NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
30/6/2016
di Angelo Foscari
L’Invasione delle Mosche Cocchiere Il referendum sul Brexit è stato lungamente agognato e lungamente preparato dalla Destra euroscettica, concesso (sperando che non avesse poi luogo) dalla Destra europeista, dibattuto di fronte all’opinione pubblica tra le due suddette Destre (padrone assolute della scena), infine vinto dalla Destra euroscettica; il suo esito nel medio-lungo termine sarà gestito politicamente dalla Destra euroscettica nella sua versione più moderata (e forse compromissoria), mentre nel breve termine intendono fermamente guadagnarci sopra le Destre europeiste, vuoi tory vuoi blairiane, che reclamano a gran voce le dimissioni di Jeremy Corbyn. Eppure non mancano i commentatori – evidentemente appena sbarcati sulla Terra, provenienti dal pianeta Urano – secondo i quali “una controproducente campagna per il ‘remain’ da parte laburista avrebbe “consentito alla destra xenofoba di indirizzare la campagna per il ‘leave’”[1]: che è un po’ come dire che, nella Germania di Weimar, una controproducente campagna cosmopolita avrebbe consentito ad Hitler di indirizzare la campagna antigiudaica. Sulla moralità e produttività politica di questo unirsi da parte “comunista” alla tiritera della stampa di regime sulle “incertezze” di Corbyn (offrendo una lamentosa e criticona copertura a sinistra a quanti in questo momento cercano di ridimensionarne l’immagine onde affrettarne la rimozione dal vertice del Labour) lascio il giudizio ai nostri lettori. La verità è che un referendum del genere, in questo momento storico, era per la sinistra di classe una partita persa comunque, in quanto giocata con carte truccate. Per fare un esempio “vissuto”: un amico yorkshiriano, convinto sostenitore del Remain come male minore, nel momento in cui si è visto proporre dal Partito Laburista di partecipare al “porta a porta” della campagna elettorale, non se l’è sentita: perché come fa, dopotutto, nel 2016, un avversario del neoliberismo a propagandare lo status quo? (e infatti sul piano strettamente di principio la posizione più corretta era quella del boicottaggio al referendum, sostenuta dal CPGB; ma sul piano pratico, giusta l’affermazione di Nick Wrack, ciò significava “sguarnire la porta” rispetto ad una eventuale, disastrosa, affermazione del Leave, come poi è successo). Jeremy Corbyn si è dunque necessariamente ritrovato tra le mani uno ‘script’ tutt’altro che scintillante, la cui battuta-chiave non poteva che essere “Al Peggio Non C’è Fine”: qualcosa di poco appetibile in un contesto referendario in cui alla gente viene venduto il Nuovissimo Detersivo ‘Brexit’, che sicuramente risolverà ogni problema. Dopo tutto, “calati juncu ca passa la china” è proverbio siciliano e non britannico (anche se non dispero di trovarne – with a little help from my friends - l’equivalente in lingua inglese). Polemiche sulla conduzione della campagna referendaria a parte, dovrebbe risultare scontata la precisazione per cui l’imperativo dell’oggi è stringerci intorno a Jeremy Corbyn per fermare il golpe blairiano; come ha detto Tobias Abse (che è uno dei migliori commentatori internazionali sulle vicende politiche italiane, sulle pagine del Weekly Worker e altrove): “Chi non è con noi è contro di noi”. Dico “dovrebbe” perché non sembrano pensarla così commentatori come Gigi Roggero, meno traballante sul piano logico di ‘Marx 21’ ma ancor più grottesco nelle conclusioni politiche: “Se non un terremoto (…) certo degli scossoni la Brexit li procura: Cameron costretto alle dimissioni, i laburisti in crisi [corsivo mio, AF] i mercati in fibrillazione, i media sgomenti, l'Europa a pezzi. Noi non sappiamo che direzione prenderanno questi scossoni, ma la cosa sicura è che solo qui dentro possiamo organizzare il terremoto. Chi oggi impaurito preferisce la quiete non sta dall'altra parte nella dialettica tra destra e sinistra, sta dall'altra parte nella dialettica di classe. Perché le rivoluzioni si sono sempre fatte con i barbari”[2]. ‘Socialismo E Barbarie’ dunque!! Che bello, finalmente abbiamo un altro slogan, più nuovo e più cretino dell’altro, da ripetere all’infinito. La crisi dei laburisti (tradotto in italiano: la Notte dei Lunghi Coltelli contro Corbyn) viene fatta rientrare tra i positivi “scossoni” del Brexit, fa parte del “terremoto” che andrebbe poi organizzato. A parte l’evidente cinismo della metafora, è ovviamente noto a tutti che dopo il sisma del 1980 in Irpinia, in Italia c’è stata la rivoluzione. Ma con ogni probabilità secondo Roggero osservare - come faccio io - che oggi lo “sfascio” non aiuta la sinistra classista, è manifestazione estrema di perbenismo, di quel “vero e proprio razzismo sociale, che invece di puntare a processi di ricomposizione alimenta una spaccatura orizzontale all'interno della classe”[3]. Ma i risultati elettorali raccontano piuttosto che la classe è già spaccata. Al di là, infatti, dell’impagabile umorismo involontario di ‘Marx 21’ (eccovi l’incipit del pezzo in questione: “Le analisi del voto delTelegraph, del Guardian e della BBC lo confermano: il voto nel Regno Unito è stato caratterizzato da una forte connotazione di classe … Ad esempio nel distretto operaio di Blaenau Gwent in Galles il “leave” ha vinto con il 62%”), i dati elaborati da Lord Ashford Polls mostrano che il 47% dei lavoratori manuali che nel 2015 avevano votato laburista hanno votato Remain al referendum, a fronte del solo 34% di lavoratori manuali che avevano votato Tory. Questi “lavoratori manuali” costituiscono il 33% della popolazione totale, mentre all’interno del 56% formato dai lavoratori white collar e dai tecnici il Remain ha superato tra i votanti laburisti il 70% (a fronte di un misero 42% fra i white collar di orientamento conservatore). Beninteso, questo 89% che si ottiene sommando le categorie ashfordiane di Blue Collar e White Collar non coincide con il Proletariato in una visione marxista (in qualsiasi possibile variante); e neppure, invero, con l’accezione storico-culturale britannica di ‘working class’ (per cui, ad esempio, il proprietario di una piccola tabaccheria in zona popolare si considera senz’altro appartenente a questa categoria). Una bella fetta del suddetto totale è in sostanza middle class; e la meno improbabile (se non meno empirica) classificazione del GBCS 2013 fissa il totale della classe lavoratrice (divisa in quattro strati) ad un più verosimile 63%. E se rimane triste e grave il fatto che poco più della metà dei “lavoratori manuali” secondo Lord Ashford (in mezzo ai quali ci sono peraltro i lavoratori manuali autonomi e i padroncini che prendono parte al lavoro delle propria micro-azienda) abbiano votato in compagnia di razzisti, xenofobi e fascisti, è chiaro che il quadro reale è estremamente più complesso dei ridicoli proclami sulla “classe” delle mosche cocchiere nostrane[4]. Per non dire che il problema dei lavoratori che a livello politico non percepiscono se stessi in termini di classe, bensì di nazione o anche strettamente individualistico – e pertanto votano Tory - è, tutto sommato, vecchio come il cucco: non l’hanno creato né la Merkel né Juncker né la UE. No all’antieuropeismo purchessia Il fatto che la posizione di chi si batte in un’ottica di classe per una democrazia più avanzata esca indebolita dal voto referendario, non significa certo che non si debba lottare con rinnovato vigore all’interno del nuovo scenario: i cui contorni sono oltretutto estremamente incerti, visto che non è affatto detto che la Gran Bretagna alla fin fine esca davvero dall’UE. E tuttavia, anche se la vicenda dovesse finire in burletta a livello strettamente istituzionale, ci saranno comunque conseguenze negative sul piano anche materiale per gli immigrati in UK e per i lavoratori britannici, che rischiano seriamente di perdere quel non pochissimo di “modello sociale europeo” che tuttora resiste; e certamente restano le macerie prodotte dal voto a livello ideologico e di psicologia di massa: ecco infatti moltiplicarsi manifestazioni di violenza razzista e anti-immigrati in tutto il Regno, ecco più che mai galvanizzata la parte più retriva e scioccamente piccoloinglese della società. E, per converso, ecco purtroppo rafforzati gli stereotipi continentali in merito agli inglesi snob, arroganti, isolazionisti e presuntuosi (e si veda in proposito l’immediata eliminazione dai campionati europei della squadra nazionale di calcio, che oltre alla gagliardia degli avversari e ai propri limiti di base ha pagato una – inevitabile – atmosfera di antipatia generale, giocando in pratica contro lo Zeitgeist oltre che contro l’Islanda). Se esiste una “lezione” del XX secolo, è che il socialismo dev’essere internazionale, altrimenti non sarà: e tutto ciò che contribuisce, sul piano sovrastrutturale non meno che su quello strutturale, ad allontanare i popoli l’uno dall’altro, non giova in alcun modo alla causa di una civiltà più giusta e solidale. La lotta contro l’UE dei padroni e contro la “Fortezza Europa” non conosce scorciatoie né opportunismi né logiche di “Tanto Peggio Tanto Meglio”: va condotta spendendo tutte le forze che abbiamo per mettere all’ordine del giorno gli interessi dei ceti subalterni, non certo immaginando di “ricomporre la classe” in mezzo ai pogrom o di “fare egemonia” su chi oggi vota Farage. Spinte e processi centrifughi restano tali, anche se decidi di guardarli attraverso lenti tinte di rosa (o di rosso). Non disponendo di una sfera di cristallo, mi limito a rilevare che la prima, certissima conseguenza del voto in favore del Brexit è il voto di sfiducia a Corbyn da parte del gruppo parlamentare laburista. È dalla lotta della base del partito contro questo tentativo di ‘Very British Coup’ che dobbiamo - tutti insieme - ripartire. [1] http://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/27009-referendum-in-gran-bretagna-ed-europa-quale-ruolo-per-la-sinistra [2] http://commonware.org/index.php/neetwork/707-barbari-di-tutta-europa-uniamoci [3] Ibidem [4] Devo questi spunti analitici a Steve Jefferys, https://www.facebook.com/photo.php?fbid=513855702134338&set=pcb.513856348800940&type=3&theater
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BREXITHEART: CUORE IMPAVIDO
30/6/2016
di Marco Palazzotto Nel 2015, in questo stesso periodo dell’anno, ci siamo occupati di GREXIT. Anche questa estate, ad un anno dal voto OXI, ci occupiamo di un altro paese che vuole rompere con la politica unitaria europea. Il paragone tra Grecia e Regno Unito è molto improbabile, per via della storia, delle dimensioni e dei diversi gradi di sviluppo dei due paesi. Però alcune analogie si possono rilevare, soprattutto a proposito dei rapporti tra governi nazionali e cittadini, visto che questi ultimi - in entrambi i casi - hanno scelto di contrastare le élites europee. In entrambi gli avvenimenti il ruolo della sinistra è stato molto ambiguo. Nel caso greco il governo Tsipras si è rivelato inadeguato a rappresentare le istanze di cambiamento provenienti dalle classi lavoratrici che in massa – prima attraverso manifestazioni pubbliche, poi attraverso il voto – hanno rifiutato i memoranda della troika. Ma andiamo al caso inglese, sulla Grecia abbiamo già scritto abbastanza qui, qui, qui e qui. Non mi soffermerò sulla polemica a sinistra scoppiata in rete tra sostenitori del remain e sostenitori del leave sulla composizione dell’elettorato inglese che è andato a votare al referendum BREXIT. Per questo argomento – si ritiene per ora superfluo - rimandiamo a quest’analisi di Andrea Genovese apparsa su Contropiano qualche giorno fa. Partirei con l’elencare alcuni punti che hanno scaldato il dibattito tra pro e contro uscita, all’interno di quel che rimane della sinistra italiana. Tra i pro uscita la tesi che va per la maggiore è che gli squilibri tra paesi possono essere risolti solo attraverso la manovra delle leve di politica economica a livello nazionale, considerato che le istituzioni europee oggi non consentono compensazioni tra regioni più sviluppate e regioni in crisi. La rottura dell’unione monetaria e (secondo alcuni) anche dell’unione politica porterebbe dei benefici a quei paesi più in crisi che potrebbero finalmente, attraverso l’ottenimento di maggiore autonomia, riprendere a crescere e a competere con le aree più progredite. Quest’analisi sarebbe inficiata da un problema politico riassumibile nella domanda: quale classe politica - e per gli interessi di quali classi sociali - dovrebbe gestire tale periodo di transizione e quale governo per la riconquista della sovranità nazionale? Tale soluzione creerebbe problemi per due motivi:
Andiamo ad analizzare le riflessioni dei sostenitori di sinistra del remain. La motivazione prevalente verte sul problema dei rapporti di forza attuali e delle soggettività politiche che dovrebbero rappresentare le classi più deboli. In un momento storico come questo una rottura dell’Unione Europea per un ritorno ai governi nazionali creerebbe un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Inoltre, un ritorno agli Stati nazionali è impossibile perché i “dispositivi di potere” sono cambiati e gli Stati non esistono più, avendo fatto posto a strutture sovranazionali che controllano un capitale ormai globalizzato e finanziarizzato. Un ritorno agli Stati nazionali sarebbe deleterio non solo perché è impossibile ritornare ad un’economia statuale, ma anche perché assisteremmo ad un peggioramento delle condizioni di vita dovuto al dilagare delle destre populiste, liberali e xenofobe. Concentrandoci sul caso britannico si nota, dopo il referendum, un pessimismo sostenuto soprattutto dai maggiori quotidiani, per inculcare agli italiani l’idea che una fuoruscita dall’UE porterebbe ad una catastrofe. Si sprecano gli articoli sul potere di acquisto degli inglesi, sulle pensioni, sul welfare e sulle politiche interne che peggiorerebbero le condizioni dei britannici e soprattutto dei non residenti. Tentiamo allora di approfondire il tema che si sviluppa in modo alquanto complicato e sicuramente più complesso rispetto alla fotografia che ne fanno i nostri media. Intanto premettiamo e sfatiamo il primo luogo comune che viene fuori dalla questione BREXIT secondo il quale il voto porterebbe a una catastrofe per via dell’uscita dall’UE subito dopo il voto. Nella realtà occorre considerare diversi fattori. Il primo è che il Regno Unito è un paese di tradizione imperialista e, quindi, è normale che le proprie classi dirigenti - a parte la volontà di buona parte della working class che ha votato leave - non vogliano sottostare ai diktat di un soggetto che non ritengono superiore politicamente. La concorrenza per la leadership con Germania e Francia ha accentuato questa volontà. In secondo luogo il Regno Unito non uscirà dall’UE molto facilmente, non è detto neanche che ci riesca considerato che i trattati costitutivi dell’UE, come ad esempio il Trattato di Lisbona, prevede all’art 50 la procedura della lunga trattativa, che può durare due anni rinnovabili per altri due, e che dipende sostanzialmente dalla volontà del Consiglio Europeo. Inoltre è già successo, un esempio è la Grecia, che il voto popolare venga completamente disatteso. Insomma nella peggiore delle ipotesi il Regno Unito potrebbe uscire dalla UE tra 4 anni se le parti interessate arrivassero ad un accordo condiviso. Altro luogo comune che bisognerebbe sfatare è l’isolamento del Regno Unito rispetto alla circolazione non solo di merci e capitali, ma anche di persone. In questo caso molti dei sostenitori del remain, e i quotidiani nostrani, indicano un inasprimento delle istanze reazionarie in relazione alla politiche di immigrazione. In realtà pochi hanno notato che pur restando nell’UE molti paesi hanno disapplicato Schengen e gli accordi sull’immigrazione. Guardiamo il caso della Germania che ha bloccato i flussi in entrata anche per chi chiede asilo politico (una notizia qui); o l’Austria che costruisce muri sul Brennero; o ancora la Francia che blocca i flussi da Ventimiglia e che dopo i fatti di Parigi ha inasprito i controlli di polizia verso chiunque provenga da paesi tacciati di terrorismo. Non ultima proprio la Gran Bretagna che ha ottenuto una sospensione di 7 anni delle regole per quanto riguarda il welfare verso i non residenti (qui una notizia). Tale sospensione dimostra che le procedure europee sono applicabili e sospendibili in qualunque momento. Inoltre, occorre evidenziare che il Regno Unito è di fatto già fuori dalla UE. Infatti, oltre all’autonomia monetaria, il paese gode dell’indipendenza da molti patti europei come il Fiscal Compact o l’unione bancaria, come dimostra la foto seguente. http://www.truenumbers.it/di-europe-ce-ne-sono-almeno-5/ Le direttive europee incidono sul Regno Unito solo per la libera circolazione di persone, merci e capitali. Proprio questi sono gli aspetti da analizzare per leggere il voto degli inglesi al referendum. Sicuramente il leave, ancorché sostenuto dalla “working class”, è stato un voto contro gli immigrati, motivazione però veicolata dai partiti populisti antieuropei, che è servita per creare consenso elettorale. Ma il vero motivo che ha spinto anche alcune componenti delle classi dirigenti del paese a votare il leavepotrebbe riguardare vari aspetti, come gli equilibri interni al sistema politico (un esempio potrebbe essere lo scontro dentro i Tories tra David Cameron e Boris Johnson) e la ricerca di nuovi equilibri con il resto del continente. Riguardo a quest’ultimo aspetto alcuni economisti – un esempio in Italia è Emiliano Brancaccio - sostengono che la libera circolazione di merci e capitali ha causato nel Regno Unito un forte indebitamento con l’estero. Questo squilibrio eccessivo delle bilance dei pagamenti di parte corrente, potrebbe essere la causa principale della spinta del mondo imprenditoriale inglese a cercare nuovi equilibri dentro l’UE. Altri studiosi evidenziano che il problema della bilancia dei pagamenti sussiste fin dai tempi dell’Impero e che l’adesione all’UE non modifica tale tendenza. Guglielmo Forges Davanzati sostiene che il voto del leave ha radici – come detto sopra - nelle tendenze del mercato del lavoro ed in particolare nella concorrenza tra lavoratori inglesi ed immigrati (un articolo qui).
In conclusione, non è certo che il voto BREXIT possa fermare la volontà delle classi dirigenti europee nel mantenere lo status quo. Sarà interessante capire come reagiranno le forze centripete del capitalismo anglosassone nel cercare più autonomia per spostare più profitti dal centro Europa verso il Regno Unito. Sarà anche importante capire come reagirà la sinistra socialdemocratica laburista che sostiene Corbyn (oggi in difficoltà con i deputati blairiani che lo accusano di essere stato troppo morbido nella campagna per il remain) e che potrebbe approfittare di questa impasse dentro il Tory alle prese con lotte intestine per la sostituzione di Cameron. Inoltre, la sinistra del Labour e gli altri partiti radicali dovranno essere capaci di ricompattare il blocco sociale che dovrebbero rappresentare e che ha deciso di non restare più in un sistema continuo a quello della Thatcher, che ha causato – e continua a causare – la distruzione dello stato sociale e del sistema produttivo inglese. di Vincenzo Marineo Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi è, per il lettore non specialista, una occasione per allontanarsi dai nostri tempi, dalla loro supposta insistente novità, dalla crisi che sembra condizione permanente, per tornarvi avendo saputo che quello che sembra nuovo (e incomprensibile) non è poi davvero tale. Certo, bisogna avere una buona dose di curiosità per affrontare le sue 500 pagine; ma la constatazione della complessità delle cose che sono fuori dal libro, nel mondo, e la paura e l’insicurezza che quindi percepiamo, dovrebbero essere motivi sufficienti per provare a seguire chi ambiziosamente tenta discorsi all’altezza di quella complessità. Fa crescere la curiosità la lettura della biografia di Arrighi, raccontata in una lunga intervista del 2009 (poco prima della sua scomparsa) con un interlocutore d’eccezione, David Harvey. Arrighi, a differenza di tanti altri scienziati sociali, ha lavorato: prima nell’azienda paterna, una piccola industria che produceva macchine (per il settore tessile, in seguito per riscaldamento e condizionamento); nello stesso settore operava l’azienda del nonno, presso la quale Arrighi ha raccolto i dati per la tesi in economia; infine ha lavorato presso una multinazionale, la Unilever. Queste esperienze, afferma, gli sono state utili per valutare criticamente la validità delle teorie economiche (“l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici”, come osserva non senza ironia nell’intervista), e per comprendere la multiformità, la “plasticità”, del capitalismo. E anche, c’è da supporre, per districarsi tra i vari tipi di lavoro – utile, astratto, vivo, necessario, immediatamente sociale, immediatamente socializzato ecc. – che affollano le pagine del marxismo. La tesi della “plasticità” del capitalismo è il punto di partenza della ricerca che Arrighi svolge nel Lungo XX secolo. È una tesi ripresa dai lavori dello storico Fernand Braudel, che considera la plasticità e l’eclettismo come caratteristiche fondamentali del capitalismo storico osservato sul lungo periodo, contrapposte alle forme concrete che il capitalismo assume in determinati luoghi o epoche. Una tesi che presuppone questo sguardo lungo alla Braudel, il quale non identifica il capitalismo con l’industria, né con l’economia di mercato, e ne studia l’evoluzione a partire dal XV secolo, seguendo la storia dell’economia-mondo europea, l’allargarsi del suo spazio geografico, i mutamenti del suo centro, delle aree intermedie, delle periferie. Braudel indica come “capitalismo” il livello superiore di una struttura a tre piani, il cui piano inferiore è quello della vita materiale (biologico, di sussistenza), e il piano intermedio è quello economico (lo scambio, i mercati). Il capitalismo è, in questo schema, il luogo in cui si realizzano “grandi profitti”, che “domina” il mercato grazie allo specifico rapporto di forza che sfrutta chi agisce a questo livello: “[…] si tratta di scambi ineguali in cui la concorrenza – regola essenziale della cosiddetta economia di mercato – ha poco spazio ed in cui il mercante gode di due vantaggi: in primo luogo quello di avere interrotto il rapporto diretto e lineare tra il produttore e il consumatore – solo lui infatti conosce le condizioni di mercato ai due poli della catena e dunque il profitto prevedibile –; in secondo luogo, dispone del denaro in contanti che è il suo principale alleato.” (Braudel, La dinamica del capitalismo, p. 57-58). Questo è il punto di partenza per l’indagine svolta da Arrighi nel Lungo XX secolo “delle tendenze attuali alla luce di modelli di ricorrenza e di evoluzione che abbracciano l’intera esistenza del capitalismo storico in quanto sistema mondiale”. La presenza di Marx è costante, e tutta l’esposizione è riferibile alle forme e alle attualizzazioni della formula generale del capitale denaro-merce-più denaro, in relazione però non ai singoli investimenti capitalistici ma al capitalismo come sistema mondiale, nel corso delle varie fasi della sua storia. Le ricorrenze che Arrighi individua sono centrate attorno all’alternarsi di epoche di espansione materiale e di epoche di espansione finanziaria: “Nelle fasi di espansione materiale il capitale monetario ‘mette in movimento’ una crescente massa di merci […]; nelle fasi di espansione finanziaria una crescente massa di capitale monetario ‘si libera’ dalla sua forma di merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie (come nella formula marxiana abbreviata D-D’). Insieme, le due epoche o fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’)”. Le espansioni finanziarie iniziano quando le transazioni finanziarie sono in grado di creare un flusso di denaro verso lo strato capitalistico in maniera maggiore rispetto all’investimento del denaro nell’espansione del commercio e della produzione; ciò che noi oggi chiamiamo “finanziarizzazione” non solo non è una novità, ma è una fase del fisiologico funzionamento del capitalismo, funzionamento che è, come Arrighi mostra, inscindibilmente legato a quello del sistema delle organizzazioni territorialistiche nella forma che queste assumono in Europa, gli stati. Arrighi identifica “quattro cicli sistemici di accumulazione, ciascuno caratterizzato da una fondamentale unità dell’agente primario e della struttura dei processi di accumulazione di capitale su scala mondiale: un ciclo genovese, dal XV secolo agli inizi del XVII; un ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo fino a buona parte del XVIII; un ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX; un ciclo statunitense, che ha avuto inizio alla fine del XIX secolo ed è proseguito nella attuale fase di espansione finanziaria.” In ciascun ciclo Arrighi individua una “crisi spia”, che segnala l’inizio dell’espansione finanziaria, e una “crisi terminale” che segna la fine del regime dominante di accumulazione e prepara il passaggio a un nuovo regime. Il momento dello spostamento dal commercio e dalla produzione verso l’intermediazione e la speculazione finanziaria è un “momento meraviglioso”, di nuova ricchezza per gli agenti capitalistici e di nuovo potere per l’organizzazione statale; ma “non è mai stato l’espressione di una soluzione durevole alla crisi sistemica sottostante. Al contrario, è sempre stato il preludio ad un aggravamento della crisi e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione dominante con uno nuovo”. Nella postfazione all’edizione inglese del 2009 del Lungo XX secolo Arrighi fornisce e commenta uno schema che riassume la successione dei quattro cicli, “concentrandosi sui ‘contenitori di potere’ che hanno ogni volta ospitato i ‘quartieri generali’ dei principali organismi capitalistici dei regimi consecutivi: la Repubblica di Genova, le Provincie Unite, il Regno Unito e gli Stati Uniti.” La Repubblica di Genova era una debole città-stato, costretta ad esternalizzare tutti i tipi di costi dello sviluppo: priva di capacità militari (protezione), priva di capacità produttive (produzione), priva della possibilità di trovare al proprio interno un mercato autosufficiente (transazione) e priva infine di risorse umane e naturali (riproduzione); ciononostante, i mercanti genovesi, con le loro reti cosmopolite, divennero i protagonisti del primo ciclo di accumulazione, sostenendo nella fase di espansione finanziaria l’imperialismo iberico e l’espansione spaziale del sistema capitalistico (regime di accumulazione di tipo estensivo).
Le Provincie Unite possedevano capacità militari sufficienti a fare a meno della protezione della Spagna o di altri stati, e a consolidare la propria rete di avamposti commerciali (regime di accumulazione di tipo intensivo). Il Regno Unito era uno stato nazionale, militarmente in grado di espandersi (regime estensivo), e dotato inoltre, rispetto a Genova e alle Provincie Unite, di autonome capacità produttive agro-industriali. Gli Stati Uniti, infine, sono un’organismo di dimensioni tali da avere non solo autonome capacità militari e produttive, ma da possedere un mercato interno in grado di sostenere l’espansione del proprio capitale. La “conquista” del mondo era già stata operata dagli inglesi; “fu consolidata in un sistema di mercati nazionali e di grandi imprese transnazionali che aveva il proprio centro negli Stati Uniti.” Nessuno di questi “contenitori di potere” ha attinto al proprio interno tutte le risorse umane e naturali necessarie a sostenere i costi di riproduzione dello sviluppo capitalistico. Nello schema dei cicli di Arrighi il passaggio all’internalizzazione dei costi di produzione, avvenuto con il ciclo britannico e corrispondente alla rivoluzione industriale, potrebbe essere letto come il collegamento tra il piano del capitalismo di Braudel e il piano del capitalismo di Marx; esso è il momento in cui “[i]l capitalismo storico in quanto sistema mondiale di accumulazione divenne un ‘modo di produzione’”. Marx, ricorda Arrighi, vuole condurci nel segreto laboratorio della produzione, dove “ci si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore”; Braudel (e Arrighi con lui) ci vuole svelare “l’arcano della produzione di quei profitti enormi e costanti che hanno permesso al capitalismo di prosperare e di espandersi ‘incessantemente’ nel corso degli ultimi cinque o seicento anni, prima e dopo le sue avventure nei segreti laboratori della produzione.”; continua Arrighi: “Si tratta non di progetti alternativi bensì di progetti complementari”. La complementarità di questi due punti di vista è forse stata sin ora poco sfruttata. Il duplice livello di analisi del capitalismo, come modo di accumulazione e come modo di produzione, potrebbe fornire oggi uno strumento per distinguere la sovrapposizione di due crisi, discriminandole: la crisi del “contenitore di potere” (gli Stati Uniti) che ospita gli organismi capitalistici dominanti, e la crisi di valorizzazione del capitale nelle sue molteplici espressioni legate a contesti più specifici. Ma perché è proprio il capitalismo europeo che ha creato una struttura economica di dominio estesa a tutto il mondo? Mercanti che fanno grandi profitti, capitalisti nel senso di Braudel, ce ne sono stati pure in Cina, in India, nell’Islam. Il Lungo XX secolo è la risposta a questa domanda, con la sua analisi di quella “singolare fusione tra stato e capitale, che in nessun luogo fu realizzata in modo tanto favorevole al capitalismo come in Europa”. Come afferma Braudel, citato da Arrighi: “Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato.” A sostenere l’espansione dell’economia-mondo capitalistica sono state sia la concorrenza interstatale che “la concentrazione del potere nelle mani di particolari blocchi di agenti governativi e imprenditoriali”. Un esempio di questo sostegno è stato il sistema del debito pubblico. In ogni ciclo di accumulazione, quando le espansioni materiali hanno trovato il loro limite, e i rendimenti iniziano a decrescere, la conseguente sovrabbondanza di capitale monetario è stata ogni volta assorbita da “organizzazioni per le quali il potere e il prestigio, invece che il profitto, costituivano i principi guida dell’azione. […] Esse lottarono contro i rendimenti decrescenti prendendo in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la forza mercati, territori, popolazioni”. Il confronto tra organizzazioni capitalistiche e organizzazioni territorialistiche mi sembra un altro elemento di metodo di cui occorrerebbe tenere costantemente conto. Esse hanno due logiche distinte, che sono state complementari e si sono sostenute a vicenda; tuttavia lo stato ha una sua logica interna che rimane distinta da quella del capitalismo. È interessante notare la diffidenza nei confronti della stato manifestata da Arrighi alla fine della sua intervista con David Harvey, in cui esprime dei dubbi sull’opportunità del possesso e del controllo statale dei mezzi di produzione; un pensiero anticapitalista non può fare a meno di interrogarsi sul ruolo dello stato, che forse con troppa facilità siamo oggi portati a vedere come possibile nemico, o almeno controllore, del capitalismo, e quindi, in prospettiva, come qualcosa la cui logica interna può anche essere buona. Senza capitalismo, il governo non sarà più il comitato d’affari della borghesia, ma occorre chiedersi adesso cosa sarà. Arrighi non si sottrae infine al tentativo di ricavare delle previsioni dalle sue analisi. Nel Lungo XX secolo sembra vedere nell’Asia orientale, e più specificatamente nel Giappone, un candidato al ruolo di stato-guida di un prossimo ciclo di accumulazione; nella postfazione all’edizione del 2009 (e dopo avere pubblicato, nel 2007, il volume intitolato Adam Smith a Pechino), prende atto dell’ascesa della Cina, che “ha iniziato a sostituire gli Stati Uniti come la principale forza alla guida dell’espansione commerciale ed economica in Asia Orientale e altrove.” La conclusione, sempre nella Postfazione, è comunque aperta, in tre direzioni: “(1) la formazione di un impero mondiale; (2) la formazione di un’economia mondiale non capitalista; oppure (3) una situazione di caos sistemico senza fine.” Non sappiamo come Arrighi avrebbe aggiornato, sette anni dopo, questa conclusione. NOTA Le citazioni de Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo sono dall’edizione EST-Il Saggiatore, Milano 1999; traduzione di Mauro Di Meglio. L’opera è stata ripubblicata, sempre da Il Saggiatore, nel 2014. L’edizione originale di The Long Twentieth Century. Money, Power, and the Origins of Our Times è del 1994 (Verso, London). L’intervista di David Harvey a Giovanni Arrighi, comparsa su “New Left Review” 56, marzo-aprile 2009, è disponibile in rete, nella traduzione di Laura Cantelmo, all’indirizzo: I tortuosi sentieri del capitale - New Left Review La Postfazione di Giovanni Arrighi all’edizione inglese del 2009 di The Long Twentieth Century è in rete, nella traduzione di Roberta Cimino, all’indirizzo: Giovanni Arrighi Postfazione inedita a Il Lungo XX Secolo - Storicamente La citazione di Fernand Braudel è da La dinamica del capitalismo, il Mulino, Bologna 2013, Intervista di George Souvlis
In questa intervista concessa in esclusiva a George Souvlis, Cornel West parla del neopopulismo di Bernie Sanders e del neo-fascismo di Donald Trump, puntando il dito contro “il carrierismo miope e il narcisismo cronico” che hanno impedito alla sinistra una seria critica del neoliberismo dell’amministrazione Obama. L’anno scorso, quando Bernie Sanders ha annunciato che si sarebbe candidato per il partito Democratico alla presidenza degli Stati Uniti, in pochi credevano che avrebbe avuto anche il minimo successo. Molti pensavano che sbandierare idee come “socialismo democratico” o “rivoluzione politica” gli avrebbe alienato l’elettorato americano. Da quel momento in poi si sono susseguite, al contrario, una serie di sorprendenti vittorie in vari stati. Pochi sono in grado di spiegare questi sviluppi – nonché la preoccupante ascesa di Donald Trump - meglio del filosofo e intellettuale americano Cornel West. Il suo lavoro sul ruolo di razza, genere e classe nella società americana, e la sua esperienza politica come membro dei Socialisti Democratici d’America gli consentono una comprensione acuta dell’attuale momento politico e del suo significato per la sinistra. La sua opinione ha anche una maggiore pregnanza all’interno dell’attuale scena politica Americana, considerato che Sanders lo ha incluso tra quanti dovrebbero scrivere il nuovo manifesto politico del Partito Democratico. Quali sono state per lei le influenze politiche e intellettuali più formative ? Prima di tutto io sono un cristiano rivoluzionario, radicato in un indicibile amore per la mia famiglia nera e la mia chiesa nera, e ancorato a un’incrollabile idea di libertà grazie ai miei mentori (Martin Kilson, Hilary Putnam, Sheldon Wolin, Preston Williams, Stanley Aronowitz, Richard Rorty) e ai miei colleghi (James Cone, Edward Said, Jeff Stout, James Washington, Paul Bove, Toni Morrison). E va da sé che alcuni miei ex allievi (adesso figure formidabili) come David Kim, Imani Perry, Eddie Glaude, Leora Batnitzk, Farah Jasmine Griffin, Andre Willis, e Matthew Briones hanno influenzato profondamente il mio pensiero e il mio agire. Nel 1968 l’assassinio di Martin Luther King, Jr. ha acceso la fiamma del mio attivismo, e l’ internazionalismo rivoluzionario delle Black Panthers – a loro volta influenzate da Malcom X e Frantz Fanon- ha avuto un impatto sulla mia teoria e la mia prassi. Riguardo poi alle figure che hanno contribuito a formare l’idea che ho di me stesso, debbo citare John Coltrane, Anton Chekhov, Rabbi Abraham Joshua Heschel e Dorothy Day. Si considera un marxista? Non sono né un marxista né un anti-marxista. Da cristiano attribuisco gran peso alla dimensione morale e spirituale dell’uomo, aliena a molta - se non alla maggior parte della - tradizione marxista. E in quanto “Bluesman dell’intelletto”, ho una disposizione tragicomica nei confronti della realtà, che stona con buona parte della tradizione marxista. In quanto rivoluzionario, mi sforzo di evidenziare come le varie strutture di dominio e sfruttamento perdano di vista la preziosa umanità e individualità dei nostri fratelli e delle nostre sorelle: di qui, l’indispensabilità delle analisi marxiste riguardo l’ economia politica, la società e la storia. Insomma sono uno che combatte per la libertà a ritmo di jazz, spinto da un irrefrenabile amore per gli esseri umani, guidato da analisi flessibili e proteiformi cui seguono azioni concrete volte a preservare il pianeta e a dare forza ai dannati della terra. E’ d’accordo con chi, a Sinistra, dice che il Partito Democratico non può essere riformato nell’interesse della classe lavoratrice? Qual è l’eredità dell’amministrazione Obama? Siamo a un punto di svolta nella storia Americana. Dobbiamo scegliere tra un neo fascismo in fieri (Trump), un neoliberismo in fase decadente (Clinton) e un neo-populismo in fase ascendente (Sanders). L’establishment - sia nel Partito Democratico che in quello repubblicano - si sta disintegrando. Obama è l’ultimo sussulto del neo-liberismo emerso durante la presidenza Carter, che fu una risposta a tutto campo alla crisi strutturale dell’economia globale della metà degli anni ’70. Questo tentativo di finanziarizzare, privatizzare e militarizzare le risposte ai problemi strutturali – economia, carceri, sicurezza e comunicazione - ha prodotto una notevole disuguaglianza economica, una cultura superficiale e una corruzione dilagante in ogni sfera. Entrambi i partiti politici sono stati collusi con questo progetto. Nell’immediato, molto dipenderà da come verrà condotta la campagna di Sanders nel mese di luglio, e da cosa faremo noi sostenitori critici di Sanders dopo luglio. Come giudica il fenomeno Trump? Donald Trump è un multimiliardario pseudo-populista con una tendenza autocratica e una personalità narcisistica: studia da neo fascista, dunque. Il suo progetto è una miscela letale di grandi banche, mega corporation, capri espiatori da xenofobi (messicani, donne, musulmani, neri, e gay), ansia economica e malessere nazionale insieme ad aspirazioni militaristiche all’estero. Tutto ciò ha proprio l’aspetto di un fascismo stile-USA: ci sono echi di It Can't Happen Here (1935) di Sinclair Lewis, classica visione romanzesca del fascismo Americano. Bernie Sanders può fare la differenza? Lui si definisce un socialista democratico, cosa rappresenta per lei questa tradizione politica? Bernie Sanders è un raro esempio di genuina integrità e convinzione profonda, uno che per 50 anni ha condotto una battaglia contro la plutocrazia, la xenofobia e la supremazia maschile negli USA. Meno di un anno fa aveva il 3% nei sondaggi. Oggi ha una possibilità concreta di battere la trentennale macchina-Clinton. Sebbene Sanders si definisca un socialista democratico, il suo programma è invece chiaramente neo-populista: il governo che arriva a salvare i poveri e i lavoratori schiacciati dall’avidità di Wall Street e dall’indifferenza della grande borghesia di fronte alle sempre minori opportunità offerte ai cittadini vulnerabili. Dato che abbiamo visto il governo correre in soccorso di Wall Street e abbiamo visto come i lobbisti garantiscono la sicurezza dei ricchi, il fascino del populismo di Sanders è ben comprensibile. Ma essendo stato un socialista democratico per 35 anni - e adesso un compagno del caro Fratello Bernie - posso dire con certezza che il suo è per l’appunto un programma neo-populista e non socialdemocratico. Se Sanders fallisce, come pensa che possa emergere dalla sua campagna un movimento sociale? Le campagne politiche non sono movimenti sociali. Anche le grandi campagne come quelle di Jackson negli anni Ottanta, quelle più recenti di Obama o quella di Sanders oggi, non sono movimenti sociali. Dobbiamo distinguere tra impeti sociali, ribellioni sociali e movimenti sociali. Stante la massiccia attenzione alla sicurezza nazionale e il pervasivo sistema carcerario, i movimenti sociali negli USA sono stati rari, e ciò vale per il passato, il presente e il futuro. L’impero americano è oggi più maturo per una contro-rivoluzione piuttosto che per una rivoluzione, per movimenti di destra più che per quelli di sinistra. Ciò soprattutto a causa delle profonde radici xenofobe del paese e dei forti sentimenti militaristici della sua cultura. Per questo l’esito più probabile degli impeti di progressismo sociale e delle caotiche ribellioni cui assistiamo oggi è una trasformazione delle nostre priorità e qualche concessione strappata alle avide élite del nostro paese. E’ per questo che la dimensione morale e spirituale dell’attivismo sociale è cruciale per sostenere il nostro desiderio di combattere il sistema dall’interno e dall’esterno anche se le possibilità di vittoria immediata sono poche! Come interpreta il dibattito sui motivi per cui il messaggio di Sanders non sembra avere il riscontro atteso presso alcuni elettori neri? I neri sono la fetta di elettorato più progressista se si tratta di economia, razzismo e istruzione. Bernie Sanders è il candidato più progressista rispetto a questi temi. Sino ad ora i neri sono rimasti legati al progetto neoliberista di Clinton, che ci è ben familiare, laddove Sanders è ancora relativamente sconosciuto. I neri temono Trump. Ma sono riluttanti nel credere nel cambiamento proposto dal poco noto Sanders. Mi sembra palese – e lo sosteniamo in molti, tra cui anche Adolph Reed, Jr. e Michelle Alexander - che le politiche neoliberiste e militariste di Clinton hanno prodotto un gran danno alla classe lavoratrice e ai poveri, sia negli USA che all’estero. Tuttavia la notevole visibilità di politici neri e neoliberisti, opinionisti dei corporate media neri e neoliberisti, nonché intellettuali neri e neoliberisti, ha reso più debole l’impatto delle nostre posizioni. Che tuttavia la macchina-Clinton – attualmente ammantata del costume di Obama - stia andando in panne, è sempre più evidente. Il sonnambulismo neoliberista dell’America nera sta per finire! Cosa ne pensa di Black Lives Matter, pensa che questo tipo di organizzazione abbia un futuro? L’emergere di Black Lives Matter è un meraviglioso momento di nuova militanza, il primo segno che il sonnambulismo dell’America nera si sta sfaldando. Questa presenza mette a nudo la corruzione spirituale e la vigliaccheria morale di buona parte della leadership nera, politica, intellettuale e religiosa. Il carrierismo miope e il cronico narcisismo che impediscono qualsiasi seria critica al neoliberismo di Obama adesso non funzionano più, grazie al coraggio di questi giovani che hanno manifestato davanti ai carri armati per mostrare il loro amore per quelli che sono stati uccisi da una polizia che non deve rispondere a nessuno, durante il mandato di un presidente nero, un procuratore generale nero e un membro nero dell’Homeland Security. Un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dell’establishment nero neo-liberista. Questa è solo la punta dell’iceberg che si sta sciogliendo per le elite nere rimaste in silenzio ad accontentarsi delle quisquiglie simboliche mentre i veri poveri neri venivano schiacciati. Martin King, Malcolm X e Fanny Lou Hamer si rivoltano nella tomba; ma poi sorridono grazie agli attivisti di Black Lives Matter Che forma organizzativa sceglierà Black Lives Matter? Difficile a dirsi. Quello che è certo è che i poteri forti proveranno ad ammorbidirli e ad inglobarli nella speranza di diminuire l’impatto delle loro voci e delle loro testimonianze. Ho voglia di fare semplicemente parte di questo processo decisionale, non come figura centrale ma come un vecchio collaudato che ha voglia di imparare e ascoltare, pur continuando a dire e a fare! Vorrei infine dire due parole in merito alle seguenti figure pubbliche: 1) Beyonce – La più grande intrattenitrice della sua generazione, padrona del proprio corpo e dei propri soldi; e tuttavia parte della nostra cultura dello spettacolo e dell’immagine che lascia poco spazio, o nessuno, a figure come la geniale, immensa e appassionata Aretha Franklin! 2) Gill Scott-Herron – Uno straordinario artista nero rivoluzionario, padrino dell’hip-hop 3) Frantz Fanon – Il più grande intellettuale nero rivoluzionario del ventesimo secolo 4) Malcolm X – Devoto alla verità, è stato il più coraggioso rivoluzionario nero della storia degli USA: sincero, fattivo, incorruttibile nel suo amore per il popolo nero. (traduzione di Letizia Gullo) di Tommaso Baris
Pubblichiamo la seconda parte della riflessione sulla storia dell’Unione Sovietica scritta da Tommaso Baris docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo. La prima parte dell’articolo si trova qui. L’insistenza sulla ridefinizione dell’alleanza operai-contadini da parte di Lenin non nasceva da analisi meramente astratte: i bolscevichi, come ricorda lo stesso Graziosi con una attenta analisi della realtà sociale dei primi anni Venti, avevano realmente messo in movimento forze sociali attivatesi febbrilmente (e terribilmente per molti versi) uscendo da una passività secolare, come ci ricordano le interessanti pagine sullo sviluppo di massa del Pcus. Attraverso il partito e grazie al suo ruolo mobilitante, milioni di persone, operai ma anche contadini, erano state immesse sulla scena pubblica creando indubbiamente una nuova forma di politica di massa (e in questo senso etimologicamente più democratica, specie se confrontata con la dimensione elitaria del liberalismo ottocentesco), che però si realizzava mediante il loro inquadramento in una struttura fortemente verticistica, tendente a ridurre la dimensione della politica in quella militare e burocratica-organizzativa del comando con le ovvie conseguenze del caso, peraltro su individui che, proprio per le generali condizioni di arretratezza della Russia zarista, avevano scarsissimi livelli di alfabetizzazione e più in generale culturali. Sembrava dunque delinearsi in questa fase una sorta di reale ascesa di singoli individui di estrazione popolare ai vertici del partito, in un quadro in cui la radicalizzazione in senso militare della loro azione politica si traduceva però in una pesantissima pressione sui gruppi sociali di provenienza, gettando le basi di una profonda spaccatura tra l’ampia base di funzionari del partito comunista e le masse popolari del paese, da cui pure spesso quei funzionari e burocrati provenivano. Accanto alla Nep, va peraltro ricordato il tentativo di Lenin di ripensare le modalità con cui si era formato il movimento comunista internazionale. Nati da scissioni a sinistra in nome della rivoluzione sovietica, i partiti comunisti riuniti nella Terza Internazionale si erano sostanzialmente caratterizzati sia per il loro dogmatismo ideologico che per la chiusura settaria nei confronti dei movimenti delle strutture di massa tradizionali del movimento operaio, da cui si erano di fatto separati. Ne era derivata una sostanziale incapacità di incidere sui processi reali, con piccoli partiti di ristrette minoranze pedissequamente schiacciati sulla riproposizione dello schema rivoluzionario sovietico ma in realtà privi di un reale collegamento con le masse operaie e contadine, tanto più in difficoltà quindi quanto estremamente più complicata e complessa si presentava la situazione del contesto occidentale in prospettiva dell’auspicato, e ricercato a parole, sbocco rivoluzionario. Anche in campo internazionale Lenin, dunque, imponendosi nuovamente contro il resto del gruppo dirigente comunista, aveva indicato nella tattica del fronte unico, da realizzare con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio, lo strumento indispensabile per acquisire un reale rapporto politico con le masse popolari, senza il quale era ovviamente impossibile svolgere qualsiasi funzione direttiva e poi rivoluzionaria[1]. Si trattava quindi, anche in questo caso, sia pure su un piano profondamente diverso, di recuperare spazio e possibilità di azione politica al movimento comunista occidentale, altrimenti chiuso nella mera azione di propaganda e di riaffermazione di purezza ideologica del tutto prive di sbocchi concreti. Significativamente in questo passaggio, nelle sue riflessioni in carcere, Gramsci avrebbe individuato, in questa indicazione di Lenin, la sua intuizione del tema, sia pure solo abbozzato e non pienamente sviluppato anche per via dell’avanzare della malattia, della transizione dalla guerra manovrata, caratterizzata dall’attacco frontale al nemico di classe, alla guerra di posizione che si conduceva invece per manovre interne. Si apriva così la riflessione gramsciana sul senso da dare alla questione dell’egemonia: senza questa consapevolezza di cambio di paradigma, e quindi della necessaria acquisizione teorica che ne conseguiva, sarebbe stato impossibile per il movimento comunista prendere il potere in un contesto assai diverso da quello sovietico come era l’Occidente capitalistico industriale ed avanzato. Potremmo dire, quindi, che tanto la Nep quanto la linea del fronte unico in politica internazionale appaiono l’estremo tentativo di Lenin, in realtà alquanto isolato, di uscire dalla duplice impasse in cui il processo rivoluzionario partito dall’Ottobre aveva finito per incagliarsi: la frattura con il mondo contadino (e con le nazionalità) dell’ex impero russo, la posizione nettamente minoritaria nel movimento operaio occidentale dopo l’iniziale carico di speranze e simpatie suscitate dalla notizia della rivoluzione bolscevica. I due fenomeni richiamavano entrambi la necessità di uscire, in maniera diversa, da un modello basato sulla forza e sulla coercizione, e di ripensare il partito come elemento agente di tale pressione sulla società. Si poneva cioè ora il problema di una conquista politica del consenso delle masse attraverso non più l’uso della forza ma, al contrario, per mezzo di una capacità di rappresentanza e mediazione sociale da parte del partito bolscevico al potere o in lotta per esso, il quale era quindi chiamato, in questa fase di transizione, a farsi carico dei differenti interessi sociali che caratterizzavano sia la società capitalistica che quella sovietica: soppresso il pluralismo politico non per questo spariva il pluralismo sociale la cui articolazione, nell’ottica ormai sviluppata da Lenin scegliendo la Nep, andava accettata e riconosciuta, se non altro per poterla poi riorientare e guidare, tenendo insieme, quindi, le concessioni economiche al mondo contadino con la guida politica riservata al proletariato sovietico, identificato con il partito comunista. La scelta della Nep e il ribadimento dell’alleanza contadini-operai, e il tema conseguente dell’egemonia nella relazione tra questi due soggetti sociali, si collocavano dunque per Lenin dentro la necessità di ridiscutere il rapporto coercitivo realizzato tra partito e società sovietica nel corso della guerra civile, abbandonando al contempo l’idea di una mera applicazione dello schema russo al movimento comunista internazionale. L’aspetto nuovo, segnalato in particolare dal volume di Graziosi, è dato dalla sottolineatura della sostanziale solitudine della posizione di Lenin in questo cruciale passaggio all’interno della sua stessa cerchia di collaboratori, i quali, forse con la sola eccezione di Bucharin, condividevano di fatto l’idea che proprio la vittoriosa conclusione della guerra civile con i metodi sopra ricordati e la relazione “militare” costruita con la società permettessero invece l’accelerazione in senso industriale ed industrialista. Grazie alle nuove ricerche la Nep appare una parentesi ancor più limitata e parziale di quanto si ritenesse in precedenza, sostanzialmente non condivisa e tirata nella direzione opposta non solo dai suoi critici aperti come Trotskij ma anche in realtà da Stalin e dai suoi sostenitori, pronti a servirsi di Bucharin nello scontro per il controllo del partito contro gli avversari, ma del tutto convinti che il “socialismo” possibile coincidesse non solo con il necessario balzo industriale ma con la complessiva fortissima pressione coercitiva da imporre forzatamente ad una società riluttante ed intimamente contraria. L’assunzione profonda di questo paradigma “burocratico-amministrativo” non sfuggiva a chi, all’interno del campo comunista, sviluppando le riflessioni di Lenin (ma anche superandole), tentava di ripensare il tema dell’egemonia, con tutte le sue implicazioni, giudicandolo decisivo[2]: significativamente fu proprio Gramsci a stigmatizzare la risoluzione con provvedimenti amministrativi e disciplinari dei dissidi politici all’interno del partito, come fece nella nota lettera inviata al comitato centrale del Pcus a nome del Pcd’i, di cui era diventato qualche anno prima segretario. Consapevole che la spinta propulsiva data dalla presa del potere in sé da parte dei bolscevichi aveva esaurito il suo effetto sulle masse popolari mondiali, il rivoluzionario sardo, in una seconda lettera privata a Togliatti, che aveva ottenuto di non inoltrare ufficialmente il primo testo ai sovietici, poneva quindi la questione delle caratteristiche del processo di costruzione del socialismo in Unione Sovietica, la cui “qualità” sarebbe divenuta sempre più un fattore determinante per il successo del movimento comunista internazionale. Proprio per questo, a suo avviso, la dimensione nazionale sovietica e quella internazionale del movimento politico a livello mondiale andavano pensate insieme, e non risolte in termini meramente “russi”; al contempo il partito comunista sovietico non poteva pensare di continuare a risolvere in misura coercitiva e militare gli enormi problemi politici, interni ed esteri, che l’esistenza di una Urss, isolata dopo la sconfitta del ciclo rivoluzionario nell’Europa, poneva[3]. Mentre il gruppo dirigente stalinista, uscito vittorioso dallo scontro con l’opposizione di sinistra, identificava sempre più (posizione condivisa da Togliatti) la realizzazione del socialismo con la costruzione di una possente sistema statuale di tipo moderno, (subordinando a questo obiettivo qualsiasi esigenza di autogoverno del mondo del lavoro e della produzione), Gramsci segnalava l’acuirsi per questa via della contraddizione tra le esigenze internazionali del movimento comunista e quelle dello Stato sovietico[4]. La politica di quest’ultimo infatti, sia verso l’interno che verso l’esterno, mostrava di non comprendere la nuova fase della guerra di posizione e quindi di non ragionare sulle conseguenze globali che tale passaggio comportava, mettendo di fatto l’Urss e il movimento comunista internazionale in una condizione di subalternità che rischiava di condannare quell’esperienza ad una storica sconfitta portando, alla lunga, alla prevalenza di un modello militare-bonapartista, come sarebbe poi in effetti avvenuto. Come si vede il nodo individuato da Gramsci era quello cruciale e riguardava il rapporto tra il Pcus e la società sovietica nel suo complesso, nel quadro di una complessiva proposta di riarticolazione della teoria e quindi della strategia del movimento comunista a livello mondiale. [1] Cfr. C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1982. [2] A. Di Biagio, Egemonia leninista, egemonia gramsciana, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, I volume, Roma, Carocci, 2008, pp. 379-402. [3] Su questo punto cruciale: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di C. Daniele, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Einaudi, Torino, 1999. [4] Per questo aspetto: G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Torino, Einaudi, 2012, pp. 119-169. Per un quadro delle interpretazioni del concetto di egemonia in Gramsci anche: G. Liguori, L’egemonia e i suoi interpreti, in Id., Sentieri gramsciani, Carocci, Roma, 2006, pp. 140-152. di Salvatore Cavaleri
Generalmente la mattina faccio colazione davanti al computer. Controllo se la puntata che avevo messo a scaricare si è completata, apro Facebook, guardo la mailing list con cui facciamo i passaggi di consegne tra colleghi di lavoro, accendo Radio 3e altre banali attività che ormai vanno in automatico. Poi, dopo la sigaretta, vado in bagno, faccio una partita ad un videogioco online e mentre faccio la doccia attivo la riproduzione casuale di Spotify. La seconda colazione la faccio al bar con Giro e gli altri genitori vicino la scuola dei nostri figli. Ogni mattina escono fuori due o tre idee che ci faranno svoltare definitivamente - tipo brevettare il passeggino per adulti o mettere su una band rocksteady – poi ci si saluta e si va a lavorare. Il lavoro che faccio comprende alcune attività che atterrebbero generalmente alla normale vita quotidiana, tipo passare del tempo a parlare con dei ragazzi, pranzare insieme, giocare alla Play Station e anche dormire durante i turni di notte. Per i contatti con i vari servizi con cui ho a che fare, poi, vado in giro, mando qualche mail, ricevo un po' di messaggi via fax e passo diverse ore al telefono con i colleghi. La sera, prima di andare a casa, passo dal negozietto bangla che per fortuna fa orario continuato e compro quelle due cose che sono terminate all'ultimo momento. Torno a casa e vedo che Massimo mi ha inviato la bozza di un progetto da rivedere e quindi, mentre ceno, butto un'occhiata e gli rispondo. Finalmente verso le 22 riesco a mettermi sul divano per guardare la puntata che avevo scaricato la notte prima. Più o meno arrivati alla terza scena arriva un messaggio sul gruppo WhatsApp dell'equipe di lavoro. C'era una comunicazione urgente che non poteva aspettare. Ed ovviamente arrivano le risposte degli altri, qualche faccina e poi parte il cazzeggio. Arrivato alla fine della puntata mi accorgo che mi sono perso qualche passaggio. Comunque, spengo la tv, chiudo WhatsApp e vado a dormire, senza prima dimenticare, però, di mettere a scaricare una nuova puntata. Normali attività quotidiane comuni a molti. Ovviamente ho esagerato, passo anche del tempo con la mia famiglia, una volta a settimana vado a giocare a pallone e ogni tanto vado a correre. Ma a pensarci bene, anche lì mi sembra di stare tutto il tempo connesso ad un qualche dispositivo. Per prendere i bambini a scuola c'è ogni giorno un giro incredibile di messaggini tra tre quarti dei genitori che sa di arrivare in ritardo, per organizzare la partitella abbiamo il gruppo Facebook e quando vado a correre attivo Runtastic. Ok, ok, ho esagerato ancora. Passo anche del tempo al giardino pubblico, dove grazie al cielo c'è la connessione Wi-Fi e poi faccio normali attività quali cucinare, magari controllando la ricetta su Giallo Zafferano, o leggere un libro sul mio magnifico e-reader, per poi postare immediatamente un commento in rete. Alla fine quindi mi rendo conto che ho certo esagerato, ma neanche troppo. Resta il fatto che alla fine delle 24 ore mi chiedo quanto tempo ho lavorato? Quando ho smesso di essere un consumatore? Ed, in generale, quando ho realmente smesso di essere connesso? Marx, nell'ottavo capitolo de Il Capitale, descriveva la giornata lavorativa come una grandezza variabile. Sosteneva, cioè, che il capitalista tende ad estendere il più possibile la lunghezza della giornata lavorativa, anche se questa non è prolungabile al di là di un certo termine, in quanto sussistono limiti sia fisici che sociali. “Ma” avverte Marx, “tanto gli uni che gli altri sono di natura assai elastica e permettono un larghissimo margine di azione. Così troviamo giornate lavorative di otto, dieci, dodici, quattordici, sedici e diciotto ore.” Si sa, Marx era un inguaribile ottimista. Ma certo, anche per il più illuminato critico de Il Capitale doveva essere difficile immaginare a metà '800 fino a che punto il capitalismo sarebbe stato in grado di rimuovere i limiti della propria espansione. In un recente saggio di Jonathan Crary, dal titolo emblematico 24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno (Einaudi, 2015), vengono infatti descritti i dispositivi attraverso cui, nel neoliberismo contemporaneo, si è imposta una nuova temporalità a ciclo continuo. Per 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, il capitale ci mette a lavoro, ci vende merci e indaga sui nostri gusti, abitudini ed attitudini. Crary inizia il suo libro descrivendo le ricerche che l'esercito americano ha svolto sugli uccelli migratori per comprendere il funzionamento dei neuroni inibitori del sonno. Come fanno, cioè, questi volatili ad affrontare traversate oceaniche senza mai addormentarsi? Evidentemente i militari non hanno curiosità di natura ornitologica, ma il loro interesse è finalizzato a condurre esperimenti sui soldati impegnati in combattimenti sul campo per stimolarne la veglia artificialmente, senza interruzioni, per lunghi lassi di tempo. Questo esempio, che evidentemente è un caso limite, in realtà è abbastanza esplicativo di come la diffusione del paradigma 24/7 si sia estesa in modo molto più netto di come possa sembrare: basti pensare all'apertura di supermercati e altri esercizi commerciali a ciclo continuo o ancor di più a come, con la diffusione delle nuove tecnologie digitali, sia possibile lavorare, fare acquisti, scommettere, usufruire di materiale pornografico e compiere altre attività potenzialmente compulsive praticamente in ogni luogo e in ogni istante. Già Fredric Jameson e David Harvey, tra gli altri, avevano descritto la postmodernità a partire dalle trasformazioni delle coordinate spazio-temporali ma, la vera novità, secondo Crary, è che la temporalità che si sta diffondendo oggi ha la caratteristica di essere unica e assoluta. Unica perché non esiste luogo al mondo che non sia diventato un nodo della rete. Assoluta perché contemporaneamente non esiste attività umana che non venga catturata in questa nuova dimensione. All'inizio degli anni novanta, quando il neoliberismo s’imponeva come legge universale e il cyberspazio ridisegnava la psicogeografia collettiva, si è venuta ad affermare una sincronizzazione globale tale per cui, oggi, ogni possibilità di distinzione tra tempo produttivo e improduttivo, tra lo spazio della giornata dedicato al lavoro e quello dedicato agli affetti, tra operosità e ozio, è saltata del tutto. Se Marx basava la sua critica al capitale sulla teoria del valore lavoro, cioè sulla possibilità di individuare nell'ora di lavoro l'unità di misura in grado di quantificare il valore di una merce, oggi è al contrario la “dismisura”, esattamente l'impossibilità di quantificare temporalmente l'attività cognitiva, a diventare la cifra interpretativa del lavoro contemporaneo. Se agli albori del postfordismo erano in pochi quelli che avvertivano che con la precarizzazione del lavoro non si sarebbe lavorato di meno e che anzi l'attività produttiva avrebbe invaso l'intera quotidianità, oggi sappiamo bene che la flessibilità, lungi dal concederci di rilassarci quando vogliamo, al contrario impone di non guardare l'orologio. Oggi, insomma, in pochi hanno dubbi rispetto al fatto che la precarietà porti a lavorare molto di più e, semmai, a guadagnare molto meno. Il capitalismo contemporaneo si afferma, allora, come una temporalità a ciclo continuo che non subisce interruzioni, dentro cui però ogni lavoratore rappresenta un frammento di tempo, un segmento intercambiabile che viene chiamato ad intermittenza, ma che deve dimostrarsi sempre pronto a rispondere alla chiamata. In ognuna delle 24 ore e in ciascuno dei 7 giorni ognuno è potenzialmente contattabile. Tutti siamo in possesso di un tablet, di uno smatphone o di un computer portatile, tutti siamo quindi potenzialmente raggiungibili ovunque, e di conseguenza obbligati a rispondere. Quando ci arriva un messaggio WhatsApp noi sappiamo che chi ce lo manda sa che l'abbiamo letto, sa che ci ha raggiunti, e a quel punto, quindi, non possiamo non rispondere. Anche e soprattutto se si tratta di un messaggio di lavoro arrivato proprio quando eravamo arrivati a casa dopo una giornata infinita. Proprio il fatto che questi dispositivi telematici vengono usati indistintamente per le comunicazioni private e per quelle di lavoro rende la raggiungibilità ancora più invadente. Il tempo libero tende a scomparire all'interno di un tempo omogeneizzatamente produttivo, tanto che anche le attività extra-lavorative finiscono per rispondere ad un tempo organizzato e mercificato. Il tempo libero non è più il momento in cui “staccare la spina”, ma quello da dedicare ad attività in cui migliorare le proprie prestazioni. In ogni piccola ed intima passione siamo chiamati all'efficienza: dalla corsetta della domenica, al laboratorio creativo per bambini, bisogna sempre raggiungere il risultato migliore. Perché nella temporalità 24/7 non sono ammessi vuoti, ogni singolo frammento deve essere riempito. Non è concessoperdere tempo. Una volta si diceva che un terzo della giornata doveva essere dedicato al lavoro, un terzo alla vita privata e l'ultimo terzo al sonno. Ma se non è più possibile fare una netta separazione tra luoghi, tempi e strumenti di lavoro e quelli dedicati alla vita privata, e se quindi la separazione tra i primi due terzi della vita non è più così netta, allora l'ultima frontiera rimane il sonno. Il sonno è stato sempre considerato la parte della vita improduttiva per eccellenza, quella dell'inattività assoluta. La siesta è da sempre il simbolo dell'inoperosità. Eppure, anche questo limite naturale, che apparentemente non può essere scalfito, diventa agli occhi del capitalismo contemporaneo sempre più insopportabile. Innanzitutto il tempo medio dedicato al sonno è drasticamente diminuito nel corso dell'ultimo secolo. Le statistiche dicono che si è passati dalle 10 ore per notte dei primi del '900, alle 8 ore di qualche decennio fa, fino ad arrivare alle 6 ore e mezza che un americano medio dorme ogni notte. Contemporaneamente, la qualità del sonno è sempre più disturbata. Le patologie tipiche della vita nelle metropoli (depressione, disturbi bipolari, iperattività), producono mutazioni del sistema nervoso tali da produrre aggregati globali di individui con un metabolismo alterato in sincrono. Ma ancora di più, la diffusione incredibile di sostanze psicotrope, tanto legali quanto illegali, tanto di droghe e quanto di farmaci, la cui composizione chimica tra l'altro è incredibilmente simile (guardare a proposito Requiem for a dream), hanno prodotto un'alterazione della percezione temporale che, vista la scala della loro diffusione, assume le caratteristiche della trasformazione antropologica. Le notti insonni sono quelle in cui si finiscono i lavori del giorno prima o ci si rigira nel letto chiedendosi se il prossimo mese si avrà un lavoro, in cui si rimugina sull'ultimo discorso del capo o non ci si dà pace per la frase di un collega, quelle in cui ci si alza e si inizia a mangiare compulsivamente o a giocare a poker online fino all'arrivo della sveglia. Ma se non si riposa mai del tutto, allora, non si è mai neanche completamente coscienti. Il paradigma 24/7, per tornare al libro di Crary, si impone quindi come una nuova temporalità impossibile da reggere. Ed è proprio questa impossibilità a trasformarlo in un mot d'ordre pervasivo e subdolo. Nessuno può realmente lavorare, consumare o stare sveglio 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, ma al tempo stesso tutti siamo chiamati a farlo. Questa distanza tra l'ingiunzione alla disponibilità per un tempo innaturale e la cruda naturalità del tempo biologico rappresenta un nodo fondamentale dei meccanismi di controllo contemporanei. Per quanto ognuno di noi si possa sforzare di reggere il peso di questa ingiunzione, infatti, alla fine questi sforzi risulteranno essere una inutile fatica. Alla fine dei conti, allora, tutto il libro di Crary risulta interessante non tanto per le cose che dice quanto per le cose che evoca. Non perché arriva a dimostrare l'affermazione del paradigma 24/7, ma perché offre una prospettiva ottica che permette di comprendere una vasta quantità di fenomeni. In fondo è vero che tutta la vita è sotto controllo? Siamo diventati tutti degli automi? Messa così sembrerebbe che non esistano piani di resistenza. Ma noi sappiamo che negli interstizi di ogni dinamica didominio rimangono sempre infinite possibilità di sabotaggio. Lo stesso Jonathan Crary, del resto, conclude il libro domandandosi “quali sono gli incontri che possono condurre a nuove formazioni, a nuove capacità di opposizione e dove possano avere luogo, in quali spazi o temporalità?” Fa un certo effetto porsi questa domanda sulla temporalità che sapranno assumere i movimenti, in una fase in cui, almeno dalle nostre parti, si avverte una certa aria di fiacca, in cui le piazze sono tutt'altro che piene e l'erosione degli spazi di partecipazione procede spedita. Mi viene da pensare, però, che non dovremmo avere paura di questi vuoti. Che sottrarsi alla temporalità imposta dal capitale deve voler dire saper coltivare anche il tempo dell'attesa. Chi ha vissuto dentro i movimenti sa bene come una certa frenesia dell'attivismo sappia assumere essa stessa qualcosa di patologico. C'è sempre una scadenza da rincorrere e c'è sempre un nuovo scontro finale per il quale bisogna farsi trovare pronti, finendo così per replicare la stessa coazione a ripetere che si vorrebbe combattere. Il tempo dell'attesa è esso stesso un tempo utile alla trasformazione, quello in cui ci si guarda in faccia e ci si mette in discussione. Quello in cui si elabora il passato e ci si prepara alle rotture col presente. Affrontare i propri vuoti vuol dire smetterla di nascondersi, smetterla di essere uguali a se stessi ed essere fino in fondo pronti al cambiamento. Ma fa altrettanto effetto porsi questa domanda mentre i giorni e le notti francesi sono stravolte da un movimento che, guarda caso, si chiama “Nuit Debout”. Quasi nessuno si aspettava questa ondata di proteste contro la nuova legge sul lavoro, in una Francia in cui lo Stato d'emergenza aveva imposto la sospensione della democrazia in nome della sicurezza nazionale. Questo movimento trae la sua forza non dall'opposizione ad una legge, ma dalla dimostrazione di esistenza di una nuova composizione sociale che rimette al centro i diritti di chi lavora. Questa presa di parola, questo riappropriarsi delle strade e delle piazze, rappresenta anche un esempio contagioso di come il tempo imposto dal capitale ad un certo punto possa subire un'incrinatura, nella quale il ritmo delle lancette smette di rispondere alla logica della fretta e dell'efficienza per lasciare spazio a curve temporali dedicate al piacere di stare insieme per difendere ciò che si ha in comune. Non a caso, tutto ciò nasce proprio da una rivoluzione temporale che, nella migliore tradizione francese, è riuscita a sconvolgere e riscrivere anche il calendario, trasformando Marzo in un mese che non finisce mai. |
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Gennaio 2021
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