legame con la vita. Sul piano logico-speculativo la doppia negazione non afferma, semplicemente nega il negativo (con buona pace degli hegelismi di maniera). Così la negazione della violenza, cui perviene alla fine il protagonista, non è per se stessa un inizio di vita.
Non è un caso che il romanzo racconti storie di uomini (la presenza di Miriam non riesce a modificare questo dato), o meglio mostra la storia dell’uomo (dell’umanità vista-agita dal maschio), che giunge alla consapevolezza del suo proprio limite.
È questo l’unico punto di vista possibile, è questa l’unica storia che nel presente come nel passato ha vissuto l’umanità? Vi è un altro sguardo che orienti alla vita, al legame con la vita, oltre o accanto alla storia come storia di violenze e di uccisioni?

Sempre nel 2017 la piccola casa editrice Il margine ha edito un piccolo libro scritto da Mattia Civico: Badheea. Dalla Siria in Italia con il corridoio umanitario. Mattia Civico si limita a raccogliere le parole di Badheea, donna siriana che racconta la propria vita dal villaggio di Al Dabaa, vicino Homs, al campo profughi in Libano, ed infine in Italia grazie al corridoio umanitario organizzato dalla Federazione delle Chiese evangeliche, dalla Tavola valdese e dalla comunità di Sant’Egidio. È quindi la storia di una donna raccontata da lei stessa – anche se trascritta da un uomo. È la storia di una vita attraversata dalla guerra e che attraversa la guerra. È la storia di una possibilità, di un modo diverso di stare nella guerra (di Badheea, ma anche dei volontari di Operazione Colomba), e per noi è lo stimolo ad avere uno sguardo diverso sulla vita che ci permetta di vedere oltre la guerra anche quando e dove la guerra ci si impone (o, aggiungo io, siamo costretti a sceglierla come nei casi della lotta al nazismo, vedi la partecipazione del pastore Dietrich Bonhoeffer ad un tentativo di omicidio di Hitler).
A fronte del senso di impotenza «la storia di Badheea racconta che invece qualcosa di diverso è possibile, a patto che si abbassino le mani e si mettano in moto i piedi (sottolineatura mia), per andare incontro. Questa storia dunque racconta innanzitutto di una donna che in mezzo alle difficoltà si fa carico della propria famiglia e cerca di metterla in salvo, dopo aver perso tutto. Racconta di un gruppo di volontari italiani, i corpi civili di pace dell’Operazione Colomba della Comunità papa Giovanni XXIII, che ha vissuto con lei e con la sua famiglia per tre anni nei campi profughi del Libano, per proteggere e condividere (…) È in definitiva una storia di persone che si sono messe sulle spalle i fragili destini degli altri. Mettendo forse in salvo innanzitutto la propria stessa umanità».
«La propria stessa umanità», ciò che propriamente è l’oggetto della sconfitta di cui narra il romanzo di Gaudé.

Il libro di Mattia Civico non ha la potenza di scrittura di quello di Laurent Gaudé, è il suo contenuto che ci afferra, indicandoci la direzione verso la quale guardare per cercare un punto di appiglio in un mondo il cui tratto distintivo sembra essere la morte e l’uccidere: il legame originario con la vita, la potenza del generarla e di custodirla grazie al quale le donne, nascostamente per migliaia di anni, hanno garantito all’umanità la possibilità di continuare a vivere, e vivere umanamente.
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MA NON SAPPIAMO QUANDO - Stendhal e le distanze nella Certosa di Parma (seconda parte)

1/6/2018
di Vito Bianco

​Pubblichiamo la seconda parte di questo lungo contributo di Vito Bianco (qui la prima parte). Approfittiamo per invitare alla presentazione del libro di poesie "Come uno che passa" di Vito Bianco che si terrà giorno 8 giugno 2018, ore 18:00, 
presso la Libreria Broadway di Via Rosolino Pilo - Palermo. 

Clelia
 
  Ma un’altra solitudine, quella del condannato lo attende dietro l’angolo. Grazie a uno stratagemma ideato dalla marchesa Raversi, che guida il cosiddetto partito liberale avverso a Mosca, Fabrizio viene arrestato e incarcerato. La Sanseverina, sconvolta, tenta una carta estrema: va dal principe e minaccia di lasciare Parma se il nipote non verrà graziato. La mossa è ardita ma sembra raggiungere lo scopo. Ma una debolezza da cortigiano o una prudenza sbagliata del ministro e amante (non scrive la formula “ingiusta detenzione”) dà al suscettibile e vendicativo principe l’agio di rimangiarsi la parola data: Fabrizio  resterà nella prigione della cittadella, della quale è governatore l’altrettanto ambizioso generale Fabio Conti, sodale della Raversi, per scontare una condanna a vent’anni di detenzione poi dal sovrano ridotti a dodici.
  Le pagine sul colloquio tra Gina e Ranuccio Ernesto IV meriterebbero di essere trascritte integralmente: sono tra le più sottili e icastiche del romanzo, e Stendhal vi dispiega tutto il suo talento di psicologo e di ritrattista. Incalzato e sedotto dall’ardimento della donna, il principe cede.
  Per le parole nette e decise, addolorate e fiere, ma soprattutto perché intimorito - e al contempo ammirato - da uno sguardo più tranciante di ogni possibile parola: “Quello sguardo fu risolutivo per il principe” scrive Stendhal, “fino allora molto incerto, nonostante il tono deciso delle sue parole. Ma per lui le parole non contavano niente”. Ordina al conte Mosca di scrivere il “gentile biglietto sollecitato dalla duchessa”. Scrivendo omette, abbiamo già detto, la frase “questa procedura ingiusta non avrà alcun seguito”: l’errore fatale gli costerà l’abbandono di Gina.
 
  Fabrizio arriva alla porta esterna della cittadella “nel momento stesso in cui il generale Fabio Conti e la figlia stavano uscendo”. La figlia è Clelia, conosciuta cinque anni prima dalle parti del lago di Como. In quell’occasione era il padre ad avere qualche problema con i gendarmi, e lui era stato molto cortese e protettivo con la giovanissima figlia. Viene condotto all’ufficio immatricolazione, dove l’arroganza di un carceriere di nome Barbone scatena la rabbiosa reazione del condannato. A due passi dalla finestra dell’ufficio, di fronte, c’era la carrozza del generale.
  “Clelia si era rannicchiata sul fondo per non assistere alla triste scena che avveniva in ufficio”. Quando scopre che il prigioniero è Fabrizio del Dongo, non può fare a meno di guardare dal finestrino della carrozza. Comincia a questo punto la lunga storia silenziosa degli sguardi, una conversazione degli occhi che prosegue nei rispettivi monologhi interiori, punto e contrappunto di una partitura sentimentale tra le più ammirate della letteratura francese e non solo. Clelia e Fabrizio si conoscono senza ancora conoscersi davvero; cercano di leggersi reciprocamente i caratteri e “l’anima più interiore” (Proust) attraverso le emergenze involontarie sulla superficie dei volti. Se i gendarmi che erano attorno al tavolo si spostavano un poco, “poteva scorgere il prigioniero”.
 
“Chi l’avrebbe detto - pensava, - quando l’ho incontrato per la prima volta sulla strada per Como, che l’avrei rivisto in una circostanza così triste? Mi aveva dato la mano per farmi salire nella carrozza di sua madre… Era già con la duchessa! Chissà se il loro amore era cominciato allora?”
 
Dobbiamo informare il lettore - aggiunge S. - che, nel partito liberale diretto dalla marchesa Raversi e dal generale Conti, tutti si mostravano certi della relazione tra Fabrizio e la duchessa. Il conte Mosca, che detestavano, era per la sua dabbenaggine il bersaglio preferito delle loro battute.
 
    Alla fine dell’interrogatorio il detenuto del Dongo esce dalla stanza scortato da tra gendarmi incaricati di condurlo nella stanza che gli era stata assegnata. Clelia “guardava dal finestrino”; il prigioniero era “molto vicino a lei”. Questa prossimità permette a Fabrizio di sentire le parole “Verrò con voi” in risposta alla domanda del padre. Udendole, il prigioniero alza “gli occhi” e incrocia “lo sguardo della ragazza”. A colpirlo è soprattutto la malinconia del suo volto. E la bellezza, naturalmente. Ma nota anche l’espressione “intelligente e profonda”. Le rivolge la parola. Le dice di ricordare di avere avuto l’onore di incontrarla “in compagnia di gendarmi”.
  La ragazza non risponde; pietà e tenerezza le tolgono “la presenza di spirito necessaria a trovare una frase qualsiasi”. Si rende conto del proprio silenzio e “arrossì più di prima”. La vicinanza non li avvicina. Il contatto delle parole non aggiunge nulla. L’eloquenza del sentimento si affida alla visione; dà l’impressione di non aver bisogno d’altro.
  Sappiamo d’avere a disposizione tutta una tradizione retorica sull’ineffabilità della passione, ma qui Stendhal la riscrive utilizzando la situazione estrema della cattività, estremizzandola con l’espediente romanzesco della separazione fisica imposta da una condanna. E dunque ecco la suggestiva coppia “amore e clausura” (anche per lei, che se l’è scelta) e conseguente obbligata filologia del volto che parla. Di necessità occorre fare virtù, è il caso di ripetere.
  In cella, Fabrizio si meraviglia di non sentirsi disperato per quella inaspettata privazione della libertà; godendo della solida protezione del conte Mosca, non poteva dubitare dell’esito positivo di quella incresciosa vicenda, nella quale è accusato di omicidio quando si è solo difeso da un’aggressione che avrebbe potuto costargli la vita.
  È invece quasi felice; di quella felicità unica e ineffabile che soltanto chi è en amour  può provare. Ripensare al viso di Clelia lo astrae dal luogo in cui si trova - potrebbe trovarsi indifferentemente ovunque. Di lei continua a rivedere lo sguardo. “’Che sguardo! - si diceva - e quante cose esprimeva! Quanta pietà!’”
  Uno sguardo, in effetti, può esprimere tutto, ma ha l’inconveniente “semiotico” di non potersi ripetere “alla lettera”. Chiuso alla ripetizione letterale, uno sguardo eloquente è però aperto a una potenziale inesauribilità poetica: ogni volta nuovo, ogni volta virtualmente differente, inconcluso, in un processo di significazione che non si raggruma in un significato stabile, fisso - un po’ come i segni del cerimoniale giapponese descritti da Roland Barthes nel suo L’impero dei segni.
  Entrambi sono - la doppia produzione di segni amorosi e il Giappone impero dei segni  vuoti e fluidi - universi dominati dagli occhi e dal visibile: e i suoi magnifici occhi, si dice Fabrizio, erano fissi su di me “‘anche quando i cavalli sono partiti con tutto quel fracasso, sotto la volta’”, perché appunto i rumori - e le parole - contano niente o poco nel regno della visione silenziosa.
 
  Clelia accompagna il padre responsabile della cittadella dov’è rinchiuso del Dongo in molti salotti; lo fa anche il giorno dell’arrivo di Fabrizio. Il generale vorrebbe usare  la bellezza della figlia per le sue  ambizioni personali e perciò spera di trovarle  un buon partito; la ragazza però non collabora, rifiuta  i pretendenti che il generale incoraggia e in società fa quasi sempre scena muta. Nessuno sa ancora dell’arresto del giovane monsignore, ma lei sì; l’ha visto in manette tra due gendarmi.
  Per questo quella sera il suo viso “è più animato del solito” (“Quando si paragonava la sua bellezza a quella della duchessa, era soprattutto quella sua impassibilità, quel suo apparire come al di sopra di ogni cosa, che faceva pendere la bilancia a favore della rivale”).  Clelia aveva persino divisato di farsi suora; e al pensiero di affidare solitudine e pensieri intimi alle mani “di un giovane che il titolo di marito avrebbe autorizzato  turbare la sua vita interiore” era invasa da un vero e proprio orrore.
  La ragazza è convinta (e con lei l’intera corte) che Gina e Fabrizio siano amanti e si stupisce di trovare tanto calma la donna, una calma che però è frutto dell’ignoranza sulla sorte del nipote. In quel salotto lei e quella nuova Clelia sono al centro dell’attenzione di maschile e femminile. La duchessa si sente addosso gli sguardi della Conti; ha la sensazione (e non si sbaglia) di essere per lei “l’oggetto di un nuovo interesse”.
  Sono rivali, amano lo stesso uomo ma ancora non lo sanno. Per il momento sono alleate, vicine nella sventura. Quando verso le dieci un amico dà alla duchessa la notizia del voltafaccia del principe, la donna impallidisce e Clelia “le prese la mano e osò stringerla”. Gina la ringrazia e aggiunge d’aver capito che è “d’animo nobile”. La duchessa se ne va. E la giovane Conti, guardando la duchessa che attraversa i saloni, piange (“gli occhi di Clelia si riempirono di lacrime”).
  Anche nel bel mezzo di una serata mondana, Clelia cerca la solitudine e si rifugia nel riquadro di una finestra che dava su un boschetto e “seminascosta da una tenda di taffetà”, rifugio speculare dell’altro, la cella di Fabrizio. Ripensa ai cinque anni trascorsi dalla prima volta che ha visto del Dongo (“’ero rimasta colpita già allora’”), al tempo in cui tante cose passavano sotto i suoi occhi inosservate. L’aveva rivisto a Parma, senza particolare emozione, al ballo per il compleanno della principessa.
  La ragazza si rimprovera amaramente di non aver risposto a Fabrizio, e teme che per questo mutismo del Dongo la disprezzi giudicandola degna figlia di un carceriere. Si rammarica, si tormenta, ma, ciononostante le riflessioni alle quali la strappa l’arrivo dell’arcivescovo Landriani  “non erano prive di qualche dolcezza”.
  Nessuna dolcezza ma solo nera disperazione e infine un pianto liberatorio per la duchessa Sanseverina che, tornata a casa, può sfogare tra le quattro pareti della sua camera da letto tutta la rabbia impotente per il tradimento del principe Ranuccio. Dopo la disperazione, il proposito di dominarsi per meglio portare soccorso all’uomo di cui, “senza confessarselo, era perdutamente innamorata”,  e la decisione di rompere col conte. Ammette di essere stata stupida a credere “che in un cortigiano rimanesse abbastanza anima per essere capace d’amore”.
  Eppure Mosca, lo sappiamo, l’ama alla follia, forse più di quanto lei ami  il nipote, sebbene si ritenesse obbligato a cercare “prima di tutto il bene del conte Mosca della Rovere”. Era però un uomo d’onore, e perciò è perfettamente sincero quando dice alla duchessa che è pronto al dimettersi.
  Nella scena della separazione, la duchessa arriva molto vicina a confessare al ministro i suoi veri sentimenti per Fabrizio. Lo fa in modo indiretto, con una litote; dice: “’Non verrò a dirvi che gli voglio bene proprio come una sorella. Diciamo che gli voglio bene d’istinto’”. Avrebbe dovuto dire: “non come una zia”. E, il “bene d’istinto”, cos’è, un altro modo di nominare la passione? Si lascia andare al piacere del ritratto; ormai per lei in conte è solo un amico. Dice che di Fabrizio le piace il coraggio, “’così semplice e perfetto, si potrebbe dire inconsapevole’”. Ricorda
 
che questa forma di ammirazione cominciò in me dopo il suo ritorno da Waterloo. Era ancora un bambino, malgrado i suoi diciassette anni. La sua maggiore preoccupazione  era quella di sapere se aveva davvero assistito a quella battaglia e, in caso di risposta affermativa, se poteva dire di essersi battuto, pur non essendo andato all’assalto di nessuna batteria né di nessuna colonna nemica. (cors. mio)

 
   Il ritratto sin troppo lusinghiero della donna innamorata culmina con le parole “grazia perfetta” e “anima grande”.  Non possiamo pretendere dalla duchessa imparzialità di giudizio, ma dobbiamo riconoscere che c’è una parte di verità in quel che dice del nipote. Un’altra parte concerne zone meno nobili e caratteri meno lusinghieri. Ma è proprio questa complessità irriducibile a un unico disegno, a un’unica fisionomia a fare il fascino del personaggio. Il quale, in quel momento, dimentico della sua sventura, si commuove contemplando lo spettacolo del “Monviso e dagli altri picchi delle Alpi che risalgono da Nizza verso il Moncenisio e Torino”.
  Adesso è davvero l’uomo descritto da Gina; a cambiarlo è l’aver fatto imprevedibilmente esperienza della “parte spirituale” dell’amore, per la quale credeva di  essere geneticamente negato. Quando a un tratto, uscito dall’incanto della contemplazione, si rende conto di trovarsi in una prigione, quasi non riesce a crederci.
 
“Ma questa è una prigione? È di questo che avevo tanta paura?” Invece di trovare in ogni cosa un lato sgradevole e motivi di rancore, il nostro eroe si lasciava affascinare dalle dolcezze della prigione.
 
  Per qualche strano motivo, scrive Stendhal, su cui non voleva riflettere, “provava una segreta gioia in fondo all’anima”. È una sorta di felicità mistica fondata sul distacco dalle cose terrene. Ora, finalmente, è un autentico cristiano, intimamente trasformato dall’amore per una donna.
  Dalla finestra può vedere la voliera di Clelia, che ama gli uccelli. In quella solitudine sono per lei compagnia e consolazione. Fabrizio spera di vederla, e si domanda se si degnerà di accorgersi di lui. Entrambi sono soli e “lontani dal mondo”, posti, possiamo dire, a un’invidiabile e incontaminabile altezza romantica. Trovare il modo di farsi notare è la prima - e unica - preoccupazione di Fabrizio. Intanto continua a tesserne le lodi, per mezzo di un trasfigurante metodo induttivo che fa derivare l’intelligenza dalla malinconia, ed entrambe da una supposta nobiltà che la bellezza rivela in un’evidenza indubitabile. Bellezza che qui è, possiamo dire, sia platonica manifestazione di verità, sia stendhaliana promessa di felicità.
  Rivedendo nel ricordo la “grazia piena di modestia” con la quale la giovane Conti l’aveva salutato la sera prima e il primo incontro sul lago di Como (“Un giorno verrò a vedere i vostri bei quadri di Parma, ricorderete il mio nome: Fabrizio del Dongo”, le aveva detto salutandola) Fabrizio dimentica di dover essere in collera. Che sia, senza saperlo, un eroe? Dov’era finita la paura della prigione?
  L’arrivo del falegname che deve prendere le misure per le imposte da mettere alle finestre interrompe il corso dei suoi pensieri. Le imposte vogliono dire vista impedita; ma non subito. La lunga attesa è ripagata dall’apparizione della ragazza: “verso mezzogiorno apparve Clelia che veniva a curare i suoi uccelli”. Fabrizio rimane immobile e “trattiene il fiato”.
 
  È in piedi contro le “enormi sbarre della finestra”, ed è “vicinissimo a lei”. Stendhal per il momento non misura per noi la distanza reale, in metri o pollici, dato che il vicinissimo del testo rimanda senz’altro a una prossimità psicologica, a un dominio sentimentale dove le distanze si misurano con un metro speciale, altrove inutilizzabile. Fabrizio si accorge che la ragazza “non alzò gli occhi verso di lui”, ma i suoi movimenti impacciati rivelano che si sente osservata. Avvicinandosi alla finestra della voliera “arrossì violentemente”. Poi,
 
tornando dal fondo della stanza, che Fabrizio, grazie alla sua posizione più elevata, poteva vedere benissimo, Clelia non poté impedirsi di guardare verso l’alto, sempre muovendosi, e ciò bastò perché Fabrizio si ritenesse autorizzato a salutarla. “Non siamo forse come soli al mondo, quaggiù?” si disse per farsi coraggio. A quel saluto, la ragazza si fermò, abbassando gli occhi.    
 
  Il rossore, segno dell’emozione, la posizione elevata che permette di vedere benissimo tutta la profondità della stanza, il guardare verso l’alto (“alzare gli occhi”) e il fermarsi “abbassando gli occhi”… Siamo nel pieno di una delicata dialogica dello sguardo: dall’alto dominano con discrezione, dal basso si alzano con pudore.
  Si viene visti e, dopo una titubanza dovuta al turbamento, malumore o dissimulata civetteria, si vede. Clelia si ferma e abbassa “gli occhi”; ma li rialza “lentamente e, facendo un evidente sforzo su se stessa, saluta il prigioniero con un cenno “quanto mai grave e ‘distante’, ma non potè imporre il silenzio al proprio sguardo”: il gesto allontana, si difende; lo sguardo, al contrario, parla, e parla la lingua della prossimità emotiva, sentimentale; esprime “la più viva compassione”.
  Da dove si trova il prigioniero è in grado di vedere il nuovo rossore di lei che stavolta si estende sino alla parte più alta delle spalle, dalle quali aveva scostato lo scialle per il caldo che doveva sentire nella voliera. A quel saluto Fabrizio risponde con uno “sguardo involontario”, una voce visiva irriflessa che sottolinea ulteriormente il particolare contesto ottico dell’episodio. Uno sguardo che turba la ragazza, la quale non può fare a meno di immedesimarsi nella felicità che la duchessa proverebbe se potesse vedere il nipote così come lei può vederlo. Un’immedesimazione che è una vera e propria identificazione sentimentale, un vivere l’amore che ancora non si ammette per interposta persona, in attesa di diventarne la protagonista.
  Prima di ritirarsi, Clelia si sottrae abilmente alla vista di Fabrizio, che sperava di poterle dare il saluto di congedo. Ma resta ancora fermo a guardare. “Era un altro uomo”, scrive Stendhal. È vero; ce ne siamo accorti. “Da quel momento, il suo pensiero si concentrò su una sola cosa: come continuare a vederla anche quando avessero sistemato quell’orribile schermo di legno davanti alla finestra che dava sul palazzo del governatore”. Uno schermo opaco contro il quale sarebbero tristemente rimbalzati tutti gli sguardi desideranti di questo uomo irreversibilmente mutato.
    
    
 
Alfabeti
 
 
  Per tutta la notte Fabrizio non fece che escogitare “nuove trovate di falegnameria” per aggirare l’ostacolo delle imposte di legno. Impegnato a cercare una soluzione al problema, non pensò una sola volta al dolore della zia Sanseverina, anche lei alle prese con un problema di complicata soluzione: salvargli la vita. Per quel giorno, il falegname incaricato dei quel lavoro di “occultamento” non viene; verso mezzogiorno, secondo la rodata consuetudine, può rivederla.
  L’urgenza di comunicarle quanto stava per accadere, spingono il giovane innamorato a mimare con le dita l’atto di segare le assi della finestra; la ragazza, che è pur sempre figlia del governatore, ne rimane scandalizzata e l’indomani non si fa vedere, anche se, nascosta dietro una persiana, segue con angoscia “ogni movimento degli operai” e vede molto bene la tremenda “inquietudine di Fabrizio” mentre osserva la progressione dei lavori di oscuramento.
  Clelia era una sincera liberale che aveva preso sul serio tutti i discorsi ascoltati nel giro di suo padre, il quale invece agiva spinto solo dall’ambizione personale. Ora si dibatte tra una naturale fedeltà familiare e il sentimento che prova per il prigioniero, che lei, come il resto della corte e della città, sa in pericolo di vita (per vendicarsi dell’umiliazione, Ranucio Ernesto IV ogni due settimane fa circolare la voce della prossima esecuzione di monsignor del Dongo).
  Per la prima volta Fabrizio è di cattivo umore. Sino a quel momento non aveva quasi notato la mancanza di libertà. Si potrebbe quasi dire che mai prima di allora era stato così integralmente libero, cioè a contatto con la parte più essenziale e autentica del proprio essere. Lo sguardo della bella Conti, quel primo sguardo ricevuto quando gendarmi lo portavano fuori dal corpo di guardia ha, confessa a se stesso, “cancellato tutta la mia vita passata”.
  L’amore l’ha rigenerato; lo ha, potremmo dire, rivoltato come un calzino; ha trasformato un edonista in un asceta. Un asceta ingegnoso che quella stessa sera (siamo al terzo giorno di una detenzione che durerà nove mesi) comincia a segare l’imposta con “la croce di ferro del rosario”: un uso improprio di un oggetto di fede che nessuno potrebbe essere tanto severo da rimproverargli. 
  Lavora alacremente e, dopo ben quindici faticose ore, può finalmente rivedere la donna che ama. Clelia, convinta che lui non possa vederla, rimane a lungo con lo sguardo rivolto alla finestra della cella. È turbata; e irritata con se stessa perché non capisce o non vuole capire la ragione della “terribile” malinconia da cui è dominata. Eppure un altro segnale dovrebbe metterla sulla strada della verità: dopo aver provato per lei compassione, ora Clelia odia la duchessa, che immagina ancora come una quasi imbattibile avversaria.
  Fabrizio la osserva senza essere visto e ha tutto il tempo di leggere nei suoi occhi i segni “della più umana pietà” (che sono anche i segni “dell’antica fiamma” di dantesca memoria); eppure gli sembrava di non poter essere felice se non fosse riuscito a far capire a Clelia che la vedeva. Fabrizio è meno raffinato di Mosca, che in un palco della Scala gode di vedere non visto Gina; ed è anche più giovane e privo dell’alternativa concessa al ministro: raggiungerla.
  Il giorno dopo, mentre lei guarda tristemente la grande imposta, riesce a far passare un “pezzettino di ferro” dal pertugio che “aveva ottenuto con la croce” con il quale fa dei segni che volevano dire “sono qui e vi vedo”. Ma non basta. Ha bisogno di allargare l’apertura, di togliere almeno un tassello grande come “una mano”, da rimettere subito al suo posto quando necessario. Il riquadro gli avrebbe consentito di vedere e “di essere visto”, che per lui è già un “parlare” di ciò che sente di avere nel cuore.
  La ragazza ora non abbassa più gli occhi, “né si metteva a guardare gli uccelli quando lui cercava di darle un segno della sua presenza con quel povero fil di ferro”. Fabrizio è duro e tenace proprio come quel filo e la croce del rosario e la molla dell’orologio, l’ultimo strumento che prova a usare per il suo scopo: aprire un varco per la visione. L’ottavo giorno Clelia,
 
fissando l’imposta che nascondeva la finestra, notò che Fabrizio non aveva ancora dato alcun segno della sua presenza. A un tratto, vide che un pezzetto di quello schermo, più grande di una mano, veniva spostato. Lui la guardò con aria allegra, salutandola con lo sguardo. La ragazza non seppe reggere a questa prova inaspettata (…) Ma tremava a tal punto che rovesciava l’acqua invece di versarla (…) Non riuscendo a sopportare quella situazione, decise di scappar via di corsa. Per Fabrizio fu senza dubbio il più bel momento della sua vita. Con quale entusiasmo avrebbe rifiutato la libertà, se gliela avessero offerta in quell’istante!

 
  Quella fuga e quel tremore equivalgono a una confessione. Le voci - false - di una imminente esecuzione gettano nella disperazione la duchessa e fanno crollare i propositi di durezza di Clelia. L’indomani rimane nella voliera un’ora e mezza, risponde a quasi tutti i segni che Fabrizio le invia e si nasconde solo per impedirgli di vederla piangere. Ma i segni, sufficienti a comunicare stati d’animo semplici ed esaltazione amorosa, si rivelano inadatti a interrogare sulla vera natura dei sentimenti di Fabrizio per la zia Sanseverina. Per quello ci sono ancora soltanto le parole della lingua italiana, da pronunciare a distanza di udito. La ragazza non sa di avere spodestato Gina dal cuore del felice prigioniero, il quale adesso fa fatica persino a ricostruire nella memoria i tratti del suo volto.
  Non riesce neppure più a capire come potesse essergli sembrata tanto bella: “Per lui, in quel momento, era una donna di cinquant’anni”. Aveva fatto bene, si dice, a non dirle che l’amava. L’immagine di Clelia, la solitaria figlia del suo carceriere, si era impadronita della sua anima, scrive Stendhal, “fino quasi a incutergli terrore”.
  È un caso perspicuo di quello che l’autore del De l’amour chiamerebbe amour-passion, l’amore al culmine dello slancio romantico che tutto travolge e trasfigura, che talvolta domina la mente di chi lo prova sino al terrore per una forza che fa traballare ogni certezza e può fare amare la prigionia più della libertà.
  Ora la sua felicità dipendeva da lei, che poteva fare di lui il più infelice degli uomini, e ogni giorno “era preso dalla paura mortale” che “per un capriccio senza appello della volontà di Clelia” quell’esistenza strana e deliziosa che si trovava a vivere “vicino a lei” finisse all’improvviso.
 
  Sono passati due mesi. Clelia andava due volte al giorno a far visita ai suoi uccelli, il che vuol dire far visita a Fabrizio il quale, “se non fosse stato innamorato”, non avrebbe più potuto avere dubbi su ciò che prova per lui la ragazza. L’amore ha su chi ne subisce l’azione un duplice effetto: rende acuti e ciechi allo stesso tempo. Il giovane del Dongo nota alcune cose - per esempio la puntualità di Clelia, il rossore…- ma è incapace di leggere correttamente i segni del sentimento ricambiato. Un’incapacità dovuta all’offuscamento sentimentale e alla mancanza di esperienza: Fabrizio, che ha fama di seduttore, non ha mai, come sappiamo, fatto esperienza della vera passione, se si esclude l’ambiguo e contraddittorio affetto che prima di rivedere la Conti alla cittadella ha provato per Gina.
  La tacita conversazione tra i due si svolge come se a veicolare i pensieri fossero le parole.  Seduta al pianoforte, Clelia suona per avvertire l’innamorato della sua presenza e distrarre le sentinelle che vanno avanti e indietro sotto le sue finestre. E intanto risponde con gli occhi a tutte le domande di Fabrizio, tranne a una. Quella risposta negata lo teneva impegnato a risolvere un quesito che sembrava irresolubile. Il risultato delle sue mille osservazioni di continuo passate al vaglio di una critica serrata era sempre lo stesso: “’Tutti i suoi gesti volontari dicono di no, ma ciò che nei suoi sguardi è involontario sembra dire che mi vuole bene’”.
  È a questo punto che Fabrizio ha l’idea di comunicare con la giovane Conti usando  lettere scritte sul palmo della mano con un pezzo di carbone trovato nella stufa. Una trovata che avrebbe di certo migliorato il dialogo, permettendo una precisione che l’altro “sistema semiotico” non consente.
  La sua finestra dista da quella di Clelia circa venticinque piedi, ci informa il narratore (un piede corrisponde a 30, 48 centimetri). Avrebbero potuto parlarsi, se non ci fossero state le guardie. Per le parole da dire, la distanza reale è incolmabile, per il momento. E il reale, fuori dallo spazio protetto di quell’originale idillio, incalza.
  Una realtà che porta il nome di marchese Crescenzi, ricchissimo e pronto a sposare la figlia del generale anche senza un soldo di dote. Il padre la minaccia, le ricorda che ne ha rifiutati sei, che stavolta dovrà scegliere tra il matrimonio col marchese o un convento di Parma. Un dilemma atroce, dato che entrambe le scelte vogliono dire separazione da Fabrizio, e proprio quando “tremava per la sua vita”.
  Ma, “pur non essendo lontana da lui”, e molto più vicina dei venticinque piedi che separano le due finestre, non intravede alcuna prospettiva di felicità: “Credeva che la duchessa lo amasse ed era straziata dalla gelosia”. E ancora: il riserbo che si era imposta nei suoi confronti, e l’aver costretto a quel limitato “linguaggio di segni” per paura di tradirsi…tutto congiurava contro un chiarimento su quali fossero i suoi veri rapporti con la duchessa.
  I segni muti da un lato la salvano, la tengono al riparo da un passo avventato, dall’altro le impediscono di sapere a propria volta. E poi i dubbi sulla buona fede di Fabrizio, che ha fama di libertino incostante, e la necessità di fingere di accettare la corte del marchese Crescenzi, che una sera, verso le undici, manda alla cittadella dei musicisti per una serenata in onore della figlia del governatore Fabio Conti: è l’annuncio ufficiale del matrimonio. Clelia ha detto sì al marchese per non essere “mandata immediatamente in convento”. Dal monologo interiore di Clelia a questa altezza del racconto, estraiamo un passo:
 
“Mio caro amico, che cosa non  farei per te! Sarai la mia rovina, lo so, questo è il mio destino. E già mi sono perduta questa sera in modo atroce, assistendo a questa orrenda serenata. Ma domani a mezzogiorno ti rivedrò!  
 
  L’indomani, si mostra di nuovo fredda, distante. È il movimento di “ritrazione” a cui l’eroina stendhaliana ci ha abituati, per la disperazione del suo vicino innamorato. Il narratore scrive che quello sarebbe stato il momento giusto per osare l’affondo con il quale il giovane monsignore avrebbe avuto di sicuro partita vinta. Sarebbe bastato anche quel linguaggio imperfetto di segni, che comunque fino ad allora aveva funzionato egregiamente. “Ma Fabrizio mancava d’audacia e aveva una gran paura di offenderla”; soprattutto, non aveva alcuna esperienza “dell’emozione che può dare una donna amata”;
 
era una sensazione che non aveva mai provato, neppure nelle più tenui sfumature. Ci volle una settimana, dopo la serenata, perché potesse riprendere con lei le consuetudini di una buona amicizia. La povera ragazza, per la paura folle che aveva di tradirsi, si proteggeva con un tono severo, e a Fabrizio sembrava che le cose peggiorassero ogni giorno.
 
   Passa un altro mese. Da quando è arrivato alla cittadella non ha mai avuto un solo contatto con l’esterno. Non se ne cruccia. L’unico contatto che gli importa di avere è con Clelia. È di nuovo mezzogiorno e può finalmente riaprire i “due sportelli alti un piede” che era riuscito ad ritagliare “nell’imposta fatale”. Ancora una volta la ragazza è in piedi alla finestra della voliera, “gli occhi fissi su quella di Fabrizio”. Ha un’espressione disperata. Non appena lo vide “gli fece segno che tutto era perduto”.
  Poi si siede al pianoforte e utilizzando un finto recitativo comunica all’innamorato che ha buone ragioni per credere che qualcuno sta cercando di avvelenarlo. Gli dice di astenersi dal cibo e che farà il possibile per fargli arrivare un po’ di pane e cioccolata. Come faccia a comunicare tutto questo con un recitativo di propria invenzione, Stendhal non ce lo dice. È uno dei passaggi in cui la verosimiglianza è più debole e più forte  nel lettore la sensazione di trovarsi in pieno romance, in cui  volentieri si rinuncia alla tenuta realistica della narrazione in cambio di una più intensa verità psicologica o morale.
  Fabrizio si ricorda del carbone e pensa sia arrivata l’occasione di usarlo. Si scrive sulla mano una serie di lettere che messe insieme “formavano queste parole: ‘Vi amo, la vita mi è preziosa solo perché vi vedo. Mandatemi soprattutto carta e matita’”.
  Dai segni muti degli occhi e dei gesti all’alfabeto tracciato sulle mani passando per le parole dette accompagnate dalla musica del pianoforte: un intero arco comunicativo è percorso in poche settimane. La paura del pericolo che incombe sul prigioniero ha la meglio sull’impulso di Clelia di interrompere il colloquio dopo quell’audace dichiarazione.
  Fabrizio non è riuscito ad afferrare tutte le parole del recitativo della ragazza; per esempio non capisce a che proposito ha usato la paro “veleno”. Clelia, terrorizzata, si affretta a rispondere scrivendo grandi lettere sulle pagine strappate da un libro. La comunicazione alfabetica è cominciata. Fabrizio “fu al colmo della gioia vedendo che Clelia aveva finalmente accettato di comunicare con lui a quel modo”.
  La faccenda del veleno indebolisce le resistenze della tormentata ragazza. Per Fabrizio è un euforizzante passo avanti. Ora sente di avere con lei una relazione intima che somiglia molto a un’amorosa rinuncia a resistere. La distanza diminuisce ulteriormente, e passa - se vogliamo semiseriamente misurarla con un metro comune - dai venticinque piedi circa della precedente misurazione ai probabili pochi centimetri di adesso. Una distanza minima epistolare, possiamo chiamarla; lettere stampate sulle mani che sostituiscono un contatto impossibile.
  “Ogni mattina, e spesso anche la sera conversava a lungo con lei” leggiamo. Clelia acconsente a ricevere una lunga lettera, “e spesso gli rispondeva con qualche parola. Gli mandava anche il giornale e qualche libro”.
 
  Quella quasi perfetta felicità (“’Non è divertente scoprire che la felicità mi aspettava in prigione?’” chiede autoironico e divertito a Clelia) finirà con una rocambolesca fuga organizzata da Gina e dal Conte ma nella quale avrà un ruolo fondamentale Clelia Conti, con cui riuscirà d avere due segreti, concitati ed emozionanti tête à tête, ultima ravvicinata tappa della sequenza comunicativa tra i due amanti fuori dal mondo.
  Fabrizio al principio dice no alla fuga; poi si piega alla severa insistenza dell’innamorata che minaccia di lasciare la cittadella per il convento. In seguito, credendo in pericolo la vita del padre, farà voto di sposare Crescenzi in cambio della salvezza del padre.
  Il giovane monsignore lascia nottetempo la torre Farnese come un uomo nato a nuova vita: sono trascorsi esattamente nove mesi dal giorno in cui vi ha messo per la prima volta piede.
  Lo ritroveremo a Belgirate con Gina Sanseverina, che quasi non lo riconosce, tanto mutato lo trova  da quel che un tempo era. Vi tornerà, riconsegna dosi al generale Fabio Conti, e in attesa di un giusto processo che dovrebbe assolverlo dall’accusa di omicidio, come si torna a un luogo che ci ha visti felici, e dove spera di rivedere la donna che ama (“era tornato nella vecchia stanza alla cittadella , troppo felice di abitare a pochi passi da Clelia”).
 
 
Appuntamento al buio
 
 
  Com’è facile immaginare, l’arrivo del “nostro eroe” getta nella disperazione la “povera ragazza” che ormai non può più nascondersi la verità; ovvero che non sarebbe mai stata felice lontana da lui. Scrive Stendhal: era impossibile dire
 
ciò che accadde nel suo triste cuore, quando, occupata malinconicamente a osservare i suoi uccelli, nell’alzare gli occhi per abitudine e con tenerezza alla finestra dalla quale  lui la guardava, lo vide di nuovo che la salutava con tenero rispetto.
 
  Passano pochi giorni e Clelia per la seconda volta salva la vita di Fabrizio. Fa irruzione nella cella dove è voluto tornare per rivederla e lo ferma proprio quando sta per assaggiare il primo boccone di un pasto avvelenato: la vendetta del padre per lavare l’onta dell’evasione e il criminale espediente del ministro Rassi per legare le proprie sorti a quelle del nuovo sovrano Ernesto V.
  Poco dopo, mentre i due giovani sono abbracciati e si scambiano parole d’amore (per la prima volta parole e corpi coincidono;  per la prima volta i segni verbali potrebbero prendersi una pausa, ma Clelia, che crede Fabrizio ancora in pericolo, dice d’un fiato tutto ciò che si era costretta a non di dire, stringendolo a sé), arriva trafelato il generale Fontana, mandato dal principe a scortare del Dongo nel più sicuro carcere di Parma. Per ottenere questo risolutivo aiuto la Sanseverina ha dovuto promettere a Ernesto, che le ha confessato di amarla, di passare una notte con lui.
   Fabrizio viene  processato e assolto e può quindi cominciare il suo cursus ecclesiastico come coadiutore e successore dell’arcivescovo Landriani. Non avrebbe più nulla da chiedere alla fortuna, ma il matrimonio di Clelia con lo stupido marchese Crescenzi, a favore del  quale ha segretamente tramato la zia (se lei sposa un altro, si dice, si rassegnerà e tornerà da me) trasformano Fabrizio in un monaco disperato.
  L’esistenza solitaria e il rifiuto di partecipare (almeno in un primo tempo) alla vita di corte gli conquistano una fama di santità che la voce pubblica attribuisce alla devozione religiosa. È dimagrito, invecchiato, ha fatto voto di silenzio, ha l’aria di un asceta la cui mente sia perennemente occupata dal pensiero di Dio. 
  Il suo pensiero è  invece occupato dall’immagine di Clelia, la donna che ama e che si sforza invano di dimenticare. Lo sforzo prolungato comincia a dare forse qualche risultato, ma quando, alla festa di compleanno della principessa madre rivede la ragazza, ora marchesa Crescenzi per la sciocca ambizione del padre, tutto cambia, tutto crolla, e ogni parvenza di pace faticosamente raggiunta, si dissolve sotto l’urto dell’emozione provocata da quella visione insieme temuta e sperata.
  In un angolo del salotto Fabrizio in umile abito nero dà le spalle al gran mondo riunito per festeggiare il genetliaco della principessa; conversa con un colto francescano, ma non riesce a trattenere le lacrime, gli indizi inequivocabili del suo dolore d’amore. Quando ho dei forti mal di testa, piango, dice al frate, al quale non può nasconderle.
  Piange per mezz’ora, sempre dando le spalle al resto del salone. Ma quando sente appena dietro di lui un lieve rumore di poltrona smossa, si volta: “Ci fu un po’ di rumore vicino a Fabrizio, che per la prima volta nella serata si voltò a guardare”. 
  È Clelia. “La poltrona che aveva prodotto il leggero scricchiolio sul pavimento era occupata dalla marchesa Crescenzi, i cui occhi pieni di lacrime incontrarono quelli di Fabrizio, che no erano certo in condizioni migliori”. Vedendolo di spalle e di mezzo profilo lei l’aveva scambiato per il fratello maggiore: ha il viso smagrito e l’espressione di chi ha sofferto molto. Poi si ritrova addosso, come un tempo, quegli occhi ammirati adesso lucidi di pianto.
  Abbassa subito i propri, ha fatto un giuramento che solo un grave rischio di morte le ha fatto una volta rompere. È cambiata, pensa Fabrizio; è cambiato si dice di rimando Clelia.
  Ma poi, per un caso che si potrebbe anche chiamare destino segnato, si trovano vicini, Fabrizio le sussurra due versi di Metastasio: “Oh, no, non mi vedrete mai mutare,/Begli occhi, che mi insegnaste ad amare. Clelia, felice, capisce d’essersi sbagliata. Distanza ravvicinata e poesia servono a chiarire un equivoco, a rimettere in equilibrio, risollevandoli, gli stati emotivi; a ridare momentaneo slancio a un  discorso amoroso intenso ma discontinuo. (L’ultimo incontro risale a prima del matrimonio. Il luogo: il salotto di casa Contarini, la zia che ospita Clelia durante i mesi d’esilio del padre, caduto in disgrazia dopo la scoperta del tentativo di avvelenare Fabrizio).
  Ma Clelia ha l’obbligo di rispettare un voto; ma quando “si trovò vicinissima a Fabrizio la profonda infelicità dipinta sul suo volto le fece pietà”. Gli dà di nascosto il ventaglio accompagnando il gesto con queste parole: “’Dimentichiamo il passato e conservate questo ricordo di amicizia’”.
  Al centro della mondanità cortigiana più sciocca e falsa, il dialogo sentimentale interrotto riprende; una duplice conoscenza viene ristabilita: di sé e dell’altro creduto irreversibilmente mutato.
 
  Tanto basta perché Fabrizio si lasci alle spalle isolamento, silenzio e abito nero e ricominci a sperare, a spiare e a cercare, con l’inganno di vederla: riuscirà soltanto a lasciare un messaggio floreale nel giardino di palazzo Crescenzi, nuova dimora della bella e modesta donna che è stata capace di trasformare un gaudente in un santo.
 
Già l’indomani, decise che il suo ritiro era finito, e tornò al suo magnifico appartamento al palazzo Sanseverina. L’arcivescovo osservò, credendoci, che il favore fattogli dal principe di ammettendolo al suo gioco aveva completamente sconvolto il nuovo santo.
 
  Fabrizio intanto, accogliendo un sagace consiglio del conte Mosca, è diventato un predicatore di grido, capace di richiamare folle di fedeli d’ogni condizione sociale, attirate dai suoi ispirati e commoventi sermoni. Il monsignore esibisce la sua eloquenza in luoghi diversi con la speranza di trovare tra gli uditori Clelia che, avendo fato voto alla Madonna di non più neppure guardarlo, evita con cura le chiese dove l’innamorato dà prova di vera sapienza del cuore.
  Sulla fermezza della decisione ha però la meglio la gelosia: la ricca e graziosa Anetta Marini, una delle molte ammiratrici di monsignor del Dongo, si è innamorata del tormentato prelato, che forse, stando a quel che già si mormora, non è del tutto insensibile al fascino della ragazza, sempre in prima fila alle sue molto partecipate esibizioni.
  Ci va; lo vede per la prima volta dopo quattordici mesi; si pente di aver aspettato tanto (“Quanto a Clelia, dopo le prime dieci righe della preghiera, già riteneva un delitto atroce aver fatto passare quattordici mesi senza vederlo”).  Fabrizio
 
comparve sul pulpito. Era così magro così pallido, così ‘consumato’, che gli occhi di Clelia si riempirono subito di lacrime. (…) pronunciò qualche parola, poi si fermò, come se la voce gli mancasse di colpo. Tentò vanamente di cominciare qualche frase; si voltò, e prese un foglio scritto.       
 
  Quella stessa sera scrive un biglietto col quale gli  dà un appuntamento notturno nell’aranceto di palazzo Crescenzi. “Riconoscendo quella divina scrittura, Fabrizio cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime. ‘Finalmente - esclamò - dopo quattordici mesi e otto giorni! Addio prediche!’”       
   Giunge l’ora da entrambi tanto attesa. Si vedono. Anzi no. Si toccano. Lei lo chiama  “’amico del mio cuore’”, ma gli nega la visione: tiene fede al voto, a suo modo. Dal buio le parla quella prima notte, e al buio si ameranno tutte le sere per tre anni nell’appartamento di Clelia, senza destare alcun sospetto.
  Niente più occhi, vista, segni visibili; solo tatto, odori, sapori, umori, parole forse a questo punto superflue nella distanza ormai annullata dalla congiunzione realizzata dei corpi nell’oscurità. O tatto o vista: è l’alternativa secca che questa celebre storia d’amore propone, come a segnalare una sorta di impossibilità genetica della completezza, della normalità quotidiana per una speciale avventura sentimentale iniziata tra le alte mura di una città-prigione.
  Passione segregata e segreta, notturna e dimidiata, straripante e sempre parziale, che produce nuova vita (il figlio Sandrino) per chiudersi rapidamente con tre morti, dopo un finto rapimento e una finta malattia che diventa subito vera.
  Fabrizio sopravvive appena un anno a Clelia, che spera di ritrovare “in un mondo migliore”; ma era “troppo intelligente per non sapere che aveva molto da espiare”: espiare in questo mondo per guadagnare nell’altro la distanza ideale in cui  passione e conoscenza - senza tensione e nella quiete inalterabile - coincidono.
  Prima  di allontanarsi per sempre,
 
firmò parecchio atti con i quali assicurava una pensione di mille franchi a ciascuno dei suoi domestici e riservava a se stesso una pensione uguale. Donò terre del valore di circa centomila lire di rendita alla contessa Mosca; uguale somma alla marchesa del Dongo, sua madre, e ciò che restava della fortuna paterna a una sorella mal maritata. Il giorno seguente (…) si ritirò nella “Certosa di Parma”, situata nei boschi vicini al Po, a due leghe da Sacca.   
 
Poscritto
 
 Il racconto di Chesterton citato all’inizio si trova nella raccolta Il segreto di padre Brown, San Paolo, Milano 2017, traduzione di Riccardo Ferrigato.
 L’impero dei segni  di Roland Barthes, cronaca molto particolare di un viaggio in Giappone, è pubblicato da Einaudi, che l’ha ristampato più volte.
La versione italiana che ho utilizzato per questa personale rilettura della Certosa di Parma è quella di Maurizio Cucchi (Oscar Classici 2016, note di Mariella Di Maio) che restituisce, per quanto possibile, la sveltezza sintattica e la  peculiare modernità linguistica di uno scrittore che non sopportava il cosiddetto “bello stile”, che trovava artificioso e falso.
 “Lo stile affettato mi fa orrore”, scrive a Balzac dopo aver letto sulla Revue parisienne l’ampia recensione che quest’ultimo aveva dedicato al romanzo (né l’ultima delle tre versione di una lettera non spedita), “e vi confesso che molte pagine della Certosa sono state stampate così come sono state dettate la prima volta. (…) Dato che i furfanti sono, per la maggior parte, enfatici e magniloquenti, si finirà con l’odiare il tono declamatorio”. Certo, si finirà, mi viene da aggiungere; ma non sappiamo quando.
  
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