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      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
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      • BOOM BUST BOOM
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    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
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BENTORNATI AL SUD. L'Eterna Questione Meridionale

25/6/2015
Scritto da Marco Palazzotto 25 giugno 2015


Da quando l’Italia è entrata in recessione con l’ultima crisi europea, dall’agenda politica
nazionale è sparita quasi del tutto la questione meridionale. Si ha la sensazione che la Sicilia - e il resto del Meridione – sia condannata a un destino immodificabile a causa della sua atavica incapacità di mantenere il ritmo di aree più efficienti, più produttive, meno criminali.  Il quadro politico e sociale che è stato costruito intorno alla questione meridionale è ormai ultrasecolare ed il suo indirizzo è quello che oggi conosciamo.

Antonio Gramsci in questo articolo del 1926 trattava della questione meridionale evidenziando aspetti ancora molto attuali. Già allora l’ideologia diffusa era quella di un Mezzogiorno come “palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto”.

La diffusione di questo pensiero era facilitata dal lavoro di alcuni intellettuali della rivoluzione liberale italiana, tra i quali Gramsci individua Giustino Fortunato e Benedetto Croce, che “hanno ottenuto che l’impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria…In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una altissima funzione ‘nazionale’, ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario”.

Gramsci viveva una situazione ormai compromessa, a più di mezzo secolo dall’Unità d’Italia, grazie alla quale, nella vulgata corrente, il Meridione era stato liberato dall’usurpatore, si erano civilizzate le masse “barbare” ed offerte opportunità di sviluppo grazie all’unione con un nord più progredito. Dando uno sguardo alle statistiche notiamo tuttavia una realtà differente, in cui l’Italia unitaria non eredita affatto un sud molto sottosviluppato. Anzi fu proprio l’Anschluss del Meridione (il termine usato da Vladimiro Giacché per descrivere il processo di unificazione tedesca degli anni ‘90 del secolo scorso, e che ben si adatta al nostro caso) a dar luogo, nei decenni successivi, ad un indirizzo politico contraddistinto da una concentrazione geografica asimmetrica degli investimenti.

Ad esempio, in questo studio di storia economica pubblicato dalla Banca d’Italia nel 2010 viene offerta una fotografia datata 1871 che evidenzia una situazione non troppo disomogenea tra nord e sud. Città come Palermo, Agrigento o Napoli, negli anni successivi all’unificazione, presentavano indici di industrializzazione relativa non molto lontani dalle città del nord più progredite. Addirittura Napoli si trova tra le prime quattro città italiane e Palermo e Agrigento tra le prime 12. La tabella 1 dimostra come i governi di allora si comportarono nella gestione della politica industriale nazionale. Nel 1911 il processo di deindustrializzazione meridionale era quasi concluso.
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La tabella n° 3, elaborata con i dati dello studio sopra citato, ci mostra che nel 1871 i meridionali non fossero  affatto fannulloni o poco produttivi. Le quote di valore aggiunto dimostrano che la Campania era 3^ e Sicilia 5^ regione. Palermo era la 6^ città d’Italia per quota di valore aggiunto e Napoli la 3^, pur avendo quote di popolazione maschile al di sopra dei 15 anni di età inferiori rispetto alle città più industrializzate (per approfondimenti si rimanda alla Tavola 3 pag. 31 dello studio della BdI citato).
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La domanda sorge spontanea: come è possibile che a partire dal 1871, a pochi anni dall’Unità di Italia, il Meridione abbia subito un repentino declino industriale? Che i meridionali siano diventati fannulloni e criminali tutto ad un tratto? La contabilità nazionale ci offre spunti di riflessione interessanti.

Questo studio della Banca d’Italia del 2004 sulla contabilità nazionale nord-sud ci fornisce il dato della bilancia dei pagamenti, ed in particolare le partite correnti, che evidenzia come il mezzogiorno si sia andato indebitando con il centro-nord. 
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L’istogramma di cui sopra mostra come al saldo delle partite correnti corrisponda simmetricamente un trasferimento unilaterale delle Amministrazioni Pubbliche, dei redditi e degli interessi (Redis nel grafico). In parole povere significa che il modello di sviluppo italiano, durante tutto il secolo e mezzo post unitario, si è basato sul finanziamento pubblico dell’indebitamento del Meridione sottosviluppato. Il debito del settore privato di famiglie e imprese meridionali, verso il centro nord, corrisponde in larga misura al saldo netto di beni e servizi prodotti dal centro-nord per il Meridione (e in parte per l’estero). E ancora, il miracolo economico italiano si è basato, per quanto riguarda la distribuzione geografica, su un sistema di compensazione delle eccedenze che mantiene sottosviluppata una parte del paese per permettere il progresso di un’altra. Un po’ il modello d’integrazione verticale al quale stiamo assistendo in questi anni nell’ambito dell’Euro-Zona.  Questo grafico ci offre una visione più generale:
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Il saldo delle partite correnti è stato negativo in media dal 1960 al 2006 di -17 punti di PIL. Ciò significa che il sud si è indebitato in media, privatamente, con il nord per il 17% della propria produzione, con punte negative che superano il 20% (succede nel 2004, per esempio, quando il Pil italiano era ancora positivo in periodo pre-crisi). L’andamento del tasso di interesse indica che la politica monetaria della Banca d’Italia prima e della BCE poi non è riuscita, anche in periodi di provvedimenti accomodanti, a modificare la tendenza all’indebitamento del Meridione e - successivamente all’introduzione dell’Euro - dell’Italia intera.

Ecco perché alcuni economisti individuano un processo di mezzogiornificazione in atto in Europa. Ovvero il modello asimmetrico italiano che si sviluppa nell’intera area Euro. Un centro-nord più progredito che rappresenta un’area di centralizzazione capitalistica e che controlla – grazie alla sua forza economica – la circolazione dei capitali e, di conseguenza, la politica economica dei paesi più periferici.

In conclusione l’Europa ha affidato all’Italia un ruolo simile a quello spettato al Meridione nostrano per un secolo e mezzo. Si badi bene che si parla di tendenza. L’Italia rimane ancora uno dei più importanti paesi manifatturieri del continente europeo, ma con un ruolo sempre più marginale e sempre più orientato alla committenza estera. Assistiamo ad un riposizionamento dal primo blocco (quando l’Italia era in compagnia di Francia e Germania) ad un secondo caratterizzato da delocalizzazione produttiva (sempre più vicino ai paesi dell’est).

E se oggi la questione meridionale non è più all’ordine del giorno dei governi nazionali (figuriamoci quelli europei), davvero non ci resta che piangere.
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QUELL'OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO - La Cgil alla scoperta del lavoro autonomo impoverito

17/6/2015
Scritto da Alice Gerratana 17 giugno 2015



Quella del 12 maggio è stata una giornata importante per Palermo e per i liberi professionisti siciliani che, con fatica, cercano di portare avanti il proprio mestiere tra mille complicazioni.
 

Presso la Real Fonderia Alla Cala, si è svolto infatti un incontro dal titolo “Vita da Professionisti – Diritti, Rappresentanza, Contrattazione, Sindacato e Lavoro Autonomo: le nuove sfide”, articolato in tre momenti diversi e organizzato dalla CGIL per dare vita a un confronto tra associazioni e liberi professionisti da una parte, e sindacato dall'altra.

Tra le associazioni eravamo presenti anche noi di STRADE (Sindacato dei Traduttori Editoriali), con me che sono uno dei segretari uscenti ed Eva Valvo della Squadra Comunicazione, di cui potete trovare il live tweet a questo indirizzo. 

L'invito a partecipare ci è arrivato dal giovane sindacalista palermitano Andrea Gattuso, Responsabile Professionisti e Politiche Giovanili CGIL Sicilia. A moderare l'incontro Monica Genovese, della Segreteria CGIL Sicilia.Come dicevo, il pomeriggio si è articolato in tre momenti diversi, il primo dei quali istituzionale. 

Enzo Campo, Segretario Generale CGIL Palermo, ha aperto i lavori portando i saluti del sindacato, e ricordando come già, tra il 1997 e il 1998, qui a Palermo la CGIL avesse iniziato a occuparsi di precariato, in particolare della situazione dei restauratori di San Martino delle Scale, per cui la nostra città si può considerare un laboratorio sulle nuove identità lavorative. Poiché il mondo del lavoro ormai è eccessivamente frantumato, continua Enzo Campo, è necessario estendere i diritti a tutti i lavoratori, e questo lo si può fare con l'inclusione a tutti i livelli di contrattazione (nazionale, aziendale, territoriale), e dimostrandosi solidali tra lavoratori. Molto significativa, a mio parere, la frase con cui ha chiuso il suo intervento: "Il sindacato, in questo modo, diventa il luogo in cui le solitudini si incontrano"). 

A questo punto abbiamo ascoltato la relazione introduttiva di Andrea Gattuso, che ha sottolineato come la presentazione di Vita da Professionisti sia il punto di partenza per creare una Consulta siciliana delle Professioni, così come un momento importante di riflessione per professionisti e sindacato insieme. Nella sua relazione, Andrea ha fatto riferimento a tutta una serie di questioni, tra cui che la Sicilia è la quarta regione per aperture di partita iva, e ha ricordato inoltre la legge 4 del 2013, quella che regolamenta le professioni non ordinistiche; poiché in sala erano presenti diverse tipologie di professionisti, ha fatto riferimento anche alla gestione separata e al nuovo regime dei minimi, quello entrato in vigore all'inizio di quest'anno. Andrea ha concluso ricordando il lavoro prezioso di Davide Imola (a questo indirizzo potete trovare qualche informazione in più su una persona meravigliosa che ci ha lasciato troppo presto), il protocollo d'intesa SLC-STRADE (firmato a dicembre del 2012) e l'importanza fondamentale della contrattazione inclusiva e dell'ascolto e confronto con i liberi professionisti. 

Dopodiché è arrivato il momento del sociologo Daniele Di Nunzio e della vera e propria presentazione della ricerca Vita da Professionisti, condotta dall'associazione Bruno Trentin (qui un articolo sulla ricerca; qui si possono scaricare la presentazione e la ricerca stessa) da cui è emerso l'alto tasso di iscrizione al sindacato che rappresento. 

Con l'intervento di Alessandro Bellavista, ordinario di diritto del lavoro presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Palermo, è cominciata la tavola rotonda, il terzo e ultimo dei tre momenti dell'incontro. Il suo intervento è partito dal Jobs Act, ricordando, in particolare come le professioni intellettuali continuino a restare senza tutele. 

Francesco Leone di Agius (Associazione Giuristi Siciliani), invece, ha raccontato le difficoltà dei giovani avvocati, la cui precarietà, come ha ricordato la collega Eva Valvo nel suo live tweet, spesso si trasforma in indigenza, dati i redditi molto bassi e l'obbligo di pagamento della previdenza anche in caso di reddito zero. 

Giuseppe Castellucci dell'associazione di promozione sociale neu[nòi] ha raccontato di come il coworking possa essere un esempio di cultura della collaborazione e della condivisione, in quanto punto di riferimento per professionisti, lavoratori autonomi e startup. Il coworking è fondamentale per fare rete, perché cerca di soddisfare il bisogno che i professionisti hanno di relazionarsi tra loro dal vivo, e non solo a livello virtuale. 

Donata Zirone, della Confederazione Italiana Archeologi, ha raccontato la sua realtà professionale, dei contratti atipici, di come sia quasi impensabile - per ovvie ragioni - una committenza privata per gli archeologi, di come il loro ruolo sia un ibrido tra uno tecnico-scientifico e uno intellettuale, di come i compensi siano praticamente imposti dall'alto. Di come, infine, molti di loro abbandonino la professione a 40 anni perché insostenibile, della scarsa coscienza di categoria, della mancanza di solidarietà tra colleghi, del pericolo che viene dal volontariato e dell'alto grado di ricattabilità. 

Poi sono intervenuta io e, come sempre, ho cominciato spiegando chi sono i traduttori editoriali, tenendo conto anche degli importantissimi dati emersi dalla ricerca Editoria Invisibile (qui una sintesi della ricerca condotta dall'Ires Emilia Romagna); ho ricordato i nostri servizi (consulenza fiscale, legale e contrattuale, contratto modello, la convenzione di assistenza sanitaria integrativa intitolata alla collega Elisabetta Sandri e sottoscritta con la società di muto soccorso Insieme Salute), raccontato dello sportello di consulenza legale che dal 14 maggio è in funzione presso la Camera del Lavoro di Milano, grazie alla nostra legale convenzionata, Maria Teresa Badalucco, e a Francesco Aufieri di SLC. Poiché a tutti i professionisti è stato chiesto cosa pensano che il sindacato possa fare per loro e come pensano si possa collaborare, io ho voluto riportare l'esempio dello sportello sopra citato e della trattativa dei grafici editoriali con l'inclusione dei collaboratori esterni come testimonianza del fatto che sì, le cose da fare sono tante ma con l'aiuto dei sindacalisti si possono raggiungere traguardi importanti. 

Dopo di me sono intervenuti altri due liberi professionisti, Laura Birtolo, psicologa, e Liborio Provenzano, architetto. Laura ha raccontato la sua professione, caratterizzata dall’eccessiva presenza di lavoro volontario (senza contare l'anno di tirocinio gratuito prima di abilitarsi alla professione) e dal fenomeno, anche in questo settore, delle false partite iva, che vengono aperte soprattutto per poter lavorare nelle cooperative che si occupano di riabilitazione. L'ordine degli psicologi, a quanto pare, funziona comunque meglio di tanti altri, e la loro cassa previdenziale tiene conto del periodo di maternità, prevede il congedo parentale per gli uomini e si paga a scaglioni (guadagni poco, paghi poco di contributi). 

Liborio, infine, si è soffermato su diversi aspetti tecnici della sua professione, sull'infinito recupero crediti ─ problema comune a tutti i liberi professionisti ─ e di come la loro cassa e il loro ordine siano pressoché inesistenti. 

La chiusura dei lavori è toccata a Michele Pagliaro, Segretario Generale della CGIL Sicilia, il quale ha notato come la platea fosse composta soprattutto da giovani che, evidentemente, sentono bisogno di organizzarsi e fare rete. Dopo una disamina generale del lavoro oggi, ha ricordato come sindacato non significhi delegare le proprie lotte agli altri ma vuol dire condividerle con gli altri. Anche in questo caso è venuto fuori il concetto di inclusione perché, in un mondo del lavoro sempre più caotico, è necessario che una stessa tipologia lavorativa sia retribuita allo stesso modo, che i lavori godano tutti degli stessi diritti. 

Per concludere questa lunga relazione sull'incontro, direi che le parole d'ordine della giornata sono state senza ombra di dubbio “inclusione” e “solidarietà”. Una cosa è certa, lasciatemelo dire: finché i lavoratori di uno stesso settore continueranno a farsi la guerra tra loro invece di concentrarsi sul dialogo con le controparti per ottenere diritti e tutele, sarà veramente difficile andare avanti. O si lotta uniti o non c'è scampo.
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FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS?

10/6/2015
Scritto da Frank Ferlisi 10 giugno 2015


Trent’anni fa le vicende dei Cantieri Navali coinvolgevano larghe fette dell’opinione pubblica palermitana, ma oggi non è più così, per varie ragioni che non è qui il caso di affrontare; tuttavia, piaccia o meno, i cantieri restano l’attività produttiva più grande della provincia di Palermo dopo la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese.

Le maestranze non sono più quelle degli anni Sessanta (tra operai dello stabilimento più ditte d’appalto, vi lavoravano oltre tremila persone), ma dopo anni difficili durante i quali la Fincantieri parlava di chiusura degli impianti e di abbandono dello stabilimento, oggi, per fortuna e per le intense lotte degli operai, la Fincantieri ha affidato a Palermo lavori importanti che dovrebbero assicurare lavoro per oltre un anno. Va ricordato che un piano di riqualificazione urbana che avrebbe dovuto essere approvato dal Consiglio comunale di Palermo e che prevedeva la trasformazione della ex Manifattura Tabacchi e di edifici che insistono sul cantiere in alberghi di lusso, centri commerciali, perfino un casinò, è stato cancellato dal sindaco Orlando. Ma questo progetto (pare finanziato da ricchi sauditi) aleggia ancora sul cantiere, purtroppo.

Lo si è visto con la scelta sciagurata e incomprensibile dell’Assemblea Regionale Siciliana che, in sede di approvazione del bilancio, ha stralciato il finanziamento per la costruzione di un nuovo bacino di carenaggio, essenziale per il proseguire delle attività dello stabilimento palermitano. Il nuovo bacino di carenaggio, per il quale Fincantieri ha stanziato settanta milioni di euro, servirà, tra l’altro, alla costruzione di bacini off-shore; mentre i due già esistenti, più piccoli, verranno ristrutturati. Se non si dovesse procedere a questi lavori, i cantieri palermitani perderebbero la loro ragion d’essere e verrebbero abbandonati da Fincantieri, tra i cui dirigenti c’è sempre qualcuno che usa a mo’ di minaccia il ragionamento del numero eccessivo di stabilimenti dell’azienda. La decisione dello stralcio è frutto di un voto trasversale che denuncia la probabile esistenza, tra i parlamentari siciliani, di una lobby che vede i cantieri come ostacolo a una grandiosa operazione speculativa.

Operazione che stravolgerebbe un intero quartiere popolare che vede la presenza di un vasto mercato che impiega diverse centinaia di persone. Inoltre Palermo perderebbe la sua unità produttiva più grande e prestigiosa, nata, per iniziativa della famiglia Florio, nel 1897. Operazione speculativa che favorirebbe il riciclo di grossi capitali mafiosi sempre pronti a buttarsi su operazioni di grande portata. In questa vicenda si innescano tensioni derivate dalla denuncia degli accordi integrativi aziendali con conseguente perdita sul salario da parte di tecnici e operai (mediamente 70,00 € mensili) mentre ai dirigenti sono stati elargite decine di milioni per premi e altro. Le maestranze di tutti gli stabilimenti sono in stato d’agitazione e vengono proclamati interruzioni del lavoro, scioperi e assemblee. Gli operai di Palermo sono in lotta per due ragioni, come abbiamo visto, e lo sono in perfetta solitudine in quanto la città sembra disinteressarsi della questione e l’unico partito politico che si è schierato visibilmente con gli operai è stato Rifondazione Comunista.

Che volete? Gli operai sono passati di moda, mentre avanza con la forza di uno tsunami la desertificazione produttiva nel meridione del paese, con la conseguenza di un rafforzamento del modo di accumulazione mafioso al di là di tutte le dichiarazioni ipocrite di imprenditori, politici, intellettuali, giornalisti. Da questo punto di vista, lo stabilimento dei cantieri di Palermo è un ostacolo e un fastidio. Come si vede, la difesa dell’esistenza dello stabilimento palermitano è un fatto di portata strategica, intorno al quale si gioca la futura identità di questa bella ma terribile città.
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L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI

3/6/2015
Scritto da Calogero Lo Piccolo 3 giugno 2015



Una donna sta lavorando ad un progetto professionale impegnativo: un film che narra la storia di una fabbrica in crisi, rilevata da una proprietà estera, i cui operai rischiano il licenziamento. Al contempo, la mamma cardiopatica è ricoverata in ospedale e le sue condizioni si aggravano sempre più in modo irreversibile. Il fratello è un ingegnere che affronta con molto realismo e tanta dedizione la fase terminale della malattia materna, distaccandosi sempre più dal proprio lavoro e dalla propria vita. In ultimo, deciderà di licenziarsi. La figlia adolescente si barcamena tra difficoltà scolastiche e gestione dei rapporti familiari.

L'ultimo film di Nanni Moretti Mia Madre si può racchiudere in queste poche righe. È un film con una struttura narrativa apparentemente piana e quotidiana, capace di cogliere situazioni e atmosfere che molto probabilmente hanno attraversato la vita di molti. Sei impegnato a fare qualcosa, nel frattempo la vita è come un vento che tira in un'altra direzione, lasciandoti una sensazione di spiazzamento intenso. Nulla è più al proprio posto. E nulla conserva più lo stesso senso del prima.

Nella sua apparente semplicità, il film di Moretti racchiude una complessità di trama molto intrecciata. È un film sul lutto e sulla perdita, ma è anche e soprattutto un film sul lavoro, sul lavoro che si perde, sulla perdita di senso del proprio lavoro, sulla fatica quotidiana del lavoro, ma anche su quanto di utile e prezioso il proprio lavoro costituisca e costruisca, quanto ci rappresenti e quanto sia parte dell'eredità che consegniamo agli altri, alle nuove generazioni. Il rapporto tra la nonna morente e la nipote passa anche attraverso lo studio dei classici latini, essendo stata per tutta la propria vita la nonna la professoressa. È proprio  questa complessità di trame e intrecci può essere un'utile guida per orientarci dentro alcuni dei temi portanti che riguardano la relazione tra benessere soggettivo e condizioni di crisi del contemporaneo. 

Di cosa è rappresentativa questa storia? Ad un primo livello, della sensazione di spiazzamento che ci coglie in determinati frangenti delle nostre esistenze. Condizione molto umana, che fisiologicamente ha sempre connotato l'esistere e l'esistenza. Perdite, separazioni, lutti sono esperienze connaturate alle quotidiane vicende. Il lavoro del lutto è anche e soprattutto quel ricostruire un senso nuovo ai gesti quotidiani di sempre, quando il senso antecedente non è più accessibile per il dolore. La perdita è una stress intenso che innesca una profonda crisi, il cui primo sintomo sono i vissuti di alienazione e di spaesamento.

In che modo allora la storia narrata dal film racconta della contemporaneità? A mio parere, perché non racconta soltanto di private vicende che in momenti contingenti ciascuno si trova ad affrontare. La centratura non casuale sul lavoro apre molte finestre su quelle che sono oggi le condizioni di diffuso malessere sociale.

C'è una qualità diversa nella crisi che tutti stiamo provando faticosamente a fronteggiare, che spiazza e spaventa. Qualcosa che non sta tanto nella sua durata e nella sua intensità, pur includendole.

La qualità particolare e peculiare della attuale crisi è nella comune percezione di non reversibilità, di non transitorietà. Questi sono i vissuti più penosi, più densi, anche meno dicibili, che attraversano le trame dei discorsi oggi dei pazienti in analisi. La sensazione che il mondo intero stia slittando da qualche altra parte che ci rende tutti migranti. Anche se non ci spostiamo noi, è il mondo che va. Per questo che analogamente che per il lutto, le categorie possedute e padroneggiate perdono di senso, di presa sul reale, lasciandoci inermi e impauriti. 

La crisi attuale è una macchina incessante di produzione di infelicità e malessere. Verso cui è molto difficile attivare e mettere soggettivamente in campo risorse efficaci di resistenza e resilienza. E alcuni dei perni centrali di questo diffuso disagio sono le profonde trasformazioni in atto nel mercato del lavoro.

Franco Berardi scriveva alcune settimane fa, dopo le azioni dei cosiddetti Black bloc in occasione delle manifestazioni anti- Expo del primo maggio, a sua volta citando una manifestante delle rivolte nere a Baltimora: "Non è più questione di democrazia, è questione di vita e di morte." E non v'è dubbio che la profondità del disagio sociale sempre più confonde i livelli in gioco, tra ciò che è democrazia, e ciò che è questione di vita o di morte.

Ci si ammala di troppo lavoro, ci si ammala perché non c'è lavoro, si muore di troppo lavoro e si muore per non riuscire a trovare un proprio posto nel mondo anche attraverso un dignitoso lavoro. Bifo dice, in modo più radicale, ci stanno uccidendo di lavoro e ci stanno uccidendo per la mancanza di lavoro. O ci si lascia morire, fisicamente e psichicamente.

La precarizzazione del mercato del lavoro ha queste incidenze sulle quotidiane esistenze. Il paradosso insolubile è che le sofferenze e l'infelicità sono soggettive e individuali, le macchine di produzione delle stesse sono politiche e sociali. È una profezia fin troppo facile e scontata, ma è doveroso farla: le riforme messe in atto dal governo Renzi sono e saranno macchine di produzione di infelicità sociale, come già si vedono in azione quelle dei precedenti governi delle cosiddette politiche di austerità. E una volta di più, mi appare emblematico che la madre morente del film sia una professoressa. 

La riforma peggiore tra tante peggiori, per l'impatto sociale peggiorativo che avrà nelle esistenze di tanti, se andrà in porto, a me sembra quella della cosiddetta buona scuola. Il micidiale combinato tra riduzioni delle garanzie per tanti e i dogmi del neoliberismo, fondati sulla presunta libertà dell'autoimprenditoria, sulla competizione, sulla produttività quantitativa, sulla mobilità ecc., hanno alterato drasticamente le condizioni del lavoro. Ed il secolare ruolo che il lavoro ha avuto ed ha nella costruzione della identità di ciascuno di noi.

La questione non è tanto o soltanto che c'è meno offerta di lavoro, e sempre meno ce ne sarà per la crescente automatizzazione delle catene produttive. L'interstizio, per dirla alla Cianconi, nel quale siamo slittati, è che si sono alterati i rapporti di forza e le linee di conflitto tra sfruttatori e sfruttati. E il risultato è che siamo noi oggi i principali e primari sfruttatori di noi stessi, soggiogati dai dogmi neo liberisti.

Il ciclo di incontri che abbiamo titolato L'inutile fatica di essere se stessi prova a ragionare su tutto ciò. La depressione contemporanea si nutre di sentimenti di inadeguatezza. Mi sento in colpa perché non sono all'altezza, perché non sono adeguato. Il Super-Io attuale tiranneggia più attraverso l'Ideale dell' Io che la Coscienza Morale.

Ma questo è un problema di trame culturali sociali e politiche, cui non si può pensare di trovare soluzioni soltanto individuali e soggettive.

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