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      • BOOM BUST BOOM
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PALERMOGRAD

Lโ€™ECCEZIONE ESEMPLARE. La Rivoluzione Finlandese

30/6/2017
di Eric Blanc

La dimenticata rivoluzione finlandese è forse fonte di maggiori insegnamenti che gli stessi avvenimenti del 1917 in Russia, stando alla ricostruzione di Eric Blanc*, che presentiamo nella traduzione di Valerio Torre del blog 
Assalto al cielo (assaltoalcieloblog.wordpress.com)



Nel secolo appena trascorso, i lavori di ricerca storica sulla rivoluzione del 1917 si sono per lo più concentrati su Pietrogrado e sui socialisti russi. Ma l’impero russo era prevalentemente composto da non-russi, e le convulsioni nella periferia erano solitamente esplosive come quelle del centro.
Il rovesciamento dello zarismo nel febbraio del 1917 scatenò un’ondata rivoluzionaria che inondò immediatamente tutta la Russia. Forse la più eccezionale di queste insurrezioni è stata la rivoluzione finlandese, che uno studioso ha definito «la più esemplare guerra di classe nell’Europa del XX secolo».

L’eccezione finlandese
I finlandesi costituivano una nazione differente da qualsiasi altra sotto il dominio zarista. Appartenuta alla Svezia fino al 1809, quando fu annessa alla Russia, la Finlandia godeva di autonomia governativa e libertà politica ed ebbe infine anche un parlamento proprio, democraticamente eletto. Benché lo zar tentasse di limitarne l’autonomia, la vita politica di Helsinki somigliava più a quella di Berlino che di Pietrogrado.
In un’epoca in cui i socialisti nel resto della Russia imperiale erano costretti ad organizzarsi in partiti clandestini ed erano perseguitati dalla polizia segreta, il Partito socialdemocratico finlandese (Psd) faceva politica legalmente. Come la socialdemocrazia tedesca, dal 1899 in poi i finlandesi costruirono un partito operaio di massa e una solida cultura socialista, con sedi, gruppi operai femminili, bande musicali e associazioni sportive.
Politicamente, il movimento operaio finlandese era impegnato in una strategia di tipo parlamentare, educando e organizzando pazientemente i lavoratori. All’inizio, la sua politica era moderata: raramente si parlava di rivoluzione e la collaborazione con i liberali era frequente.
Ma il Psd aveva una particolarità rispetto ai grandi partiti socialisti europei di massa, dato che diventò più combattivo negli anni che precedettero la Prima guerra mondiale. Se la Finlandia non fosse appartenuta all’impero zarista, probabilmente la socialdemocrazia finlandese avrebbe avuto un’evoluzione in senso moderato simile a quella della maggior parte degli altri partiti socialisti dell’Europa occidentale, in cui i settori radicali erano stati via via marginalizzati dall’integrazione parlamentare e dalla burocratizzazione.
Ma la partecipazione della Finlandia nella rivoluzione del 1905 finì per dislocare il partito più a sinistra. Durante lo sciopero generale del novembre del 1905, un dirigente socialista finlandese restò meravigliato dalla sollevazione popolare:
«Viviamo in un’epoca meravigliosa … Genti umili e aduse al peso della schiavitù all’improvviso si liberano dal loro giogo. Comunità che finora mangiavano cortecce d’albero, ora pretendono pane».
Subito dopo la rivoluzione del 1905, parlamentari socialisti moderati, dirigenti sindacali e funzionari si trovarono in minoranza nel Psd. Cercando di applicare l’orientamento elaborato dal teorico marxista tedesco Karl Kautsky, a partire dal 1906 la maggioranza del partito unì alle tattiche legalitarie e alla presenza parlamentare una chiara politica centrata sulla lotta di classe. «L’odio di classe è il benvenuto, è una virtù», era scritto in una pubblicazione del partito.
Soltanto un movimento operaio indipendente – proclamava il Psd – potrà perseguire gli interessi dei lavoratori, difendendo fino ad espanderla l’autonomia finlandese dalla Russia, così guadagnando un’ampia democrazia politica. Il tempo giocava a favore di una rivoluzione socialista, ma fino a quel momento il partito doveva rafforzarsi pazientemente, evitando scontri prematuri con le classi dominanti.
Questa strategia della socialdemocrazia rivoluzionaria – con il suo messaggio militante e un metodo lento ma costante – ebbe un successo spettacolare in Finlandia. Nel 1907, oltre centomila lavoratori avevano aderito al partito, che divenne così la più grande organizzazione al mondo in rapporto al numero di abitanti. E nel luglio del 1906, il Psd entrò nella storia diventando il primo partito socialista a conquistare la maggioranza parlamentare. Tuttavia, a causa della “russificazione” degli anni immediatamente precedenti, la maggior parte del potere statale in Finlandia era sotto il controllo dell’amministrazione russa. Solo nel 1917, il Psd fu in grado di affrontare le sfide che derivavano dall’avere una maggioranza parlamentare in una società capitalista.

I primi mesi
Le notizie dell’insurrezione di febbraio nella vicina Pietrogrado sorpresero la Finlandia, ma, non appena le voci furono confermate, i soldati russi di stanza a Helsinki, secondo un testimone oculare dell’epoca, si ammutinarono contro i loro ufficiali:
«Al mattino, soldati e marinai marciavano per le strade sventolando bandiere rosse, una parte sfilava cantando La Marsigliese, una parte in gruppi separati distribuendo nastri e pezzi di stoffa rossi. Marinai della truppa pattugliavano le vie della città disarmando tutti gli ufficiali che, al minimo segno di resistenza o al rifiuto di accettare il simbolo rosso, venivano freddati e lasciati per terra».
I funzionari russi furono espulsi, mentre i soldati russi di stanza in Finlandia dichiararono la loro lealtà al soviet di Pietrogrado e le forze di polizia finlandesi furono distrutte dal basso. Lo scrittore conservatore Henning Söderhjelm, commentando la rivoluzione in un resoconto di prima mano scritto nel 1918 – che costituisce una preziosa espressione delle opinioni della borghesia finlandese – si doleva della perdita del monopolio statale della violenza:
«La distruzione totale della polizia rappresentava la politica espressa dal Psd. Le forze di polizia, eliminate dai soldati russi appena iniziò la rivoluzione, non sono mai rinate. Il “popolo” non aveva fiducia in questa istituzione e, al loro posto, vennero create “milizie” locali per il mantenimento dell’ordine, i cui membri appartenevano al partito laburista».
Cosa avrebbe dovuto sostituire la vecchia amministrazione russa? Alcuni radicali premevano per un governo rosso, ma erano in minoranza. Così come accadde in altre parti dell’impero, nel mese di marzo la Finlandia fu travolta dall’appello alla “unità nazionale”. Sperando così di ottenere una più ampia autonomia dal nuovo governo provvisorio della Russia, un’ala di dirigenti moderati del Psd ruppe con l’antica posizione del partito ed entrò in un governo di coalizione con i liberali finlandesi. Diversi socialisti radicali denunciarono la manovra come un “tradimento” e un’aperta violazione dei principi marxisti del Psd. Altri dirigenti di prima linea, tuttavia, si dichiararono d’accordo con l’ingresso al governo per evitare una scissione nel partito.

La luna di miele politica durò poco. Il nuovo governo di coalizione entrò rapidamente sotto il fuoco incrociato della lotta di classe mentre un attivismo senza precedenti si affermava nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle campagne della Finlandia. Alcuni socialisti finlandesi concentrarono i loro sforzi nella costruzione di milizie operaie armate, altri promossero scioperi, militanza sindacale e attivismo nelle fabbriche. Söderhjelm ne descrisse la dinamica:
«Il proletariato ha smesso di implorare e pregare, ora rivendica ed esige. Credo che mai l’operaio, ma soprattutto il più grezzo, si sia sentito tanto tronfio per il potere che ha come nella Finlandia del 1917».
La borghesia finlandese si illuse all’inizio che l’ingresso dei socialisti moderati nel governo di coalizione avrebbe costretto il Psd ad abbandonare la sua linea di lotta di classe. Söderhjelm si rammaricò che questa speranza fosse andata presto frustrata:
«L’assoluto potere delle masse si è sviluppato con inattesa rapidità. […] La colpa, soprattutto, è della tattica del partito laburista. […] Benché abbia mantenuto una certa dignità nella sua condotta più ufficiale, ha continuato con la sua politica di agitazione contro la borghesia con un instancabile zelo».
Mentre i socialisti moderati che appoggiavano il nuovo governo, così come i dirigenti laburisti loro alleati, cercavano di smorzare la ribellione popolare, l’estrema sinistra del partito faceva costantemente appello a rompere con la borghesia. Oscillando tra i due poli socialisti, c’era una corrente amorfa di centro che garantiva un sostegno limitato alla nuova amministrazione. E benché la maggior parte dei dirigenti del Psd continuasse a dare priorità all’azione parlamentare, la maggioranza del partito appoggiava – o, per lo meno, assecondava – l’onda che veniva dal basso.
Di fronte all’inattesa ondata di resistenza, la borghesia finlandese diventò sempre più aggressiva e intransigente. Lo storico Maurice Carrez osserva che la classe dominante finlandese non si rassegnò mai a «condividere il potere con una formazione politica che vedeva come l’incarnazione del demonio».

La polarizzazione di classe
L’implosione del governo di coalizione finlandese cominciò in estate. In agosto, l’approvvigionamento alimentare dell’impero crollò e lo spettro della fame si impadronì dei lavoratori finlandesi. Rivolte per il pane esplosero quel mese e l’organizzazione di Helsinki del Psd denunciò il rifiuto da parte del governo di assumere provvedimenti decisivi per affrontare la crisi. «Le masse lavoratrici affamate hanno in breve tempo perso la fiducia nel governo di coalizione», osservò Otto Kuusinen, il principale teorico della sinistra del Psd, che l’anno successivo avrebbe fondato il movimento comunista finlandese.
L’intransigenza dei socialisti nella lotta per la liberazione nazionale accentuò ancor di più la polarizzazione di classe. I socialisti finlandesi lottarono aspramente per porre fine all’interferenza del governo russo negli affari interni della nazione. Speravano, con la conquista dell’indipendenza, di utilizzare la loro maggioranza parlamentare – e il controllo delle milizie operaie – per imporre un ambizioso programma di riforme sociali e politiche.
Nel mese di luglio, un dirigente socialista spiegava: «Finora siamo stati costretti a lottare su due fronti: contro la nostra stessa borghesia e contro il governo russo. Se la nostra guerra di classe deve vincere, se vogliamo unire le nostre forze in un sol fronte, contro la nostra stessa borghesia, abbiamo bisogno dell’indipendenza, e la Finlandia è matura per questo».
Anche i conservatori e i liberali volevano rafforzare l’autonomia nazionale, ovviamente per ben diverse ragioni. Ma non erano disposti a far ricorso a metodi rivoluzionari per raggiungere quest’obiettivo, né sostenevano in generale i tentativi del Psd di ottenere un’indipendenza completa.
Lo scontro, alla fine, si verificò in luglio. La maggioranza socialista in parlamento propose lo storico progetto di legge valtalaki (legge del Potere), che proclamava unilateralmente la piena sovranità finlandese e che venne approvato il 18 luglio, nonostante la forte opposizione della minoranza conservatrice. Ma il governo provvisorio russo, con a capo Alexander Kerensky, bocciò la legge dichiarandola non valida e minacciò di occupare la Finlandia se la sua decisione non fosse stata rispettata.
Quando i socialisti finlandesi si rifiutarono di fare retromarcia o rinunciare al valtalaki, i liberali e i conservatori colsero l’occasione al volo. Sperando di isolare il Psd e porre termine alla sua maggioranza parlamentare, appoggiarono cinicamente e legittimarono la decisione di Kerensky di sciogliere il parlamento democraticamente eletto. Furono convocate nuove elezioni, alle quali i partiti non appartenenti all’area socialista ottennero una risicata maggioranza.
La dissoluzione del parlamento finlandese segnò un punto di svolta decisivo. Fino ad allora, la classe lavoratrice e i suoi rappresentanti confidavano profondamente nel fatto che il parlamento potesse essere utilizzato come uno strumento di emancipazione sociale. Come spiega Otto Kuusinen,
«la nostra borghesia non aveva un esercito e neppure poteva fare affidamento su forze di polizia, […] per cui sembrava che avessimo tutte le ragioni per mantenerci nel sentiero già battuto della legalità parlamentare, percorrendo il quale, apparentemente, la socialdemocrazia avrebbe potuto ottenere una vittoria dopo l’altra».
Ma per un settore crescente di lavoratori e dirigenti del partito diventava sempre più chiaro che il parlamento aveva esaurito la sua utilità.
I socialisti denunciarono il golpe antidemocratico e accusarono la borghesia di cospirare con lo Stato russo contro i diritti nazionali della Finlandia e le istituzioni democratiche. Secondo il Psd, le nuove elezioni parlamentari erano illegali perché frutto di brogli generalizzati. A metà del mese di agosto, il partito ordinò a tutti i propri membri di dimettersi dalle cariche di governo. Ma, ancor più significativamente, i socialisti finlandesi andavano sempre più legandosi ai bolscevichi, unico partito russo ad appoggiare la loro lotta per l’indipendenza. Tutti i soggetti in campo avevano lanciato il guanto di sfida e la Finlandia – una nazione fino ad allora pacifica – venne precipitata in un’esplosione rivoluzionaria

La lotta per il potere
In ottobre, la crisi che attraversava tutto l’impero russo era giunta all’acme. I lavoratori finlandesi delle città e delle campagne esigevano rabbiosamente dai loro dirigenti che prendessero il potere. L’intera Finlandia ribolliva di violenti scontri. Ciononostante, molti dirigenti del Psd continuavano a pensare che il momento della rivoluzione si sarebbe potuto posporre a quando la classe lavoratrice fosse stata meglio organizzata e armata. Altri, invece, avevano paura di abbandonare l’arena parlamentare. Alla fine di ottobre, il leader socialista Kullervo Manner sosteneva:
«Non possiamo evitare la rivoluzione per molto tempo […] La fede nel valore dell’azione pacifica è perduta e la classe lavoratrice comincia ad aver fiducia solo nella sua stessa forza […] Sarei ben lieto se ci sbagliassimo circa l’immediato scoppio della rivoluzione».
Dopo che, alla fine di ottobre, i bolscevichi ebbero conquistato il potere, sembrava che subito dopo sarebbe toccato alla Finlandia. Privata dell’appoggio militare del governo provvisorio russo, la borghesia finlandese era pericolosamente isolata. La maggioranza delle decine di migliaia di soldati russi di stanza in Finlandia appoggiava i bolscevichi e il loro appello alla pace. «L’onda vittoriosa del bolscevismo porterà acqua al mulino dei nostri socialisti e loro certamente saranno in grado di metterlo in moto», osservò un liberale finlandese.
La base del Psd e i bolscevichi di Pietrogrado supplicarono i dirigenti socialisti di prendere immediatamente il potere, ma la direzione del partito tergiversava. Nessuno aveva chiaro se il governo bolscevico sarebbe durato più di qualche giorno. I socialisti moderati si aggrappavano alla speranza che si potesse trovare una soluzione parlamentare pacifica. Alcuni radicali sostenevano che la presa del potere era non solo possibile, ma anche assolutamente necessaria. La maggioranza dei dirigenti esitava tra le due posizioni.
Kuusinen ricorda l’indecisione del partito in quel momento critico: «Noi socialdemocratici, “uniti sulla base della lotta di classe”, oscillavamo da una parte all’altra, prima inclinandoci con forza dalla parte della rivoluzione, per poi, subito dopo, tirarci di nuovo indietro».
Incapace di trovare l’accordo per un’insurrezione armata, il partito finì per convocare uno sciopero generale per il 14 novembre in difesa della democrazia contro la borghesia, per le necessità economiche urgenti dei lavoratori e per la sovranità finlandese. La risposta della base fu travolgente, di fatto andò molto oltre il relativamente cauto appello a scioperare.
La Finlandia venne paralizzata. Organismi locali del Psd e le Guardie rosse presero il potere in diverse città, occupando edifici strategici e arrestando i politici borghesi.

Sembrava che questo scenario insurrezionale si sarebbe riprodotto anche ad Helsinki. Il 16 novembre, il Consiglio dello Sciopero generale votò per la presa del potere. Ma, quando sindacati e dirigenti socialisti moderati criticarono la decisione dando le dimissioni dall’organismo, il giorno stesso il Consiglio tornò sulle sue decisioni. Si decise che, «dal momento che una minoranza così espressiva è in disaccordo, il Consiglio non può cominciare adesso a prendere il potere per consegnarlo ai lavoratori, ma continuerà a fare ancora più pressioni sulla borghesia». Subito dopo lo sciopero venne smobilitato.
Lo storico finlandese Hannu Soikkanen ha sottolineato che lo sciopero di novembre fu un’enorme occasione persa:
«Non c’è dubbio che quella fu l’occasione più propizia perché i lavoratori prendessero il potere. La pressione della base era enorme e c’era la massima disponibilità alla lotta. […] Lo sciopero generale convinse in ogni modo la borghesia, con poche eccezioni, dell’enorme pericolosità dei socialisti. Perciò essa usò il tempo fino all’inizio della guerra civile per organizzarsi intorno a una risoluta leadership».
Rimarcando l’esitazione del Psd nel disporsi all’azione di massa, Anthony Upton ha sostenuto che «i rivoluzionari finlandesi sono stati in generale i più deprimenti rivoluzionari della storia». Quest’affermazione, tuttavia, avrebbe senso se la nostra storia fosse terminata in novembre, ma gli eventi successivi mostrano che il cuore rivoluzionario della socialdemocrazia finlandese alla fine prevalse.
Dopo lo sciopero generale, i lavoratori, frustrati, si dedicarono sempre più a cercare armi e a passare all’azione diretta. Allo stesso modo, la borghesia si preparava alla guerra civile creando le sue milizie – le “Guardie bianche” – e chiedendo sostegno militare al governo tedesco.

Nonostante il rapido disfacimento della coesione sociale, molti dirigenti socialisti continuarono a tessere infruttuosi negoziati parlamentari. Solo che, stavolta, l’ala sinistra del Psd irrigidì la sua posizione e dichiarò che non avrebbe più ritardato l’azione rivoluzionaria, perché ciò avrebbe solo portato al disastro. Dopo una lunga serie di battaglie interne nel dicembre del 1917 e nel successivo gennaio, i radicali alla fine vinsero lo scontro interno.
In gennaio, il discorso rivoluzionario del Psd si tradusse infine in azione. Per dare il segnale dell’inizio dell’insurrezione, i dirigenti del partito accesero, la notte del 26 gennaio, una lanterna rossa nella torre della Sala dei Lavoratori di Helsinki. I giorni successivi, i socialdemocratici e le loro organizzazioni sindacali presero il potere senza incontrare resistenza nelle grandi città della Finlandia, mentre il nord rurale rimase nelle mani delle classi dominanti.
Gli insorti della Finlandia lanciarono un proclama storico annunciando che la rivoluzione era necessaria perché la borghesia, alleata all’imperialismo straniero, aveva condotto un “golpe” controrivoluzionario contro le conquiste dei lavoratori e la democrazia:
«A partire da questo momento, il potere rivoluzionario in Finlandia appartiene alla classe lavoratrice e alle sue organizzazioni […] La rivoluzione proletaria è nobile e severa […] severa con gli insolenti nemici del popolo, ma pronta ad aiutare gli oppressi e gli emarginati».
Anche se il governo rosso appena insediato tentò all’inizio di tracciare una rotta politica relativamente prudente, rapidamente la Finlandia precipitò in una sanguinosa guerra civile. L’aver ritardato la presa del potere costò caro alla classe lavoratrice finlandese, perché nel mese di gennaio gran parte delle truppe russe aveva già fatto ritorno alla base. La borghesia aveva utilizzato i tre mesi successivi allo sciopero di novembre per organizzare le sue truppe in Finlandia e Germania. Alla fine, 27.000 rivoluzionari finlandesi persero la vita nella guerra. E dopo che la destra ebbe schiacciato la Repubblica socialista operaia finlandese nell’aprile del 1918, circa 80.000 altri lavoratori e socialisti furono internati in campi di concentramento.

Gli storici sono divisi circa il possibile trionfo della rivoluzione finlandese nell’eventualità fosse iniziata prima e avesse assunto un carattere più offensivo nel campo politico e in quello militare. Alcuni sostengono che il reale fattore decisivo fu l’intervento militare imperialista della Germania in marzo e aprile 1918. Kuusinen traccia un bilancio simile:
«L’imperialismo tedesco diede ascolto ai lamenti della nostra borghesia e si offrì prontamente di gettare alle ortiche l’appena conquistata indipendenza che, su richiesta dei socialdemocratici finlandesi era stata concessa dalla Repubblica sovietica della Russia. Il sentimento nazionale della borghesia non ha minimamente sofferto in quell’occasione, e il giogo dell’imperialismo straniero non le provocò il minimo timore nel momento in cui la loro “patria” sembrava sull’orlo di diventare la patria dei lavoratori. La borghesia era disposta a sacrificare un intero popolo a vantaggio del grande bandito tedesco, purché potesse riservare a se stessa l’indegno ruolo di sfruttatrice».

Gli insegnamenti della rivoluzione
Cosa dovremmo dedurre dalla rivoluzione finlandese? La constatazione più ovvia che possiamo fare è che la rivoluzione operaia non fu soltanto un fenomeno localizzato nel centro della Russia. Anche nella pacifica e parlamentare Finlandia, la classe lavoratrice si era progressivamente convinta che solo un governo socialista avrebbe potuto offrire una soluzione alla crisi sociale e all’oppressione nazionale.
I bolscevichi non erano stati l’unico partito dell’impero capace di portare i lavoratori al potere. Per molti aspetti, l’esperienza del Psd finlandese conferma l’idea tradizionale della rivoluzione sostenuta da Karl Kautsky: attraverso una paziente opera di organizzazione ed educazione di classe, i socialisti avevano conquistato la maggioranza in parlamento, spingendo la destra a scioglierlo, cosa che era sfociata nella rivoluzione diretta dai socialisti.
La preferenza del partito per una strategia parlamentare difensiva non gli impedì in fin dei conti di riuscire a rovesciare il potere capitalista avanzando in direzione del socialismo. Al contrario, la burocratizzata socialdemocrazia tedesca – che già da molto aveva abbandonato la strategia di Kautsky – sostenne attivamente il potere capitalista nel 1918-19 e represse violentemente gli sforzi di coloro che volevano rovesciarlo.
Nondimeno, la rivoluzione finlandese ha mostrato non solo i punti forti, ma anche i potenziali limiti della socialdemocrazia rivoluzionaria: l’esitazione nell’abbandonare l’arena parlamentare, l’insufficiente valutazione dell’azione di massa e una tendenza a piegarsi ai socialisti moderati in nome dell’unità del partito.

[Traduzione di Valerio Torre]


[*] Eric Blanc è un attivista e storico del movimento socialista di Oakland, California. È autore di Anti-Colonial Marxism: Oppression & Revolution in the Tsarist Borderlands.
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REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE

23/6/2017
di Giovanna Vertova

​Quando si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1]. Questa nuova forma di welfare viene presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.


Tale proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato. 

Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Effettivamente, misure come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.

Le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland [3]. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.

In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.

Va anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.

Esiste, inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere. Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà, anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere” dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.

Non credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale, mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco, inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante. 

Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito, accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.



1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2. L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo: se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The “Fragment on the Machines” and the Grundrisse. The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984, Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.
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19/6/2017
di Marcello Benfante

La fine della carriera teatrale di Totò, il principe della risata, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, è tristemente legata a Palermo. 

Fu nel capoluogo siciliano, infatti, che il grande attore calcò per l’ultima volta il palcoscenico. Il canto del cigno avvenne al teatro Politeama nel maggio del 1957, come ci racconta con dovizia di particolari Giuseppe Bagnati nel suo libro Totò, l’ultimo sipario (Nuova Ipsa, pagine 130, euro 12), e fu determinato dal repentino e drammatico aggravarsi dei problemi alla vista di cui da tempo Totò soffriva.
Calarono le tenebre, dunque, insieme al sipario. E oscuro fu anche il modo in cui avvenne questa eclissi. Nel senso che non tutto è spiegabile in termini di mera evoluzione patologica. C’è qualcosa in questo tragico epilogo che sembra sfuggire a un esame razionale e attingere a una dimensione  più profonda, forse mitica, forse inconscia.

Assente dal teatro dal 1949 e ormai divenuto prevalentemente una star cinematografica, Totò tornò sui palcoscenici alla fine del 1956 con la rivista A prescindere di Nelli e Mangini. Da sette anni dunque Totò disertava quel contatto diretto e vivo con gli spettatori che a suo dire lo entusiasmava e appassionava creando una sorta di osmosi e di totale identificazione: “Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro a teatro sono eccitato, inebriato. Il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico: si diventa una cosa sola col pubblico”.
Ma sebbene agognato, il ritorno sui palcoscenici non nasceva sotto una buona stella. Il rodaggio non fu privo di inconvenienti, di screzi e revisioni. Probabilmente era a scopo scaramantico che Mario Casalbore, nel testo del programma di scena, insisteva sulle virtù magico-cabalistiche del numero sette, fino a lasciarsi sfuggire un apocalittico ed enigmatico “sette e non più sette?” che suonava come una specie di funesta profezia.

A conferma di questi presagi di malaugurio, a Milano venne a diffondersi chissà come e perché  la voce che Totò fosse morto. All’attore, dopo i prevedibili scongiuri di rito, toccò pertanto convocare una conferenza stampa per smentire la propria dipartita.
La tournée purtroppo fu caratterizzata da un progressivo indebolimento della vista che afflisse Totò nel mese di aprile prima a Genova, poi a Sanremo, quindi a Firenze. Totò confessò alla compagna Franca Faldini: “Strano, vedo ballare le pareti e i tavoli, oscillano come se fossi sbronzo, eppure non ho bevuto niente”.
Mestiere e talento arginarono comunque gli inconvenienti.

La compagnia giunse al porto di Palermo, a bordo della motonave Calabria, il 3 maggio del 1957. Nelle previsioni A prescindere doveva andare in scena per cinque recite, a cui si sarebbe aggiunta una serata d’addio in onore di Totò.
Al suo arrivo, Totò, accompagnato dalla figlia Liliana, dichiarò alla stampa che era molto lieto di tornare a Palermo, dove già si era esibito nel 1922 in Eravamo sette sorelle, anche per ragioni personali: “Io sono mezzo di Napoli e mezzo palermitano, perché mia madre era una palermitana”.
La madre, Anna Clemente, detta Nannina, era infatti nata a Palermo nel 1881 e giovanissima si era trasferita a Napoli con la famiglia. Qui aveva intrapreso una relazione clandestina ma tutt’altro che segreta con il marchese Giuseppe De Curtis, rimanendo incinta e dando alla luce, a soli diciassette anni, un figlio, che all’anagrafe veniva registrato come Antonio Vincenzo Stefano.
In una fotografia di Gigi Petyx apparsa su L’Ora del 4 maggio si scorge Totò che scende (forse con una certa impacciata titubanza) la scaletta della nave. Più lesta, davanti a lui, Franca Faldini, con foulard al capo e occhiali neri. La didascalia si sofferma ovviamente sulle origini palermitane di Anna Clemente.

La prima rappresentazione di A prescindere al Politeama è un successo. Peraltro scontato. Ignazio Mormino scrive sul Giornale di Sicilia che il pubblico ha mostrato tutto il suo affetto per il grande comico, il quale a sua volta “si è commosso”. La sua recensione sprizza entusiasmo. Ma forse Mormino ha intuito o colto qualcosa: “Totò non recita, inventa. Il copione gli serve e non gli serve; il copione sono i suoi occhi, le sue mani, i suoi passi, i suoi silenzi e quel mento mobilissimo”.
Oltre la maschera, il critico si è accorto che il formidabile istrione improvvisa, va a braccio, abbandona la parola del copione per riscriverla col linguaggio del corpo. Ciò che Mormino non può sapere è che quegli occhi così mobili esprimono ormai uno sguardo quasi cieco.
Ne ha invece un’intuizione Liliana De Curtis: “Mi accorsi che qualcosa non andava in camerino”. Totò, davanti allo specchio, si trucca con gesti lenti e malsicuri. Si trucca a memoria, ripetendo un rito consueto. Ma dopo lo sketch di Napoleone, l’attore rientra affranto. Franca Faldini lo sorregge. Tra le lacrime Totò ripete: “Sono cieco, non vedo più”.
In sala, tuttavia, nessuno si è reso conto della disgrazia. Totò ha accelerato i tempi, imprimendo un ritmo parossistico alla sua mimica. Tutti sono infervorati da questa scatenata performance burattinesca. Tra il pubblico euforico c’è anche il giovane Lando Buzzanca, che di quello show pirotecnico ha ricordato un’improvvisa stasi di Totò: “probabilmente è stato il momento che non vedeva più”.
Pur nella quasi completa cecità, Totò non rinuncia nemmeno alla passerella al trotto dei bersaglieri. 
Se l’è cavata con la perizia del teatrante consumato. Tuttavia le successive repliche del 4 maggio lo trovano barcollante e brancolante. Il pubblico comincia a rendersi conto del suo dramma.

Il 6 maggio Totò si reca allo studio del professor Giuseppe Cascio, oculista rinomato e cattedratico all’Università di Palermo. Accusa un acuto dolore agli occhi.  
Alle prime domande del medico Totò risponde sussurrando alcune frasi in modo riservato per non farsi sentire dalle persone che lo hanno accompagnato (Franca Faldini, la figlia Liliana, il dottore Giovanni Di Marco, che lo ha visitato in albergo, a Villa Igiea, una soubrette della rivista).
Tuttavia, quando il professor Cascio gli chiede di specificare di quali disturbi soffra, Totò si produce in una battuta piuttosto sfrontata: “Veda professore, dall’ombelico in giù la situazione è normale, anzi non potrebbe andare meglio: sei d’accordo Franca o dico bugie? Viceversa è dall’ombelico in su che la salute degli occhi mi dà qualche preoccupazione”.
Fuori tono e fuori luogo, la boutade a sfondo sessuale è stranamente approssimativa e ridondante. Che cosa può mai significare la salute degli occhi dall’ombelico in su? Esistono forse occhi dall’ombelico in giù?
E in questo visconte dimezzato, quale delle due metà è la paterna e quale la materna? Ovvero, quale la napoletana e quale la palermitana?
Naturalmente, può darsi che la frase sia stata riferita in modo inesatto. O che si sia trattato di una specie di lapsus.
La facezia comunque è solo un tentativo di mascherare una profonda disperazione. Totò scoppia in lacrime e invoca la madre.
Nella città natale della madre, tutta la sciagurata faccenda avviene e si compie proprio sotto il segno della madre.
È difficile allora sottrarsi alla tentazione di leggere il caso clinico, per così dire, in una chiave edipica. Soprattutto considerando il fortissimo sentimento che legava Totò alla madre – alla quale dedicò versi dolcissimi: “Tengo na ’nnammurata / ca è tutt’ ’a vita mia” (“A cchiù sincera”) – e i rapporti invece complessi e tormentati con il padre (che riconobbe il figlio naturale soltanto nel 1928, a trent’anni dalla nascita).

In un certo senso, questa interpretazione para-freudiana trova una conferma, ancorché tutta congetturale e simbolica, in una dichiarazione di Liliana De Curtis riguardo alla nonna Nannina: “Un giorno mi disse: ‘Sai, Liliana, essere nata a Palermo mi dà qualcosa in più’. E credo che sia stato un segno del destino che l’ultima recita di papà a teatro sia stata proprio a Palermo”.
Un segno del destino. Del Fato. Una ineffabile verità che rimanda alla tragedia greca.
Ma ovviamente la parziale cecità che colpì Totò nel 1957 non fu né una punizione volontaria, come nell’Edipo di Sofocle, né la rivelazione tout court di un complesso inconscio. Ebbe però probabilmente anche un aspetto psicosomatico.
La diagnosi del professor Cascio, sostanzialmente confermata da tutti i successivi referti medici, si esprime in questi termini: “coroidite essudativa in atto, prevalentemente posteriore, V. max 2/10 faticosamente cercati e non migliorabile, pregressa corio retinite disseminata. Visus spento”.
Quindi una deficienza oggettiva e particolarmente grave. All’indomani della visita, gli strilloni urlano per strada “Annurbò Totò”. Più precisi i resoconti dei giornali. “L’Ora” titola in prima pagina l’8 maggio: “Totò quasi cieco scioglie a Palermo la compagnia”.

​Ne scaturirono lunghe e penose beghe giudiziarie. Al di là degli aspetti legali, gli sviluppi del caso appaiono degni nota per la prodigiosa capacità di Totò di continuare la propria carriera cinematografica anche se quasi del tutto privato della vista.
Totò spiegherà così a Lello Bersani, nel corso di un’intervista, tali sue operative e momentanee guarigioni: “Sul set cambia tutto. Appena batte il ciak, ci vedo benissimo. È un fatto nervoso, lo hanno spiegato i medici, un fenomeno. Sul set faccio tutto: salto, mi arrampico…”.
Anche Federico Fellini descrive nel suo libro Fare un film queste inspiegabili metamorfosi e reviviscenze ottiche. E racconta che a Cinecittà vede giungere Totò accompagnato e guidato dall’attore napoletano Donzelli. Inforca un paio di occhiali neri e ha le tipiche movenze dei ciechi, il loro disarmato sorriso. Non scorge nulla, non riconosce il regista, ha bisogno di riferimenti acustici per orientarsi. 
Ma ecco che si gira la scena: “Motore! Ciak! E solo a questo punto Totò si toglie gli occhiali ed è il miracolo. Il miracolo di Totò che improvvisamente ci vede, vede le cose, le persone, i segni di gesso che limitano i suoi percorsi, non due occhi ma cento che vedono tutto, perfettamente”.
Una cecità nevrotica, dunque? Una enigmatica fenomenologia edipica? Chissà. 
Nel nostro paradigma indiziario possiamo solo aggiungere che, nel copione di A prescindere, una canzone omonima (di Nelli, Mangini, Paone e Totò) allude proprio a un “dolcissimo segreto” mai rivelato, “che abbacina, che allucina”, potremmo dire che acceca. E a una Sfinge che “interpellata rimase tramortita” per poi affidare il responso allo stesso Totò.
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PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO

15/6/2017
di Marco Palazzotto

È una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta? È un libro di storia? Il Capitale di Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150 anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto.



Quest’anno ricorrono i 150 anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del testo che avrebbe  poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la principale opera di Karl Marx: Das Kapital. 

Dopo un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone come obiettivo la trasformazione della società in senso più egualitario. 

Il Capitale, per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di svariati fenomeni sociali. 

Parlo ad esempio della crisi quale elemento strutturale del capitalismo, o della scienza e l’automazione come cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le condizioni per l’accumulazione. Questa tendenza del lavoro necessario (attività utile al lavoratore per riprodurre i suoi mezzi di sussistenza) verso l’azzeramento deve essere contrastata da controtendenze, per evitare il calo dei consumi legati al calo dei salari reali. Pertanto, si verificheranno delle crisi cicliche dovute alla presenza di queste tendenze opposte. E tutt’oggi le teorizzazioni marxiane della crisi dimostrano grande validità. 

Anche la teoria del valore affrontata nei primi capitoli del Capitale è fondamentale per capire la teoria della merce, ovvero la teoria dello sfruttamento e delle relazioni delle classi antagoniste nella produzione moderna. Teoria ancora più pregnante se consideriamo quanto il marginalismo – e le sue formulazioni aggiornate – sia incapace a spiegare i comportamenti degli operatori economici contemporanei. 

Chiaro anche che il Capitale non possa essere considerata un’opera esauriente ai fini dell’interpretazione del capitalismo attuale. Ma è anche vero che se si vuole capire il mondo presente bisogna partire da lì. 

Purtroppo, nel ’900 italiano i filoni di ricerca che hanno tentato di sviluppare e aggiornare di volta in volta le teorie del Capitale sono via via scomparsi. Il Moro non è più un autore studiato in Italia (e sempre meno all’estero). Nelle facoltà di economia e scienze politiche viene relegato a qualche paginetta di storia del pensiero economico. Mentre nell’economia politica si fa spesso riferimento alle teorie “dominanti”, come i modelli neoclassici e neokeynesiani. L’uso che se ne fa oggi tra i filosofi italiani è invece riduttivo, e paradossalmente non tiene conto della critica dell’economia politica. 

Ma la cosa che sorprende di più è che anche negli ambienti di sinistra radicale ormai non si legge più Marx, men che meno la sua opera principale. Probabilmente questa propensione un po’ è stata influenzata da tutto il pensiero post-gramsciano e dal cosiddetto “Italian Thought”, il secondo molto influente grazie alle intuizioni metafisiche di alcuni autori legati all’operaismo italiano. Oggi le attualizzazioni di quest’ultima teoria, spesso prive di contenuti empirici, vengono spesso richiamate in quel po’ che rimane della sinistra radicale.  

L’interpretazione italiana del pensiero di Gramsci e dell’“Italian Thought” hanno di fatto eliminato dal discorso teorico il Capitale, ovvero l’unica opera matura che Marx abbia voluto pubblicare (e, di conseguenza, rispetto alla quale si sentisse sicuro) e l’unica che probabilmente possa considerarsi caratterizzata da un rigore tale da costituire la fondazione di una nuova scienza: la “critica dell’economia politica”. Il metodo scientifico marxiano pone al centro la struttura economica del suo tempo. Struttura nella quale si formano i rapporti tra gli uomini. Lo stesso Marx ci indica la sua concezione del metodo scientifico storico, come ad esempio nella prefazione a Per la critica dell'economia politica, dove scrive che:

"il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza". 

Questo concetto, molte volte formulato, è ripreso in una nota del Libro I del Capitale, dove si afferma che la sola maniera scientifica di fare storia, ossia di veramente comprendere i fenomeni storici, è quella di metterli in rapporto preciso con la loro base economica. Ecco un altro brano di Marx:

Il Darwin ha diretto l'interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita uguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell'uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare? E non sarebbe più facile da fare, poiché, come dice il Vico, la storia dell'umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l'una e non abbiamo fatto l'altra? La tecnologia svela il comportamento attivo dell'uomo verso la natura, l'immediato processo di produzione della sua vita, e con essi anche l'immediato processo di produzione dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell'intelletto che ne scaturiscono. Neppure una storia delle religioni, in qualsiasi modo eseguita, che faccia astrazione da questa base materiale, è critica. Di fatto è molto più facile trovare mediante l'analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose, che, viceversa, 'dedurre' dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest'ultimo è l'unico metodo materialistico e quindi scientifico. (…) [1]

Quindi l’insegnamento principale per capire le contraddizioni del sistema capitalistico, e trasformare tali contraddizioni in lotta di classe “efficace”, è lo studio delle teorie dominanti che regolano le società capitalistiche, quelle che Marx nel Capitale chiama teorie borghesi “scientifiche” e che differenzia dalle teorie volgari, meramente apologetiche. 

La teoria giusta in merito al conflitto tra le classi si può ricercare solo indagando le teorie di volta in volta egemoni, cercando di trovarvi delle incongruenze, per utilizzarle infine a beneficio delle classi subalterne. 

Durante il cosiddetto periodo “fordista”, l’operaio grazie alla sempre più forte integrazione produttiva nella grande fabbrica ha potuto infliggere duri colpi ai proprietari dei mezzi di produzione. I picchettaggi e gli scioperi organizzati al fine di interrompere la catena produttiva avevano l’effetto di arrestare il processo di accumulazione. L’operaio era cosciente di questo potere. 

Oggi, in Italia sarebbe impossibile una strategia politica di tal fatta, dati i cambiamenti avvenuti durante gli ultimi trenta anni nel sistema produttivo. La crisi dei partiti e dei sindacati alternativi ha accentuato questo fenomeno di crisi di rappresentanza politica delle classi lavoratrici. Inoltre, una riorganizzazione delle forze che ricompattasse i blocchi antagonisti non è stata possibile anche per la risposta alla transnazionalizzazione delle catene produttive che è stata attuata durante la fase del neoliberismo. Tali eventi hanno creato una “centralizzazione senza concentrazione” e pertanto è stato difficile alle forze lavoratici anche solo ripensare una forma di organizzazione che mettesse in difficoltà il capitale. 

A tutto ciò si aggiunge la crisi dei socialismi reali, che per decenni – soprattutto nel periodo della guerra fredda – hanno facilitato lo sviluppo di un welfare europeo che non ha eguali nella storia del nostro continente.   

Le nuove teorizzazioni a sinistra non hanno contribuito al miglioramento della situazione: un sistema dottrinario basato su un’interpretazione del capitalismo moderno – il cosiddetto post-fordismo – della quale non sussistono dimostrazioni concrete e risultati empirici, non aiuta a trovare la strada giusta per una sinistra in continua crisi di identità. 

I recenti fatti politici, come ad esempio la Brexit, o le elezioni di Trump negli USA, hanno decretato la fine (ammesso che ci sia mai stata così come declinato dai dissidenti no global e dalla scienza economica convenzionale) del fenomeno della globalizzazione. Una nuova politica protezionista si affaccia all’orizzonte (come dimostrato durante l’ultimo G7 a Taormina). Il TTIP ormai si è arenato, mentre sul TTP gli USA hanno chiesto una sospensione del trattato. Il ruolo degli Stati-nazione è sempre importante nella gestione politica della struttura produttiva e il mondo è sempre di più diviso in blocchi, come nel ’900. Quella dell’imperialismo come massima forma fenomenologica del capitalismo è una teoria ancora molto attuale. 

I dati dimostrano che l’industria, anche in Italia, rimane il settore trainante (con i servizi all’industria connessi) e raggiunge i tassi di accumulazione più alti. La teoria del valore marxiana è lì che ci guarda con nostalgia. La tendenza è quella verso tassi di profitto e quindi di estrazione di plusvalore sempre elevati; abbiamo semmai assistito ad un cambio di posizione del settore della finanza nel circuito monetario della produzione capitalista. Da funzione redistributiva ha assunto sempre di più il compito di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di creazione di valore e plusvalore, grazie all’indebitamento delle famiglie [2]. 

I settori produttivi sono sempre più delocalizzati, ma con un centro di comando sempre più stretto: un decentramento produttivo tale da creare disorientamento e disorganizzazione nel mondo del lavoro. 

Quale strategia politica di lotta, oggi, in una situazione di questo genere? Se di organizzazione dobbiamo parlare, questa si potrebbe attuare solo tramite un soggetto che abbia una visione di insieme generale e che riesca a entrare nei luoghi del conflitto. Un soggetto che riesca a ricompattare, organizzare, creare la cultura politica, rappresentando le istanze di massa. 

Gramsci nei Quaderni rilevava quanto segue:

1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente” con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito [già esistente] è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo “fisico” ma morale e intellettuale. [3]

Io credo che questa definizione sia ancora attuale e che oggi ci sia bisogno della “forza coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice” di alcuni “capitani” che sappiano interpretare le esigenze e catalizzare le forze delle masse di lavoratori, lavoratrici, disoccupati e disoccupate attraverso la giusta lettura e analisi delle contraddizioni attuali del sistema economico. Io credo che queste forme di mediazione politica siano necessarie per evitare la situazione di sparpagliamento e annullamento nel “pulviscolo impotente” in cui si trovano le forze lavoratrici. 

Oggi però viviamo una situazione differente rispetto agli anni della guerra fredda e del miracolo economico in cui la soggettività politica era rappresentata dal ruolo dei partiti e dei sindacati. La crisi di entrambi i soggetti, crisi dovuta a molti fattori, è legata non solo al differente rapporto geopolitico, ma anche ad una trasformazione dell’apparato industriale e finanziario che ha costretto i pochi partiti e sindacati legati alla tradizione del movimento operaio a non capire dove stesse andando il capitalismo. 
Va sicuramente rilevato che soprattutto in Italia e in Occidente non si può pensare che le contraddizioni più importanti siano tutte dentro la grande fabbrica come nell’assetto fordista, ma non bisogna neanche credere alla favola che oggi la grande fabbrica non esista più o non esista più l’operaio manifatturiero. Semmai ci troviamo di fronte ad uno spezzettamento della catena produttiva, e quindi del valore, con concentrazioni sempre più frequenti verso luoghi lontani dal centro produttivo occidentale. Dove può incidere allora il lavoratore, soprattutto in Italia e in Occidente, affinché possa interrompersi il processo di accumulazione cercando di volgere a proprio vantaggio il conflitto, se l’Italia vede una tendenza alla deindustrializzazione come in altre parti dell’Occidente? 

Delle esperienze positive si hanno in Italia, ad esempio, nelle vertenze sindacali nel settore della logistica. Settore ricco di rigidità e contraddizioni come lo era il manifatturiero negli anni postbellici. E di nuovo ritorna la teoria del Capitale, che ci può offrire un’analisi utile a produrre strumenti per la lotta contro lo sfruttamento del lavoro. Infatti, dal secondo libro del Capitale sappiamo che il processo di valorizzazione attraverso creazione di profitto non dipende solo dallo sfruttamento del lavoro (libro primo), ma dipende anche dalla circolazione del capitale, ovvero il numero di volte in cui il ciclo D-M-D’ si compie. Più volte si compie il ciclo (efficienza del lavoratore) più profitti si realizzeranno in un determinato periodo. I settori che influiscono sulla circolazione come logistica (più veloce il percorso della merce da produttore a consumatore) e servizi finanziari (più velocemente il denaro investito dal capitalismo ritorna sotto forma di pagamenti – D’). Ecco perché la catena di montaggio (spezzettata in termini geografici e contrattuali) non è più il luogo adatto alle lotte nel capitalismo moderno (un’interessante analisi del suddetto fenomeno la si può trovare nel libro Tempesta Perfetta, curato dalla Campagna Noi Restiamo – Odradek 2016). 

Per concludere, ritorniamo alla domanda iniziale, ovvero quanto può essere utile oggi un’opera di 150 anni fa. Se si vogliono attuare delle buone pratiche quotidiane nel senso di trasformazione della società si deve seguire il sentiero del Marx del Capitale, ovvero per capire come funziona il modo di produzione presente; come diceva un mio caro amico attivista nei quartieri degradati di Palermo negli anni ’70, occorre studiare il nemico. E per batterlo occorre studiare la sua teoria, per poi presentarne una nuova che sappia creare una società differentemente funzionante. Insomma, una scienza sociale degna di questo nome non può esimersi da una “critica dell’economia politica” del presente.

1. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, nota, in http://www.marx-karl.com/jmla/en/news/378-il-corretto-metodo-scientifico-di-analisi.html
2. Marco Veronese Passarella in Augusto Graziani tra Keynes e Marx: http://www.marcopassarella.it/wp-content/uploads/Omaggio-a-Graziani.pdf
3. Quaderni 1933-34, Gerratana 1975, Einaudi
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INVISIBILI MA NON TROPPO

12/6/2017
di Vito Bianco

Votato sin dalle origini alla reinvenzione totale della realtà (almeno nella corrente maggioritaria dei frères Lumière), il cinema, non solo quello hollywoodiano, troppo spesso dimentica questa sua aurorale vocazione per dedicarsi quasi esclusivamente allo spettacolo che ha come fine l’incasso al botteghino. Niente di male, dirà qualcuno, anche i sogni e la fuga dal reale hanno diritto di cittadinanza, aiutano a vivere, colmano per un momento mancanze e leniscono ferite. Giusto e sacrosanto, se la prevalenza dell’escape industriale non fosse tanto inarginabile e pervasiva, e se la logica del mercato non avesse sempre – o quasi – la precedenza, non fosse l’unica ‘logica’ sul mercato che si dice libero. 

Per fortuna le maglie non sono così strette; qualcosa sfugge al dominio capillare delle majors americane – nel cui omologato orto, va detto, spunta qualche volta un fiore anomalo – resiste e lavora, da noi e all’estero, un gruppo di autori, produttori e distributori indipendenti che vanno nella direzione di un cinema lontano da schemi usurati dall’eccesso di sfruttamento, inventivo e attento a quel che si agita nella società reale, variegata e frantumata più di quanto certa visione semplicistica a uso pubblicitario o elettorale vorrebbe farci credere. 
Altro che trionfo della piccola borghesia, altro che diversità cancellate nell’auratico trionfo dell’ipermercato; e altro che soddisfatta, narcotica felicità all’ombra della merce per tutti. Per tutti? A insinuare che forse le cose non stanno così, che serve quanto meno un supplemento di narrazione e di analisi ci pensa il potente e dissonante Sole cuore amore di Daniele Vicari, quello della Nave dolce e di Diaz, dunque un solido apprendistato col cinema del reale per eccellenza, il documentario, che ricompone e rimedita, per capirla meglio, la cronaca più significativa che rapidamente diventa storia contemporanea. 
Chi meglio del cineasta rietino poteva portare sullo schermo la storia allegra e disperatamente vitale (la ‘disperata vitalità’ di un celebre ossimoro pasoliniano) di Eli (una impeccabile Isabella Ragonese, ormai il volto femminile del cinema italiano d’autore), barista pendolare, moglie di Mario (Francesco Montanari, ottimo) operaio con occupazioni saltuarie, e madre di quattro figli: la grande sugli undici anni, l’ultima ancora di mesi.
Si vive o si muore, in una famiglia così combinata? si è chiesto Vicari. E ancora: è possibile continuare ad amarsi, se il letto matrimoniale è un divano, lei punta la sveglia alle 4 e un quarto della notte, e le carezze amorevoli non bastano a tenerla sveglia? Si vive giorno dopo giorno con la fatica sulle spalle, sulle gambe, sulla nuca. Ci si continua ad amare, rubando ore al sonno e una risata alla frustrazione, tanto si sa che a ogni giorno ‘basta la sua pena’ e il domani è un’incognita che può portare un meglio, un gradino più alto, un ingaggio che duri almeno una settimana.  
Risposte politiche che avranno deluso le attese di chi era già pronto a puntare il dito sul patetico che ruba persuasività estetica a storie come questa, quando basta invece mostrarle con rispetto e attenzione, sbalzarne i contorni, dare la lingua giusta ai protagonisti, una faccia credibile agli invisibili che sul grande schermo diventano figure di forza plastica rara.  

L’evidenza e la vitalità di queste esistenze faticate (“la morte si sconta vivendo” direbbe il poeta) salta prima agli occhi e poi si scava una nicchia nella memoria, insieme alla musica magnifica di Stefano Di Battista, lirica e lancinante e veloce come i treni della metropolitana che continuano a correre nelle due direzioni, con dentro il rosso cappotto di Eli, punto luce di tenacia alla fermata del bus sotto casa, al bancone del bar al Tuscolano e poi di nuovo nella baraonda del trivani di Ostia, da un buio a un buio, senza mai smarrire la tenerezza e la curiosità per gli altri – e la speranza, che spinge a non mollare. 
È un altro mondo, un mondo periferico facile da vedere ma che nessuno vuole davvero vedere – nemmeno se a proporlo sono le inchieste televisive solitamente piazzate in seconda serata – quello che lucidamente esplora Vicari, senza stilemi scontati o pietismo, adeguando la scrittura visiva della macchina da presa alla sfiancante ripetizione viaggio-lavoro-sonno, alternando distanza e lontananza, fuoco e sfocatura, ironia e rabbia: dentro l’abitazione ad annusare la famiglia nella problematica convivenza, al banco a fronteggiare il sorridente lavoro quotidiano di Eli e della sua compagna e amica straniera di fede musulmana, con le battute dei clienti assidui e i mugugni e le insofferenze padronali di Nicola, interpretato con sicura essenzialità da Francesco Acquaroli che, dice Eli, “non è cattivo” ma intanto le fa pagare con una diminuzione dello stipendio i ritardi involontari e si schiera con la cliente anche quando è insolente e razzista.

Storia d’amore e di lavoro, ma anche di amicizia femminile fondata saldamente su affetto, complicità e reciproco sostegno pur nella differenza tra la protagonista e Valentina (Eva Grieco) che abita nello stesso condominio, performer notturna ed ex studentessa di fisica, incompresa dalla madre e silenziosamente innamorata della ragazza con cui fa coppia negli spettacoli, Cuore sole amore rilancia e aggiorna la narrazione del disagio contemporaneo a diverse latitudini: dall’Inghilterra dell’ultimo Loach, un secco referto sulla mortale stupidità burocratica, all’America nera di Moonlight, da Virzì a più riprese negli ultimi anni sui temi dell’incertezza esistenziale, alla Fortunata di Castellitto (nonostante i troppi punti esclamativi) fino allo splendido Amelio della  Tenerezza, altre vite inclassificabili e arrovellate in primo piano e a Cuori puri di Roberto De Paolis, ancora proletari, disoccupazione (e Rom) e periferia romana conflittuale. 
L’aggiorna illuminando con passione controllata e voglia di capire la faccia scura della crisi priva di confini, la precarietà ormai rubricata come dato di natura e compone una storia esemplare di corpi presi nell’ingranaggio capitalistico della sopravvivenza con un senso del reale (la precisione mimetica dei dialoghi, la cura delle sfumature, degli sguardi) all’altezza della sfuggente ma concreta complessità dei tempi che viviamo.
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UOMINI E LUPI

9/6/2017
di Pavlov Dogg

The way you walked was thorny, through no fault of your own
Curt Siodmak


Con una certa rozzezza (e tocca alle storie più belle farci capire quanto siano rozze le nostre classificazioni) ho sempre suddiviso il genere horror, o del soprannaturale, in due categorie fondamentali: 1) Storie [e sono poche] in cui il Mostro – o, se mostro non è, il Personaggio Principale – è importantissimo, perché presenta caratteristiche innovative, tali da rimodellare il genere. Esempio classico: nel ciclo cinematografico dedicato a Frankenstein dalla Hammer, al centro della scena non è c’è più la Creatura, bensì il Barone, cioè lo scienziato, l’“aristocratico giacobino” interpretato da Peter Cushing, con tutto quel che ne consegue; e 2) Storie [e sono molte] in cui il Mostro in realtà funge da catalizzatore delle reazioni altrui (e, per quanto direttamente lo riguarda, diventa una specie di floating signifier in cerca di significato). Quello che qui interessa è il posizionamento degli altri personaggi e/o dei vari centri di potere ideologico, economico, politico rispetto al Mostro: chi lo sottovaluta, chi vuol farne un capro espiatorio, chi vuol venirci a patti, chi vuole “comprenderlo” eccetera. I tanti film sul Conte Dracula (con qualche eccezione) sono l’esempio tipico di questa seconda categoria. 

Cacciatori di notte di Filippo Tuena mette seriamente in crisi la suddivisione cui ero affezionato, perché 1) da un lato riplasma in maniera assai notevole un topos pure frequentatissimo dalla letteratura (anche italiana, da Pirandello a Landolfi) e dal cinema, inventandosi una “scuola” di cacciatori-guaritori lontana da ogni manicheismo (uno dei maestri cacciatori si chiama “Diavolo della Messa”!), e opportunamente allargando la gamma di rituali e strumenti a loro disposizione, a seconda che abbiano a che fare con licantropi credenti o non credenti (si spazia dalla tradizionalissima acqua benedetta al “morso del calcagno”, dalla costruzione di muretti a un suggestivo apostrofare la preda, che non anticipo per non togliere sorpresa alla lettura); 2) dall’altro lato è indubbio che l’incontro dapprima con la leggenda, poi con la realtà dei lupi mannari segni per uno dei due narratori una forte svolta spirituale e dunque pratica: nel segno di San Francesco, diciamo pure, dacché è inevitabile leggendo la parte conclusiva del romanzo pensare alla vicenda del Lupo di Gubbio. Ed entrambi i narratori (uno racconta una vicenda che si svolge negli anni Sessanta, l’altro ci parla dagli anni Novanta della prima edizione di Cacciatori di notte) traggono ispirazione dalla figura di Don Fortebraccio, il decano dei cacciatori di lupi mannari (più guaritore che ammazzavampiri, come si diceva), che va orgoglioso di non aver quasi mai dovuto fare del male alle sue prede, che adesso sono vive e non ricordano più nulla, o sono morte “da persone per bene, da quieti contadini”.

Le edizioni Corrimano vanno pertanto calorosamente congratulate per aver riportato in libreria questa gemma di uno scrittore premiatissimo (due premi Bagutta, un Grinzane Cavour, un Viareggio) che ha fatto letteratura con la materia prima dell’horror nell’unico modo in cui ciò è davvero possibile: non ‘minimizzando’ il genere sovraimponendogli raffinate psicologie, o profondi filosofeggiamenti per poter fare il ‘gallo sulla monnezza’; ma al contrario prendendo il genere assolutamente sul serio, tanto da portarlo alle sue estreme conseguenze evidenziandone le aporie, ponendogli le domande che le sue convenzioni più inerti non vorrebbero sentirsi porre. Nella fattispecie, qui viene fuori con forza inedita la compassione nei confronti dei “lupi mannari” della vita vera – se non veri alla lettera – e l’attenzione alle cause della loro condizione. Nelle sorprendenti 20 pagine dell’ultima parte è particolarmente emozionante la figura del “giovane di bottega” cinquantenne. Compiendo una serie di addizioni e sottrazioni narrative – e lo si fa con la massima naturalezza, grazie alla magia narrativa di Tuena – si può giungere alla conclusione che si tratti di un parente del secondo narratore, nato illegittimo e piagato dalla povertà e dell’esclusione. Il notaio suo datore di lavoro gli attribuisce invece “malformazione dell’anima” per il fatto che è gobbo; e ora lo sgrida, poi lo ignora, gli dà del “coglione”, del “coglionissimo”, del “povero cretinetti”. Negli occhi del poveretto appare per un attimo “una ferocia lupesca”. Noi sappiamo tuttavia che – nelle immortali parole pronunziate da Maria Ouspenskaya, la zingara del film del 1941 L’Uomo Lupo – il suo cammino è “irto di spine”, ma “non per colpa” sua. E che “anche un uomo puro, che prega con fervore/lupo divien, se la fiorisce la luparia e la luna d’autunno è al suo splendore”[1]. 

​La riedizione era peraltro in una certa misura scritta nel destino del libro. A un certo punto ci imbattiamo infatti in un pittore che annunzia quanto segue: “ho sviluppato quest’arte nuovissima; ritrarre quel che saremo. Vedete, mi basta avere una vostra foto di qualche anno addietro, diciamo dieci o dodici, per realizzare poi un dipinto o una scultura – se preferite – di come sarete fra trent’anni” (p.117, corsivi miei). Dato che quest’“arte nuovissima” si giova di un complicato sistema di specchi, è quasi inevitabile vedere nella storia “centrale” (anni ’60) il “come eravamo” dell’Italia provinciale (e non solo); e in quella degli anni ’90 l’approntamento dello specchio che adesso Filippo Tuena e Corrimano mettono davanti all’Italia del 2017. L’ultimo capitolo lo scriveremo pertanto noi, i lettori della nuova edizione: ha iniziato Francesco Romeo con una splendida prefazione, proseguo qui io, altri verranno. E se c’è qualche produttore cinematografico intenzionato a fare un film tanto bello quanto di successo, mi sa proprio che gli conviene leggere questo romanzo. 


1. Non è un caso, del resto, che l’epoca d’oro dei licantropi al cinema (a partire da Il segreto del Tibet del 1935) coincida con quella del New Deal e dell’intervento statale in economia, in un periodo in cui proprio non era possibile colpevolizzare milioni e milioni di “imprenditori di sé stessi” rimasti disoccupati.
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DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?

7/6/2017
Labour Party Socialist Network Scotland

In politica due anni devono essere davvero tanti, se oggi ritroviamo all’interno del Partito Laburista i compagni (allora) di Left Unity Glasgow che nel 2015 commentavano per PalermoGrad (qui) il disastroso esito delle elezioni politiche
. Siamo passati dallo 0,1% della sinistra scozzese non-nazionalista ad un Labour rigenerato, che sta mettendo in seria difficoltà i conservatori di Theresa May: ma in un percorso politico di forte coerenza, in cui l’elezione a leader laburista di Jeremy Corbyn ha cambiato (quasi) tutto. Grazie a Sandy McBurney e in bocca al lupo!


Non ci sono dubbi: la campagna del Labour sta raggiungendo un considerevole numero di lavoratori e di altri elettori che cercano un’alternativa radicale alla prosecuzione dell’austerità e degli attacchi ai diritti democratici da parte dei tory.
Nonostante queste elezioni anticipate vedano quasi tutti i media schierati ad attaccare i laburisti e promuovere i conservatori, il Labour ha guadagnato costantemente terreno nei sondaggi mentre i tory sono in calo, specialmente dopo la presentazione di quello che è il programma elettorale più aggressivo e di destra come minimo dal 1945 a questa parte.
In campagna elettorale sono emerse alcune questioni-chiave: 

1) Il tentativo di abbassare il tenore di vita dei lavoratori e distruggere una serie di diritti democratici non si deve soltanto alla virulenta anti-socialità dei tory, ma è collegato alla crisi del capitalismo maturata con il crollo delle banche sfiorato nel 2007-8 e tuttora irrisolta. Le classi dominanti dei principali paesi capitalisti, Stati Uniti in testa, hanno deciso che qualsivoglia partito vada al governo debba continuare a imporre programmi di ‘austerity’, sottraendo risorse alla massa della popolazione e pompandole verso la parte più ricca della società. Trump personifica questo programma politico, ma se fosse stata eletta Hilary Clinton gli attacchi al tenore di vita dei lavoratori sarebbero stati simili, seppure condotti in modo diverso. Gli attacchi ai diritti democratici sono parte integrante dell’‘austerity’, in quanto servono a vessare le organizzazioni sindacali e dividere i lavoratori in base alla razza, alla religione, alla nazionalità eccetera.

2) A peggiorare la situazione c’è l’incombente disastro del Brexit: i tory sanno che condurrà a un forte abbassamento del tenore di vita per la gran parte della popolazione, e persino alla caduta del valore delle abitazioni. Vogliono sbarazzarsi in fretta del problema delle elezioni, coscienti dell’impopolarità che gli effetti del Brexit comporteranno. 

3) È del tutto chiaro che non si può lottare contro l’austerity esclusivamente a forza di votazioni in Parlamento o nei consigli municipali. I protagonisti di questa lotta devono essere i lavoratori, organizzati nei sindacati e nei soggetti politici. La campagna elettorale in corso e tutto il percorso di rinascita della sinistra laburista devono porsi il problema di un’organizzazione efficace, in grado di difenderci dai tagli e dagli attacchi al salario e alle condizioni di lavoro. I sindacati vanno resuscitati in qualità di organizzazioni di lotta, laddove oggi, con qualche eccezione, ricercano il ‘partenariato’ con la direzione aziendale. Altra questione cruciale è quella dell’ala destra del Labour Party, che condivide la logica dell’austerity e cercherà di mettere in pratica gli attacchi di cui sopra, nonché di promuovere il militarismo britannico all’estero. 

4) In Scozia la crisi politica è probabilmente più acuta che nel resto della Gran Bretagna: tuttavia ciò viene oscurato dalla diversione reazionaria del nazionalismo scozzese. Il SNP (Scottish National Party), sostenuto dalla sinistra “decotta” – ivi compresi SWP, Socialist Party e SSP – ha sostanzialmente promesso che una frontiera a Carlisle [cioè tra Scozia e Inghilterra, NdR] fermerà gli effetti della crisi internazionale. Questa è ovviamente una sciocchezza: nuovi confini peggiorerebbero la situazione e – cosa decisiva – imporrebbero ulteriori divisioni ai lavoratori, indebolendone l’organizzazione e le capacità reattive. È fuor di questione che l’ultima cosa che il SNP vuole è un partito laburista in grado di sfidare i conservatori: i nazionalisti desiderano con tutto il cuore una vittoria dei tory, in quanto scenario più favorevole per promuovere l’indipendenza. Ciononostante, c’è una considerevole parte dei lavoratori e dei giovani che hanno votato Sì all’indipendenza nel 2014 e/o SNP alle elezioni del 2015, che adesso vede però nel Labour l’opzione davvero radicale di queste elezioni, e intende sostenere Jeremy Corbyn con il proprio voto. La questione chiave è come arrivare ad un aumento delle iscrizioni al Labour in Scozia che possa reggere il confronto con la grande ondata verificatasi nel resto della Gran Bretagna. A confronto, il Labour in Scozia è oggi un partitino di superstiti. 

5) C’è stata una certa confusione riguardo a chi o che cosa sia la working class. Tanto i vecchi partiti comunisti di matrice stalinista che la sociologia USA che inventò la “classificazione demografica” (con le categorie A, B, C1, C2, D e via dicendo) tendono a definire la classe lavoratrice in termini di lavoro manuale. Noi ci riferiamo piuttosto a Marx, che definiva la classe operaia in base alla sua relazione con i mezzi di produzione. Più o meno, chi lavora in cambio di un salario, laddove il salario è inferiore al valore creato lavorando, fa parte della classe operaia. Ciò comprende la gran parte dei lavoratori non-manuali e dei tecnici. 

[traduzione di Pavlov Dogg]
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PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO

1/6/2017
di Lars T. Lih

Nella narrazione corrente, quella di febbraio è la rivoluzione “buona”, mentre quella di ottobre è dipinta come estremista. In realtà gli eventi in Russia furono molto più complessi.


Nel suo libro Inside the Russian Revolution, Rheta Childe Dorr descrive le sue prime impressioni della Russia:

«La prima cosa che ho visto la mattina del mio arrivo a Pietrogrado… è stata un gruppo di giovani – una ventina circa, direi – che marciava nella strada di fronte al mio hotel, portando uno striscione rosso con una scritta a caratteri cubitali bianchi.
“Cosa dice quello striscione?”, chiesi al portiere dell’albergo che mi stava accanto.
“Dice: Tutto il potere ai soviet”, mi rispose.
“Che cosa sono i soviet?”, gli domandai. E lui mi rispose seccamente: “Sono l’unico governo che oggi abbiamo in Russia”».


A giudicare da questo passo, si potrebbe immaginare che Dorr fosse arrivata in Russia dopo la rivoluzione d’ottobre, dal momento che solo allora i soviet rovesciarono il governo provvisorio. Ma Dorr era giunta in Russia a fine maggio 1917, e lasciò il Paese verso la fine di agosto. Il suo libro venne dato alle stampe prima della rivoluzione d’ottobre, sicché ci fornisce una preziosa testimonianza su ciò che stava accadendo nel 1917, e non col senno di poi.
Il racconto di Dorr fa luce su un fatto fondamentale: «I soviet, cioè i consigli dei delegati degli operai e dei soldati, che si sono diffusi a macchia d’olio in tutto il paese, sono la cosa più vicina a un governo che la Russia abbia conosciuto fin dai primissimi giorni della rivoluzione». A dispetto della sua fede socialista, Dorr era una fervente fautrice della guerra contro la Germania e perciò profondamente ostile a ciò che percepiva come la tirannica demagogia del momento.
Considerava il regime sovietico non migliore e, per certi versi, peggiore di quello zarista. Ad esempio, a proposito della censura sulla stampa: «Anche se [il viaggiatore americano medio] poteva leggere tutti i giornali, non avrebbe però potuto ottenere molte informazioni. La censura sulla stampa è rigida e altrettanto tirannica oggi come all’apice dell’autocrazia, tranne per il fatto che a venir soppresso è un diverso genere di notizie». Per dare ai suoi lettori americani un’idea della “mania consiliare” che aveva preso piede in Russia, fece ricorso a quest’analogia:

«Provate a immaginare cosa sarebbe successo a Washington, diciamo, presso l’ufficio del Segretario del Tesoro, se una commissione della Federazione Americana del Lavoro fosse entrata e avesse detto: “Siamo venuti a controllarvi. Esibite i vostri libri e tutti i vostri documenti confidenziali”. Questo è ciò che accade negli uffici dei ministeri in Russia, e sarà così fino a quando non si riuscirà a formare un governo che risponda solo all’elettorato, e non uno schiavo del Consiglio dei delegati degli operai e dei soldati».

Il racconto di Dorr è unilaterale: il potere sovietico venne fortemente contestato durante il 1917, e il governo provvisorio aveva il suo ambizioso programma. Tuttavia, Dorr fa chiarezza su alcuni aspetti che non sorprenderanno la maggior parte degli storici, ma che gettano una luce inattesa sullo slogan “Tutto il potere ai soviet!”. Vale la pena di esplorare questa nuova prospettiva, innanzitutto per dimostrare la continuità tra il Febbraio e l’Ottobre, poi per interrogarci sul carattere della rivoluzione e, infine, per esaminare la leadership dei bolscevichi e di Lenin in particolare.
“Tutto il potere ai soviet!” è uno degli slogan più famosi della storia rivoluzionaria. Rappresenta, insieme a “Liberté, egalité, fraternité”, il simbolo di un’intera epoca rivoluzionaria. In russo, si compone di tre parole, “вся власть советам”, “Vsya vlast’ sovetam”; cioè “Vsya”, che significa “tutto”; “vlast’”, che significa “potere”; “sovetam”, che significa “ai soviet”. La parola russa “sovet” significa semplicemente “consiglio”.
L’altra parola russa – “vlast” – presenta, nella traduzione in inglese, qualche difficoltà in più.  “Power” non è un’espressione del tutto adeguata per una serie di motivi. “Vlast” ha un riferimento più specifico del termine inglese “power”, rappresenta cioè l’autorità sovrana in un determinato Paese. Al fine di avere il vlast, una persona deve avere il diritto di prendere una decisione definitiva, di essere in grado di prendere le decisioni e di far sì che vengano applicate. Spesso, in inglese, nel tentativo di cogliere queste sfumature, vlast è tradotto dalla frase non-idiomatica “the power”. Userò “potere” e vlast in modo intercambiabile [1].


Il “vlast” embrionale
In base alla narrazione oggi prevalente, nel 1917 vi è un contrasto tra “il Febbraio” e “l’Ottobre”. Al pubblico dei lettori colti si dà in pasto un’interpretazione liberale di questo contrasto: quella di febbraio sarebbe la buona rivoluzione della libertà politica e della democrazia, quella di ottobre la cattiva, illegittima rivoluzione del sopruso e dell’utopismo estremistico. A sinistra troviamo un’antinomia simile, ma di segno opposto: “rivoluzione democratico-borghese” contro “rivoluzione socialista”.
Viene trascurata la marcata continuità tra il Febbraio e l’Ottobre. Sin dal suo inizio, cioè già da febbraio, la sollevazione del 1917 andrebbe vista come una rivoluzione democratica antiborghese. Il potere sovietico venne effettivamente proclamato nel mese di febbraio, mentre il compito dell’Ottobre fu di confermare che esso non avrebbe lasciato la scena senza colpo ferire.
La forza su cui riposava questo nuovo potere o autorità sovrana – il soviet – era il popolo, il narod, gli operai, soldati e contadini, le masse; dall’altro lato c’era l’élite, gli tsenzoviki (il “censo”, le classi possidenti), la società istruita. L’obiettivo centrale della rivoluzione sovietica era realizzare il vasto programma di riforme in precedenza indicato con il termine “rivoluzione democratica”: innanzitutto, la terra ai contadini e la liquidazione dei pomeshchiki (l’aristocrazia latifondista) come classe; e poi la fine a una guerra spietata e inutile.
Allo stesso tempo, la rivoluzione era profondamente antiborghese, anche se questo sentimento non si tradusse nella rivendicazione programmatica di costruire il socialismo nel breve o medio termine. Ma la cosa sorprendente non fu la base sociale della rivoluzione, né i suoi valori antiborghesi, quanto piuttosto la creazione, pressoché contemporanea alla caduta dello zar, di un valido candidato ad assumere l’autorità sovrana nel Paese, che si basava su quest’ampio mandato popolare.
Nel febbraio del 1917, l’antica dinastia dei Romanov – spesso definita “il Vlast storico” – si dissolse, lasciando la Russia sostanzialmente senza un potere funzionante, cioè senza un’autorità sovrana generalmente riconosciuta. Gli eventi rivoluzionari del 27 febbraio, infatti, furono cruciali per tratteggiare quasi immediatamente le linee di sviluppo dell’intero anno. In particolare, quel giorno:

1. Il potere zarista che aveva governato la Russia per centinaia di anni crollò nella capitale Pietrogrado. Lo zarismo era stato un vlast nel vero senso della parola: aveva il controllo delle forze armate, un forte senso di legittimità e di missione, una base sociale.

2. Il soviet di Pietrogrado venne creato da intellettuali socialisti che sollecitarono l’elezione dei rappresentanti delle fabbriche e, subito dopo, dei soldati. Di lì a poco, il famoso “Ordine numero uno” emanato dal soviet gli fece guadagnare la qualità più indispensabile per l’esercizio del vlast: il controllo sulle forze armate. Facendo appello alla democratizzazione e alla formazione di consigli dei soldati, il soviet di Pietrogrado ne ottenne la lealtà e fiducia.

3. Il governo provvisorio era formato da politici delle élite liberali. Sebbene cercasse di rivendicare una qualche sorta di legittimità sulla base della trasmissione legale del potere, esso rappresentava in buona sostanza una reazione alla creazione del soviet. Così, fin dall’inizio, le classi delle élite restarono completamente spiazzate di fronte ad un ostacolo imprevisto, rappresentato da un vlast sovietico funzionante. Ma, per sua fortuna, il governo provvisorio trovò alleati nella direzione socialista moderata del soviet, che riteneva indispensabile mantenere gli elementi più progressivi della borghesia nel campo della rivoluzione.

In tal modo, il soviet di Pietrogrado assunse il ruolo di fonte suprema del vlast, l’autorità sovrana, anche se in questa fase era sempre attento a non utilizzare questo termine. Il soviet era il rappresentante eletto degli operai e dei soldati: una differenza sostanziale rispetto alla sua versione del 1905. Ci furono due momenti fondamentali in quest’affermazione di autorità: in primo luogo, il governo provvisorio fu costretto a impegnarsi nella realizzazione di parti fondamentali del programma sovietico allo scopo di guadagnare un minimo di legittimità, e, in effetti, per potersi quantomeno insediare. In secondo luogo, l’Ordine Numero Uno permise al soviet (quasi senza che se ne accorgesse) di ottenere un attributo essenziale di ogni vlast, vale a dire, il controllo del supremo mezzo di coercizione: l’esercito. Queste due caratteristiche – l’impegno del governo alla realizzazione di parti fondamentali del programma sovietico e la massima fedeltà delle forze armate al soviet, anziché al governo provvisorio – determinarono il corso della politica per il resto del 1917.
In superficie, le vicissitudini del potere sovietico nel corso dell’anno si espressero in una serie di drammatiche crisi politiche. In profondità, invece, si stava verificando un processo più molecolare che rivestiva il soviet degli attributi essenziali di un vero e proprio vlast. Cerchiamo di dare un’occhiata a questo processo più profondo.
Secondo alcuni osservatori bolscevichi dell’epoca, il soviet nel mese di febbraio è stato un “vlast embrionale”. Questa è un’eccellente metafora, che conduce dritti alla seguente domanda: cosa ci voleva per renderlo un autentico vlast indipendente, in grado di difendersi da solo? Un vlast efficace ha bisogno almeno di quanto segue:
1. Un senso di missione: quella che potremmo chiamare legittimità interna.
2. Una plausibile, fidelizzante affermazione di legittimità: legittimità esterna.
3. Un monopolio dei mezzi legittimi di coercizione.
4. La capacità di eliminare tutti i rivali.
5. Un ampio programma per affrontare i problemi nazionali quotidiani.
6. Una classe politica numerosa che svolga il ruolo che la nobiltà (dvorianstvo) aveva svolto nella Russia zarista.
7. Un apparato amministrativo in grado di trasmettere la volontà del potere centrale in tutto il Paese.

Queste sono le caratteristiche fondamentali di un vlast funzionante. L’embrionale vlast sovietico costituitosi nel febbraio iniziò con alcune di queste caratteristiche in forma virtuale; e in seguito, prima nel 1917 e poi durante la guerra civile, queste e tutte le altre caratteristiche acquisirono progressivamente più forza. Ad esempio, il soviet assunse una forma istituzionale nazionale, attraverso una conferenza di tutta la Russia a fine marzo e due congressi dei soviet (giugno e ottobre). Al contrario, il governo provvisorio perdeva progressivamente anche quei tratti essenziali con i quali si era insediato, tanto da diventare sempre più evanescente. Nell’autunno del 1917, aveva addirittura perso il sostegno dei leader sovietici moderati, ed era soltanto un potere fantasma.

Passiamo ora all’ininterrotta serie di crisi politiche che hanno segnato le relazioni tra i soviet e i riformisti borghesi nel governo provvisorio. La lotta politica nel 1917 è stata condotta nel quadro di una Costituzione non scritta, secondo cui la maggioranza del soviet aveva l’ultima parola per quanto concerneva il programma e la composizione del governo. Inizialmente, Alexander Kerensky venne inserito nel governo in rappresentanza del soviet. Per questa e altre ragioni, il contrasto spesso enfatizzato tra un periodo iniziale di “doppio potere” e un successivo periodo di coalizione è in effetti quasi trascurabile.

Agli inizi di maggio, il governo provvisorio propose, ma il soviet dispose: accettò la richiesta del governo di inviare più rappresentanti nell’esecutivo. Non importa quanti rappresentanti individuali dei soviet siano stati insediati al governo, resta il fatto che nessuna grande iniziativa politica venne condotta contro la volontà esplicita della maggioranza del soviet. Sicché le varie crisi politiche emerse nel corso l’anno terminavano quando l’autorità sovietica rendeva nota la propria volontà, dal momento che aveva il supremo controllo della forza coercitiva. Ciò era vero in marzo, aprile, luglio e agosto, così come in ottobre.
Naturalmente, il potere sovietico venne fortemente contestato sin dall’inizio: anche la controrivoluzione nacque nel mese di febbraio. La principale fonte di conflitto si sviluppò su quella che all’epoca fu chiamata krizis vlasti, la crisi di potere. La questione venne spesso inquadrata nei seguenti termini: questo dvoevlastie, il doppio potere, la doppia sovranità, è una contraddizione in termini; se i responsabili sono due, allora chi prende la decisione finale, quella che conta davvero? “Doppio potere” equivale a “molteplici poteri”, cioè nessun potere: una ricetta per il cattivo funzionamento del governo. La Russia abbisognava invece di un solo incontrastato, riconosciuto e coerente (tverdaia) potere.
In quel momento iniziarono a sorgere le divergenze. Il partito liberale dei Cadetti fu il primo a porre la questione, concludendone che i soviet avrebbero dovuto farsi da parte. I bolscevichi, invece, accolsero subito l’argomentazione per i loro scopi, e sostennero che perciò tutto il potere doveva andare ai soviet!
La questione essenziale per i soviet era: si può portare a compimento il programma sovietico attraverso una collaborazione in buona fede con i riformisti borghesi? Oppure, il divario esistente tra borghesia e popolo su questioni fondamentali come la guerra, il problema della terra, l’ordinamento economico, è troppo ampio per essere colmato? I bolscevichi etichettarono il tentativo di collaborazione interclassista come soglashatelstvo, un termine spesso erroneamente tradotto come “conciliazione”, ma che può essere reso in inglese in un modo più semplice come “agreementism” (tendenza all’accordo). Quindi la domanda da rivolgere al soviet era: è praticabile l’agreementism? Certo, può essere conveniente lavorare insieme all’élite, piuttosto che contro di essa, ma non a costo di rinunciare agli obiettivi della rivoluzione.

Dal punto di vista della controrivoluzione incipiente, c’erano due possibili strategie per l’eliminazione del sistema sovietico: un colpo di stato violento o un colpo di stato morbido. Un tentativo di golpe violento fu fatto dal generale Kornilov alla fine di agosto, ma si trattò di un’avventura mal concepita fin dall’inizio, che si scontrò subito con la dura realtà della politica nel 1917, vale a dire, la massima fedeltà delle forze armate al soviet. Il colpo di stato morbido si basava su una diversa strategia per insediare, tramite vari mezzi, un ampio potere alternativo di unità nazionale, chiedendo al contempo ai soviet di uscire volontariamente di scena. In questa categoria possiamo ricomprendere alcuni esperimenti dell’autunno, come la Conferenza Democratica e il Pre-Parlamento [2]. L’Assemblea Costituente fu sempre più il fulcro di tentativi di un colpo di stato morbido, cioè, di tentativi per indurre il potere sovietico a farsi da parte senza troppe storie.
Per quanto riguarda l’organismo sovietico, la questione venne decisa ai primi di settembre, quando le nuove maggioranze nei soviet di Mosca e Pietroburgo espressero il loro sostegno a un governo totalmente sovietico e contrario a una coalizione. Diventava chiaro che l’imminente secondo Congresso dei soviet, che si sarebbe celebrato nel mese di ottobre, avrebbe assunto la stessa linea. Sicché la domanda diventava: reggerà la ‘Costituzione non scritta’? La nuova maggioranza del soviet sarà in grado di esercitare lo stesso supremo controllo sulle politiche e sui membri del governo, così come aveva fatto la vecchia maggioranza del soviet? La narrazione corrente parla dell’Ottobre come del momento in cui i soviet rovesciarono il governo provvisorio. Dal nostro punto di vista, fu invece il momento in cui il governo provvisorio non riuscì a rovesciare i soviet.
Allo stesso tempo, i soviet attribuirono la leadership politica al partito bolscevico. Questa scelta derivava dall’ancor più fondamentale decisione di mantenere in piedi il potere sovietico, dal momento che i bolscevichi erano l’unica forza politica organizzata disposta a e in grado di farlo (i Socialisti Rivoluzionari di Sinistra sarebbero pure stati disposti, ma non erano una forza politica bene organizzata). Lo scioglimento dell’Assemblea Costituente agli inizi di gennaio pose fine all’ultima possibilità di far terminare pacificamente – cioè attraverso un volontario autoscioglimento – il potere del soviet. Da quel momento in poi, la questione sarebbe stata decisa sul campo di battaglia.


Il secondo Congresso: il significato dell’Ottobre nel mese di ottobre
Secondo la ‘Costituzione non scritta’, un congresso dei soviet regolarmente eletto in rappresentanza dei soviet in tutto il Paese aveva il diritto e il dovere di determinare sia i membri che le politiche del governo rivoluzionario. Il secondo Congresso che si riunì il 25 e 26 ottobre era proprio un organismo del genere. Spesso siamo talmente affascinati dai drammatici dibattiti tra i bolscevichi, e dalla “insurrezione armata” organizzata dal Comitato militare rivoluzionario del soviet di Pietrogrado, che tendiamo a dimenticare che il fatto politico fondamentale, nell’autunno del 1917, fu la nuova maggioranza che si formò a livello nazionale nei soviet.
La rivoluzione assume un nuovo significato alla luce di questo fatto: possiamo immaginare il secondo Congresso senza la rivoluzione, ma non possiamo immaginare la rivoluzione senza il secondo Congresso. Come disse Trotsky al congresso: «La formula politica di questa insurrezione: Tutto il potere ai soviet tramite il Congresso dei soviet. Ci si dice: Non avete aspettato il congresso per fare il vostro colpo di stato. Abbiamo, come partito, ritenuto nostro compito assicurare al Congresso dei Soviet la possibilità effettiva di prendere il potere».
Di conseguenza, un’occhiata agli atti del Secondo Congresso ci darà un’idea del significato dell’Ottobre nel mese di ottobre – vale a dire, ciò che il Secondo Congresso nel suo insieme, ivi comprese maggioranza e minoranza, pensava di stare facendo. Secondo la ‘Costituzione non scritta’, un Congresso dei soviet legittimamente costituito aveva il diritto di determinare i membri e le politiche del governo. Questo era il nocciolo della questione, e nessuno al congresso lo contestò, nemmeno gli avversari più determinati dei bolscevichi, che, invece, cercarono di minare il legittimo status del congresso con diversi altri metodi: innanzitutto, abbandonando la sala del congresso per far venir meno il quorum necessario, trasformandolo così in una “conferenza privata”; poi, sostenendo che il conflitto armato e la “guerra civile” in corso nelle strade rendeva impossibili i lavori del congresso stesso. Ma attenzione: i socialisti antibolscevichi non protestarono per l’arresto del governo provvisorio, ma solo per il trattamento riservato ai ministri socialisti; e anche in questo caso, lo sdegno non fu provocato dal loro status di ministri, ma piuttosto dal fatto che si trattava di compagni di partito che espletavano una missione di partito. Infine, pur concedendo che il congresso avesse il diritto di creare un nuovo governo, e persino un governo da cui fosse escluso qualsiasi partito non sovietico, insisterono sul fatto che questo nuovo vlast sovietico dovesse rappresentare tutti i partiti sovietici e addirittura tutte le forze democratiche: così sostenevano l’ala guidata da Martov dei menscevichi e i Socialisti Rivoluzionari di Sinistra, benché la creazione di una siffatta ampia coalizione fosse un’irrealizzabile chimera. Sicché al congresso nessuno realmente contestò la ‘Costituzione non scritta’.

Quale programma il congresso affidò al nuovo governo? Tre punti vennero concordati durante i due giorni di sessione: una proposta ufficiale del governo per una “pace democratica”; la terra ai contadini, con la conseguente abolizione della proprietà nobiliari; la creazione di un “governo operaio e contadino”. Tutte e tre queste misure erano essenzialmente “democratiche”, nel linguaggio del tempo, e a questa qualità democratica fu data grande enfasi dalla retorica ufficiale e dai portavoce bolscevichi. Una famosa frase di Lenin – forse il primo pronunciamento del nuovo vlast – suonava così: «La causa per la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata».
Nel testo originale Lenin aveva aggiunto: «Viva il socialismo!», ma poi tolse questa frase. Ciò indica un’altra caratteristica dei dibattiti svoltisi al congresso: il basso profilo del “socialismo”, sia come parola che come concetto. Certo, il socialismo veniva menzionato come obiettivo finale. Ma i bolscevichi non difesero mai il programma effettivamente varato dal congresso come il solo socialista; né – particolare illuminante – coloro che attaccavano i bolscevichi in qualche modo criticarono come irrealistico il tentativo di installare il socialismo in Russia. Più semplicemente, il “socialismo” non era affatto un problema, al Secondo Congresso.
Il significato storico del Secondo Congresso, dunque, fu che la precedente Costituzione non scritta in quel momento si affermò apertamente come la legge suprema del Paese. Il vlast embrionale creato nel mese di febbraio – un potere basato saldamente sugli operai e i contadini, e votato al programma della rivoluzione – annunciò al mondo la sua ferma intenzione di sopravvivere e prosperare.


Che tipo di Rivoluzione fu?
Il nostro sguardo al Secondo Congresso e al suo programma rende inevitabile la domanda: che tipo di rivoluzione fu quella russa del 1917? In un certo senso, naturalmente, una rivoluzione operaia e contadina in Russia non poteva che essere “socialista”, dal momento che era guidata da ferventi socialisti, il cui scopo finale era costruire una società socialista. I partiti socialisti avevano un assoluto monopolio della fedeltà politica del narod e nessuno, tranne i partiti socialisti, era sempre stato rappresentato nel sistema dei soviet. Inoltre, i bolscevichi collocavano il proprio progetto nel quadro della rivoluzione socialista a livello europeo, che ritenevano imminente. D’altra parte, se guardiamo al programma vero e proprio adottato dal potere sovietico nel 1917, così come all’essenza del messaggio inviato quotidianamente dai bolscevichi ai sostenitori del soviet, ci rendiamo conto che le rivendicazioni “democratiche” erano quasi del tutto predominanti rispetto a quelle “socialiste”.
L’opposizione binaria tra “rivoluzione democratico-borghese” e “rivoluzione socialista” rappresenta un tema molto antico nella tradizione marxista, ma sin dai primi del Novecento stava mostrando chiari segni di inadeguatezza. Nel 1906, Karl Kautsky aveva scritto un fecondo articolo intitolato “Le forze motrici e le prospettive della rivoluzione russa”. Questo articolo piacque a Lenin, Trotsky e Stalin, che lo commentarono favorevolmente. Anche in seguito alla rivoluzione del 1917, Lenin, Trotsky, e persino Karl Radek espressero il proprio apprezzamento per l’articolo di Kautsky, ritenuto una classica esposizione della logica su cui riposava la strategia rivoluzionaria bolscevica.
In questo testo, Kautsky sviluppò la tesi secondo cui la Russia non stava vivendo «né una rivoluzione borghese in senso tradizionale, né una socialista, ma un processo alquanto eccezionale che si dipana sulla linea di confine tra una società borghese e una socialista». Per Kautsky, la rivoluzione russa passata [3] e quella a venire erano non borghesi, perché guidate dai socialisti, ma anche non socialiste, perché gli alleati contadini del proletariato non erano pronti per il socialismo.Tutti i socialdemocratici russi (tra cui Trotsky) convenivano sul fatto che la maggioranza dei contadini della Russia rappresentasse un ostacolo alla trasformazione socialista, in assenza di una rivoluzione europea potenzialmente in grado di cambiare sostanzialmente la situazione.

Ciò detto, appare più appropriato definire la rivoluzione del 1917 come rivoluzione democratica antiborghese. La rivoluzione che creò e difese il potere sovietico era democratica, sia in termini di contenuto di classe che per il suo programma. Il soviet di Pietrogrado era stato creato dagli operai e dai soldati della capitale: cioè, il potere sovietico era un “vlast operaio e contadino” sin dall’inizio e non ha mai perso questo carattere. Alla luce delle formule del discorso marxista accettate da tutti nel 1917, una rivoluzione che incarnava gli interessi dei contadini non poteva che essere perciò solo democratica.
Come abbiamo visto, la rivoluzione sovietica era anche democratica nel suo programma nel 1917. Molti marxisti al giorno d’oggi sono convinti che la proclamazione del “carattere socialista della rivoluzione” era una necessità logica perché il progetto del potere sovietico potesse avere un senso. Ma, una volta sottoposta a verifica, questa convinzione perde consistenza: e in effetti venne vigorosamente confutata nel 1917 dagli stessi Lenin e Trotsky. E pare esserci anche l’attuale tendenza, da parte di alcuni marxisti, a guardare dall’alto in basso una “semplice” rivoluzione democratica come qualcosa che si limitava a modeste riforme e a un esiguo “programma minimo”. I bolscevichi avevano un atteggiamento molto diverso. Essi videro nella trasformazione democratica della Russia – con la creazione di una democrazia radicale, la terra ai contadini, la liquidazione dell’aristocrazia terriera come classe e la modernizzazione di tutte le sfere della vita – una missione molto ambiziosa e gratificante, che peraltro solo dei ferventi socialisti potevano svolgere.

E questo ci riporta alla seconda parte della nostra definizione: a differenza delle classiche “rivoluzioni democratico-borghesi”, la rivoluzione russa era antiborghese fin dall’inizio. In primo luogo, per la ragione evidenziata da Kautsky, cioè perché diretta dai socialisti e non dai liberali o “borghesi” di qualsiasi specie. In secondo luogo, perché entrambe le componenti sociali che facevano riferimento ai soviet – operai e contadini – erano assolutamente ostili ai burzhui e agli ideali borghesi. Infine, perché la rivoluzione russa ebbe luogo nel bel mezzo di un accelerato sfaldamento di qualsivoglia sistema di mercato funzionante.
Fin dall’inizio – cioè da febbraio – tutte le componenti del soviet erano ostili ai burzhui, intesi sia nel significato ristretto di proprietari industriali che nel più ampio significato di tsenzoviki (una parola ingiuriosa riservata all’élite istruita, derivante dai requisiti di proprietà o di “censo” tali da limitare il numero degli elettori), ai beloruchki (quelli con i guanti bianchi), e altri termini offensivi per l’élite istruita. Anche nei primi giorni, quando le speranze per un’autentica coalizione erano forti, i burzhui vennero guardati con sospetto e, anzi, venne loro appiccicata automaticamente l’etichetta di falsità. L’impegno positivo verso le istituzioni socialiste era molto meno forte rispetto all’atteggiamento negativo verso i borghesi come individui, così come verso gli ideali borghesi. L’impulso antiborghese nasce organicamente dalla realtà stessa del potere sovietico, non solo dai sogni di intellettuali socialisti.
Qualunque cosa assomigliasse a una classe borghese, alle istituzioni del mercato e agli ideali della classe media venne distrutta dal “periodo degli sconvolgimenti” russo, iniziato nel 1914, e non c’era la volontà sociale o politica per ricostruirla. Così, il socialismo in Unione Sovietica si riempì di contenuti a partire dalla spinta a costruire un grande e moderno Paese in grado di funzionare senza una borghesia, o un mercato autonomo, o il pluralismo borghese. Sia le dinamiche sociali a breve termine che il risultato economico a lungo termine della rivoluzione sono stati innanzitutto determinati dalla spinta antiborghese delle componenti del soviet.


“Egemonia” bolscevica: i socialisti dirigono i contadini
Per comprendere il motivo per cui venne attribuita ai bolscevichi e a nessun altro partito la leadership politica in base al potere del soviet, dobbiamo allargare la visuale e soffermarci sulla cosiddetta strategia egemonica definita dal bolscevismo prima del 1917. “Egemonia” è una parola dai molti significati in differenti contesti. Quando i bolscevichi la utilizzavano per riassumere la loro visione delle dinamiche di classe in Russia, volevano innanzitutto dire che il proletariato socialista avrebbe agito da hegemon (termine greco che significa tra l’altro ‘guida’) rispetto ai contadini. In una formulazione più ampia: il proletariato socialista avrebbe dovuto realizzare la rivoluzione “fino alla fine” con la creazione di un vlast rivoluzionario sulla base del comune interesse dei lavoratori e dei contadini, e rifiutando ogni offerta dei riformatori liberali per fermare la rivoluzione o farla regredire.
La strategia egemonica dell’epoca precedente alla guerra diede ai bolscevichi un vantaggio: un programma che alla fine sfociò nel sostegno della maggioranza al Secondo Congresso. I bolscevichi a Pietrogrado non avevano bisogno di Lenin per valutare la situazione e porsi l’obiettivo di guadagnare al progetto dei pieni poteri del soviet la maggioranza delle sue componenti – i lavoratori e i soldati contadini – e di convincerle a respingere ogni ipotesi conciliativa con i riformisti borghesi. Dirigenti bolscevichi, come Kamenev e Stalin, erano sicuri che il governo provvisorio sarebbe stato del tutto incapace di portare avanti il programma rivoluzionario e che certamente avrebbe presto rivelato la sua essenza controrivoluzionaria.
In tutto ciò, la questione centrale rimase quella dell’alleanza coi contadini e il loro ruolo. La maggior parte della discussione tra i bolscevichi nel mese di aprile dopo il ritorno di Lenin fu dedicata a garantire che tutti fossero d’accordo rispetto al cruciale ruolo rivoluzionario dei contadini. Questo era il motivo per cui alcuni bolscevichi hanno tanto insistito sul fatto che “la rivoluzione democratico-borghese non è finita”: che era un altro modo per dire “i contadini sono ancora un alleato rivoluzionario”. Lenin rispose sottolineando che tutti i cosiddetti “passi verso il socialismo” (ad esempio, la nazionalizzazione delle banche) si sarebbero potuti intraprendere solo con la comprensione e il sostegno dei contadini.
Questa fondamentale scommessa della leadership socialista sui contadini spiega non solo la vittoria bolscevica nel 1917, ma pure la vittoria bolscevica nella guerra civile. Nel 1920 (prima della Nuova Politica Economica), Evgenii Preobrazenskij descrisse il “contadino medio” come “la figura centrale della rivoluzione”:

«Per tutto il corso della guerra civile, i contadini medi non andavano di pari passo col proletariato, esitando più di una volta, soprattutto quando messi di fronte a nuove condizioni e nuove responsabilità, e spesso muovendosi in direzione dei loro nemici di classe. [Ma] lo Stato operaio e contadino, costruito sulle fondamenta di un’alleanza del proletariato con l’80% dei contadini, per questo solo fatto non può avere nessun concorrente per l’esercizio del potere all’interno dei confini della Russia».

L’Armata Rossa era l’incarnazione dell’egemonia: contadini soldati, direzione politica dei socialisti rivoluzionari, apporto di competenze tecniche da parte degli ufficiali privi tuttavia di influenza politica. Un combinato disposto di fattori convergenti nella difesa dell’esistenza del vlast di operai e contadini. Ciò venne riconosciuto anche dal menscevico Fyodor Dan. Scrivendo nel 1922, Dan osserva che la sconfitta in Polonia nel 1920 dell’Armata Rossa basata sui contadini non fu solo un fallimento militare:

«Per difendere la terra che ha occupato contro il possibile ritorno del proprietario, il contadino soldato dell’Armata Rossa combatterà col più grande eroismo e il più grande entusiasmo. Avanzerà a mani nude contro i cannoni, carri armati, e il suo ardore rivoluzionario contagerà e disorganizzerà anche le migliori e disciplinate truppe, come abbiamo visto con i tedeschi, gli inglesi e i francesi in egual misura…
Ma l’idea di comunismo bolscevico è così estranea e persino ostile alla mentalità del contadino dell’Armata Rossa, che egli non può né esserne contagiato, né contagiare altri con quell’idea. Egli non può essere attratto dall’idea di una guerra per trasformare la società capitalistica in società comunista, e questo è il limite del potenziale dell’Armata Rossa per i bolscevichi».


Dan aveva una strana concezione della “idea di comunismo bolscevico”. Tuttavia, le sue osservazioni consentono di mettere in rilievo due punti centrali circa la rivoluzione russa. In primo luogo, essa è stata forte quando era compatibile con gli interessi dei contadini, e debole quando andava oltre questi limiti. In secondo luogo (un punto che Dan non mette in luce), i contadini difficilmente avrebbero costituito una forza di combattimento senza la direzione di un partito politico basato sul ramo urbano del narod.
I bolscevichi erano totalmente dedicati a un’alleanza tra operai e contadini e ipso facto a una rivoluzione sostanzialmente “democratica”. Solo nei suoi ultimi articoli Lenin avanzò l’idea che il proletariato avrebbe potuto dirigere la maggioranza dei contadini in direzione del socialismo. In un certo senso, questa prospettiva rappresentava una rottura con la versione originale di egemonia; ma, più in profondità, era solo un’ulteriore estensione dell’idea centrale dei socialisti come direzione dei contadini.


Lenin leader bolscevico
Nel mese di ottobre, la direzione del potere del soviet venne affidata al partito bolscevico. Osservare gli eventi da questo punto di vista induce a guardare diversamente alla leadership di Lenin all’interno del partito, ciò che mette in evidenza alcune inattese caratteristiche. Dobbiamo però partire dal fatto che Lenin era il principale responsabile nell’elaborazione e nel sostegno della strategia dell’egemonia, prima e dopo la rivoluzione del 1905. Nell’ottobre 1915, aveva perfezionato la sua ipotesi suggerendo che un vlast operaio e contadino si sarebbe insediato nel corso della seconda fase della rivoluzione, in sostituzione di un regime antizarista, ma “difensista”, e aveva così fornito ai bolscevichi la propria visione strategica di fondo.
Quando in aprile Lenin tornò dopo un decennio in esilio, c’era la possibilità che nel partito si producessero discordia e demoralizzazione. Ciò che colpisce di Lenin nel mese di aprile – in seguito ci soffermeremo dettagliatamente sui compromessi tra i bolscevichi – è la sua capacità di ascoltare i suoi compagni di partito, di comprendere ciò che era più importante rispetto a ciò che era secondario, e di contribuire a chiarire le incomprensioni, sia da parte sua che da parte dei bolscevichi di Pietrogrado. Mi sia consentito fare un esempio piccolo, ma rivelatore di quanto Lenin sapesse imparare da questi ultimi. Nelle sue Lettere da lontano, inviate dalla Svizzera prima del suo rientro, Lenin faceva continuamente riferimento al “Soviet dei deputati degli operai”. Quando il testo venne stampato sulla Pravda, i redattori si presero la libertà di sostituire questa espressione in ogni occorrenza con quella corretta “Soviet dei deputati degli operai e dei soldati”. Nel testo originale delle sue “Tesi di aprile”, consegnato subito dopo il suo rientro, Lenin ancora usava la più breve e imprecisa formulazione. Avvertito dai suoi compagni del problema, passò immediatamente a quella che era diventata un importante simbolo della fondamentale alleanza tra operai e contadini.
Lenin ha anche il merito di aver adottato il famoso slogan in tre parole russe, “Tutto il potere ai soviet!”, ma sorprendentemente esso non compare né nelle “Tesi di Aprile”, né nelle risoluzioni della conferenza del partito che si concluse il 29 aprile: il suo primo utilizzo documentato sembra essere avvenuto su uno striscione apparso nelle strade il 21 aprile durante le manifestazioni antigovernative. Lenin lo aveva notato e in seguito lo citò in un articolo del 2 maggio sulla Pravda. Il primo utilizzo dello slogan, non solo su un anonimo striscione o in un articolo firmato da un singolo, ma in un autorevole documento del partito, si ebbe sulla Pravda del 7 maggio. Per cui Lenin era tanto perspicace da aver notato lo slogan e immaginato le sue possibilità. Stando così le cose, fu proprio Lenin a farlo uscire dall’anonimato facendone la parola d’ordine centrale per l’agitazione dei bolscevichi.

Dopo le giornate di luglio, Lenin pensava che la ‘costituzione non scritta’ fosse stata abrogata e che l’attuale sistema basato sul soviet non fosse più in grado di esercitare il potere. Voleva dunque ritrattare lo slogan “Tutto il potere ai soviet!”. Come ammise in seguito, questa era una deviazione estremistica. Per fortuna, gli altri dirigenti del partito riuscirono a mantenere lo slogan, e ciò fu utile in autunno ai bolscevichi, quando il sistema basato sul soviet riprese slancio. Come mostra quest’episodio, Lenin era un leader efficace, perché era membro di una squadra che correggeva gli errori individuali.
Al di là della scena in cui nel mese di ottobre Lenin arringa i suoi compagni bolscevichi per mettere in atto l’insurrezione, dovremmo concentrarci sulla sua tesi centrale: i componenti del soviet a livello nazionale, contadini e operai, avevano respinto qualsiasi ipotesi di conciliazione di classe e quindi avevano, di fatto, sostenuto il pieno potere del soviet. L’insurrezione armata era senza dubbio una buona idea, ma l’insurrezione non creò essa stessa il potere sovietico: salvaguardò invece il Secondo Congresso e la sua capacità di trasformare la Costituzione non scritta in una formale.
Lenin è stato il forte leader di un partito unito. Ma il partito non era unito perché egli era un leader forte. Al contrario, è stato un leader forte, perché il partito era unito intorno alla strategia di base della leadership socialista nella creazione di un vlast operaio e contadino.


La chiarificazione del 1917
Guardando indietro al corso degli eventi da febbraio a ottobre, quello che colpisce è l’improbabilità, e al tempo stesso l’inevitabilità, del potere sovietico. L’Ottobre è stato possibile solo grazie alla confluenza di tre circostanze molto particolari: il crollo totale del potere precedente, la creazione di un’istituzione basata su operai e contadini soldati che si guadagnò da subito la fedeltà assoluta dell’esercito, e l’esistenza di un partito clandestino con una struttura nazionale e un programma pronto per l’uso, che ha incrociato le prime due circostanze.
Tutte queste caratteristiche divennero evidenti già poche ore dopo la caduta del governo zarista. Dopo di che, l’Ottobre appare pressoché inevitabile. La conciliazione di classe era un vicolo cieco, dato il profondo abisso tra le aspirazioni del popolo russo e quelle della borghesia. Una volta che ciò era diventato evidente, i bolscevichi e il loro programma di pieno potere sovietico erano l’unica alternativa rimasta aperta per il soviet. Anche la controrivoluzione non era una vera alternativa, dato che non era ancora pronta a prendere il potere al fine di reprimere i soviet.

Il 1917 è stato quindi un anno che ha fatto chiarezza sulla posta in gioco della battaglia. Il potere operaio e contadino creato nel 1917 sopravvisse alla guerra civile che seguì, ma pagando un alto prezzo.
Una prima vittima fu la completa abolizione della libertà politica, libertà che pure era stato un obiettivo centrale dei bolscevichi di prima della guerra. Tuttavia, presto la Russia sovietica poté essere correttamente definita come un “potere operaio e contadino” in diversi aspetti cruciali. L’intero settore dei proprietari terrieri era stato liquidato in quanto classe, quella che era l’élite istruita era stata completamente esclusa dal potere, le nuove istituzioni di governo furono sempre più gestite da operai e contadini, molte delle politiche del nuovo governo avevano lo scopo di ottenere il sostegno di queste classi (ad esempio, campagne di alfabetizzazione di massa), e gli operai e i contadini sono stati costantemente celebrati e magnificati. Anche la massiccia intolleranza politica svolgeva in un certo senso una funzione “democratica”, nella misura in cui rifletteva valori popolari diffusi.
Il potere sovietico che era stato creato nel febbraio 1917 e si era conservato nel mese di ottobre, accettando la direzione bolscevica, si affermò come una forza a livello planetario, nel bene e nel male.


Lars T. Lih vive in Canada, a Montreal. Nel 2008 il suo Lenin Rediscovered: What Is to Be Done? in Context ha suscitato polemiche e contribuito al rinnovamento degli studi sulla Rivoluzione Russa. Tra i suoi libri più recenti: Zinoviev and Martov: Head to Head in Halle (con Ben Lewis, 2011) e la biografia breve Lenin (2011). 

[traduzione di Ernesto Russo e Valerio Torre; revisione di Pavlov Dogg]

1. In italiano non si verifica quanto segnalato dall’autore, dato che il sostantivo “potere” ha un significato univoco. Nondimeno, nella traduzione dall’inglese in italiano abbiamo scelto, per rispettare lo sviluppo del testo originale, di non eliminare il paragrafo che precede, pur essendo superfluo nella versione italiana per la ragione detta (Ndt).
2. Definizione corrente per Consiglio della repubblica (Ndt).
3. Qui si intende quella del 1905 (Ndt).
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