di Marco Palazzotto
Le elezioni europee – lo sappiamo – rappresentano più un voto di opinione che una scelta governativa, una nomina di rappresentanti all’interno di un’istituzione con poteri abbastanza marginali rispetto a quelli che i parlamenti nazionali in Europa hanno assunto nel ‘900. Ovviamente questo voto di opinione serve, come ad esempio alla Lega, per rimodulare gli equilibri dentro il governo, e rappresenta un banco di prova per future elezioni che potremmo essere chiamati a sostenere nel caso di spaccatura insanabile tra gli alleati dell’esecutivo. Non mi soffermerò molto sui dati del voto in Italia e nel resto del continente, che abbiamo abbondantemente letto su tutti i mezzi di informazione. Rifletterei, invece, sulle sorti di quella parte politica che mi interessa particolarmente e che sta a sinistra dei partiti già socialdemocratici europei. Il gruppo GUE/NGL perde consensi, (14 seggi in meno), mentre I Verdi, grazie alla spinta soprattutto tedesca, guadagnano 19 seggi. Le destre preoccupano ma non raggiungono il risultato eclatante che si era paventato, a parte le situazioni interne di alcuni paesi, come ad esempio Italia, Francia e Regno Unito. Nel nostro paese ha sconvolto il risultato inaspettato della Lega che capitalizza, attraverso retoriche fascistoidi e politiche classiste, l’incompetenza e la debolezza del M5S e l’inadeguatezza del PD a rappresentare e sostenere i ceti meno abbienti. Decenni di alternanza tra centro-sinistra e centro-destra – differenti solo su diritti civili e regolamentazione di alcuni settori – hanno dato luogo a politiche economiche molto simili (se non peggiori per le classi lavoratrici, nel caso del centro-sinistra): tagli alla spesa pubblica orizzontali, attacco al welfare, riduzione delle tutele dei lavoratori, privatizzazioni, politiche estere in linea con i patti europei e atlantici. La lista La Sinistra, cartello elettorale che raccoglieva, principalmente, l’adesione del PRC e Sinistra Italiana, rimane lontanissima dalla soglia di sbarramento del 4%. Altri partiti minori come il Partito Comunista di Marco Rizzo non superano l’1%. Il primo partito rimane comunque quello dell’astensione, che aumenta rispetto alle precedenti europee soprattutto nelle regioni più colpite dalla crisi. Ciò fa pensare a una disaffezione politica ancora più grave nei ceti poveri. La situazione negli altri paesi europei è parimenti tragica. Syriza viene abbondantemente superata dai popolari di Néa Dimokratía, scontando le scelte degli ultimi anni di subire la prevaricazione della Troika. Podemos perde ancora, anche rispetto alle ultime elezioni politiche, e perde in città come Madrid e Barcellona (in Spagna si votava anche per il rinnovo di alcuni consigli comunali), dimostrando che il “populismo di sinistra” (succede anche in Francia con La France Insoumise), non è la chiave corretta per disarticolare la macchina neoliberista. Norma Rangeri, sul Manifesto del 27 maggio scorso, scriveva che “La prima lezione che viene dalle urne ci dice che il problema di unire le forze ormai non ammette repliche e si ripresenterà alle elezioni politiche”. È un ritornello che sento spesso, come quello che il problema è dei gruppi dirigenti dei partitini che si presentano alle elezioni, che vengono sconfitti e quindi si devono mettere da parte. A mio parere nessuna delle suddette letture è quella corretta. Il risultato elettorale è sempre la cifra di quello che succede nella società, nel senso che la crisi della sinistra è una crisi della politica e una crisi della rappresentanza. La classi sociali più colpite dalla controrivoluzione neoliberale cominciata a fine anni ’70 si sono spaccate e infine polverizzate subendo l’ideologia dell’individualismo metodologico. Ogni persona o famiglia è un nucleo a sé stante nella società e l’obiettivo è egoisticamente quello di prevaricare il vicino. Non esiste più la coscienza dei gruppi sociali e i partiti attuali non svolgono la loro funzione di mediazione tra società e istituzioni. I sindacati di massa, che ancora raccolgono milioni di iscritti, non esercitano più il ruolo di cinghia di trasmissione con la politica: in primo luogo perché non esistono più i movimenti politici di massa nell’era della post-democrazia (trasmettere verso cosa e verso chi?), in cui il rapporto tra eletto ed elettore è costruito sul consenso veicolato da media e social network. In secondo luogo perché si è abbandonato il terreno della lotta quale pratica del conflitto, strumento di riequilibrio dei rapporti di forza tra salario e profitto, e quindi di riduzione di plusvalore assoluto e relativo. Lotta che è propedeutica ad una contrattazione più vantaggiosa per gli sfruttati. Oggi invece si chiede di contrattare in base al principio della delega degli iscritti, non sufficiente se i rapporti di forza rimangono immutati. In terzo luogo manca sia a livello politico che sindacale una struttura ideologica che sappia comprendere il presente. Nel ‘900 il marxismo, nelle sue molteplici versioni, aveva offerto un complesso di strumenti per interpretare il capitalismo, di conseguenza utili per agire onde modificarlo. Da oltre 30 anni invece siamo orfani, senza una concezione del mondo: si è spezzato il filo tra teoria e prassi, e l’agire politico subisce, in maniera molto confusa, l’influsso di tutte le idee che i linguaggi dominanti riescono a produrre. Unire i piccolissimi partiti a sinistra del PD per le future elezioni può essere un’idea solo per mandare qualcuno nelle istituzioni. Il problema è molto più importante e sistemico, e riguarda una sconfitta epocale che vive il movimento dei lavoratori. Gli attuali partitini intanto dimostrano, anche per il numero di voti raggiunti, di non rappresentare le lotte che attualmente sono in corso nella società. I conflitti nella logistica e nella gig economy, le lotte femministe, i ‘rigurgiti’ antifascisti durante molti eventi pubblici, le lotte contro i caporalati agricoli, il sostegno ai migranti che attraversano il Mediterraneo rischiando la vita, e così via. Battaglie che dovrebbero trasformarsi, in termini di voto, in qualcosa di concreto. Ma solo una minima parte di tutto ciò finisce nelle liste di sinistra. Un’altra, parrebbe a chi scrive, va al PD oggi leggermente in ripresa grazie alla paura del governo di destra. Una grande parte, sicuramente, alimenta l’astensione. La scommessa per il futuro non sarà quindi tentare di costituire un partito unico a sinistra del PD o, peggio, andare a governare con il PD stesso (come oggi fanno alcuni partiti radicali in alcune municipalità), ma costruire un progetto che cerchi di dare organizzazione alle tante lotte oggi presenti nella società e, inoltre, intercettare il malcontento di chi non partecipa al conflitto cercando di costruire una coscienza che faccia nascere delle soggettività politiche nuove. Bisogna abbandonare l’ottica elettoralistica e invece lavorare nei rapporti di produzione. Non si può pensare che questo avvenga nel breve e medio periodo e solo in occasione degli appuntamenti elettorali. È un lavoro di ricostruzione anche ideologica, che implica leggere e affrontare i problemi che il capitalismo moderno ci pone innanzi, il ‘come’ si sviluppano le relazioni di sfruttamento, cercando di rompere o superare la connessione sociale che esiste tra attività lavorativa e produzione del valore.
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TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
3/5/2019
di Vito Bianco
Sembra passato un secolo dal tempo in cui fervevano i dibattiti sul futuro del romanzo. Erano i primi anni Sessanta, e un gruppo di critici e scrittori – tutti giovani e di belle speranze – provava ad agitare le acque della società letteraria italiana accusando certi celebrati nomi di arretratezza formale o di ingenuo “contenutismo”. Tra i colpiti dai sarcasmi critici degli arrabbiati c’erano Bassani e Cassola, ma anche Moravia, e qualcun altro che ora non mi viene in mente: tutti in un mucchio senza distinzione critica, com’è tipico d’ogni focosa avanguardia, storica o neo che sia. Un vero peccato, giacché un pacato esame esente da pregiudizio avrebbe mostrato quanta modernità quasi da nouveau roman vi fosse ad esempio in alcune pagine del narratore toscano, come quelle ossute del racconto Il taglio del bosco, la cui refrattaria asciuttezza avrebbe affascinato, credo, anche un Robbe-Grillet. Negli immediati dintorni c’era anche altro: Una vita violenta di Pasolini, o Memoriale di Paolo Volponi, per fare i primi due nomi e due titoli che vengono in mente. E questo per dire che spesso ci si crede avanguardia, si corre precipitosamente avanti, e ci si scorda di guardarsi attorno con la dovuta attenzione. Poi gli anni sono passati, le acque calmate, e ogni uomo dotato di onesto intelletto ha dovuto ammettere la corrività, l’insano furore, il disegno calcolato di suscitare lo scandalo per farsi largo e conquistare un posto al sole. Umane debolezze. A portarmi sul terreno di tali archeologiche dispute è stata lettura di Transiti di Rachel Cusk (Einaudi Stile libero) secondo tassello di una trilogia che comincia con Resoconto e si concluderà (per i lettori della eccellente traduzione italiana firmata da Anna Nadotti) con Kudos. La lettura del testo, certo, ma anche gli echi o i frammenti (riportati nella seconda di copertina) della critica anglosassone ma non solo, uno dei quali parla esplicitamente di “rivoluzione” (“…torna l’autrice che ha rivoluzionato il romanzo contemporaneo”, riferito a Resoconto). Ma anche scrivere come fa The Times che “Cusk sa come si scrive un romanzo”, parlando stavolta diTransiti, mi pare errato, nel senso preciso di non cogliere la specificità dell’intenzione poetica dell’autrice canadese (ma residente da molti anni a Londra). Perché è un giudizio sbagliato? Non perché la Cusk non sappia come si scrive un romanzo; è probabile che lo sappia; possiamo anche dare per scontato che lo sappia; ma il punto è che non è interessata a scrivere un romanzo, perlomeno non un romanzo nell’accezione più comune del termine: un oggetto fatto di scrittura che mette in primo piano la finzione e un accadimento principale che ha uno sviluppo e un conclusione. In effetti, Transiti e Resoconto possono essere meglio descritti con la definizione che Pasolini diede dell’incompiuto, e magmaticoPetrolio : “qualcosa di scritto”. Vitalità della forma-romanzo, si potrebbe dire, che nei quattro secoli trascorsi dalla sua nascita ha saputo assumere le forme più disparate e imprevedibili: ora picaresco e avventuroso, ora filosofico e ironico; ora autoriflessivo, ora fantastico e misterioso. Dal Quijote alla Recerche, passando per l’eccentricità sconcertante di Sterne. Se i critici della neoavanguardia non seppero vedere la modernità di Cassola e Volponi (ma anche del Moravia fenomenologo e atonale), i critici odierni (alcuni) non riescono a vedere la, diciamo, classicità della Cusk, il filo lungo delle ascendenze, tutto un versante della scrittura narrativa europea e anglosassone che aveva a suo tempo adottato i moduli stilistici che saltano subito all’orecchio leggendo Rachel Cusk, e cioè un abbassamento antiromanzesco che recupera le intuizioni migliori del modernismo: il parlato come colto in presa diretta ma in realtà lavorato e “musicato” in funzione della resa prosodica. La eccellente qualità della sua scrittura sta essenzialmente nel dosaggio sapiente di discorso diretto e indiretto; o meglio, nel sapiente trascorrere, cancellando le suture di montaggio, dall’uno all’altro, eliminando però le “scosse” di transizione. Ecco un esempio: “Era l’ultima sera del corso, ha detto, e per festeggiare veniva offerto un rinfresco. Era estate e il rinfresco si teneva nel giardino del palazzo, vicino al fiume nei pressi di Place Saint-Michel. Il giardino al tramonto era bellissimo e si beveva champagne perché lo sponsor del corso era un’azienda produttrice di champagne. Lei indossava un magnifico abito bianco che aveva acquistato il giorno prima in Rue des Fougères …” La materia a cui si applica questa tecnica è l’ordinario della storie nelle quali la narratrice sembra imbattersi quasi per caso; un caso che è però assecondato abilmente grazie a una curiosità prensile per gli uomini e le donne con cui entra in contatto, a partire da episodi comuni o favoriti da un viaggio in un paese straniero (la Grecia di Resoconto). Ogni destino ci riguarda e ogni esistenza è degna di ascolto e di narrazione: è l’assunto tacito ma originario da cui prende le mosse la scrittura della Cusk. E non c’è vita che non possa diventare “romanzo”, potremmo aggiungere, se affidata alle mani e all’orecchio di qualcuno capace di operare la mutazione chimica che trasforma la voce che parla in quella strana cosa che chiamiamo letteratura, come ci ha insegnato Sebald, un autore al quale è facile accostare Rachel Cusk. InTransiti l’innesco narrativo è un trasferimento dalla campagna alla città (Londra) dopo la fine di un lungo matrimonio. Un nuovo inizio simboleggiato dall’acquisto di una vecchia casa che ha bisogno di essere rimessa in sesto. Parte la macchina rumorosa della ristrutturazione e l’intera esistenza di chi racconta (una scrittrice che molto somiglia all’autrice) comincia a traballare e smarrirsi: i due figli vengono momentaneamente mandati dal padre, gli inquilini nell’appartamento di sotto si lamentano dei rumori e minacciano ritorsioni, il quartiere attorno non somiglia più a quello in cui lei aveva già abitato parecchi anni prima. Così, mentre la casa viene abbattuta tramezzo dopo tramezzo, l’io narrante approfitta del tempo sospeso dei lavori in corso per mettersi in ascolto delle vite degli altri, dialoga con gli uomini e le donne con cui entra in contatto e ne salva le storie: l’imprenditore edile attento e onesto; il capomastro albanese orgoglioso del figlio di cinque anni che parla inglese meglio di lui; il parrucchiere che le tinge i capelli il giorno prima della partecipazione a un festival letterario in una cittadina vicina, che ha cambiato modo di vivere dopo un’improvvisa “via-di-Damasco”; il giovane compagno dello scrittore Julian, che non sa ancora cosa fare della propria vita; il redattore annoiato che dopo la confessione prova a sedurla... Ognuno di loro ha da dire qualcosa che merita il nostro ascolto: un’intuizione che ci fa pensare; un punto di vista inedito che suscita la risposta acuta della narratrice, o la spinge a interrogarsi, a riguardare meglio una questione irrisolta, a riflettere su uno stato d’animo, un giudizio. Ed è nella trama lenta e riflessiva del dialogo che mette a confronto diverse immagini e sentimenti del mondo che le storie generano storie e impercettibilmente aumenta la luce sulla pagina e nello spazio reale del lettore, e nulla può tornare a essere come era un minuto prima della frase che abbiamo appena finito di leggere. Come succede con Sebald, se facciamo attenzione possiamo notare il punto di congiunzione in cui pensiero e affabulazione danno vita a un genere ibrido, a un’ennesima incarnazione di quello che per semplicità possiamo continuare a chiamare romanzo: la forma inedita e seducente che talvolta assume la meditazione filosofica – altri direbbero: la verità. E ora due esemplificazioni del caratteristico, ammaliante ‘tono Cusk’. Osservando il giardino davanti alla casa, Faye, l’alter ego della scrittrice annota che la luce “dalla finestra del seminterrato cadeva sul sordido giardino conferendogli l’aspetto spettrale di una rovina o una tomba, con quel lugubre angelo nero dritto sul plinto. Sembrava così strano che quei due estremi – ripugnante e idilliaco, morte e vita – potessero coesistere a così poca distanza senza modificarsi reciprocamente”. Più avanti Faye è a cena con un uomo che dopo averla conosciuta ha pensato a lei per un anno; gli dice che è stanchissima, che ha i muratori in casa; parla dell’odio dei vicini, del male. “Negli ultimi tempi avevo riflettuto sul male, ho continuato, e cominciavo a rendermi conto che non era frutto della volontà, ma del suo opposto, la resa. Rappresentava il disimpegno, la capitolazione dell’autodisciplina di fronte al desiderio. Era, un certo senso, uno stato passionale”. La presenza del male e il mistero della sua origine e la relazione altrettanto misteriosa che la vita intrattiene con la morte, le quali sono spesso così vicine che questa vicinanza passa quasi sempre inosservata. Per questo esiste la letteratura, vuole dirci la Cusk, per notare le vicinanze, per entrare in contatto, in intimità con le cose e le persone; per insegnare ai sordi l’arte dell’ascolto e ai ciechi quella di guardare. Perché il viaggio terreno non sia un transito a occhi chiusi. |
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Gennaio 2021
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