• HOME
  • RUBRICHE
    • CHE COS’È QUESTA CRISI? >
      • LE TESSERE IDEOLOGICHE DEL DOMIN(I)O
      • SINDACATI MODERNI?
      • DOVE VA L'EUROPA? INTERVISTA A FRANCESCO SARACENO
      • NISIDA E’ UN’ISOLA, MA NON SOLO
      • EMERGENZA, PROCESSO ‘DA REMOTO’ E CONVULSIONI DEL SISTEMA PENALE
      • VIRUS DIETRO LE SBARRE
      • ITALIA VS. RESTO DEL MONDO
      • CONTRIBUTO DEMOCRAZIA E LAVORO PALERMO
      • BISOGNA CHE TUTTO CAMBI…?
      • UOMINI ADULTI E RAGAZZINI
      • NON ESISTONO PASTI GRATIS
      • COMUNICATO SUI MILITANTI CASA DEL POPOLO PALERMO
      • OLTRE IL "BREVEPERIODISMO". INTERVISTA A GUGLIELMO FORGES DAVANZATI
      • CONTE 2: IL TRIONFO DI KING KONG
      • CAROLA È ANTIGONE?
      • DALLA QUESTIONE MERIDIONALE ALL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
      • LUNGA E IMPERVIA È LA STRADA
      • CHI LAVORA E' SOTTO ATTACCO
      • SE IL FUOCO DELLA RIVOLUZIONE
      • CONGRESSI CGIL: OLTRE IL PENSIERO CONVENZIONALE
      • DOPO IL CONSENSO: L'EUROPA TERRENO DI SCONTRO FRA PARADIGMI
      • INDIETRO NON SI TORNA… PURTROPPO
      • SOVRANISMO, MALATTIA INFANTILE DELLA NUOVA SINISTRA?
      • DISAGIO SCOLASTICO
      • DISOCCUPATI D’ITALIA
      • LA CRISI DELLE BANCHE E' FINITA?
      • UN'EUROPA DA CONQUISTARE
      • ROUSSEAU, IL CONFLITTO E LA POLITICA
      • FARE LA SARTINA: UN MESTIERE PERICOLOSO
      • DOPO MACERATA
      • UNA BUONA SCUSA PER VOTARE
      • 41bis OLTRE I DOGMI
      • UN MONDO CAPOVOLTO: IN CRESCITA LE DISUGUAGLIANZE
      • PERCHÈ DOBBIAMO PRENDERE QUEI PICCIONI
      • CONTRO LE ELEZIONI
      • NON È FLESSIBILITÀ, È CONFLITTO
      • UN ESEMPIO DI BUONE PRATICHE
      • TALLONARE IL DENARO
      • 50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
      • DALLA DELEGA ALLA CONTESA
      • SCUSI, DOV’È L’USCITA?
      • IL 25 APRILE A VENIRE
      • IL FUTURO DEL PASSATO
      • ANTI EURO: LI CHIAMAVANO TRINITA'
      • COSA SUCCEDE A PALERMO?
      • HOTSPOT A PALERMO
      • DIVERSE VELOCITÀ MA NESSUNA RETROMARCIA
      • L’8 MARZO: 24 ORE DI SCIOPERO, NONUNADIMENO
      • TEMPESTA PERFETTA. LA CAMPAGNA NOI RESTIAMO PUBBLICA UN VOLUME SULLA CRISI
      • IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
      • ASPETTI POLITICI DELLA PRECARIZZAZIONE
      • ECONOMIA MALATA, TEORIA CONVALESCENTE
      • MA GLI OPERAI VOTANO?
      • SI PUO' FARE: LA VITTORIA DEL NO
      • UN NO NON BASTA
      • LE (VERE) RAGIONI DEL SI
      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
      • DALLA SCOZIA CON FURORE
      • NIENTE TAGLI, SIAMO INGLESI
      • CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
      • RIBELLE, MANCINO, ERETICO
      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
      • UNO DI NOI?
      • NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
      • SPECCHIO AMBIGUO
      • IL GESTO E IL SISTEMA
      • CONTRO LA MACCHINA DELLA NARRAZIONE
      • NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
      • E INFINE USCIMMO A RIVEDERCI FUORI FACEBOOK
      • TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
      • DIO NON RISPONDE, E NEMMENO LA STORIA CI SENTE TROPPO BENE
      • STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA
      • IN RICORDO DI SARA DI PASQUALE
      • PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
      • LIBRI DELL'ANNO 2018
      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
      • DAGHELA INDIETRO UN PASSO
      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
      • IL BUON PADRE DI FAMIGLIA
      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
      • VIOLENTI DESIDERI
      • LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
      • L'INFIDA CARTAGO E LA PERFIDA ALBIONE
      • PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA
      • PORTELLA DELLA GINESTRA TRA STORIA E MEMORIA.
      • LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI
      • PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO
      • 2001: PALERMO ANNO ZETA
      • TOGLIATTI E IL COMUNISMO DEL ’900
      • MALCOM X DALL'ISLAM ALL'ANTICAPITALISMO
      • INGRAO PRIMA DI TANGENTOPOLI
    • IL ROSSO E IL VERDE >
      • MANGIARE CARNE: A QUALE PREZZO?
      • SALVIAMO L’AMBIENTE DALL’ECOCAPITALISMO
      • L’EDUCAZIONE IN GIARDINO
      • CAMMINANDO CON TULIME
    • FEMMINILEOLTRE - IL LAVORO >
      • QUANDO IL LAVORO È VIOLENZA
    • COMINCIO DA 3 >
      • GIORGIO GATTEI: CHE COS'E' IL VALORE?
      • VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
    • IL 1917 DI JACOBIN >
      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
      • 4. DALLA STAZIONE DI FINLANDIA
      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
      • 2. LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE
      • 1. PRIMA DEL FEBBRAIO
    • BLOG
  • SEMINARI
    • 2020 >
      • RADIO COMUNITARIA 24 APRILE 2020
      • RADIO COMUNITARIA 30 MARZO 2020
    • PROGRAMMAZIONE 2017/2018 >
      • HEVALEN: INCONTRO CON DAVIDE GRASSO
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • AUTOMAZIONE E DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
      • BANCHE TRA NORMATIVA EUROPEA E DIGITALIZZAZIONE
      • SFUMATURE DI ROSSO
      • NON E' LAVORO, E' SFRUTTAMENTO
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE?
    • PROGRAMMAZIONE 2016/2017 >
      • 2017 FUGA DALL'EUROPA
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE
      • TEMPESTA PERFETTA
      • LA STRAGE RIMOSSA
      • MEZZOGIORNO GLOBALE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE >
        • MA COS'E' QUESTA GLOBALIZZAZIONE
        • MIGRAZIONE: UNA LOTTA DI CLASSE PLANETARIA?
    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
    • CICLO SEMINARI 2014/2015 >
      • Storia del valore-lavoro - prima parte
      • Storia del valore-lavoro - seconda parte
      • Il Minotauro Globale
      • Produzione di Crisi a mezzo di Crisi
      • Fenomenologia e logica del capitale
      • Oltre il capitalismo
      • L'accumulazione del capitale - prima parte
      • L'accumulazione del capitale - seconda parte
      • Lavoro salariato e capitale - Salario, prezzo e profitto
      • Economisti di classe: Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
    • ALTRI EVENTI >
      • ROSA LUXEMBURG CRISI DEL CAPITALE E POLITICHE DELLA LIBERAZIONE
      • EURO AL CAPOLINEA?
      • ROSA LUXEMBURG E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUINTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUARTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: TERZO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: PRIMO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: SECONDO INCONTRO
  • AUTORI
  • CONTATTI
PALERMOGRAD
  • HOME
  • RUBRICHE
    • CHE COS’È QUESTA CRISI? >
      • LE TESSERE IDEOLOGICHE DEL DOMIN(I)O
      • SINDACATI MODERNI?
      • DOVE VA L'EUROPA? INTERVISTA A FRANCESCO SARACENO
      • NISIDA E’ UN’ISOLA, MA NON SOLO
      • EMERGENZA, PROCESSO ‘DA REMOTO’ E CONVULSIONI DEL SISTEMA PENALE
      • VIRUS DIETRO LE SBARRE
      • ITALIA VS. RESTO DEL MONDO
      • CONTRIBUTO DEMOCRAZIA E LAVORO PALERMO
      • BISOGNA CHE TUTTO CAMBI…?
      • UOMINI ADULTI E RAGAZZINI
      • NON ESISTONO PASTI GRATIS
      • COMUNICATO SUI MILITANTI CASA DEL POPOLO PALERMO
      • OLTRE IL "BREVEPERIODISMO". INTERVISTA A GUGLIELMO FORGES DAVANZATI
      • CONTE 2: IL TRIONFO DI KING KONG
      • CAROLA È ANTIGONE?
      • DALLA QUESTIONE MERIDIONALE ALL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
      • LUNGA E IMPERVIA È LA STRADA
      • CHI LAVORA E' SOTTO ATTACCO
      • SE IL FUOCO DELLA RIVOLUZIONE
      • CONGRESSI CGIL: OLTRE IL PENSIERO CONVENZIONALE
      • DOPO IL CONSENSO: L'EUROPA TERRENO DI SCONTRO FRA PARADIGMI
      • INDIETRO NON SI TORNA… PURTROPPO
      • SOVRANISMO, MALATTIA INFANTILE DELLA NUOVA SINISTRA?
      • DISAGIO SCOLASTICO
      • DISOCCUPATI D’ITALIA
      • LA CRISI DELLE BANCHE E' FINITA?
      • UN'EUROPA DA CONQUISTARE
      • ROUSSEAU, IL CONFLITTO E LA POLITICA
      • FARE LA SARTINA: UN MESTIERE PERICOLOSO
      • DOPO MACERATA
      • UNA BUONA SCUSA PER VOTARE
      • 41bis OLTRE I DOGMI
      • UN MONDO CAPOVOLTO: IN CRESCITA LE DISUGUAGLIANZE
      • PERCHÈ DOBBIAMO PRENDERE QUEI PICCIONI
      • CONTRO LE ELEZIONI
      • NON È FLESSIBILITÀ, È CONFLITTO
      • UN ESEMPIO DI BUONE PRATICHE
      • TALLONARE IL DENARO
      • 50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
      • DALLA DELEGA ALLA CONTESA
      • SCUSI, DOV’È L’USCITA?
      • IL 25 APRILE A VENIRE
      • IL FUTURO DEL PASSATO
      • ANTI EURO: LI CHIAMAVANO TRINITA'
      • COSA SUCCEDE A PALERMO?
      • HOTSPOT A PALERMO
      • DIVERSE VELOCITÀ MA NESSUNA RETROMARCIA
      • L’8 MARZO: 24 ORE DI SCIOPERO, NONUNADIMENO
      • TEMPESTA PERFETTA. LA CAMPAGNA NOI RESTIAMO PUBBLICA UN VOLUME SULLA CRISI
      • IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
      • ASPETTI POLITICI DELLA PRECARIZZAZIONE
      • ECONOMIA MALATA, TEORIA CONVALESCENTE
      • MA GLI OPERAI VOTANO?
      • SI PUO' FARE: LA VITTORIA DEL NO
      • UN NO NON BASTA
      • LE (VERE) RAGIONI DEL SI
      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
      • DALLA SCOZIA CON FURORE
      • NIENTE TAGLI, SIAMO INGLESI
      • CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
      • RIBELLE, MANCINO, ERETICO
      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
      • UNO DI NOI?
      • NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
      • SPECCHIO AMBIGUO
      • IL GESTO E IL SISTEMA
      • CONTRO LA MACCHINA DELLA NARRAZIONE
      • NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
      • E INFINE USCIMMO A RIVEDERCI FUORI FACEBOOK
      • TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
      • DIO NON RISPONDE, E NEMMENO LA STORIA CI SENTE TROPPO BENE
      • STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA
      • IN RICORDO DI SARA DI PASQUALE
      • PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
      • LIBRI DELL'ANNO 2018
      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
      • DAGHELA INDIETRO UN PASSO
      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
      • IL BUON PADRE DI FAMIGLIA
      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
      • VIOLENTI DESIDERI
      • LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
      • L'INFIDA CARTAGO E LA PERFIDA ALBIONE
      • PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA
      • PORTELLA DELLA GINESTRA TRA STORIA E MEMORIA.
      • LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI
      • PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO
      • 2001: PALERMO ANNO ZETA
      • TOGLIATTI E IL COMUNISMO DEL ’900
      • MALCOM X DALL'ISLAM ALL'ANTICAPITALISMO
      • INGRAO PRIMA DI TANGENTOPOLI
    • IL ROSSO E IL VERDE >
      • MANGIARE CARNE: A QUALE PREZZO?
      • SALVIAMO L’AMBIENTE DALL’ECOCAPITALISMO
      • L’EDUCAZIONE IN GIARDINO
      • CAMMINANDO CON TULIME
    • FEMMINILEOLTRE - IL LAVORO >
      • QUANDO IL LAVORO È VIOLENZA
    • COMINCIO DA 3 >
      • GIORGIO GATTEI: CHE COS'E' IL VALORE?
      • VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
    • IL 1917 DI JACOBIN >
      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
      • 4. DALLA STAZIONE DI FINLANDIA
      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
      • 2. LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE
      • 1. PRIMA DEL FEBBRAIO
    • BLOG
  • SEMINARI
    • 2020 >
      • RADIO COMUNITARIA 24 APRILE 2020
      • RADIO COMUNITARIA 30 MARZO 2020
    • PROGRAMMAZIONE 2017/2018 >
      • HEVALEN: INCONTRO CON DAVIDE GRASSO
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • AUTOMAZIONE E DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
      • BANCHE TRA NORMATIVA EUROPEA E DIGITALIZZAZIONE
      • SFUMATURE DI ROSSO
      • NON E' LAVORO, E' SFRUTTAMENTO
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE?
    • PROGRAMMAZIONE 2016/2017 >
      • 2017 FUGA DALL'EUROPA
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE
      • TEMPESTA PERFETTA
      • LA STRAGE RIMOSSA
      • MEZZOGIORNO GLOBALE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE >
        • MA COS'E' QUESTA GLOBALIZZAZIONE
        • MIGRAZIONE: UNA LOTTA DI CLASSE PLANETARIA?
    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
    • CICLO SEMINARI 2014/2015 >
      • Storia del valore-lavoro - prima parte
      • Storia del valore-lavoro - seconda parte
      • Il Minotauro Globale
      • Produzione di Crisi a mezzo di Crisi
      • Fenomenologia e logica del capitale
      • Oltre il capitalismo
      • L'accumulazione del capitale - prima parte
      • L'accumulazione del capitale - seconda parte
      • Lavoro salariato e capitale - Salario, prezzo e profitto
      • Economisti di classe: Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
    • ALTRI EVENTI >
      • ROSA LUXEMBURG CRISI DEL CAPITALE E POLITICHE DELLA LIBERAZIONE
      • EURO AL CAPOLINEA?
      • ROSA LUXEMBURG E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUINTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUARTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: TERZO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: PRIMO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: SECONDO INCONTRO
  • AUTORI
  • CONTATTI
PALERMOGRAD

“MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”

29/5/2017
di Alessandro Locatelli

​Sei uno scrittore molto bravo. 

Uno scrittore molto bravo che ha pubblicato pochi libri. Una raccolta di poesie, il diario di un anno scolastico all’interno di un istituto carcerario, e soprattutto un romanzo, ormai quasi vent’anni fa, letto e ammirato da molti. S’era fantasticato di farne un film, e tu saresti stato felice se, in caso, nel ruolo della vecchia, inquietante signora rintanata nella sua casa di via Houel fosse stata scritturata la grande Monica Vitti. Quel romanzo, leggerissimamente ritoccato, è stato ripubblicato l’anno scorso, ed è stato nuovamente apprezzato, magari da lettori che vent’anni fa erano troppo giovani per potercisi imbattere.
Ma in questi anni mica sei stato con le mani in mano. A parte il fatto che qualche amico ipotizza che tu abbia riempito i cassetti di inediti, hai scritto numerosi racconti. Quasi tutti pubblicati in volumi antologici, qualcuno perfino su riviste e quotidiani.
Li rileggi, e tutto sommato sei contento. 
Belli, sì. Però...
Però, porca miseria, si sa come vanno queste cose: talvolta hai dovuto rispettare tempi di consegna piuttosto risicati, talaltra avevi a disposizione un tot numero di battute, di cartelle da non sforare, e dunque hai dovuto comprimere una storia che avrebbe palesemente meritato un respiro più ampio.
[A me capita con le recensioni, anche se magari ho un po’ di tempo a disposizione, prima di dover consegnare il pezzo. Naturalmente mi riduco quasi all’ultimo momento, il libro da recensire lo leggo, non una ma almeno due volte, in preda a nervosismo e curiosi capogiri].
Decidi di metterti al lavoro. Quelle storie spiazzanti [1], spesso pervase da un sottile filo di ironia, che raccontano d’amore, della spesso faticosa scoperta di sé stessi, di questa stramba città di Palermo dove da sempre vivi, queste storie in cui transita perfino qualche personaggio fantasmatico (un lettore ti ha detto ridendo che il racconto-dialogo Meglio comandare che fottere meriterebbe come sottotitolo “La silenziosa Mariella”), meritano nuove cure, nuova attenzione. D’altra parte non è divertente, non è perfino entusiasmante rileggere e soprattutto ritoccare, riscrivere, i propri vecchi racconti, e poterci lavorare finalmente in assoluta libertà?
Mentre ci lavori, ti rendi conto che ne verrà fuori davvero un bel libro, il timore che risultasse semplicemente un’accozzaglia di racconti privi di filo conduttore ti ha abbandonato dopo i primi giorni, e dunque ritocchi e riscrivi di buona lena, e intanto sorridi pensando a qualche lettore che s’interrogherà sull’esistenza della silenziosa Mariella, e sull’effetto che faranno le gocce di medicinale sulla vecchia Rosetta, ti viene da ridere pensando che di sicuro qualche altro lettore giudicherà Dove tu non sei come uno tra i racconti più inquietanti che abbia mai letto...
E insomma la grande notizia è che sei tornato. Smentirai le previsioni di qualche critico che ormai s’era convinto di non rivederti più in libreria. Aggiungerai, sullo scaffale, Quando mi apparve amore a Qui nessuno dice niente, alle due edizioni della celebre Stanza dei lumini rossi, al volumetto di poesie Per raggiungerti in strada...
Sei tornato, finalmente. Ne sei felice, e hai voglia di continuare a scrivere.
Regalerai ancora tante belle sorprese.


1. Domenico Conoscenti, Quando mi apparve amore, Mesogea, 184pp., 13,50 euro.
0 Commenti

COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE… George Souvlis intervista Alexander Anievas - SECONDA PARTE

25/5/2017
George: Nel tuo studio Capital, the State, and War si concettualizza l’epoca tra le due guerre come l’epoca di una crisi multidimensionale. Vorresti dirci qualcosa di più su questo tema?

Alexander: Quello che intendevo dire, definendo tutta l’epoca delle due guerre mondiali come quella di una ‘crisi multidimensionale’ era che le caratteristiche fondamentali della politica internazionale dell’epoca, vista nella sua totalità, erano costituite da tre assi conflittuali, distinti ma che si intersecano: (1) un asse ‘verticale’ rappresentato dai conflitti di classe tra capitale e lavoro; (2) un asse ‘orizzontale’ che cattura i rapporti di competizione e rivalità tra i ‘molti capitali’; e, (3) un asse ‘laterale’ costituito dalle rivalità geopolitiche e militari tra Stati all’interno del Nord Globale e dalle varie relazioni di dominazione e di sfruttamento del Nord Globale sul Sud Globale. Da questo punto di vista, il libro ha lo scopo di offrire una reinterpretazione storica e sociologica delle origini, della natura e della dinamica dell’epoca delle due guerre mondiali nei termini del concetto gramsciano di “crisi organica”: vale a dire, la combinazione di una crisi strutturale e congiunturale dell’egemonia capitalista che, contemporaneamente, assume forme socio-economiche (‘materiali’) e ideologico-politiche (‘ideative’), articolate lungo linee nazionali, internazionali e transnazionali – queste ultime vissute durante gli anni tra le due guerre sotto forma di una ‘guerra di classe’ condotta sia dall’alto che dal basso e che attraversa gli stati nazionali che compongono il sistema internazionale. Come ho sostenuto nel libro, questa guerra fredda avanti lettera, propria del periodo tra le due guerre, ha posto in sostanza le condizioni geopolitiche e ideologiche che conducono direttamente alla seconda guerra mondiale.

G: La categoria analitica marxiana di “Rivoluzione Borghese” è tornata di moda alla luce di nuovi studi come quello di Neil Davidson, How Revolutionary Were the Bourgeois Revolutions? Questo concetto ha ancora qualcosa da offrire agli storici? Quali sono i suoi principali limiti e in quale modo possiamo spingere la ricerca storica a compiere passi ulteriori?

A: Sì, io credo che la categoria della “Rivoluzione Borghese” sia ancora un concetto importante per comprendere la nascita e il consolidamento degli stati capitalisti. E, naturalmente, il lavoro di Neil Davidson è stato fondamentale per il recupero di questo concetto in ambito marxista, contro l’attacco sferrato dal revisionismo storiografico negli ultimi decenni. 

Come il concetto ‘consequenzialista’ delle rivoluzioni borghesi adoperato da Davidson dimostra, una volta che si riorienta l’analisi storica staccandola dalle intenzioni particolari o dalla composizione specifica degli agenti rivoluzionari coinvolti, e spostandola invece sugli effetti di tali rivoluzioni rispetto al sorgere e consolidarsi di veri e propri stati capitalisti (concepiti come siti più o meno sovrani di accumulazione del capitale), allora il concetto risulta davvero inestimabile. Questo, poi, sposta il peso definitorio del concetto di Rivoluzione Borghese dalla classe che fa la rivoluzione agli effetti che una rivoluzione ha nel promuovere e/o consolidare una forma capitalistica di Stato che a sua volta andrà a beneficio della classe capitalista, indipendentemente dal ruolo che quest’ultima possa svolgere entro tale rivoluzione.

Il limite principale di Davidson e di altre interpretazioni ‘consequenzialiste’ del concetto, però, è stata la loro tendenza a enfatizzare eccessivamente – nell’esame delle disparate tipologie di rivoluzione nel periodo moderno – la loro ‘identità di sviluppo’ a scapito della ‘differenza di sviluppo’. In altre parole, nel concettualizzare adesso le rivoluzioni rispetto ai loro effetti socio-politici, si è caduti in una problematica omogeneizzazione di quasi tutte le rivoluzioni dell’epoca moderna, viste come essenzialmente capitaliste, dacché tali rivoluzioni incorporano, entro le strutture sociali cui mettono capo, determinati elementi del capitalismo. Da questo punto di vista, gli esiti evolutivi molto diversi delle rivoluzioni – per fare qualche esempio – in Vietnam del Nord (1945), Cina (1949), e Cuba (1959), sono tutti concepiti come varianti più o meno simili di “capitalismo di stato burocratico”, prodotto delle “rivoluzioni permanenti deviate”[1]: la “versione moderna o equivalente funzionale” delle rivoluzioni borghesi, come Davidson ha sostenuto. Sebbene io ritenga corretto sostenere che tali regimi nel corso del tempo abbiano sempre più assimilato caratteristiche significative del capitalismo, concepire invece dette rivoluzioni semplicemente come ‘borghesi’ mi pare un voler sforzare oltremodo il concetto [cliffiano], fino a renderlo inservibile.

G: Gli USA sono ancora l’indiscusso potere egemone globale o, come molti commentatori suggeriscono, sono entrati in un processo di declino? Vedi qualche altra superpotenza in grado di contrastare seriamente l’egemonia americana? Ha senso parlare di ‘imperialismo americano’? In che misura esso si differenzia oggi dalle sue precedenti forme? La governance di Obama rappresenta a riguardo un’eccezione rispetto ai governi precedenti, o ne è la semplice ripetizione?

A: Credo che abbiamo certamente visto i segni del relativo declino del potere USA, nel corso degli ultimi due decenni. Per me, i due eventi simbolo, in questo senso, sono stati l’incapacità o la mancanza di volontà di proiettare la potenza militare americana all’estero durante il conflitto tra la Russia e la Georgia nell’estate del 2008 e, in economia, la Grande Recessione del 2007-2009, dalla quale gli Stati Uniti (e il mondo) non sono ancora usciti davvero. E certamente l’incapacità delle classi dirigenti dello stato di proiettare in maniera adeguata la potenza militare americana in tutto il mondo ha molto a che vedere con le conseguenze geopolitiche ed economiche a lungo termine delle guerre fallimentari in Afghanistan e Iraq. Quindi, sì, il potere e l’egemonia degli Stati Uniti nel corso degli ultimi due decenni hanno conosciuto un relativo declino, ma che tale traiettoria prosegua è questione molto più aperta. Potremmo in effetti trovarci in un momento di transizione da un ordine geopolitico egemonico a uno non egemonico. Tuttavia, a differenza di altri commentatori, al momento (o nel medio termine) non vedo nessun altro stato in possesso della forza militare, economica e ideologica – tutt’e tre necessarie per la ricostituzione di un nuova potenza egemone a livello internazionale – che potrebbe permettergli di sfidare gli Stati Uniti a livello di potenza mondiale dominante. Uno scenario plausibile che potrebbe emergere è quello di un ordine geopolitico più decentrato, costituito da varie ‘grandi potenze’ regionali o forse anche egemoni in differenti parti del mondo. All’interno di un tale ordine potenziale, attori del calibro di Cina, India, Russia e, forse, Brasile e Iran potrebbero svolgere un ruolo, come probabilmente continueranno a svolgerlo gli Stati Uniti, anche se in una forma più zoppicante, nei confronti dell’Europa. Ma è anche plausibile che venga fuori uno scenario molto diverso, più simile a quello seguito alla guerra del Vietnam, dove il potere degli Stati Uniti ha attraversato un periodo di relativo declino, dopo il quale si è più o meno riconsolidato nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Credo che lo scenario di un ordine geopolitico più decentrato sia leggermente più probabile, anche se ho seri dubbi sul fatto che attori del calibro di Cina e India possano essere in grado di sostenere qualcosa che si approssimi ai tassi di crescita che abbiamo visto negli ultimi 20 anni: anzi, nel caso della Cina, essa sembra già non più in grado di farlo.

In merito alla questione se abbia senso parlare di imperialismo per gli Stati Uniti, la risposta è un enfatico ‘sì’. Con il pretesto dell’‘Intervento Umanitario’ o con quello della ‘Guerra Globale al Terrore’, l’impostazione predefinita della politica estera USA è l’interventismo militare ed economico in tutto il mondo. A livello più generale, l’obiettivo principale della strategia di politica estera degli Stati Uniti più o meno dall’inizio del 20° secolo è stato quello di facilitare l’accumulazione incessante del capitale, sostenuta attraverso un sistema economico mondiale ‘aperto’, in continua espansione. Questo è ciò che il famoso storico americano William Appleman Williams ha definito il sistema “Open Door”. E, contrariamente a quanto dicono i suoi critici ‘realisti’ e i suoi sostenitori liberal, questa grande strategia dell’imperialismo statunitense ha sempre comportato un mix a volte problematico ma sempre ‘persuasivo’ di tattiche unilaterali e multilaterali, a prescindere dalla struttura ideologica o dalla appartenenza di partito delle singole amministrazioni. In breve: ‘multilateralismo se possibile, unilateralismo se necessario’.

Niente di tutto questo è cambiato con l’amministrazione Obama. Le continuità della grande strategia americana sotto Obama rispetto alle passate amministrazioni superano di gran lunga le eventuali differenze. Mentre, per esempio, si possono additare alcune piccole differenze nelle tattiche di politica estera tra le tre amministrazioni degli Stati Uniti del dopo-Guerra Fredda, in effetti colpisce la forte continuità di obiettivi strategici (per uno studio recente molto buono su questo tema, si veda American Grand Strategy and Elite Corporate Networks di Bastiaan Van Apeldoorn e Nana de Graaff ). E anche queste differenze tattiche vengono spesso esagerate.

Sotto l’amministrazione Obama, la ‘guerra al terrore’ del duo Bush/Cheney non solo è continuata, ma si è ampliata, mentre gli argomenti giuridici spuri fatti propri dai predecessori di Obama per legittimare la ‘guerra al terrorismo’ (e, in particolare, la guerra in Iraq) sono stati adottati su larga scala dall’amministrazione Obama e, in certi casi, ulteriormente codificati nel diritto internazionale. Allo stesso modo, Obama ha utilizzato un mix variabile di tattiche unilaterali e multilaterali (come s’è visto durante l’intervento in Libia), con le prime che sono diventate ancora più importanti durante il suo secondo mandato (per una precedente analisi di alcuni di questi sviluppi, vedi Alexander Anievas, Adam Fabry e Robert Knox, Back to Normality? US Foreign Policy under Obama, 2012). Così, mentre Obama può anche essere riuscito a cambiare momentaneamente la “musica d’atmosfera diplomatica” (secondo la felice espressione di Tariq Ali) rispetto alle scomode verità relative allo sfrenato imperialismo degli Stati Uniti pronunciate dagli spavaldi cowboys dell’amministrazione Bush, egli ha fatto molto poco – se ha poi fatto alcunché – per modificare il carattere o gli obiettivi fondamentali della politica estera USA.

G: Vedi qualche barlume di speranza nella candidatura di Bernie Sanders, ai fini di una rinascita della sinistra americana?

A: Sì, forse…ma in realtà dipende da ciò che accadrà al movimento che si era coalizzato attorno alla candidatura per la presidenza di Sanders. Credo che il vero significato a lungo termine della campagna Sanders per il potenziale di rinnovamento della sinistra negli Stati Uniti non sia necessariamente legato alle elezioni; sebbene, chiaramente, ciò possa anche essere importante in sé e per sé. Bisognerà vedere, piuttosto, se la sua campagna potrà agire come un ulteriore catalizzatore per l’espansione più ampia dell’organizzazione di base, dal basso, che ha giocato un ruolo tanto importante nella sua campagna; e, inoltre, se ciò avverrà in modo più autosufficiente rispetto a tanti movimenti di sinistra del passato e – cosa ancora più importante – muovendosi al di là della politica elettoralistica. Voglio dire che qualsiasi sobria analisi critica delle posizioni politiche effettive di Sanders mostra chiaramente che egli è in realtà soltanto un democratico del New Deal, vecchia scuola. In effetti, nel contesto politico degli anni Cinquanta e Sessanta sarebbe stato considerato un democratico moderato. Ma in seguito al rimodellamento del Partito Democratico intrapreso dai Nuovi Democratici Clintoniani degli anni Novanta, egli è visto ora come un radicale: cosa che lui – a differenza di molti altri dell’ala ‘progressista’ del Partito Democratico – tutto sommato accoglie con favore, descrivendosi come un ‘socialista democratico’ (vale a dire un socialdemocratico stile scandinavo).

Così, mentre le sue posizioni politiche sono sicuramente migliori e più a sinistra di una Hilary Clinton o della maggior parte dei Nuovi Democratici di centro-destra, la vera speranza rispetto al progetto di rivitalizzare la sinistra americana – e, in particolare una politica comunista con la ‘c’ minuscola[2], o socialista – sono i possibili effetti a lungo termine che potrebbe avere in termini di  ampliamento e di consolidamento di una politica di base, dal basso, che operi dentro e fuori l’attività elettorale spostando al contempo il dibattito politico il più possibile a sinistra. Penso che la campagna Sanders abbia più o meno raggiunto il secondo effetto; resta da vedere se sarà possibile  raggiungere il primo. Un segno promettente potrebbe essere che Sanders abbia sostenuto la necessità di continuare a costruire un movimento popolare dal basso con l’obiettivo di fare pressione su chiunque possa essere il prossimo presidente [l’intervista si è svolta prima delle elezioni dello scorso novembre, NdR]. Penso si tratti di un fatto importante, che distingue la campagna di Sanders dalle precedenti campagne presidenziali di populisti di sinistra come Howard Dean nel 2004 o Dennis Kucinich nel 2004 e nel 2008. Ma se invece Sanders si guarda intorno e dice: “Ehi, è stato bellissimo, ma ho perso, perciò adesso tutti a fare campagna elettorale per la Clinton”, punto e basta, probabilmente si spreca una grande opportunità per la ricostruzione della sinistra degli Stati Uniti.

[traduzione di Giovanni Di Benedetto]

l’intervista originale è apparsa su “Counterpunch”: www.counterpunch.org/2016/05/27/how-the-west-came-to-rule-an-interview-with-alexander-anievas/

1. Quello di ‘Rivoluzione Permanente Deviata’ è uno dei concetti attraverso i quali il marxista ebreo palestinese Tony Cliff (1917-2000) prese congedo dal pensiero troskista. Secondo Cliff, lì dove il proletariato non è in grado di prendere il potere, una parte radicalizzata dell’intellighenzia può essere in grado di condurre vittoriosamente una Rivoluzione Borghese. In tali circostanze, l’eventuale utilizzo del pensiero marxista da parte della nuova leadership nazionale sarà di tipo prettamente ideologico, volto a legittimare la realtà del capitalismo di stato [NdR].
2. Nel discorso politico anglo-americano, per “Comunismo con la ‘C’ maiuscola” si intende spesso lo ‘stalinismo’, nonché le forme successive di ‘carrismo’ o ‘kabulismo’ [NdR].

0 Commenti

TALLONARE IL DENARO - A 25 anni dalla strage di Capaci

23/5/2017
di Umberto Santino

​Nel pomeriggio del 21 febbraio del 1992 Giovanni Falcone è a Palermo, nell’aula magna di Giurisprudenza, e partecipa alla presentazione di un volume in cui viene pubblicata una ricerca sui processi per omicidio. Non nasconde la soddisfazione: proprio in quei giorni la Cassazione ha confermato le condanne del maxiprocesso. Più che l’avallo del “teorema Buscetta” è il riconoscimento della validità dell’impostazione che ha dato  il pool antimafia, con il contributo decisivo di Falcone: la mafia come organizzazione piramidale, verticistica, con le famiglie alla base, i mandamenti, le commissioni provinciali, la cupola e il capo dei capi e la responsabilità collegiale nei maggiori delitti. Una sorta di repubblica confederale che nel frattempo, con il trionfo dei corleonesi nella guerra di mafia dei primi ani ’80, si era trasformata in monarchia assoluta, una dittatura della forza, un totalitarismo della violenza. Ed è proprio da quel surplus di violenza, e soprattutto di quella rivolta verso l’alto, che era nata la legge antimafia del 1982, dieci giorni dopo l’assassinio del prefetto Dalla Chiesa, della moglie Setti Carraro e dell’agente Russo. Non erano bastati l’assassinio di Mattarella e di La Torre, per avere la reazione dello Stato bisognava colpire il prefetto inviato in Sicilia senza poteri e senza  forze adeguate. E la legge antimafia, che sancisce che la mafia è un reato di per sé, ha consentito l’avvio dell’iter che ha portato al processo più rilevante nella storia della mafia e dell’antimafia istituzionale.


Ci si chiede oggi, a 30 anni dal maxiprocesso di primo grado e a venticinque dalle stragi del ’92, che ne è della mafia? È ancora quella fotografata da quel processo o è mutata? Com’è noto, la dittatura dei corleonesi è stata smantellata, per l’effetto boomerang dell’escalation della violenza, con le condanne di capi e gregari che si sono succedute in questi decenni; Provenzano ha dovuto usare il freno nel ricorso agli omicidi e alle stragi e ricucire i rapporti; l’organizzazione ha dei vuoti nelle strutture di base e in quelle di comando. Si parla di mandamenti accorpati, di reggenze affidate alle nuove leve, ma pure di boss che sono usciti dal carcere o si preparano a farlo e vogliono tornare a occupare le postazioni che hanno dovuto lasciare, con le prevedibili frizioni che potrebbero dar vita a nuovi atti di violenza interna.

Sul piano del sistema di rapporti si registrano scollamenti e prese di distanza, con imprenditori che si ribellano al pizzo, ma ci sono professionisti, amministratori, rappresentanti della politica e delle istituzioni che continuano a fare da consoci e condividono strade nuove, o vecchie ammodernate: appalti,  supermercati, agroalimentare, energie rinnovabili, centri di accoglienza dei migranti, rifiuti, per  riannodare la catena degli affari e dei profitti. E la corruzione, sempre più diffusa, è il terreno su cui intrecciare o rafforzare alleanze e complicità. Attorno al boss latitante Matteo Messina Denaro si è fatta terra bruciata, ma godrebbe ancora di complicità e coperture. L’arcaica mafia dei pascoli si è riciclata come accaparratrice dei fondi europei. Sul piano dei grandi traffici, come quello di droghe, sono comparsi nuovi soggetti, meno esposti e meglio posizionati, con maggiori agganci nei circuiti internazionali. E proprio a Palermo, dove si è esercitata una signoria territoriale pressoché assoluta, si sono insediati gruppi etnici, tra cui i nigeriani, con cui bisogna relazionarsi. Inchieste recenti parlano di collaborazioni con i nuovi arrivati per il traffico di droga e di possibilità che si aprirebbero nel traffico di esseri umani.

È del 1986 un mio saggio sulla mafia finanziaria, che sottolineava come le classificazioni e le periodizzazioni debbano tener conto che i mutamenti vanno a braccetto con la continuità e le nuove attività si innestano sullo zoccolo duro del dominio territoriale, di cui l’estorsione, come la fiscalità statale, è emblema del riconoscimento di una sovranità che va dalle attività economiche ai rapporti interpersonali. E sarei dell’avviso che, invece di marcare differenziazioni epocali, il paradigma che coniuga continuità e innovazione sia ancor’oggi valido. 
​
Di fronte al prevalere di dimensioni finanziarie e “mercatiste” si pone il problema di un aggiornamento  dell’apparato legislativo? Penso di sì, se si tiene conto che la legge del 1982 era ancorata alla “mafia imprenditrice”, che una teorizzazione discutibile collocava negli anni ’70, mentre a quel tempo si era già sviluppata l’accumulazione legata ai traffici internazionali, di cui solo una parte imboccava la strada dell’investimento imprenditoriale, spesso con funzione di riciclaggio. Basterà il nuovo codice antimafia in discussione? Occorrerebbe una legislazione globalizzata, che vada oltre le frontiere nazionali e le mafie locali. Ci si era messi su questa strada con la convenzione sul crimine transnazionale del 2000, ma bisognerebbe fare un bilancio di cosa si è fatto e di cosa è rimasto sulla carta. In ogni caso continua ad essere attuale l’indicazione di Falcone: tallonare il denaro.
0 Commenti

DALLA STAZIONE DI FINLANDIA

22/5/2017
di Yurii Colombo

​Quando Vladimir Lenin, nell’aprile di cento
 anni fa, raggiunge Pietrogrado sul famoso “treno piombato” passando attraverso la Germania, la situazione sia interna che al fronte sembrava stabilizzata.
La tregua temporanea tra il nuovo governo provvisorio e le masse ribelli, tuttavia, evitava di affrontare la questione principale che aveva dato il via alla Rivoluzione di Febbraio: la guerra. Quando furono resi pubblici gli aggressivi obiettivi militari del Governo Provvisorio, le manifestazioni dei “giorni di aprile” dimostrarono che la Rivoluzione era ancora viva.

Dopo febbraio, lo zar Nicola II era stato arrestato ed era stato costituito un Governo Provvisorio. A capo del governo era stato posto il principe Georgy Lvov, figura decorativa che rappresentava l’ultimo legame con il vecchio regime; tuttavia il gabinetto era dominato da liberali spaventati dalla stessa rivoluzione che li aveva fatti ascendere al potere.
Al ministero degli Esteri venne nominato Pavel Milyukov, storico leader del Partito dei Cadetti, mentre al ministero della guerra fu posto Aleksander Guchkov, presidente degli Ottobristi della Duma. Il Ministero della Giustizia fu assunto invece dal socialrivoluzionario Alexander Kerensky, unico socialista nel governo.
L’obbiettivo fondamentale del nuovo governo era quello di garantire ai capitalisti russi e all’Intesa che la guerra continuasse. Come Milyukov confidò a un giornalista francese, “la rivoluzione russa è stata fatta per rimuovere gli ostacoli alla vittoria della Russia in guerra”.

La lotta rivoluzionaria di febbraio aveva fatto sorgere, come nella rivoluzione del 1905, consigli dei lavoratori eletti democraticamente, chiamati Soviet; solo che ora questi includevano anche i soldati, inizialmente soltanto a Pietrogrado, e in seguito anche in tutte le province dell’Impero.
Il 1° marzo il Soviet di Pietrogrado pubblicò l’Ordine n.1 in cui si dichiarava che: “gli ordini della commissione militare della Duma di Stato dovranno essere eseguiti solo nei casi in cui non contraddicano gli ordini e le decisioni dei Deputati dei Soviet degli operai e dei soldati”.
La rivoluzione inoltre aveva dato impulso a nuove libertà senza precedenti e messo fine alle continue persecuzioni della polizia. Quando il giornalista britannico Morgan Philips Price arrivò in treno a Mosca il 6 aprile, osservò:

Camminando per le strade notai subito i cambiamenti intercorsi rispetto alla volta precedente. Non c’era in giro un solo poliziotto o gendarme. Erano stati tutti arrestati e mandati al fronte in piccoli distaccamenti. Mosca era senza polizia e sembrava potesse essere felice anche senza di essa.

Il Soviet di Pietrogrado era dominato dalle forze socialiste, in particolare dai menscevichi. I menscevichi sostenevano che il governo sarebbe dovuto rimanere saldamente nelle mani della borghesia mentre le classi lavoratrici avrebbero dovuto svolgere semplicemente una funzione di contrappeso e di pressione sul governo provvisorio.
Secondo i menscevichi la Russia non era pronta per una rivoluzione socialista. Si venne a produrre così rapidamente una situazione di “doppio potere”: da una parte il governo provvisorio che rappresentava gli interessi dei capitalisti e dei latifondisti, dall’altra il potere reale restava nelle mani dei Soviet e delle classi lavoratrici.

Il 23 marzo gli Stati Uniti entrarono in guerra. Quello stesso giorno Pietrogrado seppelliva i caduti della rivoluzione di febbraio. Ottocentomila persone si incolonnarono verso il Campo di Marte e fu la mobilitazione più grande di quell’anno.
I funerali divennero un inno alla solidarietà internazionale e un grido di pace. Nella sua classica Storia della Rivoluzione Russa, Lev Trotsky scrisse che “le manifestazioni in comune dei soldati russi e dei prigionieri austriaci e tedeschi erano un fatto clamoroso, che alimentava innumerevoli speranze e consentiva di pensare che, nonostante tutto, la rivoluzione recava in sé la certezza di un mondo migliore.”

Tsereteli e i leader menscevichi del Soviet garantivano il sostegno esterno al governo provvisorio e credevano che la guerra dovesse continuare, seppure in chiave “difensiva e senza annessioni”. Questa posizione intermedia tentava di porsi a cavallo tra il mandato del governo a continuare la guerra come se nulla fosse successo e le aspettative degli operai e dei soldati per una pace separata. 
Il 14 marzo il Soviet di Pietrogrado pubblicò un manifesto politico che invitava “i popoli europei a parlare e ad agire congiuntamente e decisamente al fine promuovere la pace”. Ma l’appello ai lavoratori tedeschi e austriaci, in cui si affermava che “la Russia democratica non può minacciare la libertà e la civiltà”, e “difenderemo con fermezza la nostra  libertà contro qualsiasi tipo di incursione reazionaria”, fu inteso da molti come pro-bellico. 
Come sostenne Trotsky, “Milyukov era mille volte nel giusto nell’affermare che ‘l’appello, nonostante incominci su toni tipicamente pacifisti, sviluppa, in fondo, una ideologia che abbiamo in comune con tutti i nostri alleati’”.

Prima della Rivoluzione di Febbraio, la guerra era in uno stato di stallo, i soldati si rifiutavano di combattere, a centinaia di migliaia disertavano e fraternizzavano con i soldati tedeschi.
I primi fenomeni di fraternizzazione tra i soldati russi e quelli tedeschi nelle trincee risalivano addirittura al Natale 1914, con balli e scambio di cognac e sigarette e andarono aumentando per tutti i due anni successivi ma senza produrre una aperta ribellione contro gli ufficiali. La massiccia diserzione restò su un terreno “pre-politico”. 
Lo storico Marc Ferro, in un suo saggio sui movimenti antimilitaristi durante la Prima Guerra mondiale, cita una lettera di un soldato russo scritta a sua moglie in cui si parla degli ufficiali:

E la guerra? Loro [gli ufficiali] siedono lì mentre noi siamo nel letamaio, ricevono 500 o 600 rubli contro i nostri 75. Sono ossessionati dall’ingiustizia. E anche se sono i soldati che devono sopportare la parte più dolorosa della guerra, per loro è diverso: sono ricoperti di medaglie, di croci, di ricompense; ma se ne stanno molto lontani dal campo di battaglia.

All’inizio i generali tentarono di impedire la diffusione tra le truppe delle notizie sulla ribellione a Pietrogrado, con il solo risultato che furono i soldati tedeschi a informare le truppe russe della rivoluzione di febbraio, erodendo ulteriormente la fiducia dei soldati nei loro ufficiali. Paradossalmente, invece, la rivoluzione determinò il declino delle diserzioni. I soldati si attendevano una fine imminente della guerra e non volevano minare la fiducia del nuovo governo nel negoziare la pace.
I rapporti dal fronte mostravano che la posizione dei soldati era quella di “tenere il fronte, ma non unirsi all’offensiva”. Con il passare delle settimane il comandante della Quinta Armata riportava che “lo spirito guerriero è declinato... l’interesse per la politica che si è diffuso in tutti gli strati dell’esercito fa sì che l’intera massa dei soldati desiderino una cosa sola: farla finita con la guerra e tornare a casa.” Durante la prima settimana di aprile, ottomila soldati disertarono i fronti del nord e quelli occidentali.

Il ritorno di Lenin e la pubblicazione delle sue ‘Tesi di Aprile’ produssero un mutamento fondamentale nella politica bolscevica. Il leader bolscevico dichiarò fermamente che non ci sarebbe stato “nessun sostegno” al governo provvisorio borghese e imperialista.
Sotto la direzione di Stalin e Kamenev i bolscevichi avevano assunto posizioni moderate e anche dopo la pubblicazione delle ‘Tesi di Aprile’ continuavano a sostenere la posizione della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini” e della rivoluzione borghese sviluppate da Lenin nel 1905.

In un articolo pubblicato sulla Pravda, il giornale di partito, Kamenev sostenne che le “Tesi di Aprile” rappresentano la “opinione personale” di Lenin e che “il sistema generale di Lenin ci appare inaccettabile poiché muove dall’ipotesi che la rivoluzione borghese sia finita e aspira alla trasformazione immediata di questa rivoluzione in una rivoluzione socialista.”
Nella conferenza bolscevica del marzo 1917, Stalin perorò ancora l’ipotesi di una unificazione con i menscevichi internazionalisti, “sulle linee delle conferenze di Zimmerwald-Kiental.” Lenin in realtà era stato scettico sin dal 1915 nei confronti della terminologia antimilitarista della maggioranza di Zimmerwald, che aveva, secondo lui, aperto la strada al sostegno alla guerra, una fraseologia che aveva definito coloritamente “merda kautskiana”. 
Quando Lenin rientrò in Russia, sostenne la necessità per la sinistra di Zimmerwald di rompere completamente con la maggioranza, compresi quei menscevichi con cui Stalin e altri bolscevichi volevano unificarsi. 
L’instancabile Lenin conquistò il partito alle sue posizioni. I bolscevichi potevano contare in quel momento su 79.000 membri di cui 15.000 a Pietrogrado. Si trattava ancora di una piccola forza minoritaria, ma specialmente a Pietrogrado erano forti abbastanza per giocare un ruolo negli avvenimenti. 
Né il governo né i dirigenti menscevichi volevano una nuova crisi politica come quella che emerse nella seconda metà di aprile. Milyukov e i capitalisti russi intendevano rassicurare gli alleati sul ruolo della Russia nel conflitto e aspiravano alla conquista dei Dardanelli.  

Tuttavia Milyukov aveva chiaro che senza un qualche accordo con i soviet, difficilmente le truppe avrebbero accettato di combattere per i piani del governo. 
D’altro canto Tsereteli insisteva sulla necessità che il governo proclamasse il ruolo esclusivamente difensivo del coinvolgimento russo. Le resistenze di Milyukov e Guchkov vennero superate e il 27 marzo il governo dichiarò solennemente: 

Il popolo russo non intende rafforzarsi a spese di altri popoli e non si pone l’obbiettivo di schiavizzare e umiliare nessuno. Ma la Russia non permetterà che la Patria esca dalla guerra umiliata e minata nelle sue risorse vitali.

La dichiarazione difensivista del 27 marzo non fu bene accolta dagli alleati, che vedevano in essa un cedimento ai soviet. L’ambasciatore francese Maurice Paléologue si lamentò della “timidezza e indefinitezza” della dichiarazione. Ma l’azzardo di Milyukov di usare la guerra contro la rivoluzione doveva tener conto dei rapporti di forza tra il governo provvisorio e i soviet. Egli intendeva, passo dopo passo, accrescere quella del governo a spese dei Soviet. 

Pochi giorni dopo venne organizzato un nuovo incontro tra i rappresentanti del governo e quelli dei soviet. La Russia aveva bisogno disperatamente di prestiti dagli alleati per continuare la guerra e un nuovo memorandum del governo avrebbe potuto essere un buon viatico. 
Il 18 aprile, Milyukov spedì una nuova nota ai governi alleati in cui sottolineava la volontà di “continuare la guerra in pieno accordo con gli alleati e osservare tutti gli obblighi verso di loro.”
Nel memorandum si affermava anche che la rivoluzione aveva semplicemente rafforzato la volontà popolare di condurre la guerra fino alla vittoria. In una sessione speciale del Comitato Esecutivo del Soviet nella notte del 19 marzo, venne discusse la nota. “All’unanimità e senza dibattito venne riconosciuto che non era ciò che il Comitato si attendeva” dichiarò il membro del comitato Vladimir Stankevich.
La Rabochaya Gazeta, un giornale menscevico, aggiunse che la nota di Milyukov era una “presa in giro per la democrazia”. Comunque, l’autorevole giornale della intellighenzia liberale, Novoe Vremya, tentò lo stesso di difendere la nota affermando che non era possibile stracciare i trattati esistenti. 
Se la Russia non rispetta gli accordi “i nostri alleati avranno libertà di azione: se non ci sono trattati, nessuno è obbligato ad osservarli... Noi pensiamo che con la sola eccezione dei bolscevichi, tutti i cittadini russi considerano le tesi essenziali della nota di ieri corrette.”

La nota produsse a un’esplosione spontanea di indignazione popolare. La Rabochaya Gazeta scrisse:

Pietrogrado reagisce con sensibilità e nervosismo. Dovunque, nei crocchi di strada, sui tram si discute appassionatamente e animatamente della guerra. Nei quartieri operai e nelle caserme, l'atteggiamento verso la nota diventa opposizione contro le politiche di annessione. 

Sukhanov, un menscevico internazionalista [1] e forse il miglior cronista della Rivoluzione Russa, ricorda vividamente: 

Un’immensa folla di operai, alcuni dei quali armati, da Vyborg si dirigeva verso la Nevsky. C’erano molti soldati con loro. I manifestanti marciavano gridando slogan: “Via il governo provvisorio!” “via Milyukov!” Una terribile eccitazione regnava in generale nei quartieri operai, nelle fabbriche e nelle caserme. Molte fabbriche erano in sciopero, assemblee locali si tenevano un po’ dappertutto. 

Nella notte del 20 aprile i leader menscevichi chiesero al governo di inviare una nuova nota che correggesse quella di Milyukov in senso pacifista, ma alla fine accettarono la posizione socialrivoluzionaria di Kerensky secondo cui era sufficiente aggiungere “una spiegazione” della nota. 
Malgrado ciò il 21 aprile ci fu una nuova ondata di manifestazioni, questa volta organizzate e dirette dai bolscevichi. Era la prima volta che il partito di Lenin si poneva alla testa e non alla coda del movimento. Allo stesso tempo, sulla Nevsky Prospekt, organizzati dal Partito Cadetto, si concentravano sostenitori armati del governo. Secondo l’edizione del 22 aprile della Rabochaya Pravda:

Ieri nelle strade di Pietrogrado l’atmosfera era ancora più tesa del 20 aprile. Nei quartieri [operai] si succedettero una serie di scioperi. Le scritte sulle bandiere erano della natura più varia, ma tutte avevano una caratteristica comune: sulla Nevsky, sulla Sadovava, ecc. dominavano le parole d’ordine a favore del governo provvisorio mentre nelle periferie gli slogan di segno opposto. Scontri tra manifestanti di diversi gruppi erano frequenti... Si udivano molti spari.

Una donna che partecipò alle manifestazioni in seguito ricordava:

le donne di queste fabbriche... si incamminavano con i dimostranti sul lato dei numeri dispari della Nevsky. L’altra massa si muoveva parallelamente sul lato dei numeri pari: donne ben vestite, ufficiali, mercanti, avvocati, ecc. I loro slogan erano: “Lunga vita a Milyukov”, “Arrestate Lenin”.

La tensione nei quartieri operai aumentò. Un operaio di fabbrica così descrisse una assemblea del pomeriggio: 

Gli animi si accesero. Fu deciso di attendere le decisione del Soviet. Ma prima che queste decisioni arrivassero alcuni operai tornarono dal centro con notizie di scontri, di bandiere dileggiate e di arresti. Gli umori improvvisamente mutarono. “Cosa? Ci inseguono per le strade, ci strappano le bandiere e noi dobbiamo restare a guardare tutto ciò tranquillamente? Andiamo sulla Nevsky!”

In questa situazione tesa, il generale Kornilov, sostenuto da Milyukov, decise di schierare l’artiglieria fuori da palazzo Mariinsky e chiedere aiuto alle scuole militari. L’obbiettivo era quello di collegare settori dell’esercito alla manifestazione filogovernativa armata che si teneva a poche centinaia di metri di distanza da quella guidata dai bolscevichi. Milyukov, nelle sue memorie, tenta di occultare il carattere apertamente controrivoluzionario dell’iniziativa, affermando: 

Il 21 aprile, il generale Kornilov, comandante in capo del distretto di Pietrogrado, fu informato delle manifestazioni di operai armati dei sobborghi e ordinò ad alcune unità della guarnigione di concentrarsi nella Piazza del Palazzo. Ciò produsse una reazione del Comitato Esecutivo dei Soviet, il quale segnalò allo staff del generale che la discesa in piazza delle truppe poteva complicare la situazione. Dopo dei negoziati con i delegati del Comitato Esecutivo il comandante in capo cancellò l’ordine e dettò in presenza di membri del Comitato un messaggio telefonico a tutte le truppe della guarnigione in cui si ordinava di restare nelle caserme. Di seguito, un appello del Comitato Esecutivo del Soviet diffuso nei quartieri dichiarava: “Compagni soldati, non uscite con le armi in pugno in questi giorni frenetici se non per ordine del Comitato Esecutivo”. 

In realtà, il Comitato Esecutivo del Soviet – intuendo che il carattere controrivoluzionario della decisione rischiava di far sprofondare anche loro – diede ordine alle truppe di non abbandonare le loro caserme. Kornilov si ritrovò così isolato e non ebbe altra scelta che ritirarsi. 
Il rischio per i leader del Soviet era lo stallo, e così il Comitato Esecutivo si affrettò a dichiarare che l’incidente era chiuso e chiese agli operai di tornare nelle loro case. La Rabochaya Pravda ironicamente fece notare che: 

quando il Comitato Esecutivo pubblicò l’ordine ai soldati di non scendere in piazza armati, si iniziarono a vedere scene curiose in cui i soldati tentavano di persuadere i loro compagni a non partecipare a manifestazioni qualunque ne fosse il carattere. Spesso erano i soldati che facevano appello alla calma tra i civili.

Kornilov aveva assicurato Milyukov di avere “forze sufficienti” per schiacciare i ribelli, ma tali forze non si materializzarono mai. Trotsky scrisse: “Questa sventatezza raggiungerà il colmo in agosto, quando il cospiratore Kornilov schiererà contro Pietrogrado una armata inesistente”. Nella notte del 21 aprile, anche se si udivano ancora degli spari, la crisi politica era chiusa. 
Visti i rapporti di forza dell’aprile 1917, anche i bolscevichi non erano interessati a una aperta battaglia che conducesse alla guerra civile. Per la prima volta il partito di Lenin aveva giocato un ruolo importante negli avvenimenti, ma non era ancora pronto a guidare il movimento verso una nuova rivoluzione. 
I soviet stavano ancora consolidando la loro egemonia. Per Lenin una nuova rivoluzione era ancora prematura e lo slogan sostenuto da alcuni dei suoi di “rovesciare il governo” era sbagliato: 

Il governo provvisorio doveva essere rovesciato immediatamente?... Per diventare una potenza gli operai coscienti devono conquistare la maggioranza... Non siamo blanquisti... Siamo marxisti, noi siamo per la lotta proletaria di classe contro le intossicazioni piccolo-borghesi.

La crisi era superata, ma nulla sarebbe stato più come prima. Era ormai chiaro che nessuna decisione del governo poteva passare senza l’accordo del Soviet. La strategia dei cadetti e dei capitalisti fu allora quella di premere per un coinvolgimento diretto dei socialisti nel governo. Ma la condizione indispensabile per la partecipazione dei partiti socialisti al governo era l’allontanamento di Guchkov e Milyukov.
Dopo le dimissioni dei suddetti, il governo provvisorio propose al Soviet di Pietrogrado di formare un governo di coalizione. L’accordo fu raggiunto il 22 aprile e sei ministri socialisti entrarono nel governo (due menscevichi, due Socialisti Rivoluzionari e due populisti). Solo il Presidente dell’Esecutivo del Soviet Nikolay Chkheidze rifiutò di diventare ministro. 

Naturalmente anche i bolscevichi rifiutarono di aderire e iniziarono a prepararsi per le imminenti lotte rivoluzionarie. Per molti versi “le giornate di aprile” rafforzarono negli operai l’esigenza di avere una propria forza armata auto-organizzata. Per esempio la fabbrica di scarpe Skorokhod decise di formare una Guardia Rossa di mille persone e chiese al soviet di equipaggiarli con cinquecento fucili e cinquecento pistole. 
Il 23 aprile in una assemblea organizzata dai delegati di fabbrica sull’organizzazione delle Guardie Rosse, un oratore sostenne che “Il Soviet ha creduto troppo ai cadetti. Non è sceso in piazza; i cadetti sì. Ma a dispetto del Soviet, gli operai si sono mobilitati e hanno salvato la situazione.”
Le giornate di aprile, in effetti, rafforzarono la fiducia degli operai e dei soldati. I cadetti di Milyukov furono momentaneamente isolati. I menscevichi e i Socialisti Rivoluzionari mantennero il controllo del Soviet di Pietrogrado, ma la loro fiducia era scossa. Nei mesi seguenti, la crisi rivoluzionaria si sarebbe approfondita.

1. Guidati da Julius Martov, i Menscevichi Internazionalisti si battevano per la fine immediata della guerra, a differenza del partito menscevico vero e proprio [NdR].
0 Commenti

COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE - George Souvlis intervista Alexander Anievas - PRIMA PARTE

19/5/2017
George: Vuoi presentarti partendo dalle esperienze formative (universitarie e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?

Alexander: Penso che i libri che mi hanno introdotto alla politica siano stati Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano e Il libro nero degli Stati Uniti
[molto noto in Italia anche  con il titolo originale, Killing Hope, NdR] di William Blum, che ho letto qualche tempo dopo il diploma di scuola superiore. Queste letture mi hanno schiuso la porta di una storia di cui in precedenza non sapevo assolutamente nulla. Sai, crescendo negli Stati Uniti non è che si studi la lunga e tormentata storia dell’imperialismo degli USA in giro per il mondo; a scuola si dava per scontato che l’America fosse una forza che agisce per il ‘bene’ e la stabilità nel mondo. Ovviamente la lettura di questi libri (cui ne sarebbero seguiti molti altri) mi ha come minimo aperto gli occhi. La molla di questo mio interesse per la storia degli interventi statunitensi in terra straniera è scattata in seguito a varie, prolungate discussioni con mio zio (Ralph Anievas) intorno alla politica estera statunitense nel corso del 20° secolo, che mi hanno sintonizzato sulla lunghezza d’onda di vicende storiche delle quali ero del tutto ignaro. All’epoca non ero un bravo studente, né dal punto di vista politico ero particolarmente impegnato. Ma avevo un certo interesse per la storia, e lo zio di storia sapeva parecchio: aveva studiato Relazioni Internazionali, ha insegnato per un po’, ed è proprio una persona di grande spessore intellettuale. Perciò ha avuto una grande influenza sulla prima fase del mio sviluppo intellettuale e politico.

L’altro momento formativo centrale nella mia traiettoria politica e intellettuale è stato quello delle guerre condotte dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, e delle mie esperienze nel movimento contro la guerra. Ero arrivato a Londra per i miei studi universitari appena dopo gli attacchi dell’11 Settembre. All’epoca mi sarei probabilmente definito come un ‘democratico socialista’ (un socialdemocratico, in effetti), con un certo interesse per la teoria critica  della Scuola di Francoforte, che avevo scoperto poco dopo l’inizio dell’università. Ero contro l’invasione dell’Afghanistan, ma non tanto coinvolto a livello politico. Ad ogni modo, non appena il movimento pacifista ha cominciato a svilupparsi durante la fase preparatoria della guerra in Iraq, ho iniziato a frequentare manifestazioni di protesta, riunioni politiche e cose del genere. È stata davvero un’esperienza di radicalizzazione: le persone che sentivo parlare chiaramente
contro la guerra e con le quali mi ritrovavo più d’accordo tendenzialmente erano tutte marxiste, il che  accese in me la scintilla che mi ha portato a risalire ai classici, leggendo Marx, Engels, Lenin, Bucharin, Luxemburg, Trotsky, Lukács, Gramsci, eccetera; e poi anche la letteratura sul Nuovo Imperialismo (ad esempio Harvey, Gowan, Callinicos, etc.) nata intorno alla guerra in Iraq, mi ha influenzato parecchio, all’epoca.

Contemporaneamente stavo studiando la storia russa e sovietica, affascinato dalla rivoluzione bolscevica e dalle cause della sua degenerazione. Per fortuna il mio insegnante nel seminario di uno dei corsi frequentati era un marxista, Gonzo Pozo-Martin, che ha incoraggiato alla grande il mio interesse per l’argomento e, più in generale, nei confronti del marxismo. Il mio interesse per le conseguenze sociologiche delle relazioni internazionali, che sarebbe diventato un punto centrale della mia successiva ricerca, fu probabilmente anch’esso originato dallo studio della rivoluzione bolscevica e delle sue immediate conseguenze. Perché, quali che siano state le altre ragioni che hanno contribuito alla degenerazione - e alla successiva contro-rivoluzione stalinista - della Rivoluzione d’Ottobre, chiaramente gli effetti dell’imperialismo ‘internazionale’ e, in particolare, ‘occidentale’, furono di primaria importanza.


G: Il tuo ambito di specializzazione sono le Relazioni Internazionali. Qualche anno fa hai scritto un articolo intitolato The reinassance of historical materialism in international relations theory [‘La rinascita del materialismo storico nella teoria delle relazioni internazionali’]. Potresti storicizzare questa rinascita? Perché ha avuto luogo?


A: Quella era l’introduzione ad un libro che ho curato, Marxism and world politics, del 2010. Credo che le ragioni del rinnovamento del pensiero marxista nel campo delle Relazioni Internazionali [d’ora in poi RI] siano in gran parte collegate ad alcuni degli sviluppi di cui dicevo prima: in particolare, il cosiddetto “ritorno” dell’imperialismo USA rappresentato dalle guerre in Afghanistan e in Iraq e, più in generale, l’evidente svolta
della politica estera degli Stati Uniti sotto la presidenza Bush junior verso forme più esplicitamente coercitive di interventismo. Ovviamente, l’imperialismo statunitense (e ‘occidentale’) non era mai venuto meno, a dispetto di tutto il battage sulla ‘pacificazione’ come effetto della globalizzazione, nel corso degli anni ’90: è utile ricordare come l’amministrazione Clinton si fosse impegnata in interventi militari senza dichiarazione di guerra più di qualsiasi altra presidenza degli Stati Uniti nel corso del 20° secolo. Ciononostante, la rinascita di forme più eclatanti di intervento militare da parte degli Stati Uniti, come s’è visto in Afghanistan, in Iraq e più in generale con la ‘Guerra al Terrore’, penso abbia giocato senz’altro un ruolo nel rinnovato interesse per la critica di ispirazione marxista in ambito RI; e la Grande Recessione del 2007-2009 non ha fatto altro che accelerare la tendenza.

Naturalmente, questa tendenza non è stata certo uniforme. Nelle università degli Stati Uniti, per quanto io sappia, il marxismo in ambito RI rimane confinato ai margini critici della disciplina, nonostante i molti eccellenti studiosi marxisti attivi in questo campo. Al contrario, in Canada e nel Regno Unito sembra esserci un bel revival della teoria marxista delle Relazioni Internazionali. Nell’accademia del Regno Unito, con la quale ho maggiore dimestichezza, questa rinascita è stata in parte dovuta anche alla svolta verso forme di analisi più storico-sociologiche rispetto alle Relazioni Internazionali britanniche durante i primi anni del 2000: pensiamo solo al gruppo
di studenti di dottorato venuto fuori dalla London School of Economics sotto l’egida di Fred Halliday ed altri. Un certo numero di questi studenti ha continuato a scrivere una serie di lavori importanti in questa disciplina, i quali – insieme ad altre cose - hanno influenzato e ispirato i successivi studiosi marxisti delle RI, come me.

G: In uno dei tuoi articoli, The Uses and misuses of Uneven and Combined Development [‘Gli usi e gli abusi dello Sviluppo Diseguale e Combinato’] tu recuperi il concetto di Sviluppo Diseguale e Combinato – utilizzato da Trotsky all’inizio del 20° secolo – in quanto utile strumento analitico nell’ambito delle Relazioni Internazionali. Che cosa significa questo concetto e come può essere utile nel tuo campo di ricerca?


A: Be’, di certo non sono stato io il primo a recuperare l’idea che Trotsky si fa dello Sviluppo Diseguale e Combinato ai fini dello studio delle Relazioni Internazionali: di ciò siamo debitori a Justin Rosenberg che per primo ha introdotto questa nozione in chiave di teoria delle RI nella sua conferenza per il Premio Isaac Deutscher 1994 intitolata Isaac Deutscher and the Lost History of International Relations (testo poi pubblicato sulla New Left Review, I/215, 1996) e, in modo più sistematico, in un testo del 2006 intitolato Why Is There No International Historical Sociology? (European Journal of International Relations, 12/3). L’articolo cui ti riferisci, che ho scritto insieme a Jamie Allinson, era in larga misura una risposta, un tentativo di dialogo con quanto Rosenberg ha cercato di costruire a partire dell’idea che Trotsky ha dello sviluppo diseguale e combinato, onde riempire di contenuti una teoria autenticamente sociale della “dimensione internazionale”. Che cosa significa questo esattamente? Ebbene, il presupposto fondamentale della tradizione classica della teoria sociale (da Karl Marx e Ferdinand Tönnies a Émile Durkheim e Max Weber) era che il carattere dello sviluppo di una data società fosse determinato dalle strutture e dagli agenti ad essa interni. È stata proprio questa concezione della storia interna delle società che di fatto ha dato origine alla sociologia stessa (vedi, tra gli altri, Friedrich Tenbruck, Internal History of Society or Universal History, in Theory, Culture, and Society, 11: 75–93, 1994). Infatti, mentre le interazioni tra le diverse società non possono essere viste come empiricamente irrilevanti, non sono tuttavia di per sé stesse oggetto di teoria sociale: vale a dire, la “dimensione 'internazionale” in sostanza è rimasta un fattore contingente, esterno alle premesse di base della teoria sociale. E questa mancanza di una concezione teorica sostanziale della “dimensione internazionale” persiste fino ad oggi, anche all’interno del marxismo. Che un particolare approccio marxista concettualizzi i sistemi sociali come operanti principalmente a livello nazionale oppure su scala mondiale – come esemplificato rispettivamente dal ‘Political Marxism’ e dall’analisi del Sistema-Mondo – il dilemma rimane lo stesso. Lavorando
a partire da una concezione di struttura sociale specifica (sia essa il feudalesimo, il capitalismo, il socialismo o qualsiasi altra cosa) e sviluppando la propria teorizzazione verso l’esterno, la ‘dimensione internazionale’ assume la forma di una rivisitazione della società nazionale scritta però a grandi caratteri: un’estrapolazione di categorie analitiche derivate da una società concepita pur sempre al singolare.

Viceversa, nell’ambito disciplinare delle RI, l’attenzione teorica verte proprio su questa dimensione internazionale dell’esistenza sociale, che le varie teorie sociologiche non colgono.  Tuttavia, anziché concettualizzare questo aspetto internazionale come una dimensione distinta, ma organica al mondo sociale, le teorie delle Relazioni Internazionali basate sul ‘realismo politico’ hanno commesso l’errore esattamente contrario, che è quello di astrarre la dimensione ‘internazionale’ dal suo contesto storico-sociale reificando perciò la geopolitica, collocata nella sfera  ‘sovra-sociale’, senza tempo, dei grandi poteri politici.


Così, l’idea che sta dietro la ricostruzione della concezione di Trotsky dello sviluppo diseguale e combinato come teoria generale della storia del mondo è che tale concezione abbia il potenziale per superare questo divario teorico tra le spiegazioni ‘geopolitiche’ e quelle ‘sociali’, in modo tale da riconcettualizzare la ‘dimensione internazionale' quale oggetto della teoria sociale. Inoltre tale ricostruzione avviene in modo da permettere l’incorporazione teorica ed empirica delle fonti, degli agenti storici e delle dinamiche di fondo non-occidentali all’interno della storia del mondo, rompendo con l’Eurocentrismo. Come si dimostra nel libro che ho scritto insieme a Kerem Nisancioglu, How the West Came to Rule, queste condizioni geopolitiche e forme di soggettività  ‘extra-europee’ furono in effetti fondamentali rispetto alle origini del capitalismo in Europa e per “l’ascesa dell'Occidente” nella longue durée.


Postulando il carattere differenziato dello sviluppo come la sua “legge più generale”, la concezione di Trotsky di sviluppo diseguale fornisce quindi un correttivo necessario a qualsiasi concezione ‘al singolare’ della società e alle relative storiografie unilineari che stanno alla base della narrazione eurocentrica. Postulando il carattere intrinsecamente interattivo di questa molteplicità, lo sviluppo combinato sfida a sua volta l’‘internalismo metodologico’ degli approcci eurocentrici, dove il concetto stesso di combinazione sta a indicare che non è mai esistito alcun modello puro o normativo di sviluppo. Come tale, la teoria dello sviluppo diseguale e combinato destabilizza fondamentalmente l’internalismo metodologico e l’eurocentrismo della teoria sociale tradizionale, registrando il carattere interattivo e variegato dello sviluppo, e allo stesso tempo respingendo ogni concettualizzazione reificata dell’‘universale’ come una proprietà a priori di un’entità omogenea (si veda anche, di Kamran Matin, Recasting Iranian Modernity).


G: Il tuo lavoro – in una certa misura – si è sviluppato entro il filone del Political Marxism, in particolare il lavoro di Robert Brenner. Allo stesso tempo, si muove al di là di esso, rimodellandone diversi aspetti. Ci puoi esporre più precisamente le tue critiche nei confronti della tradizione del Political Marxism, concentrandoti sul Dibattito sulla Transizione e sulla questione dell’Ascesa dell’Occidente? Quest’ultima si è verificata in modo diverso da come questi studiosi ci hanno raccontato?


A: Il modo in cui hai formulato la tua domanda è interessante, in quanto hai ragione nel dire che il mio lavoro è stato influenzato da studiosi del Political Marxism come Brenner, Teschke, Lacher e altri, sebbene io sia stato anche critico nei confronti di tale tradizione. Sono state le opere di  Robert Brenner e Ellen Meiksins Wood a farmi interessare al ‘Dibattito sulla Transizione’, perciò forse è  naturale che questi due autori oltre ad avermi influenzato siano anche oggetto della mia critica. Credo che gli scritti di Brenner, in particolare, siano eccellenti a vari livelli – in particolare le sue opere maggiormente fondate sulla ricerca archivistica e più storicamente focalizzate, come Merchants and Revolution. E nella ‘mia’ disciplina delle RI, alcuni degli studi più interessanti usciti nel corso degli ultimi due decenni sono stati realizzati da esponenti del Political Marxism. Gli scritti di Charlie Post sulla transizione al capitalismo negli Stati Uniti sono stati oltretutto, a mio parere, molto innovativi.


In How the West Came to Rule, io e Kerem Nisancioglu ci serviamo di una serie di importanti concetti del Political Marxism (in particolare quelli brenneriani di ‘regole di riproduzione’ e di ‘accumulazione geopolitica’). E siamo anche partiti da alcuni aspetti della narrazione che fa Brenner della transizione al capitalismo, ad esempio la sua attenzione per i Paesi Bassi e l’Inghilterra come i primi due stati in cui i rapporti sociali capitalistici si consolidarono integralmente, e sul significato del carattere particolarmente omogeneo della classe dominante inglese nell’epoca della transizione (anche se in proposito avanziamo una spiegazione diversa). Ma, come ho già detto, noi per certi versi critichiamo le spiegazioni della Transizione fornite dal Political Marxism, in particolare per quanto riguarda la ricostruzione impeccabilmente ‘internalista’ della nascita del capitalismo, concentrato quasi esclusivamente sulla campagna inglese. Noi sosteniamo che questo tipo di approccio metodologicamente internalista non è tanto ‘sbagliato’, quanto incompleto. Infatti, come mostriamo nel libro, le origini del capitalismo in Inghilterra (così come nei Paesi Bassi) sono  fondamentalmente radicate in e condizionate da vari fattori strutturali e forme di soggettività ‘extra-europei’.


Giusto per farti qualche esempio: per capire perché il feudalesimo europeo si trovasse nel 14° secolo nella morsa di una crisi generalizzata e per spiegare sulla base di quali fattori alcune società dell’Europa Occidentale siano state in grado di uscire da questa crisi nell’intraprendere i primi passi verso il capitalismo, si deve guardare, come facciamo nel capitolo 3, ai più ampi nessi geopolitici ed economici forgiati nel continente eurasiatico dall’espansione dell’Impero Mongolo. Questo perché la creazione della Pax Mongolica ha avuto l’effetto di collegare gli attori europei a un nascente ‘sistema mondiale’ di crescenti e sempre più fitte relazioni inter-sociali. E la conseguenza immediata della relazione tra Europa e Pax Mongolica è stata un’accresciuta esposizione agli sviluppi tecnici e alle idee provenienti dall’Asia, il continente all’epoca più avanzato dal punto di vista scientifico. La Pax Mongolica finì con l’essere non soltanto un trasmettitore di rapporti sociali e tecnologie, ma anche di malattie. La Peste Nera, e il conseguente crollo demografico che mise in crisi il feudalesimo europeo, derivarono direttamente da questa sfera allargata di interazioni inter-sociali.


Abbiamo poi mostrato nel capitolo 4 come le divergenze successivamente verificatesi all’interno dell’Europa siano state un prodotto della rivalità tra le ‘superpotenze’ dell’Impero Ottomano e dell’Impero Asburgico. Attraverso la continua pressione militare esercitata nel “lungo 16° secolo”, gli Ottomani indebolirono ulteriormente i centri declinanti del potere di classe feudale – come il Papato, l’Impero Asburgico, le Città-Stato italiane – sostenendo al contempo nuove forze contro-egemoniche, come i protestanti francesi e olandesi. Gli Ottomani agirono altresì come centro di gravità geopolitico, attirando le risorse militari degli Asburgo verso il Mediterraneo e l’Europa centro-orientale. Questo a sua volta servì a creare lo spazio geopolitico strutturale che dovette rivelarsi fondamentale nel consentire a Olanda e Inghilterra di impegnarsi in moderne pratiche di costruzione dello Stato e di svilupparsi lungo linee sempre più capitalistiche: per l’aspetto statuale si pensi qui alla Rivolta olandese. Va detto inoltre che gli ottomani involontariamente contribuirono a creare una condizione geopolitica di ‘isolamento’ dell’Inghilterra, con conseguenze dirette riguardo il carattere insolitamente unitario della classe dirigente inglese e dunque al suo successo rispetto ai grandi fenomeni di recinzione e ampliamento delle proprietà terriere. Questo processo di accumulazione primitiva nella campagna inglese, che ha generato quei rapporti di proprietà capitalistici così brillantemente studiati da Brenner e Wood, fu pertanto direttamente legato alla minaccia geopolitica dell’Impero Ottomano. Allo stesso tempo, il dominio da parte degli ottomani del Mediterraneo e delle rotte terrestri verso l’Asia servì a spingere gli Stati europei nord-occidentali verso una sfera di attività globali del tutto nuova: l’Atlantico. Il che ha avuto effetti cruciali sulla particolare traiettoria con cui si è consolidata la forma distintamente capitalistica dello stato inglese e dello stato olandese.


In effetti, come si vede nel capitolo 5, è stato il saccheggio delle risorse americane operato dai colonialisti europei ad aggravare ulteriormente la divergenza già nascente tra il feudalesimo degli imperi iberici e il capitalismo emergente di queste società dell’Europa nord-occidentale. In particolare, noi sosteniamo che lo sviluppo del capitalismo in Inghilterra fosse dipendente dalla sfera allargata di attività economica offerta dall’Atlantico. Perché fu attraverso la combinazione di terra americana, lavoro degli schiavi africani e capitale mercantile inglese che i limiti del capitalismo agrario inglese furono infine superati. Non solo la sfera allargata di circolazione fornita dal traffico transatlantico triangolare offre numerose opportunità per i capitalisti britannici di ampliare il loro campo di attività, ma la combinazione di diversi processi lavorativi attraverso il commercio transatlantico consente la ricomposizione del lavoro avvenuta in Gran Bretagna attraverso la Rivoluzione Industriale.


Possiamo vedere una situazione simile (ma di certo non un identico processo) nella Repubblica Olandese durante il 16° e 17° secolo, con le sue colonie nel Sud-Est Asiatico. Qui la Compagnia Olandese delle Indie Orientali supera la penuria di forza-lavoro che rischiava di soffocare lo sviluppo agrario capitalistico dei Paesi Bassi, attingendo in Asia al vasto serbatoio di forza-lavoro non libera (vedi Capitolo 7 del nostro libro). Questi sono solo alcuni dei processi storici ‘extra-europei’ rimasti fuori dalle narrazioni del Political Marxism e che – noi sosteniamo – giocarono un ruolo decisivo per le origini e lo sviluppo del capitalismo in Europa.


(continua) 


​[traduzione di Giovanni Di Benedetto]
2 Commenti

LA GIUSTA DISTANZA - Introduzione a un libro da scrivere

15/5/2017
di Vito Bianco

Uno sguardo al laboratorio dello scrittore Vito Bianco (tra i suoi ultimi libri 
Il posto del pittore e Versi del non riposo, entrambi del 2015), che sta progettando uno studio sulle ‘Distanze’ in letteratura. 


Stabilire tra noi e gli altri (un amore, un amico) la ‘giusta distanza’ è difficile e complicato; talvolta anche doloroso. Siamo quasi sempre o troppo vicini o troppo lontani. Nel primo caso mettiamo a fuoco singoli dettagli; nel secondo abbiamo una visone prospettica d’insieme ma non i dettagli. Solo la distanza adeguata, adatta a quella particolare visione è in grado di darci l’immagine più vicina al vero della persona che amiamo o dell’amico che vogliamo conoscere meglio. Potremmo chiamarla la questione dell’ortometria, della distanza corretta, dei metri giusti per dare vita alla relazione più soddisfacente. Stabilirla – questa distanza – è il compito del soggetto che vuol conoscere, sia esso l’innamorato (Swann e Marcel nella Ricerca del tempo perduto di Proust) o il narratore di Fitzgerald e Mario Soldati. 
L’impresa richiede intelligenza e coraggio, e non si è mai sicuri della sua riuscita. E poi: vogliamo davvero conoscerla, la verità? Non sarebbe meglio, diciamo più salutare, accontentarsi delle sue mutevoli immagini (versioni)? 

Charles Bovary, per esempio, sembra uno di quei mariti che non vogliono sapere; potrebbe interpretare meglio i segnali e i turbamenti dell’adorata consorte, ma non lo fa. È ‘troppo vicino’, o ha deciso di negare l’evidenza? 
Sul confine sottile tra queste due possibilità si gioca tutto il romanzo. Charles infatti è una specie di doppio maschile della moglie: questa non sa leggere i segni della finzione come segni della finzione; il marito non sa o non vuole leggere correttamente i segni del disamore della donna che ha sposato con tanta convinzione e scarsa conoscenza.  
Segni, segnali, indizi muti, parole che forse involontariamente hanno qualcosa da rivelare: tutti i personaggi (tranne uno) che abbiamo citato li aspettano, li cercano, si sforzano di decifrarli per comporre un ritratto veritiero della persona che sta loro a cuore. Il narratore della Mite non ha voluto vedere la donna che gli viveva accanto e ora si dispera e rilegge tutto il passato alla luce terribile della morte volontaria della fanciulla troppo ‘mite’ per trovare un altro modo per farsi vedere.

Swann cerca i segni del tradimento di Odette; Marcel, prima i segni dell’amore e poi quelli del tradimento; i narratori di Fitzgerald e Soldati (Il vero Silvestri, La giacca verde) cercano con pazienza i tasselli del puzzle che serviranno a comporre le figure complete dei loro protagonisti; Emma Bovary cerca e trova i segni dell’amore romantico che cocciutamente vuole trovare, anche a costo di inventarseli, così come si inventa un romanzo. Suo marito, Charles, è anche lui accecato dall’amore, quindi non vede i segni del volto e dei gesti che gli svelerebbero le tracce dell’adulterio: e quando, per così dire, ci sbatte gli occhi, li nega, o li travisa. Come fa il console di Lowry, ma nel senso opposto: vede cioè l’adulterio dove avrebbe dovuto vedere l’amore; ancora un dramma dell’incomprensione che la vicinanza anziché impedire scatena.

Parlo di ‘distanza’ e lo faccio in un duplice senso, fisico e psicologico. Le due ‘distanze’ possono opporsi, come sappiamo: la vicinanza fisica non sempre è anche vicinanza psicologica o sentimentale, mentre una momentanea o duratura lontananza fisica può accoppiarsi con una vicinanza sentimentale o psicologica. Ciò vuol dire che la regola della ‘giusta distanza’ è indipendente dalla vicinanza spaziale, e può quindi succedere che a far brillare una verità contribuisca proprio la lontananza nello spazio, oltre che la lontananza nel tempo. Si potrebbe dire che ci sono cose uomini donne accadimenti che si vedono meglio da lontano, che rivelano aspetti essenziali solo se distanziate, solo se oculatamente tenute a distanza. 
Come certi quadri, vogliono essere guardate da una certa distanza, ci chiedono di fare due tre passi indietro… Forse qualcuno dei protagonisti delle finzioni che abbiamo scelto sarà capace di allontanarsi. Di fare quei tre passi per trovare la giusta distanza. 

Nella prima parte si passano al setaccio casi di – possiamo dire – sguardi che da lontano cercano di mettere a fuoco una figura sfuggente o seminascosta da una nebbia di testimonianze incerte o contraddittorie; o che l’abituale intimità o vicinanza impediva di vedere in tutta chiarezza. Passo dopo passo, frammento dopo frammento, voce dopo voce, il racconto si avvicina alla meta, lambisce il personaggio, quasi lo tocca.
Jean, in un romanzo breve di Patrick Modiano, dopo avere per anni esplorato le regioni meno battute del mondo, fa il suo viaggio più lontano restando nascosto in una delle molte periferie della sua città, che mostra di conoscere con la precisione di un cartografo sentimentale. Stanco della propria vita, deluso dalla compagna che lo tradisce con il suo migliore amico, il narratore di Viaggio di nozze sente il bisogno di prendere le distanze prima di tutto da se stesso, prima che da una professione che, scelta a vent’anni per l’avventura che prometteva (le terre lontane sulle tracce dei viaggiatori del passato) è diventata per lui una mera ripetizione priva di stimoli.

Si parte da lontano. Ma la lontananza misurata nelle prime pagine del denso e articolato romanzo breve di Modiano è solo una delle distanze messe in scena e calcolate nel corso della stratificata vicenda memoriale dipanata con meditativa lentezza dal documentarista Jean, narratore e protagonista di una verticale ‘fuga da fermo’ alla ricerca più o meno consapevole di una possibile verità su una storia del tempo di guerra (la Francia di Vichy) e, quel che davvero conta, su di sé.
Jean arriva in un albergo di Milano in un afoso 16 agosto di un anno imprecisato. Qui viene a sapere che il giorno prima di ferragosto in una delle stanze è morta suicida una donna. Sfogliando il Corriere della sera sul treno che deve riportarlo a Parigi, il narratore  legge il nome della donna e scopre l’identità della morta: è Ingrid Teyrsen, da lui conosciuta molti anni prima sulla Costa Azzurra insieme al marito: “Avevo comprato il Corriere della Sera. Volevo leggere il trafiletto che parlava di quella donna. Probabilmente era arrivata da Parigi sullo stesso binario dove mi trovavo ora e avrei fatto il suo stesso percorso in senso inverso, con cinque giorni di intervallo. Che strana idea venire a suicidarsi qui, mentre gli amici l’aspettavano a Capri… Forse per quel gesto c’era un motivo che avrei sempre ignorato”.

Kurtz, alla fine della ricerca, della navigazione africana verso il ‘cuore di tenebra’, è un volto in piano ravvicinato dai tratti ben visibili, ma l’aura quasi tangibile della follia lo risprofonda nell’oscurità: chi è il vero Kurtz, il saggio, il responsabile agente di commercio, o il semidio invasato a cui gli indigeni offrono, per timore o superstizione, una cieca obbedienza?  Vedere ‘da vicino’ come funziona la strategia del narratore ‘orale’ che dalla distanza temporale e fisica dispone i vari pezzi del quadro, può forse aiutare a capire in che modo la lontananza sia certe volte più lucida e potente del suo contrario: perché si concede tutte le meditazioni necessarie sui punti di vista alle quali sembra naturalmente portata e non ha fretta di arrivare alle conclusioni. 
Il racconto orale è poi per sua natura sempre pronto a mettersi in discussione e a tornare sui suoi passi; senza dimenticare che è vagliato e sorvegliato dal trascrittore, dal doppio letterario dell’autore Conrad, anche lui pronto a intervenire per correggere, sfumare o rendere problematico un dato che pareva certo e incontrovertibile. L’inconoscibile può rimanere tale, ma cambia col mutare della distanza da cui si osserva o si scruta.

A ben vedere, succede anche nel racconto di Calvino, dove un uomo che per lavoro viaggia molto (lo si immagina sempre in movimento) riesce a parlare con sincerità di sé e della donna che ha da poco lasciato solo mentre tenta di contattarla telefonicamente dalla solitudine ritrovata di una camera d’albergo. I tentativi non avranno l’esito sperato, ma fanno accadere l’essenziale: il monologo dell’uomo avvia la virtuale presa di contatto con la donna; fa nascere nell’assenza dell’altro polo l’intimità che l’abitudine aveva spento. Dobbiamo alle linee troppo cariche il testo che leggiamo, questo testo, poiché  il resoconto della reale conversazione telefonica ci avrebbe messo sotto gli occhi un racconto di sicuro diverso da quello che troviamo sulla pagina. Possiamo quindi dire che la distanza e il mancato contatto telefonico producono un nuovo e imprevedibile contatto, un’imprevedibile vicinanza, tanto virtuale quanto vera.
Nel finale la donna dell’inizio diventa molte donne possibili; diventa tutte le donne che l’instancabile giramondo conosce e saluta nelle cento città del suo perpetuo pellegrinaggio; e l’apologo sulla vicinanza possibile solo nella irrealizzata potenzialità della separazione (più aumentano i chilometri e più siamo vicini, e ‘se fossi qui ti direi…’) assume via via i tratti del racconto semifantastico che ci parla di paura della realtà e notturno desiderio di solitudine, che altro in fondo non è che la realizzazione – volontaria o involontaria – della massima distanza dal mondo restando a casa.

Sull’isola ‘più lontana’ lo scrittore Jonatan Franzen fa finalmente i conti con il dolore per la morte dell’amico David Foster Wallace, scrittore dal talento formidabile e uomo tormentato dal male oscuro della depressione. Dopo un lungo tour di presentazioni del suo ultimo romanzo (Libertà) Franzen decide che è venuto il momento di affrontare il lutto ‘accantonato’ di quella perdita, e di partire per un luogo molto lontano scoperto casualmente: un’isola vulcanica quasi inaccessibile al largo delle coste cilene, Masafuera. 
Fuori dal mondo, correndo il rischio di perdersi o di scoprire un se stesso che non corrisponde all’immagine cullata sino a quel momento, l’altro io del Franzen famoso uomo di lettere accetta la prova della solitudine e del silenzio (dopo mesi di parole pubbliche) e cerca di mettere a fuoco la personalità sfaccettata e contraddittoria dell’amico e collega, che la semplificante apologia mediatica sta trasformando in una piatta figura di santo laico.
Nelle pagine del lungo resoconto entrano anche le riflessioni sull’arte del narrare, sull’origine del romanzo e le note di rilettura del Robinson Crusoe, e si svolgono come una meditazione ibrida (saggio e racconto) sulla distanza, anzi, sulle distanze, come spesso succede, la prima lungo l’asse spaziale, l’altra su quello temporale; con la prima che invera e conclude la seconda, nel senso che allontana, elaborandolo, il lutto, che si può leggere come una sofferta vicinanza che si sforza di ritrovare ‘la giusta distanza’. 
Sparse le ceneri al vento si può tornare a casa. Che è quello che sempre facciamo, direbbe Novalis, anche quando stiamo camminando per allontanarcene. Ma si può partire restando, ci ricorda in versi Giorgio Caproni, non lasciando il posto dove non si è mai davvero stati.  

​Nella terza parte ho pensato di convocare i casi letterari che presentavano ai miei occhi una ‘fenomenologia variabile’ di vicinanza lontananza e aggiustamenti progressivi, con ritorni avvicinamenti e complicazioni legati ai malintesi dell’eccesso di intimità o del suo opposto. 
Dicevamo di Swann, che passa dalla gaudente libertà del conquistatore disinteressato ai tormenti dell’innamorato che ogni dettaglio mette in sospetto; e del compito di rendere giustizia alla vita di un amico da parte del narratore nel sempre seducente romanzo di Fitzgerald (Il grande Gatsby).  
Accenniamo, per concludere questo rapido preambolo, alla strana vicenda del protagonista della Panchina della desolazione  di Henry James, che ha il non facile compito di decifrare per decidere che fare l’ambivalenza anche fisica della donna tornata dopo tanti anni, che aveva odiato e che è ora per lui un mistero perturbante. E alla ricchezza della dialettica sentimentale nei due romanzi di Stendhal (Il rosso e il nero e La certosa di Parma), qui rivista attraverso la lente della distanza, o meglio, delle distanze, un modo, un pretesto, un’occasione per tornare a visitare i luoghi indimenticati di uno scrittore felice che conosceva l’arte di saper stabilire la giusta distanza e quella, altrettanto preziosa, di godere i piaceri di una ben calcolata lontananza.
0 Commenti

50 SFUMATURE DI EUROFOBIA - Ovvero, Gli asparagi e l’irriformabilità dell’UE

13/5/2017
di Angelo Foscari

​La UE è irriformabile.

Ecco: l’ho detto, e il buttafuori[1] del club Gauche de la Gauche fa cenno che posso entrare anch’io.

Questo preambolo sull’irriformabilità dell’Unione Europea, infatti, ha ormai presso la sinistra estrema la stessa valenza rituale dell’abakab che si fa alla Favorita (lo stadio del calcio della mia città, per chi non lo sapesse) nei momenti di massima esuberanza identitaria, ovvero “Chi Non Salta È Catanese”.

Certo, è sempre possibile optare per la versione-light, “Questa UE è irriformabile”: nessuno vi sputerà addosso, come nessuno si sogna di biasimare il Signor Piero, un tifoso non più atleticissimo che, nel momento culminante, opta – con un sorriso che domanda indulgenza – per “Chi Non Balla È Catanese”. Ma se fate questa scelta poi non aspettatevi di essere acclamati condottieri della lotta contro la tecnocrazia dell’Austerity: così come il Signor Piero non si sogna certo di essere la reincarnazione di Vicè ‘U Pazzo, l’indimenticato  sciamano della curva di una volta.

All’interno della gauche de la gauche, tuttavia, la discussione ha assunto quest’anno alcune caratteristiche tipiche dei racconti del celebre umorista novecentesco Achille Campanile: un omaggio forse inconsapevole in occasione dei 40 anni dalla scomparsa del grande scrittore. Perché subito dopo aver superato il test d’ammissione al dibattito, barrando la casella del ‘NO’ accanto alla domanda “La UE è riformabile?”, parecchi tra i partecipanti procedono immediatamente a spiegare come occorra afferrare speditamente per la collottola l’Unione Europea e darle un fracco di botte, fino a cambiarle i connotati… cioè a darle “nuova e migliore forma”, che è la definizione di ‘riforma’ secondo il Dizionario della lingua italiana[2].

Converrà pertanto cercare di capirci di più. E visto che per alcune di queste posizioni s’è parlato addirittura di “rossobrunismo”, converrà senz’altro evitare di fare di tutta l’erba un… fascio, distinguendo, nei limiti di precisione consentiti dallo spazio pur sempre inadeguato di un articolo, una cosa dall’altra.

Per giocare a carte scoperte, dico subito che personalmente non considero la rottura dell’UE come lo “scopo del gioco”; né come una opzione strategica valida (un secolo di Socialismi In Un Solo Paese avrebbe qualcosa da raccontarci in merito); né come un passaggio tattico obbligato[3]: non ritengo insomma – per parafrasare ancora Campanile – che dall’Irriformabilità dell’UE (di questa UE?) discenda nessuna delle ricette proposte dalle varie tipologie di Euro-stoppisti. Comincerò dalle posizioni che considero più distanti dalle mie, passando per il dibattito interno a Rifondazione e giungendo infine agli interventi che, pur non condividendo, considero più produttivi e che – non inaspettatamente – sono quelli pubblicati da PalermoGrad, di Giovanni Di Benedetto, Marco Palazzotto, e Vincenzo Marineo.      


1. Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro? 
È un gravissimo errore guardare a sinistra con simpatia al disfacimento dell’Unione Europea… ed è un errore ancora più grave darsi da fare perché ciò avvenga.
(Luigi Vinci, Tra crisi infinita e tendenza al collasso dell’Unione Europea. Note sulla situazione e su come contrastarla da parte della sinistra, in Lavoro21 – la Rivista, n.1, 15 novembre 2016)
 
Il sito eurofobico Socialismo 2017 – Ritorno al futuro è animato principalmente da Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro, che ovviamente tutto sono tranne che “rossobruni”: entrambi già militanti di Democrazia Proletaria, Boghetta è poi stato un ottimo dirigente di Rifondazione Comunista, mentre Porcaro è, tra le altre cose, un acuto lettore de Il Capitale (vedi il suo I difficili  inizi di Karl Marx, Dedalo, 1986). Boghetta, che ha abbandonato il PRC prima dell’ultimo congresso, argomenta la sua scelta sul sito: http://www.socialismo2017.it/2017/03/30/rifondazione-addio/. In questa ‘lettera d’addio’ l’esibita componente psicologica (“questi anni, dopo il congresso di Perugia, sono stati un continuo tormento, un continuo sforzo per rimanere”) va presa assolutamente sul serio, molto più della violenza verbale (Ferrero che andrebbe preso “a calci in culo”) in quanto sofferta testimonianza  di quell’impasse politica in cui in tantissimi ci siamo trovati e ci troviamo, nel periodo segnato dall’esplodere della crisi della zona-euro sul piano strutturale e dal tracollo di Rifondazione (comunque ci si ponesse rispetto a quello che – volente o nolente – è stato a lungo il punto di riferimento principale a sinistra dei DS prima e del PD poi) su quello della soggettività politica. Che, nella smania di uscire da questo vicolo cieco, Socialismo 2017 abbia finito con l’imboccarne uno peggiore, a me pare tuttavia chiaro anche da questo pezzo intristito e inacidito, in cui Boghetta si lamenta perché dentro Rifondazione sente dire che “La sicurezza è un tema di destra” (corsivo mio; ma se uno adopera questo termine per inquadrare una serie di questioni sociali strettamente concatenate, rischia proprio di rimanere ostaggio del pensiero di destra) e denunzia lo scandalo per cui “Se affermi che gli immigrati devono poter rimane nel loro paese: questo è razzismo. Non si riesce a distinguere i migranti (degni di tutto il nostro appoggio) dal fenomeno immigrazione che è un problema da affrontare in termini marxisti: imperialismo, costruzione dell’esercito di riserva, uso politico del fenomeno stesso. Invece della soluzione da perseguire attraverso la lotta democratica e di classe anche nei paesi d’origine, la questione è diventata solo un problema di accoglienza e di coscienza”. E qui i casi sono due: o siamo nell’ovvio – ma che valore polemico può avere, l’affermazione dell’ovvio? – oppure siamo a un passo dall’‘Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro’. Fa di peggio – forse – Mimmo Porcaro (http://www.socialismo2017.it/2017/05/09/ne-destra-ne-sinistra-riflessioni-leliseo/), che, nello scoprire l’acqua calda per cui Macron altro non è che il Poliziotto Buono dei film americani, sottovaluta gravemente la pericolosità del Poliziotto Cattivo Le Pen, e prepara alacremente futuri sdoganamenti, dacché ci tiene a “ricordarci che le alleanze tattiche, le convergenze obiettive, le giuste e necessarie manovre che una degna forza politica popolare, se mai ci fosse, dovrebbe porre in essere (in particolare in una situazione di crisi) non possono essere bloccate fin dall’inizio da una serie di ‘mai con Tizio’, ‘mai con Caio’. Fare politica – è imbarazzante doverlo ricordare – significa anche fare alleanze oggi col diavolo, domani con l’acquasanta e dopodomani con entrambi”. Chi riteneva che quello di Socialismo 2017 fosse più che altro un problema di “toni” pesanti si ritenga servito.
 
 
2. Un’ espressione geografica ?
I segni non appaiono affatto allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili (…) dunque i segni non sono cose apparenti.
(Enesidemo, cit. in G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. IV, 1978, p.174)

 
Il dibattito sull’UE svoltosi al recente congresso di Rifondazione, pur non essendo l’equivalente odierno del duello dialettico tra Socrate e Gorgia, è pur sempre tra le cose migliori in materia reperibili su piazza, e chi lo ha snobbato – dall’alto di non si sa bene quale differente e consolidato “livello” del discorso – ha commesso un innegabile errore.

Il capitolo 5 (‘L’Europa’) del documento maggioritario[4], evidentemente redatto avvalendosi della consulenza del Signor Piero, alla fine del paragrafo 2 ci tiene a precisare che “Questa Unione Europea è irriformabile”. Nel senso che non sono immaginabili “logiche emendative”, né ci si può votare al “compimento della sua ‘integrazione’, che non significherebbe altro che la formalizzazione del dominio del capitale a livello europeo”. D’altro canto la prospettiva non può essere il “ritorno agli stati nazionali, che per l’inefficacia del livello nazionale di incidere sui processi di accumulazione, finisce per entrare in contraddizione con gli obiettivi di recupero di sovranità popolare ed è destinata a subire strutturalmente l’egemonia della destra” (p.18, corsivo mio). Invece “Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta come il livello adeguato in cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata”. Su questo livello europeo occorre mobilitarsi da subito intorno a precisi obiettivi, in primo luogo il “rifiuto del Fiscal Compact”, la “ristrutturazione del debito”, e “un’altra Banca Centrale che risponda delle proprie decisioni a istituzioni democratiche e definisca la propria missione nella promozione della piena e buona occupazione” (p. 19, corsivi miei). E qui – non essendo pensabile la totale contraddizione con quanto affermato una pagina prima – c’è di sicuro la manina santa del Signor Piero, il cui intervento chiarificatore spiega dunque che la maggiore “integrazione” avversata a p.18 è l’integrazione di “questa UE” (corsivo mio) – quella dell’austerity, dei padroni e della finanza – laddove una maggiore integrazione di segno opposto è invece necessaria, perché è evidente che una rinnovata Banca Centrale che risponde a istituzioni democratiche sarebbe il frutto, oltreché di mutati rapporti di forza e di dure lotte, proprio di un processo di ulteriore integrazione  che a quella Banca e a quelle istituzioni mettesse – tra le altre cose – capo.

Il documento della Minoranza interna[5], a confronto, sembra a tutta prima un comunicato degli Ultras, cui preme precisare innanzitutto che chi non salta è catanese: “L’UE è irriformabile!” recita infatti, puntuale, il titolo del capitolo 4. E pazienza se subito dopo – forse per “fraternizzare paternalisticamente”[6] con i Signori Pieri delle gradinate rifondarole – il ragionamento dei minoritari parte con un “Questa unione europea è irriformabile” (corsivo mio). Il seguito si distacca inequivocabilmente dal discorso della maggioranza: infatti “Occorre costruire la rottura, senza rinunciare alla contesa egemonica nello spazio europeo, senza abdicare alla contesa per la definizione del significante Europa” (p.10, corsivi miei). Poco dopo vengono però individuati dei “punti di rottura dei trattati europei”, delineando una strategia che è legittimo sospettare come un voler fare la faccia cattiva – mediante l’utilizzo della più barricadera parola “rottura” – nel proporre pur sempre quella “disobbedienza ai trattati” che in area euroscettica  è ritualmente data come il massimo dell’inefficacia. Tanto è vero che il primo di questi punti di rottura è: “Va messa fine all’indipendenza della BCE, e ridefinito il suo statuto e la sua missione, permettendo  alla BCE di essere prestatrice diretta agli stati”: cioè la rottura rivoluzionaria – par di capire – è tutt’uno con la lotta riformista per ridefinire radicalmente la mission della BCE  e tutte le belle e condivisibili cose che ne seguono. Escludendo che i compagni della Minoranza del PRC propongano di imbarcarsi il più presto possibile sulle scialuppe di salvataggio e nel contempo di ordinare al ristorante della nave un pranzo di sette portate, pietanza principale l’anatra alla pechinese con i suoi ben noti tempi di preparazione, qui si tratta evidentemente di un strategia che prevede un Piano A (lotta per il cambiamento dei trattati) e, in caso di fallimento, un Piano B (“rottura con questa UE” nel senso, immagino, di una fuoriuscita).

A questo punto però gli ultras della Curva Nord si distinguono inevitabilmente da quelli della Sud, e il documento di minoranza si biforca – proprio in tema di Europa – in Tesi A e Tesi B. Chiameremo queste ultime (per evitare sconcertanti confusioni tra Piano A, Piano B, Tesi A e Tesi B !!), intitolate Per la rottura dell’Unione Europea imperialista e dell’Euro, con il cognome della loro prima firmataria, Beatrice Bardelli. Nella Tesi Bardelli il Piano B (la rottura) sostituisce integralmente il Piano A (la lotta per il cambiamento dei trattati) e si afferma  che “Rompere con questa Europa è … urgente”, nella prospettiva di “una nuova unione euromediterranea” e di “nuove relazione coi BRICS”;  pur “consapevoli che la realizzazione di un simile programma implichi rapporti di forza che oggi sono molto lontani dalla realtà”. C’è qui una sfasatura temporale enorme, dunque, tra la proclamata urgenza di quella che sarebbe l’unica parola d’ordine ‘seria’ ed il lunghissimo percorso necessario a modificare utilmente i rapporti di forza  in seno alla società nonché su scala planetaria. Su una analoga sfasatura mi soffermerò nella terza parte del mio intervento, quella dedicata alle posizioni emerse finora su PalermoGrad.
​
La Tesi A – chiamiamola Tesi Forenza, dal cognome della prima firmataria – iscrive invece obiettivi del tutto condivisibili e anzi urgenti (lo sviluppo di “contropoteri nello spazio europeo”, la redazione di una “agenda europea dei conflitti e dei movimenti”) entro la strategia ossimorica – e pertanto suggestiva, ma piena di reticenze e ambiguità – della “rottura costituente”, del “costruire la rottura … senza abdicare alla contesa per la definizione del ‘significante Europa’”. Dove l’ambiguità risiede soprattutto nello slittamento dalla ineludibile, vivificante lotta intorno al significato (come teorizza tutta una tradizione critica che nel Novecento va da Voloshinov fino allo shakespearologo Terence Hawkes) ad una lotta intorno al significante che al mio paese – se ha ragione Enesidemo, vissuto all’incirca tra l’80  il 10 a.C. – ‘significa’ pochissimo e potrebbe giustificare una sovrana indifferenza nei confronti delle sorti del referente, nella realtà istituzionale, della parola ‘Europa’: mentre noi siamo lì a contendere intorno al significante. Che a quel punto rischia essere già tornato soltanto “un’espressione geografica”, come fanno temere gli esiti disastrosi del Brexit[7].
 
  
3. La coerenza di Giufà 
Amicus Plato, sed magis amica veritas 
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Seconda parte, capitolo 51)

 
Diverso ovviamente il discorso per quanto riguarda gli interventi apparsi negli ultimi mesi su PalermoGrad. Marco Palazzotto sa benissimo che non si tratta di “rompere o non rompere con l’Euro o con l’UE oggi, domani o dopodomani” e che “Non si può che sperare e lavorare per costruire un soggetto sociale compatto che imbocchi la strada del conflitto in tutti gli strati della produzione e della società”: costruzione questa che si rende perfettamente conto essere impresa di lunghissima lena. Se, tuttavia, proprio questa è la strada maestra (come penso anch’io); e se dunque Marco prende le distanze anche dagli stessi euro-stoppisti – che pure sente più vicini rispetto a Riformisti dell’UE e NoEuro, le altre due famiglie individuate nella stimolante tassonomia da lui proposta – in quanto colpevoli di mettere il carro della liquidazione dell’UE davanti ai buoi della creazione di un nuovo blocco sociale orientato progressivamente, non si capisce per quale motivo “Lo smantellamento dell’UE va quindi considerato come obiettivo”. In un film di una cinquantina d’anni fa scritto da Woody Allen, Agente 007 Casino Royale, il cattivone di turno mette in atto il solito piano megalomaniaco per dominare il mondo, con tanto d’installazione di vari governi-fantoccio, esplosioni atomiche a gogò e virus letale da diffondere per il pianeta, allo scopo dichiarato di… abbordare un’avvenente fanciulla. Un esempio inarrivabile di sproporzione[8] – e incongruenza, dato che alla fine la ragazza non vuol saperne del dominatore – tra mezzi e fini: ma il parallelo con il nostro argomento è irresistibile. Perché qui si tratterebbe di intraprendere un cammino verosimilmente decennale, cominciando magari dall’organizzare i non organizzati, e dell’individuare 2-3 grandi campagne per i diritti e per il lavoro – quali primi passi della ricomposizione di classe che tutti auspichiamo – e di lì proseguire trionfalmente fino al traguardo finale di… smantellare l’UE? Topolino che, venuto infine al mondo, si sentirà ri-proporre austerity e uberizzazione del lavoratore perché ce lo chiedono i Mercati, ce lo chiede la Globalizzazione, ce lo chiede la Realtà Odierna, ma quantomeno non perché “ce lo chiede l’Europa”… vuoi mettere la soddisfazione? Ammesso e non concesso, poi, che l’arrivo sia davvero trionfale, e non ci si perda lungo la strada, dietro la mattane dei compagni di strada del fronte anti-UE, gente che magari auspica più barriere e più controlli rispetto all’immigrazione, il che significherebbe 1) più clandestini  e 2) più ricattabilità per chi clandestino non è, e intendesse organizzarsi sindacalmente. Anche Vincenzo Marineo ritiene che “occorrerebbe concentrare le forze per parlare del progetto della sinistra, e considerare quel che possiamo e dobbiamo dire oggi sull’Euro e sull’UE solo come la preparazione e l’occasione politicamente favorevole per sostenere la nascita di quel progetto”; e ripesca assai opportunamente un intervento del 1973 di Lelio Basso, in cui si rimprovera al movimento operaio di non aver saputo e/o voluto muoversi a livello internazionale (a differenza dei capitalisti), ma viene posta altresì una questione di  priorità: “Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre”. Proprio così: non sarà la distruzione dell’UE a salvarci, ma neppure il suo rafforzamento, checché ne pensi chi ripropone a livello di macchina istituzionale l’ampiamente screditata Teoria Reazionaria delle Forze Produttive. Quello che mi pare manchi nell’intervento di Vincenzo è invece l’avvertenza che, se è vero che una maggiore integrazione europea in continuità con le politiche degli ultimi trent’anni non significherà un passo in avanti, e anzi potrebbe aggravare la catastrofe dei diritti e le attuali spinte scioviniste e centrifughe, l’eventuale disfacimento dell’UE comporterà in ogni caso un grave, oggettivo arretramento: come sarebbe stato nel caso della distruzione generalizzata dei – capitalistissimi! – telai industriali ai tempi del luddismo. E anch’io sono vecchio abbastanza da aver partecipato ad assemblee, a scuola prima e sul luogo di lavoro poi, in cui c’era chi intendeva mobilitarsi contro l’avvento dell’informatica, “perché il computer serve al padrone per controllare” o dequalificare “il lavoratore”. Mutatis mutandis.

Se quanto argomentato sopra è vero, creare un movimento politico di sinistra anticapitalista e chiamarlo EuroStop è un errore politico per il quale la matita rossa non è sufficiente. Si tratta di una pesante deviazione dal percorso strategico che pure ci attenderebbe (percorso che peraltro si intravede con chiarezza anche negli interventi di Marco e Vincenzo) e lo sbaglio sta già nel nome perché mette tutte le proprie uova nel paniere della battaglia anti-UE, che nel migliore dei casi impegnerebbe le già esigue forze del movimento in una gigantesca perdita di tempo; nel peggiore farebbe registrare percorsi analoghi a quelli di Socialismo 2017. Pertanto non è vero che le analisi degli eurostoppisti sarebbero “più solide e logiche” di quelle degli altri: se c’è qualcuno che, con assoluta coerenza, trae tutte le conseguenze logiche dalle proprie posizioni, quelli sono Boghetta e Porcaro (per i quali – diversamente da Palazzotto e Marineo – soltanto gettandosi nel gorgo antieuropeista, costi quel che costi, si accumulano le forze necessarie a una rinnovata lotta per il socialismo): peccato si tratti della stessa logica adamantina di Giufà, che racconta orgoglioso alla madre dell’espediente tattico messo in atto contro la vicina che gli chiedeva in continuazione dell’acqua: “E io, furbo, stuppai la pila”.  
             
 
 
 ​
NOTE:

[1] O, come meglio disse il Poeta, il “Non-fa-entrare-dentro” .

[2] Per la precisione, quello di Fernando Palazzi, ed. Ceschina, 1939.

[3] Non è questo il luogo per argomentare nel dettaglio le mie posizioni. Qui mi limito a cercare di chiarificare quelle altrui, valorizzarne gli aspetti fecondi e indicarne quelle che mi sembrano le contraddizioni interne. Un’impostazione di fondo politicamente condivisibile della “questione europea” è quella di Luigi Vinci nel testo citato in epigrafe, al netto delle indicazioni organizzative e in materia di alleanze sostenute solitamente da Lavoro21. Per una trattazione  approfondita, si veda Riccardo Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, Asterios, 2012. Spunti per una storia non manichea dell’UE si trovano in AA.VV. Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, DeriveApprodi, 2016.

[4] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/SocialismoXXI_per_un_nuovo_umanesimo_doc1.pdf

[5] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/Rifondazione_e_rivoluzione_Il_partito_che_vogliamo.pdf

[6] Felice paradosso coniato – in tutt’altro contesto – da Nando Grassi.

[7] Rinvio a un pezzo di quasi un anno fa http://www.palermo-grad.com/no-grazie-il-brexit-mi-rende-nervoso.html. Nel frattempo tutti i miei peggiori sospetti si sono avverati; non sono invece ancora pervenuti spunti autocritici da parte di chi intravedeva nel Brexit palingenetici recuperi di sovranità democratica. Per seguire gli sviluppi riguardo il tema specifico dei diritti che i lavoratori UK rischiano di perdere, consiglio il gruppo FaceBook magistralmente condotto da Bill Sheppard, Worker Protection: https://www.facebook.com/groups/413728068995853

[8] Ricordo con piacere che ad attirare la mia attenzione su questo passaggio fu, tanti anni fa, il compianto Costanzo Preve, che oggi – immagino – si troverebbe, riguardo alla questione in oggetto, su posizioni lontanissime dalle mie.  


0 Commenti

LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX) - Gramsci e il 1917

9/5/2017
di Alvaro Bianchi e Daniela Mussi

​Ottanta anni fa – il 27 aprile 1937 – Antonio Gramsci muore dopo aver trascorso la sua ultima decade in un carcere fascista. Riconosciuto a livello internazionale molto più tardi per il lavoro teorico svolto in quelli che saranno pubblicati come Quaderni del Carcere, Gramsci iniziò a fornire un contributo di riflessione di taglio politico durante la Grande Guerra, quando era un giovane studente di linguistica presso l’Università di Torino. Già allora, i suoi articoli pubblicati sulla stampa socialista costituivano un atto di sfida non soltanto alla guerra in corso, ma anche alla cultura liberale, nazionalista e cattolica imperante in Italia.


All’inizio del 1917 Gramsci lavora come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collabora con l’edizione piemontese dell’Avanti!. Nei primi mesi che seguono alla Rivoluzione di Febbraio in Russia, le notizie a riguardo erano ancora scarse, in Italia. In massima parte ci si limitava alla riproduzione di articoli provenienti dalle agenzie giornalistiche di Londra e Parigi. Sull’Avanti! si seguivano gli eventi russi attraverso gli articoli firmati da “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un Socialista Rivoluzionario in esilio. 
Per fornire ai socialisti italiani informazioni affidabili, la direzione del Partito Socialista Italiano (PSI) inviò un telegramma al deputato Oddino Morgari, che si trovava a L’Aia, chiedendogli di recarsi a Pietrogrado ed entrare in contatto con i rivoluzionari. Ma la missione fallì e Morgari fece ritorno in Italia nel mese di luglio. Il 20 aprile, tuttavia, l’Avanti! aveva pubblicato una nota scritta da Gramsci sul tentativo compiuto dal parlamentare, chiamandolo l’“ambasciatore rosso”. L’entusiasmo di Gramsci per gli eventi russi era palpabile: a questo punto egli riteneva che la potenziale capacità della classe operaia italiana di porre fine alla guerra fosse direttamente legata alla forza del proletariato russo. Pensava che con la rivoluzione in Russia tutte le relazioni internazionali sarebbero mutate radicalmente.

Il conflitto mondiale stava attraversando la sua fase più intensa, e la mobilitazione militare sconvolgeva profondamente la vita del popolo italiano. Angelo Tasca, Umberto Terracini, e Palmiro Togliatti furono chiamati alle armi, mentre Gramsci, loro amico e compagno, venne esonerato a motivo della sua cagionevole salute. Pertanto il giornalismo divenne il suo “fronte”. Nell’articolo su Morgari, Gramsci citava con approvazione una dichiarazione dei Socialisti Rivoluzionari russi, pubblicata in Italia dal Corriere della Sera, in cui si chiedeva a tutti i governi europei di rinunciare all’offensiva militare, limitandosi all’azione difensiva contro l’attacco tedesco. Era la posizione detta di “difensismo rivoluzionario”, adottata da una larga maggioranza del Congresso panrusso dei Soviet in quell’aprile. L’Avanti !, pochi giorni dopo, pubblicò la risoluzione conclusiva approvata dal congresso, tradotta da Junior.
Ma, contestualmente all’arrivo di ulteriori notizie, Gramsci cominciò a sviluppare una propria interpretazione in merito a quanto stava accadendo in Russia. A fine aprile pubblicò su Il Grido del Popolo un articolo intitolato ‘Note sulla rivoluzione russa’. Contrariamente alla maggior parte dei socialisti dell’epoca – che analizzavano gli eventi russi come una nuova Rivoluzione Francese – Gramsci ne parla adesso come di un “fatto proletario” che avrebbe portato al socialismo.

Per Gramsci la Rivoluzione Russa era qualcosa di molto diverso dal modello giacobino, visto come mera “rivoluzione borghese”. Interpretando gli eventi di Pietrogrado, egli espone un programma politico valido per il futuro. Onde proseguire il movimento in direzione di una rivoluzione dei lavoratori, i socialisti russi avrebbero dovuto rompere definitivamente con il modello giacobino, identificato qui con l’uso sistematico della violenza a fronte di una limitata attività culturale.
Durante i mesi seguenti Gramsci si allineò rapidamente ai bolscevichi: una posizione che esprimeva altresì la sua convergenza con le correnti più radicali e antibelliche all’interno del PSI. In un articolo del 28 luglio, ‘I massimalisti russi’, Gramsci dichiarò il suo pieno sostegno a Lenin e a ciò che definiva la politica “massimalista”. Ciò rappresentava, a suo avviso, “la continuità della rivoluzione… il ritmo della rivoluzione… [e] perciò la rivoluzione stessa”. I massimalisti erano l’incarnazione dell’“idea-limite del socialismo”, scevra di impegni vincolanti nei confronti del passato.
Gramsci insisté sul punto per cui la rivoluzione non doveva essere interrotta, per trascendere invece l’universo borghese. Per il giornalista del Grido del Popolo il rischio più grande di tutte le rivoluzioni, e di quella russa nello specifico, è il diffondersi della percezione che il processo di trasformazione abbia raggiunto un punto conclusivo. I massimalisti erano la forza che si opponeva a tale errore, e perciò stesso costituivano “l’ultimo anello logico di questo divenire rivoluzionario”. Nel ragionamento di Gramsci tutti i passaggi del processo rivoluzionario sono legati l’un l’altro, con un movimento nella direzione in cui gli elementi più forti e determinati sono in grado di spingere i più deboli e confusi.

​Il 5 agosto 1917 arriva a Torino una delegazione dei soviet russi, della quale fanno parte fra gli altri Josif Goldemberg e Aleksandr Smirnov. Il viaggio era stato autorizzato dal governo italiano, che sperava che il nuovo governo russo proseguisse l’impegno bellico contro la Germania. Dopo aver incontrato i delegati russi, i socialisti italiani espressero la propria perplessità rispetto alle idee ancora prevalenti all’interno dei soviet russi. L’11 agosto l’editoriale de Il Grido del Popolo si interrogava:

“Quando sentiamo i delegati del Soviet russo parlare di continuare la guerra per la difesa della rivoluzione, ci domandiamo ansiosamente se invece essi non accettino – senza saperlo e senza volerlo – di continuare la guerra per la difesa degli interessi della sopravvenuta borghesia capitalistica Russa, contro l’assalto proletario per la ennesima vittoria della coalizione capitalistica, contro il pericolo collettivista che si avanza”


Nonostante ciò, la visita dei delegati sovietici costituì un’occasione per far propaganda alla rivoluzione, e i socialisti italiani seppero sfruttarla. Dopo esser passata per Roma, Firenze, Bologna e Milano, la delegazione fece ritorno a Torino. Davanti alla Casa del Popolo, quarantamila persone inneggiarono alla rivoluzione in Russia nella prima manifestazione pubblica svoltasi in città dopo la Grande Guerra. Dal balcone della Casa del Popolo Giacinto Menotti Serrati, allora capo dell’ala massimalista all’interno del partito e fermo oppositore della guerra, s’incaricò di tradurre il discorso di Goldemberg. Dopo l’intervento del delegato, Serrati affermò che i russi volevano l'immediata fine delle ostilità, e concluse la sua “traduzione” al grido di “Viva la rivoluzione italiana!”, al quale la folla rispose gridando: “Viva la Rivoluzione Russa! Viva Lenin!”.

Gramsci scrisse entusiasticamente di questa manifestazione su Il Grido del Popolo. La manifestazione aveva promosso, secondo lui, un autentico “spettacolo delle forze proletarie e socialiste solidali con la Russia rivoluzionaria”. Pochi giorni dopo, questo “spettacolo” si sarebbe rivisto per le strade di Torino.

La mattina del 22 agosto a Torino mancava il pane, a causa di una lunga crisi di approvvigionamento provocata dalla guerra. A mezzogiorno gli operai interruppero il lavoro nelle fabbriche della città. Alle 5 del pomeriggio, con quasi tutte le fabbriche ferme, la folla cominciò ad attraversare la città saccheggiando panifici e magazzini. L’insurrezione spontanea, non indetta da nessuno in particolare, si diffuse per la città e la conquistò. Il ripristino dell’approvvigionamento del pane non fermò il dilagare del movimento, che aveva rapidamente assunto un carattere politico.

Il pomeriggio seguente a Torino il potere venne trasferito all’esercito, che si assicurò il controllo del centro cittadino. Saccheggi e barricate proseguirono però in periferia. A Borgo San Paolo, una roccaforte socialista, i manifestanti misero a soqquadro e incendiarono la chiesa di San Bernardino. La polizia aprì il fuoco sulla folla. I conflitti si intensificarono nel corso del 24 di agosto. La mattina i manifestanti tentarono senza successo di raggiungere il centro della città. Poche ore dopo si trovarono ad affrontare il fuoco delle mitragliatrici dell’esercito. Il bilancio finale farà contare 24 morti e oltre 1.500 persone incarcerate. Lo sciopero continuerà la mattina successiva, ma senza le barricate. Poi una ventina di leader socialisti furono arrestati e la ribellione spontanea giunse a conclusione.
Il Grido del Popolo non giunse in edicola durante quelle giornate. Riprenderà in pieno le sue attività il 1° settembre, adesso sotto la direzione di Gramsci, che sostituiva la leader socialista Maria Giudice, finita agli arresti. La censura statale non consentiva peraltro di pubblicare alcun riferimento all’insurrezione. Gramsci colse invece l’occasione per fare un breve cenno a Lenin: “forse Kerenski rappresenta la fatalità storica, certo Lenin rappresenta il divenire socialistico; e noi siamo con lui, con tutta l'anima”. Il riferimento è alle giornate di luglio in Russia e alla persecuzione dei bolscevichi che vi fece seguito, costringendo tra l’altro Lenin a rifugiarsi in Finlandia.

Pochi giorni dopo, il 15 settembre, quando le truppe guidate dal generale Lavr Kornilov marciarono verso Pietrogrado per ripristinare l’ordine contro la rivoluzione, Gramsci ancora una volta accenna a quella “rivoluzione avvenuta nelle coscienze”. E il 29 settembre Lenin viene definito “l’agitatore di coscienze, il risvegliatore delle anime dormienti.”. Sulle informazioni disponibili in Italia non si poteva ancora fare pieno affidamento, filtrate com’erano dalle traduzioni di Junior per l’Avanti !. In questo momento Gramsci individua ancora in Viktor Chernov dei Socialisti Rivoluzionari “il realizzatore, l’uomo che ha un programma concreto da attuare, un programma interamente socialista, che non ammette collaborazioni, che non può essere accettato dai borghesi perché rovescia il principio di proprietà privata, perché inizia finalmente la rivoluzione sociale”.

Nel frattempo prosegue la crisi politica in Italia. Dopo la sconfitta dell’esercito italiano nella battaglia di Caporetto del 12 novembre, il gruppo parlamentare socialista, guidato da Filippo Turati e Claudio Treves, assume una posizione apertamente nazionalista e sostiene la difesa della “nazione”, prendendo le distanze dal “neutralismo” degli anni precedenti. Sulle pagine di Critica Sociale, Turati e Treves pubblicano un articolo in cui si afferma che nell’ora del pericolo al proletariato tocca difendere la patria. 
Anche la Frazione Intransigente Rivoluzionaria del partito, dal canto suo, si organizza per affrontare la nuova situazione. A novembre, i leader di questo raggruppamento convocano un incontro segreto a Firenze per discutere dell’orientamento futuro del partito. Gramsci, che ha iniziato ad assumere un ruolo importante nella sezione socialista torinese, partecipa alla riunione come suo rappresentante. In quell’incontro si allinea a quanti, come Amadeo Bordiga, ritengono necessaria l’azione militante, laddove Serrati e altri si pronunciano per il mantenimento della vecchia tattica neutralista. La riunione si conclude riaffermando i principi dell’internazionalismo rivoluzionario e dell’opposizione alla guerra, ma senza alcuna indicazione pratica sul da farsi.

Gramsci, interpretando gli eventi di agosto a Torino alla luce della Rivoluzione Russa, ritorna dall’incontro convinto che il momento storico richieda l’azione. Animato da questo ottimismo e dagli echi della presa del potere in Russia da parte dei bolscevichi, scrive a dicembre l’articolo La rivoluzione contro ‘Il Capitale’, in cui dichiara: “La rivoluzione bolscevica si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo”.

Dopo aver impedito alla rivoluzione di ristagnare, i partigiani di Lenin sono giunti al potere e sono in grado di stabilire “la loro dittatura” e di elaborare “le forme socialiste in cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente”. Nel 1917 Gramsci non disponeva di un chiaro rendiconto in merito a tutte le differenze politiche in seno ai rivoluzionari russi. E oltretutto il nucleo delle sue idee sulla rivoluzione socialista era il presupposto di carattere generale per cui si sarebbe trattato un movimento continuo, “senza troppo grandi urti”.
Con la sua forza culturale intima e irresistibile, la rivoluzione dei bolscevichi “è materiata di ideologie più che di fatti”. Per questo motivo la rivoluzione non figurava alla lettera nel testo di Marx. In Russia, continua Gramsci, Il Capitale era “il libro dei borghesi, più che degli operai”. Gramsci si riferisce alla Prefazione del 1867, in cui Marx afferma che le nazioni di maggiore sviluppo capitalistico mostrano a quelle sottosviluppate la ‘via’, le tappe naturali del progresso che non possono esser saltate.
Sulla base di questo testo, i menscevichi avevano svolto una lettura dello sviluppo sociale in Russia che affermava la necessità della formazione di una borghesia e della costituzione di una società industriale pienamente sviluppata, prima che il socialismo diventasse una possibilità. Ma i rivoluzionari guidati da Lenin, secondo Gramsci, “non sono marxisti” in senso stretto: vale a dire che, mentre non rinnegano “il pensiero immanente” di Marx,  però “rinnegano alcune affermazioni del Capitale” e rifiutano di farne “una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili”.

Secondo Gramsci, le previsioni di Marx sullo sviluppo del capitalismo esposte nel Capitale sarebbero corrette per situazioni di sviluppo normale, in cui la formazione di una “volontà sociale, collettiva” si verifica attraverso una lunga “serie di esperienze di classe”. La guerra, tuttavia, ha accelerato questa temporalità in modo imprevedibile, e nel giro di tre anni i lavoratori russi hanno intensamente provato tutta una serie di esperienze: “La carestia era imminente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare di un colpo diecine di milioni di uomini”. [Di fronte a ciò] le volontà si sono messe all’unisono, meccanicamente prima, attivamente, spiritualmente dopo la prima rivoluzione”. 

Il formarsi questa volontà collettiva popolare era stato favorito dalla propaganda socialista. Essa aveva consentito ai lavoratori russi, in una situazione eccezionale, di vivere l’intera storia del proletariato in un istante. I lavoratori hanno riconosciuto gli sforzi dei propri antenati per emanciparsi dai “vincoli del servilismo… per diventare coscienza nuova, testimonio attuale in un mondo a venire”. Inoltre, giungendo a questa coscienza in un momento in cui il capitalismo internazionale era pienamente sviluppato in paesi come l’Inghilterra, il proletariato russo poteva rapidamente raggiungere la sua maturità economica, una delle condizioni necessarie per il collettivismo.
Pur avendo nel 1917 una conoscenza ancora limitata delle idee dei bolscevichi, il giovane redattore del Grido del Popolo gravitava naturalmente vicino alla formula della ‘rivoluzione permanente’ di Trotsky. Gramsci vide in Lenin e nei bolscevichi l’incarnazione di un programma di rinnovamento della rivoluzione ininterrotta. Una rivoluzione che egli voleva divenisse reale anche in Italia.

​Venti anni dopo, Gramsci muore da prigioniero del fascismo italiano. Uno sguardo retrospettivo potrebbe portarci a credere che questo destino tragico abbia portato Gramsci a mettere in discussione le grandi speranze da lui vedute nell’Ottobre. O che i suoi Quaderni del Carcere costituiscano un tentativo di trovare “nuove strade”, forme più moderate o “negoziali” di lotta contro il capitalismo.

Ma una simile resa non ebbe effettivamente luogo. Nei suoi scritti dal carcere, Gramsci avanza una teoria della politica in cui la forza e il consenso non sono separati, e lo stato è concepito quale risultato storico di forze interagenti all’interno di processi che di rado producono condizioni vantaggiose per i gruppi sociali subalterni. Scrive della necessità di dar battaglia in tutte le sfere dell’esistenza, nonché dei rischi della conciliazione egemonica e del ‘trasformismo’ politico. Egli si sofferma in particolare sul ruolo – quasi sempre deleterio – degli intellettuali nell’ambito della vita del popolo,  e dell’importanza di rendere il marxismo una visione del mondo integrale: “la filosofia della praxis”.
Nulla di quanto scritto negli anni di prigionia sta pertanto a indicare che Gramsci avesse abbandonato la Rivoluzione Russa quale punto di riferimento programmatico e storico al fine dell’emancipazione della classe lavoratrice. La Rivoluzione rimase viva nel cuore e nella mente di Gramsci fino al momento della sua morte, in quell’aprile del 1937. 

[traduzione di Pavlov Dogg]

Alvaro Bianchi è Professore associato al Dipartimento di Scienze politiche presso l’Università statale di Campinas (Unicamp – Brasile); Direttore dell’Archivio Edgard Leuenroth – Centro di ricerca e documentazione sociale.
Daniela Mussi è ricercatrice post-Dottorato presso la Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze umane (FFLCH) dell’Università di San Paolo del Brasile
0 Commenti

UNA VITA MERAVIGLIOSA - Frank Capra e le ambiguità del New Deal

4/5/2017
di Marcello Benfante  

Se una cosa è subito evidente, nel corso della lettura della sua autobiografia Il nome sopra il titolo – da poco riproposta da Minimum Fax, nella traduzione di A.Rollo - è che Frank Capra era anche uno straordinario scrittore. Uno di quei narratori incapaci di annoiare il lettore, perfino quando indugiano su cose minime e strettamente personali.
Tutti concordano su questa sua capacità di coinvolgimento della “gente”. Per Leonardo Sciascia, Il nome sopra il titolo, è “un libro che sembra, appunto, un film di Capra”. È assai difficile, infatti, staccarsi dalla sua narrazione sempre così vivida e dettagliata, così saliente e precisa, al punto che quasi vediamo le immagini e le scene del suo racconto.
Capra sapeva bene come farsi seguire, come catturare l’attenzione del pubblico.
Parla di sé, ovviamente, in questo libro di memorie. Del suo Io che a volte può sembrarci ipertrofico. Ma anche e forse soprattutto della composita società americana, e del mondo, crudele e insieme meraviglioso, del cinema. A volte, anzi, specie di fronte a certe disgrazie private, Capra stende un velo di autentica pietà e passa oltre, con pudore. Il dolore profondo, quello che ci strazia intimamente, è sempre inesprimibile.
Si concentra invece sul suo lavoro. E sulla dignità del lavoro. Sul valore collettivo di ogni film, che nasce sempre da un’unione di forze individuali, anche se in ultima analisi è l’opera di un solo artista.
L’individualismo incoercibile di Capra, infatti, è sempre plurale. Non possiamo essere liberi e indipendenti che assieme agli altri. Con gli altri e, anche, grazie agli altri.
Tutto il suo bildungsroman non è che una titanica lotta di autoaffermazione. In primo luogo, lotta per uscire dalla miseria. Ribellione contro la sua tirannide.
L’incipit è proprio l’affermazione di questo desiderio di fuga dall’indigenza: “Odiavo essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone, intrappolato com’ero nello sporco ghetto siciliano di Los Angeles”.
Ma il romanzo – che tale è – di Capra comincia prima. Comincia in Sicilia, a Bisacquino, con una misteriosa lettera giunta dalla lontanissima America. È il destino che irrompe nella storia, o viceversa. La lettera reca una firma sconosciuta: Morris Orsatti.
Ma tutto il suo contenuto rimane sconosciuto per la famiglia Capra. Nessuno infatti sa leggere. Bisognerà quindi che il prete la legga per loro e ne spieghi l’enigma.
La lettera venuta dall’altro mondo, dal nuovo mondo oltre il mare e l’oceano, in realtà è di Ben, il fratello maggiore di Frank, che cinque anni prima, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, si era imbarcato clandestinamente a Palermo a bordo di un mercantile greco diretto a Boston.
Ben racconta ai suoi familiari un lustro di terribili avventure: si è ammalato, è stato rapito, ridotto in schiavitù, è fuggito, è finalmente approdato a San Francisco dove ha trovato lavoro nella costruzione della linea ferrata. Una serie di peripezie romanzesche degne di un Defoe o di un Richardson! 
Ora che si è sistemato chiama la famiglia a condividere il sogno americano.
È così che nel 1903 Salvatore Capra s’imbarca sul transatlantico “Germania” insieme alla moglie e quattro figli: Josephine di quattordici anni, Tony di dodici,  Frank di sei (compiuti a bordo il 18 maggio) e Ann di appena tre. Rimangono invece a Bisacquino le figlie più grandi, già sposate, Luigia e Ignazia.
Il piccolo nucleo di emigranti siciliani già comincia a subire una prima metamorfosi onomastica, almeno nella ricostruzione memoriale di Frank. Il quale all’inizio è il meno entusiasta di un così travagliato sradicamento, ma sarà subito il più lesto a cogliere le opportunità che gli offre l’America. 
L’episodio della lettera di Ben, indecifrabile per un’intera famiglia di analfabeti, gli ha fatto capire l’importanza dell’istruzione. Non c’è schiavitù maggiore dell’ignoranza.
Tutti tranne Frank cercano e trovano subito lavoro. Frank è diverso: “La mia famiglia mi considerava strano”. La sua stranezza consiste propriamente in una naturale predisposizione allo studio. Ovvero in una tenace volontà di apprendimento e di elevazione unita a una spiccata capacità di assimilare ogni contenuto che incontra nel suo percorso formativo. 
“La determinazione della mia famiglia nell’accumulare soldi era uguagliata solo dalla mia ostinata determinazione a conseguire un titolo di studio”.
Frequenta quindi con impegno la scuola, benché la famiglia lo derida (“non potevano sapere quel che sapevo io: che certo ero nato contadino, ma che sicuramente non sarei morto tale”). Gli esiti brillanti confermano di anno in anno questa sicurezza interiore di appartenere a un destino di riscatto e successo. Nel tempo libero vende giornali. Poi si occupa delle pulizie nella sua scuola e suona pure la chitarra in un bistrò. Nonostante i molti impegni extrascolastici, è sempre uno studente modello che non si limita a seguire con eccellente profitto i propri corsi ma si interessa di tutto in modo famelico e onnivoro.
“Libri, libri, libri – li leggevo tutti, da quelli di scienza a quelli di storia e di poesia”.
È come se considerasse la sua istruzione alla stregua di un tirocinio abbastanza vasto da comprendere i più diversi sviluppi.
In ciò è favorito dalla sua prontezza d’apprendimento e dalla sua elasticità mentale.
“Mi riusciva così facile lo studio che finii la scuola superiore in tre anni e mezzo invece di quattro”.
Se anticipa i tempi, l’instancabile Frank, è solo per poter lavorare di più, mettere da parte un po’ di soldi e continuare quindi gli studi all’università.
I suoi sacrifici, peraltro sempre affrontati con vitale entusiasmo, gli consentono di laurearsi ingegnere chimico nel giugno del 1918.
A questo punto il figlio di un contadino siciliano analfabeta potrebbe dirsi realizzato fin oltre le più rosee aspettative. E invece il giovane Frank non ha ancora placato il suo rovello, la sua ricerca interiore. 
La famiglia, che gli ha concesso il privilegio prezioso di una formazione specializzata, si aspetta da lui che diventi un presidente di banca.
“Essendo stati educati a adorare il denaro, era naturale per loro pensare che il premio di una lunga istruzione fosse dirigere il luogo dove il denaro era custodito”.
Ma Frank aspira ad altro, anche se non sa ancora cosa sia. Ed è disposto, pur di scoprire e seguire questa sua strada verso l’affermazione di sé stesso, ad affrontare la riprovazione e perfino il dileggio dell’intera comunità. Soprattutto “delle donne siciliane del quartiere”, per le quali la sua condizione inoperosa e sterile, specie dopo tanto inutile studio, era incomprensibile e inaccettabile.
“Un uomo adulto che non si sposava e che non lavorava era per loro uno scandalo e insieme una minaccia. Queste strane idee avrebbero potuto influenzare i loro uomini”.
Frank Capra comincia presto a fare i conti con la sua eresia, la sua follia, che egli definisce la sua “diserzione”, cioè il suo essere diverso, inassimilabile. Non ha ancora trovato una via di fuga, ma la cerca con inesauribili energie. Trova un primo lavoro come insegnante privato di un ragazzo ricco e svogliato grazie alle sue capacità musicali come chitarrista. Poi la mafia cerca di arruolarlo come chimico, senza riuscire a piegare la sua rettitudine. Nonostante il titolo di studio, è ancora disoccupato. Il suo mestiere consiste nell’imparare e tesaurizzare le conoscenze acquisite per uno scopo ancora indefinito. Quando casualmente (o fatalmente) incontra il mondo del cinema, mette a frutto nel campo delle emulsioni fotografiche le nozioni scientifiche apprese in intensi anni di studio (“… è strano come una cosa imparata a scuola, qualunque tipo di cosa imparata, possa poi tornare utile nei momenti più disparati”).
Se la tecnologia lo sorregge, prestissimo comincia a formare il gusto e i primi abbozzi di un’estetica a cui rimarrà sempre fedele.
Prima del suo fortuito e avventuroso esordio come regista, si documenta recandosi al cinema per familiarizzare con un linguaggio che ignora pressoché totalmente. Resta sconvolto da “donne truccate come bambole… uomini che sembrano omosessuali… finte parrucche, finte barbe”. Certo, nella sua reazione (“Cristo, io non lo farei mai”) c’è un fondo di moralismo provinciale. Ma c’è pure l’avvertimento, ancorché confuso, di un’esigenza di autenticità e di realismo che in seguito saprà diventare uno stile inconfondibile.
Partito dalle mansioni più elementari nel ribollente calderone di Hollywood, approda allo status di creativo dimostrando capacità nella pratica del montaggio. È ancora la tecnica a favorirlo nei primi passi della sua carriera, ma già si delinea un certo suo sguardo strabico, per un verso rivolto al lato pratico e oggettivo del lavoro cinematografico, per un altro ai suoi risvolti fiabeschi: “Mi sono avvicinato al cinema con la meraviglia di un bambino, ma anche con la razionalità di una mente scientifica”.
È quello che forse potremmo definire il realismo magico di Capra. Cioè il risultato di un doppio linguaggio che incrocia modernità e archetipi grazie all’apporto di una mentalità pragmatica basata su una straordinaria capacità di osservazione. 
Un esempio: finita la lavorazione de La follia della metropoli, Capra analizza le reazioni del pubblico nelle anteprime, partendo dalla convinzione empirica che il comportamento di gruppo differisce sensibilmente da quello individuale. Si accorge allora che il film, proiettato in sala, presenta un difetto di ritmo, cioè un rallentamento che determina un calo di interesse e di coinvolgimento. Decide pertanto di accelerare la narrazione con una serie di interventi che sono al tempo stesso tecnici e stilistici: taglia le entrate e le uscite degli attori, di modo da farli “saltare direttamente nel cuore delle scene”; elimina le dissolvenze e sovrappone le battute, come accade naturalmente nei colloqui reali, in modo da rendere più concitato e vivo il sonoro; accelera di un terzo il passo delle scene. Muovendo da un dato psicologico sulla percezione collettiva dell’andamento del film, Capra ha introdotto una nuova sintassi. Si tratta, né più né meno, di sperimentalismo. Non quello d’avanguardia, ovviamente, bensì un metodo basato sul “provaci e sbaglia” adottato fin dagli esordi. 
Nella scala di valori di Capra, la tecnica resta comunque subordinata alla comunicazione e all’atmosfera. A patto che le “necessarie” atmosfere “si impongano sottilmente, suggestivamente”. Nessuno sfoggio, quindi, di forzature allegoriche o di esibizionismi intellettualistici: “Le ostentate prodezze con la macchina da presa sono il segno di riconoscimento dei principianti, che s’innamorano delle angolazioni bizzarre e delle riprese mosse con la macchina a mano”. Sarebbe meglio invece che il regista amasse di più i suoi attori e rinunciasse alle vanità del tecnicismo.
Il talento di Capra è il frutto di una propensione ad assimilare e a cimentarsi nei problemi. E soprattutto di un’attenzione al modo in cui la “gente”, pur rimanendo composta da individui, si rapporta collettivamente nei confronti dei meccanismi del comico e del tragico. È da questa attenzione che scaturisce l’applicazione in forma di gag della paradossale teoria della “intransigenza degli oggetti” appresa all’università in un corso di letteratura. “C’è una cospirazione fra gli oggetti inanimati per frustrare gli sforzi degli uomini, specialmente di quelli antipatici”, affermava un certo professor Judy.
Capra costruisce su questo teorema uno sketch basato su una porta che si apre o resta chiusa secondo modalità e circostanze inspiegabili. Che l’arbitrio insondabile delle cose muova al riso è un dato di fatto che si può osservare e registrare. Il perché resta invece misterioso. Proprio com’è misteriosa la creazione poetica.
Capra è affascinato dal mondo emblematico del Krazy Kat di George Herriman: opera geniale e ineffabile, sospesa in modo enigmatico sull’assurdo del suo schema iterativo. Anche questa lezione, che promana dall’universo popolare dei comics, gli resta impressa: “Per quanto riguarda i valori estetici, ho sempre pensato che il mondo non può crollare fintanto che esistono uomini liberi in grado di vedere un arcobaleno, sentire la pioggia e ascoltare la risata di un bambino”.
È proprio quel tratto caratteristico dell’opera di Capra che una certa critica ha talora esecrato e dileggiato, definendolo “sentimentalismo”. Di certo, non si trattava di una edulcorazione artefatta. L’autobiografia di Capra dimostra che tale sentimentalismo era davvero un suo modo di pensare e di essere, nonché una piega imprevedibile che prende certe volte la realtà stessa.
Era stata proprio la gavetta a costruire il cosiddetto (e sedicente) ottimismo di Capra, cioè un’estetica “a effetto” che i detrattori denominavano “Pollyanna” (così come, all’inverso, un certo realismo sordido e pessimista veniva chiamato “Ashcan”, cioè cassonetto).
A un certo punto della sua carriera, Capra rischia effettivamente di indulgere troppo in un sentimentalismo stucchevole. È questa l’accusa che gli muove un intellettuale suo amico, Myles Connolly, per il quale Capra cerca soprattutto di creare prodotti che incontrano il favore del pubblico. Le sue parole sono taglienti.


“Tu non sei un artista. Sei un truffatore. Gli artisti muoiono e rinascono continuamente. Tu passi attraverso i tuoi filmetti senza neanche farti un graffio”.


Capra farà tesoro di questa umiliante provocazione, anche se in un primo tempo sembra prevalere il pessimismo della sua origine contadina. “Connolly feriva perché aveva ragione”, ammette. Ma ha paura di impegnarsi nel suo lavoro, di aderire totalmente ad esso. È la voce di un “buon senso” interiore, atavico, che continua a metterlo in guardia, a ricordagli che il successo potrebbe essere un’illusione passeggera, destinata a dissolversi come un sogno, giacché “gli artisti non sono costruiti dal caso o dall’ingegneria chimica”. Quindi, è forse più opportuno tenere “in mano il gioco” e portare “a casa i soldi, finché dura”.
Come sempre Capra si rivela un uomo spaccato a metà, il cui vitale ottimismo, ossia la fiducia innata nel proprio successo, la convinzione che, qualunque cosa potesse accadere, “tutto sarebbe finito per il meglio”, si accompagna sempre alla paura di fallire. Ogni successo, ogni trionfo, perfino l’agognato Oscar, da un lato gli conferma un oroscopo benevolo, ma dall’altro gli appare come un monito sulla precarietà dell’esistenza. E teme di essere giunto al vertice solo per precipitare più rovinosamente.


“Avevo sconfitto la povertà e il ridicolo, ma mi restava un nemico più grande da sconfiggere: me stesso. Esteriormente accettavo gli onori con eleganza. Ma nell’intimo tremavo: ero ossessionato dal terrore che il mio prossimo film sarebbe stato un fallimento. In breve, morivo di fifa”.


In quest’uomo coriaceo e instancabile c’è dunque una fragilità essenziale, una cupezza di fondo che traspare in molti suoi film, frettolosamente catalogati come ottimisti e spensierati. Così come nella coscienza scrupolosa di quest’uomo coraggioso, che ha sempre saputo rischiare in ogni campo, affiora spesso l’ombra di una codardia assecondata con scelte di comodo.
A dargli del vigliacco, in un periodo piuttosto fosco in cui Capra versa in uno stato di malattia che si direbbe psicosomatico, è un omino calvo e insignificante che inforca occhiali dalle lenti spesse, una specie di fantasmatica personificazione della coscienza.
Le sue parole sono autentiche sferzate. La vigliaccheria di Capra consisterebbe a suo parere nell’ignorare per interessi e fisime personali la voce di Hitler, che in quel momento sta farneticando alla radio; di ostinarsi a non sentire la minaccia all’umanità che quella voce esprime: “Quell’uomo malvagio sta disperatamente cercando di avvelenare il mondo con l’odio”.
Come quella di Connolly, anche questa lezione morale, benché non impartita da un intellettuale, avrà formidabili conseguenze. Ne sortisce infatti un Capra insolitamente umile che immediatamente guarisce dalla sua “eccezionale” malattia immaginaria e si getta nel lavoro con un nuovo impegno civile.
Uno tra i migliori risultati di questa presa di coscienza morale e civile è Mr Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1936), con il suo semplice messaggio cristiano-socialista, l’utopia agricola della moltiplicazione dei campi e delle mucche.
Niente più che una favola filantropica, ma basata sul concetto scandaloso della redistribuzione del reddito in una società di forti sperequazioni.
Per la prima volta il nome di Capra sovrasta il titolo. Anche questo è un messaggio semplice, ma forte. È la filosofia che Capra definisce “un uomo, un film” (che è cosa del tutto diversa dalla presunzione di poter costruire un’opera cinematografica da solo). Capra segue il proprio istinto, nella consapevolezza che talento e istinto sono tutt’uno, le due facce di una medesima dote naturale. L’istinto lo guida verso l’uomo, per un cinema dalla parte dell’uomo.


“Quando quello sconosciuto insignificante omino mi aveva salvato dal fiume Stige, quelle poche parole tranquille che aveva mormorato erano state un sacro invito a impegnare il mio talento, poco o tanto che fosse, al servizio dell’uomo. Capii allora che fino all’ultimo dei miei giorni, e all’esaurimento del mio ingegno, mi sarei sentito impegnato. Non esserci sempre riuscito è una prova del fatto che la carne è debole”.


Prova di questo impegno umanistico è uno dei film più contestati di Capra: Mr Smith Goes to Washington, del 1939. Ancora un uomo qualunque, un candido campagnolo, che però ha la forza di scoperchiare il formicaio di interessi e corruzione del Senato, ingaggiando un’ impari lotta con i titani della politica. La stampa si divide tra detrattori inferociti, che accusano Capra di aver gettato fango sui valori della democrazia americana, e sostenitori entusiasti, che lo acclamano come uno dei più limpidi paladini proprio di quei valori. Il significato del film è fin troppo didascalico per essere frainteso: James Stewart/Jefferson Smith è un boy-scout disposto perfino a morire pur di fermare con un’eroica maratona ostruzionistica la criminale speculazione del senatore Paine (Claude Rains).
Nessun dubbio, quindi, sugli intenti di Capra, che da parte sua affronta le polemiche strumentali che investono il suo film con la più ferma convinzione: “Non è mai inopportuno sciogliere le campane della libertà”.
Le cose si complicano con il capolavoro (mancato?) Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941), un film drammatico e irrisolto, il cui punto debole (o di forza?) è l’impossibilità di una catarsi finale. C’è il cinismo smascherato dei media, c’è la solitudine dell’individuo nella società massificata, c’è il vicolo cieco delle esistenze esasperate, c’è l’aut-aut tra suicidio e crocifissione. Un film nero e terribile, dunque, un groviglio doloroso che Capra e la sua “squadra” non sanno come sciogliere.


“Per convincere i critici importanti che non tutti i film di Capra erano scritti da Pollyanna, e che potevo affrontare la cruda realtà con tanto di calci nello stomaco, Riskin e io avevamo scritto fino a trovarci con le spalle al muro (…) Fino a un certo punto la storia si era scritta da sé. Da lì in poi non andava avanti”.


Il cul de sac in cui viene a trovarsi Gary Cooper/Long John Willoughby, ex giocatore di baseball senza futuro, è uno stallo irrisolvibile per il quale Capra e Riskin immaginano cinque finali!
Ma il senso del film consiste proprio nell’impossibilità di qualunque finale. Secondo Capra questo limite non ha consentito che Arriva John Doe diventasse “un classico del cinema”. Probabilmente, invece, è avvenuto il contrario. Arriva John Doe è un classico proprio perché racchiude il mistero della vita, l’indecifrabile e inevitabile sconfitta di ogni essere umano.
Capra nel frattempo è impegnato anche in un’aspra contesa contro “l’autocrazia economica di Hollywood” e fonda la Liberty Film.
Dopo la parentesi della guerra che lo ha visto impegnato in una serie di documentari destinati alle truppe americane, Capra sta per giungere all’apice della sua creatività, il suo capolavoro finto-ottimista It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946), cioè la perfetta sintesi del suo pensiero e del suo stile (“quello che io considero il mio film migliore”).
Stranamente l’autobiografia di Capra si sofferma poco, almeno rispetto ad altri film, sulla lavorazione de La vita è meravigliosa.
Eppure si tratta di un film estremamente autobiografico, seppure alla rovescia, in cui il regista inserì diversi episodi della sua vita con una forte identificazione con il protagonista.
Capra racconta che l’ispirazione fu casuale (un biglietto di auguri natalizi), che inizialmente il soggetto destò il suo entusiasmo (“Era la storia che avevo cercato per tutta la vita!”) ma successivamente gli parve troppo fragile e melenso. Nell’esporla a James Stewart, la storia sembra quasi dissolversi (“Maledizione, Jimmy! Non ce l’ho una storia! Questa è stucchevole, una delle cose più orrende che abbia mai sentito”).
I dubbi e le problematiche oscillazioni di Capra (“Ma che razza di lavoro è questo per cui un giorno sei convinto di avere tra le mani una storia solida come I miserabili e il giorno dopo la butteresti via?”) testimoniano chiaramente l’ambiguità essenziale di questa strana fiaba consolatoria e al tempo stesso disperata.
È, a ben vedere, l’ambiguità stessa di Capra: un democratico sui generis affascinato dalla personalità di Roosevelt, che però si lamenta a più riprese delle vessazioni fiscali che lo privano di gran parte dei suoi guadagni. 


0 Commenti

DALLA DELEGA ​ALLA CONTESA - L’orlandismo, Orlando e la città di Palermo

2/5/2017
di Tommaso Baris

​L’articolo di Giovanni Di Benedetto apparso su questo stesso sito costituisce un importante spunto di riflessione e segnala una serie di problemi politici reali del tutto condivisibili, su cui è giusto porre l’attenzione.


L’“orlandismo”

Credo tuttavia contenga una lettura non corretta della vicenda palermitana e in particolare del fenomeno dell’“orlandismo”, presentato in queste specifiche elezioni come una ripresa del renziano “partito della nazione”. In realtà almeno dalla fuoriuscita dalla Dc in maniera esplicita (ma in modo implicito anche da prima) Orlando ha sempre caratterizzato la sua proposta, sin dai tempi della Rete, valutando positivamente la fine del ruolo dei grandi partiti di massa, con l’idea di una partecipazione basata sul leader, sul carisma della sua personalità, e il conseguente rapporto diretto con le masse, a partire da quelle popolari. 

In questo senso la sua posizione, maturata agli inizi degli Novanta, è rimasta coerentemente sempre la stessa. Si può anzi dire, come è stato sostenuto, che l’ascesa politica di Orlando nella Palermo dei primi anni Novanta, per certe sue caratteristiche appena ricordate ed altre ancora (personalizzazione, trasversalismo, identificazione con la città), è stata una anticipatrice del berlusconismo, compresa la distinzione manichea tra buoni e cattivi attraverso la battaglia retorica della contrapposizione mafia-antimafia, che lo ha spinto ad attaccare in maniera veemente quanti, indubbiamente antimafiosi, non concordavano con la sua personale visione di quella organizzazione criminale (basti ricordare l’attacco a Falcone sulla questione della presunta copertura del terzo livello politico da parte dei magistrati del maxi-processo). A questa impostazione Orlando è sempre rimasto legato: ci sono stati ovviamente momenti in cui i partiti hanno avuto più forza e Orlando ha dovuto tenerne conto (si pensi al secondo mandato diretto ottenuto a metà anni Novanta), ed altri in cui i partiti erano più deboli ed allora la sua tensione antipartitica è stata ulteriormente esasperata.

Vale forse la pena ricordare che anche cinque anni fa Orlando si candidò sostanzialmente con una lista personale, contrapponendosi ai partiti e disconoscendo il voto delle primarie del centro-sinistra, al di là dei possibili inquinamenti. Anche in quel caso scese in campo, a suo dire, per la salvezza della città, presentandosi come il salvatore dal male, dalla corruzione e dalla mafia. Anche allora l’unica garanzia del percorso fu la sua persona e il suo essere direttamente in campo, ben riassunto dallo slogan “il sindaco lo sa fare”. Anche cinque anni fa si rivolgeva a tutta la città, in maniera trasversale, a parte appunto i corrotti e i mafiosi. A me pare che oggi assistiamo a una evoluzione di quella stessa impostazione, con una differenza importante. I partiti, o meglio quel poco che ne resta, mentre cinque anni fa almeno lo hanno contrastato in maniera, per loro, più dignitosa, presentandosi alle elezioni in modo autonomo, adesso, accettando di accodarsi a lui, senza simboli, e con liste in qualche maniera concordate con il sindaco, sanciscono la loro definitiva resa alla visione orlandiana della politica, almeno a Palermo. 
Questo non vuole dire che tale accordo non possa prevedere qualche prebenda di posti di sottopotere ma non credo, per il modo stesso in cui è stato raggiunto, che Orlando si lascerà condizionare da questi appoggi nelle scelte principali riguardanti la città.


Orlando: il sindaco lo sa fare?

Preso atto dei tratti della cultura politica orlandiana credo che vada però anche valutata la sua azione amministrativa.
Da questo punto di vista credo che gli vadano riconosciuti diversi meriti. Negli anni di Cammarata la città era apparsa completamente allo sbando: sostanzialmente fallite tutte le aziende comunali, nessuna idea di rilancio della città, nessun piano su come affrontare alcune storiche criticità (perlomeno quelle risolvibili da una amministrazione comunale).
A partire dal suo ritorno a Palazzo delle Aquile, Orlando ha comunque proposto una visione della città e dei suoi problemi: ha ripreso e rilanciato l’idea del tram, proponendo un progetto di mobilità pubblica che (giusta o sbagliata che sia) intende portare avanti nel tempo; ha scelto, tra grandi contestazioni di molti soggetti, con motivazioni assai differenziate, la via della pedonalizzazione del centro storico e della sua chiusura al traffico automobilistico; dentro questa scelta ha rilanciato il percorso arabo-normanno e ottenuto il riconoscimento per Palermo di Capitale della cultura per il 2018; rilanciando una certa idea del capoluogo, che non è esente dai rischi richiamati dall’articolo di Vito Bianco, ma che è comunque una prospettiva chiara sul futuro della città anche se personalmente la mia idea di cultura resta una altra, con biblioteche pubbliche funzionanti e aperte a tutti, per diffondere anche nel territorio i saperi.

Accanto al rilancio di questa idea di Palermo ci sono stati interventi decisivi, sicuramente controversi e discutibili, ma indubbiamente efficaci. La salvezza e il rilancio delle municipalizzate è un dato importante, pur tenendo conto dei rilievi della Corte dei conti e degli stessi revisori del Comune, anche se la qualità dei servizi rimane non sempre all’altezza. In qualche maniera però la loro continuità è stata assicurata e non è poca cosa se si ricordano i rifiuti per le strade negli ultimi periodi della giunta Cammarata. La stessa cosa è accaduta anche per altre competenze del sistema comunale, come le strutture scolastiche, che si è cercato di potenziare tra mille difficoltà anche se molto rimane da fare, soprattutto da un punto di vista di qualità del servizio. Si tratta di risultati a mio avviso non trascurabili, specie all’interno di un quadro nazionale di smantellamento dei servizi sociali legati alle amministrazioni comunali in cui la forzatura del sindaco sui conti delle municipalizzate può essere criticata certo da un punto di vista contabile, ma meno (almeno a me pare) da chi chiede ai primi cittadini di andare oltre l’austerità forzata imposta dalle decisioni centrali.

Se questi a me paiono degli indubbi meriti della ultima sindacatura, i limiti sono, almeno per me, evidenti nella dimensione “politica” della sua azione amministrativa. Per le sue caratteristiche originarie, l’esperienza amministrativa di Orlando non ha e non può, di suo, rappresentare una “anomalia” politica. Non almeno nel senso di favorire una partecipazione reale (e non come artificio retorico) e costruire reali pratiche di inclusione nelle proprie decisioni delle proposte provenienti dal basso e supportate da movimenti collettivi. A me resta infatti la sensazione di un governo “elitario” della città, spesso portato ad individuare un potenziale sabotatore in chi pure cercava il confronto con l’amministrazione ma mantenendo una posizione autonoma. Significativamente la discussione sul regolamento sui beni comuni non è giunta a nessuna formalizzazione e la sistemazione dei Cantieri Culturali della Zisa (al di là delle scelte specifiche) non ha affrontato i problemi generali posti dal movimento dei “Cantieri che vogliamo”, che si era opposto con efficacia al tentativo di privatizzazione tentato dalla giunta Cammarata e che aveva posto questioni importanti sul modo di gestione degli spazi pubblici in città.

Complessivamente le questioni nuove emerse negli ultimi anni, (il tema dei beni comuni, la gestione degli spazi pubblici oltre la dicotomia pubblico-privato, la partecipazione dal basso con possibilità di articolare proposte autonome) non hanno trovato risposte innovative, privilegiando invece l’amministrazione, a me pare, soluzioni più tradizionali. Ci sono ovviamente due eccezioni importanti da non sottovalutare, quali il patrocinio al Gay Pride palermitano, organizzato dalle associazioni LGBT cittadine, e la stesura della “Carta di Palermo”, con il forte richiamo alla mobilità come diritto umano senza se e senza ma, e quindi al diritto dei migranti di essere riconosciuti e trattati come persone e non come mero problema di ordine pubblico, arrivando a chiedere l’abolizione del permesso di soggiorno, temi evidentemente entrati nella sensibilità del sindaco.

Questi indubbiamente sono due iniziative frutto di una positiva interrelazione tra istituzioni e movimenti e associazioni cittadine: e non vanno sottovalutati. Su altre questioni cruciali tuttavia, si veda ad esempio il piano regolatore, non si è riusciti invece neppure a far nascere un vero dibattito pubblico, come hanno lamentato alcune importanti associazioni, anche produttive (penso ad esempio all’esperienza delle piccole botteghe artigianali raccolte in Alab, molta diffusa nel centro cittadino), che hanno segnalato attraverso i loro esponenti molte difficoltà nel relazionarsi in modo positivo con gli assessorati competenti allo sviluppo delle attività produttive. Ovviamente questi aspetti richiamano ad un limite di analisi non imputabile alla sola amministrazione ma che coinvolge probabilmente la città tutta, dalle professioni alla politica. Ciò detto, resta, almeno a me, la sensazione che Orlando abbia gestito, in linea con la sua visione della politica, in maniera molto accentratrice la sua idea di città, relazionandosi direttamente con le forze sociali ed economiche esistenti a Palermo. Questo non vuole dire che le decisioni prese siano state sempre non condivisibili, ma rimanda ad un punto nodale di metodo, rispetto ai tratti caratterizzanti dell’orlandismo, a mio avviso basato sull’idea della delega ad una personalità forte ed ad un gruppo ristretto di persone intorno a quella al fine assicurare la guida “giusta” alla città e il suo sviluppo “corretto”.


Palermo lo sa fare?

Torniamo allora al dato politico da cui siamo partiti e con cui tocca confrontarsi. A mio avviso è un confronto che non si risolve nascondendosi dietro formule politiche, “alternative” o “anomale” che siano, ma provando a sfidare Orlando sul terreno della reale partecipazione politica, a partire dalla capacità dei movimenti collettivi di aprire contraddizioni e conflitti dentro la visione della politica orlandiana.
Il problema per chi ha una certa idea della sinistra è cioè smontare quanto c’è nell’orlandismo di visione a-conflittuale e monocratica del governo della città, per provarne invece a fare un campo di contesa, in cui introdurre la forza dei movimenti collettivi e della pratiche concrete di “conflitto” provando a rimettere in discussione l’idea di gestione dall’alto propria dell’orlandismo. Una sinistra cittadina capace di incidere sui processi reali può e deve costruire la sua autonomia a partire da questa capacità di “disvelamento” dell’approccio orlandiano costringendolo a confrontarsi con le domande sociali che provengono dal basso. Da questo punto di vista si tratta non solo di raccogliere e dare voce al grande disagio sociale che, anche a causa della crisi economica generale, si è aggravato enormemente in città e verso cui, a vedere gli impegni della spesa sociale, solo nella seconda parte del suo mandato l’amministrazione sembra aver avuto maggiore attenzione, ma anche pensare e proporre nuove pratiche di welfare cittadino, che vadano incontro alle domande delle nuove figure sociali presenti nel tessuto urbano.

Si tratta cioè di costruire la propria “soggettività” politica recuperando una dimensione conflittuale e al contempo propositiva dello spazio pubblico, che sfidi l’amministrazione comunale futura sul terreno delle risposte concrete da dare. Da questo punto di vista mi paiono esempi altamente positivi alcuni dei percorsi costruiti nel centro cittadino. La sistemazione di Piazza Magione, con il supporto della Scuola Ferrara-Amari-Roncalli ed Addio Pizzo, ha visto un movimento variegato, di associazioni ed attivisti, ma anche abitanti dell’area e genitori, che ha costretto il sindaco a ripensare l’iniziale sistemazione pensata dall’amministrazione incentrata sull’area sgambamento cani. Campo di calcio e giochi dei bambini non erano infatti previsti e la loro realizzazione è il frutto di un percorso partecipativo che ha saputo costruire proposte autonome e diverse da quelle dell’amministrazione, riuscendo infine a spostarla sulle sue posizioni. Percorsi analoghi sono stati intrapresi in altre realtà, si veda su tutte l’esperienza di ripensamento dal basso del proprio quartiere portata avanti da S.O.S. Ballarò, caratterizzata al contempo da autonomia e dialogo con l’amministrazione sulle risposta da dare ai molteplici problemi dello storico mercato dell’area e del quartiere tutto. Ed anche la campagna di sport popolare in spazio pubblico, che portato alla creazione di spazi per la pratica sportiva in diversi quartieri cittadini. 
Mi limito qui a ricordare solo alcune iniziative che conosco meglio. Credo che in città ce ne siano altre da riconnettere insieme per fare rete. Al di là delle specificità delle singole esperienze, mi pare interessante il tratto di metodo che questi processi restituiscono: provano infatti a creare mobilitazioni collettive reali partendo dalle esigenze concrete che si sviluppano sui territori, proponendo soluzioni concrete e praticabili e costruendo su queste basi un confronto con l’amministrazione comunale, e provando, a partire dal consenso costruito per metodo e proposte, a mutarne la visione iniziale. 

​Questa mi pare la sfida da condurre su tutti i terreni, anche quello istituzionale, portando l’orlandismo sul terreno di una pratica reale di partecipazione dal basso e di capacità di dare risposta ai problemi sociali, cittadini e generali, che il governo comunale propone. Solo da questa via può nascere una sinistra come autonoma soggettività politica, caratterizzata dall’orizzontalismo rispetto ai processi decisionali e capace di offrire uno spazio alla mobilitazione collettiva che ancora tanti e tante portano avanti nella loro vita quotidiana con le loro scelte in città.
0 Commenti

SCUSI, DOV’È L’USCITA?

2/5/2017
di Vincenzo Marineo 

​Il progetto di unificazione monetaria è stato per tutti, inclusi i piccoli paesi, l’alibi per poter imporre ‘con le mani legate’ quelle politiche di classe che comunque sarebbero state portate avanti. Oppure: la sola cosa che tiene insieme tutte le differenti componenti capitalistiche europee è la deflazione salariale che viene garantita dall’Euro. Ancora: [l’Euro] è uno strumento disciplinante delle classi lavoratrici (*). Anche una breve storia dell’Unione Europea attraverso i successivi trattati che la definiscono, pubblicata sulla rivista “Jacobin” (1), arriva a questa conclusione: dalla metà degli anni ’80, l’Unione Europea è lo strumento messo in atto dalle élites per gestire l’economia sottraendola al controllo democratico. Lo aveva detto perfino Mario Monti, nel 1998: “[…] tutto sommato, alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale.” (2)
Insomma, sappiamo la verità sull’Euro e sui trattati europei, sulla loro funzione nel conflitto tra capitale e lavoro, e pure sui loro aspetti antidemocratici; ma non riusciamo a dirla, perché sembra che dichiarare questa verità metta di fronte a delle scelte – se uscire dall’Euro, se uscire dall’Unione Europea – che dividono la sinistra.

Il dibattito politico su queste scelte si è ormai avvitato su sé stesso. La tecnica preferita per averla vinta sembra essere questa: ciascun frammento della frammentatissima sinistra italiana si inventa una descrizione delle posizioni degli altri, procedendo a una loro severa critica. La critica risulta spesso fondata e convincente, ma colpisce solo un falso bersaglio, che si era d’altronde costruito a questo solo scopo. Tutto questo non serve, e ancor meno servono affermazioni come questa: “è impossibile essere di sinistra, ovvero proteggere il lavoro, essere contro l’austerità e difendere l’euro”, che hanno il solo effetto di provocare chiusure e risentimenti. Sarebbe quantomeno più utile affermare le proprie posizioni, invece di limitarsi a criticare la caricatura delle altre.
L’incapacità di produrre un dibattito costruttivo in realtà non deve stupire, se si pensa che non è chiaro neanche cosa sia il lavoro: non si spiegherebbero altrimenti, ad esempio, l’annoso dibattito sul reddito di base, nelle sue varie declinazioni, o le discussioni sugli effetti della ‘robotizzazione’. C’è la debolezza di fondo della sinistra, una debolezza che viene da lontano, che va oltre le contingenze del progetto europeo, e che forse è il vero motivo di tutte le difficoltà; occorrerebbe concentrare le forze per parlare del progetto della sinistra, e considerare quel che possiamo e dobbiamo dire oggi sull’Euro e sull’UE solo come la preparazione e l’occasione politicamente favorevole per sostenere la nascita di quel progetto.

Sul piano dell’analisi economica, che fornisce gli argomenti al dibattito politico, sono coinvolti tanti economisti degni di fede (ciascuno scarti chi vuole, ma dovrà ammettere che tra gli ‘avversari’ ce ne è qualcuno che è tale), ma i più, che economisti non sono, sono costretti a persuadersi come possono, come credono; e non potendo dare la loro adesione razionale finiscono spesso per essere solo dei tifosi del loro economista preferito. Mancano i partiti, senza i quali il discorso economico rischia di presentarsi come oggettivo, perdendo lo spessore della soggettività politica.
 
Una conclusione alla quale l’indeterminatezza dell’analisi economica può portare è l’accettare il fatto che la domanda “cosa succederà se l’Italia esce dall’UE e dall’Euro?” non può avere risposta, perché abbiamo di fronte fenomeni complessi, scenari che dipendono da troppe variabili. Se accettiamo questa conclusione, le scelte non dipendono più da da una presunta razionalità economica, ma diventano più propriamente politiche, superando la paralizzante frattura tra il piano dell’analisi economica (con le sue impossibili risposte) e quello della proposta politica (con la sua necessità di una risposta), frattura che condanna di fatto all’afasia, al non poter dir nulla, o troppe cose insieme, che è poi lo stesso del non dir nulla, a presentarsi alla fine divisi e rissosi perdendo la presa sul possibile elettorato. 

Neanche le élites dominanti sanno cosa succederà; ma, a differenza della sinistra, hanno dei progetti, il potere per metterli in atto, e devono comunque fare qualcosa perché le politiche sin qui seguite si stanno rivelando, per loro stessa ammissione, “insostenibili”. Hanno funzionato (dal loro punto di vista), ma non funzionano più. La BCE saprà forse inventare di nuovo qualcosa, come ha già fatto con il whatever it takes di Draghi, qualche ritocco ai Trattati si può pure fare, l’Euro e l’UE sopravviveranno, oppure ci troveremo di fronte alla loro fine; tutto questo passerà sopra le nostre teste, e rischiamo di non accorgercene neanche, impegnati come siamo a chiederci se bisogna uscire o no. 
Insistere sui pericoli dell’uscita suscita altre domande: dobbiamo allora darci da fare perché l’UE e l’Euro continuino ad esistere? e cosa siamo disposti a fare per tenerceli? quale tasso di disoccupazione è sostenibile, quale perdita di capacità produttiva è accettabile? Lasciamo piuttosto alle élites europee il problema del superamento della loro crisi: se c’è qualcuno che deve avere i piani per l’uscita dall’Euro, è la Banca d’Italia, o il Governo.

Non sapere cosa succederà non annulla le verità che sappiamo, che vanno affermate, indicando l’Euro e l’UE come strumenti della ristrutturazione capitalistica e come ostacoli messi lì per impedire la realizzazione di qualsiasi politica diversa da quelle sinora seguite di austerità e di penalizzazione del lavoro, con gli esiti di perdita di capacità produttiva e di aumento della disoccupazione che vediamo. Dobbiamo guardare oltre il progetto dell’Unione Europea, ma dire subito quello che sappiamo, come primo passo per quel progetto di sinistra che è urgente costruire insieme all’organizzazione che si dovrebbe candidare a realizzarlo. 
Proprio qui, nascosta dietro le discussioni sull’uscire o no dall’Euro, credo sia possibile rintracciare una sostanziale convergenza o almeno una compatibilità tra le proposte di molti economisti. Quello che manca è piuttosto la presenza nella realtà sociale, che bisogna ricostruire partendo da quel contesto, quello spazio politico, nel quale la partecipazione democratica ha un senso e delle regole.

Questo è un altro punto su cui la sinistra è divisa e paralizzata: se il livello sul quale organizzarsi debba essere quello europeo, o quello dei singoli Stati che compongono l’UE, o l’area Euro. Ma l’organizzazione in riferimento alle istituzioni di uno Stato non è né in alternativa né in contrasto con la costruzione di soggetti politici – partiti e sindacati – a livello sovra-statale, ne costituisce anzi la premessa sia logica che reale.
Sappiamo peraltro che le élites capitalistiche non si affidano affatto ai presunti meccanismi naturali del mercato, ma orientano l’azione degli Stati per mettere in atto quelle misure – economiche, sociali, politiche – volta per volta ritenute utili e necessarie a far funzionare il sistema economico: “comprano tempo” – come recita il titolo del libro di Wolfgang Streeck Gekaufte Zeit, tradotto in italiano come Tempo guadagnato – con l’aiuto del denaro. 

Nel giugno del 1973 Lelio Basso interviene in un convegno sul federalismo europeo (3), esponendo il suo punto di vista su tale progetto:
“È chiaro che per un socialista che si richiama a Marx come io mi richiamo, non c’è nessuna difficoltà a riconoscere il superamento dello stato nazionale. Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello «proletari di tutti i paesi unitevi» i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati. I capitalisti hanno fatto l’internazionalizzazione nelle grandi «multinazionali», mentre il movimento operaio è rimasto a livello nazionale. Questa è una delle accuse più gravi che faccio al movimento operaio.” […] “Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre […]”
E dopo avere criticato il prevalere dei regolamenti comunitari, la loro obbligatorietà, lo scavalcamento che essi realizzano del Parlamento, afferma: “quella che viene calpestata non è la sovranità nazionale, alla quale possiamo benissimo rinunciare, a condizione che sia rispettato, però, il fondamento della sovranità, che per noi è sempre il popolo e deve essere il popolo.”
Per chiarire questa affermazione, va ricordato quanto Basso aveva detto poco prima: 
“Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: «L’Italia è una Repubblica democratica»; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti «fondata sul lavoro»; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la «sovranità appartiene al popolo». Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto «la sovranità emana dal popolo» «risiede nel popolo»; ma un’affermazione così rigorosa, come «la sovranità appartiene al popolo che la esercita» era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della «sovranità statale», di quella francese della «sovranità nazionale», noi abbiamo affermato la «sovranità popolare» quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo.”
E penso di interpretare correttamente “popolo” dicendo che con tale parola si intende non una unione insiemistica di individui ricadenti sotto una certa definizione geografica o linguistica, ma quella precisa collettività definita e organizzata dalla Costituzione, che elegge il Parlamento e che è regolata dalle leggi che il Parlamento emana nel rispetto della Costituzione stessa (mentre manca ancora, in questo senso, un popolo europeo). Siamo in ambiti in cui il termine “populismo” non trova spazio; si tratta piuttosto di riconoscere nello Stato un luogo di mediazione del conflitto. E la “nazione” in tutto questo non c’entra nulla. (4)  
La sovranità popolare non è, poi, l’indistinta potenza di decidere ciò che si vuole: la sovranità si esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, per rendere operanti i suoi principi, che sono incompatibili con i trattati europei. Né si tratta, sia chiaro, di fissare la Costituzione come compimento della politica, ma di agire per iniziare a creare le condizioni per riorientare a sinistra la politica e per definire un più ampio spazio di azione, che potremmo provvisoriamente chiamare, per semplicità, “Europa”.


* Sono tre citazioni, ma non dichiarerò questi riferimenti all’attuale dibattito italiano, per non coinvolgerne gli autori in considerazioni che non è detto condividano.
1. Oisín Gilmore, “The Roots of the European Union”, https://www.jacobinmag.com/2017/03/european-union-wwii-trade-monnett-merkel-trump/
2. M. Monti, Intervista sull’Italia in Europa, a cura di F. Rampini, Laterza,1998.
3. http://leliobasso.it/documento.aspx?id=3eebf37bae1661b0596469776f188016
Ringrazio Alessandro Visalli per avere segnalato e commentato questo documento (http://tempofertile.blogspot.it/2017/04/lelio-basso-consensi-e-riserve-sul.html).
4. Carlo Galli, ne Il disagio della democrazia (Einaudi, 2011, pag. 44), scrive: “[…] se è vero che la nazione non è stata, storicamente, alternativa allo Stato, ed è anzi stata catturata dalla sua potenza, finendo col fornirgli legittimità, è anche vero che la nazione – quella rivoluzionaria dapprima e quella romantica poi – è un principio politico diverso dallo Stato, che può portarlo verso la democrazia sostanziale (il sogno, non realizzato, di Mazzini) quanto verso l’autoritarismo e perfino il totalitarismo (com’è avvenuto in Italia, da Crispi a Mussolini).”
0 Commenti

    Archivio

    Gennaio 2021
    Dicembre 2020
    Novembre 2020
    Ottobre 2020
    Settembre 2020
    Agosto 2020
    Luglio 2020
    Giugno 2020
    Maggio 2020
    Aprile 2020
    Marzo 2020
    Febbraio 2020
    Gennaio 2020
    Novembre 2019
    Ottobre 2019
    Settembre 2019
    Agosto 2019
    Luglio 2019
    Giugno 2019
    Maggio 2019
    Aprile 2019
    Marzo 2019
    Febbraio 2019
    Gennaio 2019
    Dicembre 2018
    Novembre 2018
    Ottobre 2018
    Settembre 2018
    Luglio 2018
    Giugno 2018
    Maggio 2018
    Aprile 2018
    Marzo 2018
    Febbraio 2018
    Gennaio 2018
    Dicembre 2017
    Novembre 2017
    Ottobre 2017
    Settembre 2017
    Luglio 2017
    Giugno 2017
    Maggio 2017
    Aprile 2017
    Marzo 2017
    Febbraio 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Ottobre 2016
    Settembre 2016
    Luglio 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Febbraio 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Novembre 2015
    Ottobre 2015
    Settembre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Maggio 2015
    Aprile 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015

    Feed RSS

I contenuti di questo sito, salvo dove altrimenti specificato, sono distribuiti con licenza
Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia (CC BY 3.0 IT)  
palermograd@gmail.com
Immagine
RSS Feed