di Tommaso Baris
In seguito all’incontro seminariale di martedì 1 marzo tenuto da Tommaso Baris (Università di Palermo) presso il circolo Rosa Luxemburg, pubblichiamo la prima parte di un articolo sulla storia dell’Unione Sovietica. La storiografia italiana si è arricchita recentemente di alcuni importanti contributi sulla storia dell’Unione Sovietica, permettendoci di rendere estremamente più articolata l’immagine dell’Urss costruita nel nostro paese. In particolare punto di partenza di questa riflessione sono i lavori di Silvio Pons e di Andrea Graziosi, che hanno condensato in due importanti volumi sul movimento comunista internazionale e sulla storia dell’Urss un pluriennale lavoro di ricerca[1]. Tra le tante questioni segnalate dai due volumi vale la pena soffermarsi su quella che mi pare cruciale: la forte correlazione esistente tra Grande Guerra e forma politica assunta dal partito bolscevico nel corso della sua presa del potere. Pons insiste molto su questo aspetto cruciale, sul fatto cioè che il bolscevismo, dinanzi al massacro della Prima guerra mondiale, abbia adottato un modello organizzativo strettamente militare, introiettando fortemente nella sua cultura politica le categorie e le forme organizzative tipiche di un moderno esercito di massa in vista del suo diventare il “partito della guerra civile”. L’idea di Pons è che questo tratto burocratico-militare costituisca l’essenza dell’approccio alla politica del bolscevismo e che caratterizzi quindi le scelte politiche non solo nel corso della guerra civile russa scoppiata dopo la presa del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, ma che continui ad operare anche dopo la stabilizzazione dello Stato sovietico, tanto nelle sue relazioni interne che in quelle esterne. Il modello burocratico-militare, quindi, come tratto specifico e costitutivo del bolscevismo russo, assunto nel corso della sua trasformazione in partito di massa al momento del ritorno sulla scena politica russa a partire dal crollo del regime zarista[2]. Graziosi sottolinea invece, accanto a questo primo elemento della militarizzazione del bolscevismo, la centralità nella riflessione politica di Lenin di alcune grandi questioni, su tutte quella delle nazionalità e quella della terra, e quindi del rapporto con il mondo contadino, questioni sostanzialmente estranee alla tradizione teorica del marxismo della II^ Internazionale, caratterizzato da una impronta nettamente deterministica e meccanicistica, tanto nella sua tradizione riformista che rivoluzionaria. Graziosi insiste molto su questo aspetto, considerandolo decisivo per gli esiti immediati del tentativo rivoluzionario di Lenin ma anche per le implicazioni di lunghissimo periodo che porrà al leader comunista dopo la vittoria[3]. È indubbio comunque, anche nella lettura di Graziosi, che sia stato l’approccio non “ideologico” al tema della terra (a lungo sottolineato dalla storiografia) e delle nazionalità non russe (aspetto meno noto ai non specialisti) a dare forza e concretezza al rivoluzionario progetto di presa del potere del leader bolscevico, operando la rottura in un paese sì imperiale e multietnico (dove la popolazione russa era meno della metà del totale) ma arretrato ed agricolo e quindi contro tutta la prevalente interpretazione dell’insegnamento di Marx ed Engels. Al centro del successo bolscevico, schematizzando molto, Graziosi pone dunque la dimensione eterodossa del marxismo di Lenin, che leggeva la conquista coloniale da parte del mondo occidentale come elemento di unificazione mondiale capitalistica ed anche fase di acutizzazione delle sue contraddizioni interne. Nella lettura del leader russo la fase imperialistica portava a compimento lo sviluppo borghese ma al contempo comportava la fine della funzione “progressiva” svolta dalla borghesia dopo la creazione di un mercato tendenzialmente mondiale ma contraddistinto oramai da inevitabili conflitti tra i maggiori stati capitalistici. È questa interpretazione complessiva del punto di sviluppo capitalistico, connesso, nell’ottica di Lenin, allo scoppio della Grande Guerra a rendere, a livello globale, nella sua visione, ormai matura ed improcrastinabile la costruzione di un potere proletario, il cui inizio in un paese arretrato è letto come anticipazione di una tendenza destinata comunque a diventare generale. La ricercata rottura rivoluzionaria, come è noto, era giustificata dunque dalla convinzione che tanto la guerra ed ancor più la presa del potere da parte “socialista” avrebbero aperto una fase rivoluzionaria generalizzata anche in Occidente, dove alla fine si sarebbe giocata la partita decisiva, non potendo un sistema “socialista”, in questa fase della riflessione leninista, essere realizzato su base nazionale in un quadro di unificazione del sistema economico mondiale, tanto più con una borghesia capitalistica giunta ad esaurimento della sua funzione “progressiva”. È in tale quadro di riferimento generale che la dimensione rivoluzionaria in Lenin si libera di ogni idea meccanicistica e deterministica, che legava la costruzione del socialismo in modo automatico alla crescita dello sviluppo industriale e capitalistico moderno, e torna invece a dispiegarsi sul piano della politica, recuperando al contrario una forte dimensione soggettiva e volontaristica. È quindi sul terreno della strategia politica che il partito, per Lenin, deve scendere in campo, operando la rottura rivoluzionaria a partire dall’analisi delle contraddizioni sociali del reale, intervenendo in esse e volgendole ai propri fini. L’affermazione del partito bolscevico, nel vuoto di potere creato dal crollo dell’impero zarista, ha come presupposto questi due diversi aspetti: da un lato la capacità di Lenin di costruire un partito fortemente militarizzato e disciplinato, capace peraltro di intercettare, come ricordano i due storici, l’inedita mobilitazione di milioni di persone, specie di estrazione popolare e di poca (o nulla) formazione culturale (data l’assenza di un sistema scolastico di massa), già messa in moto dai meccanismi della guerra mondiale, e dall’altro la grande capacità “strategica” e “tattica” del suo dirigente principale. Quest’ultimo, assai isolato e spesso costretto ad imporsi al resto del gruppo dirigente del suo stesso partito mettendo in campo tutto il suo prestigio e la sua autorità, si dimostrò assai abile, per arrivare alla rivoluzione, nell’utilizzare le due principali questioni “politiche” che stavano sconquassando l’impero russo, appunto quella nazionale e quella contadina, verso le quali la tradizione socialista era stata tiepida se non apertamente critica. Così facendo aveva sostanzialmente spiazzato i menscevichi e sottratto terreno ai socialisti rivoluzionari, il gruppo egemone nelle campagne russe, ma dilaniato da contrasti interni tra l’ala moderata e quella rivoluzionaria e complessivamente incapace di offrire una risposta complessiva alla questione della terra. Le intuizioni di Lenin permisero quindi ai bolscevichi, meglio e più di tutti gli altri gruppi politici, di connettersi e sintonizzarsi con l’ansia di rigenerazione messianica ed utopica che attraversava la società russa dove si diffondeva, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, l’aspettativa di una nuova era più giusta ed egualitaria, estesasi rapidamente in ampi e diversi settori del sistema ex imperiale. Il mondo contadino, la classe operaia delle grandi città numericamente rafforzata dalla produzione bellica ma esasperata dai ritmi di lavoro imposti, i soldati-contadini al fronte o in attesa di andarvi nelle guarnigioni dei centri urbani, furono attraversati da questa ansia palingenetica, giustamente ricordata come l’humus, il terreno fertile per l’attecchimento del messaggio rivoluzionario, come sottolineato in un bel libro di Marcello Flores dedicato qualche anno fa all’Ottobre. La relativa facilità della presa del potere, pensata (e giustificata) quindi ancora come premessa dello scoppio rivoluzionario in Occidente considerato inevitabile, spingeva però i bolscevichi ad accentuare la dimensione burocratica-militare come strumento politico, finendo per gestire il rapporto con la società con metodi sempre e più marcatamente coercitivi e repressivi mutuati direttamente dall’esperienza bellica[4]. Il bolscevismo avrebbe quindi impregnato la sua relazione con la nascente società “sovietica” di caratteristiche “militari” mutuate dal recente conflitto, introiettando e praticando quel processo di “brutalizzazione della politica”, per dirla con George L. Mosse, che avrebbe caratterizzato l’Europa alla fine della prima guerra[5]. Esasperando in termini assoluti la legittimazione teorica pure presente nella tradizione marxista, il bolscevismo tendeva quindi a fare della violenza lo strumento principale se non esclusivo della risoluzione del conflitto sociale acceso dallo scontro rivoluzionario, estendendo via via la sua pratica non solo contro i nemici dichiarati ma anche contro quanti si mostravano incerti ed indecisi, tendendo a risolvere su un piano esclusivamente “bellico” ogni forma di resistenza, comprese quelle che avevano un carattere e una natura sociale di cui si sarebbe dovuto tener conto con strumenti evidentemente diversi. Proprio insistendo su questo aspetto cruciale, senza negare il peso degli interventi dei paesi stranieri e della reazione zarista o comunque russo-imperiale, gli studi più recenti hanno sottolineato la centralità delle cause interne dell’amplificarsi ed aggravarsi della guerra civile nell’ex impero zarista, alimentata in gran parte dall’opposizione sempre più decisa alle pratiche “militari” di espropriazione dei beni alimentari da parte di quelle campagne che pure avevano sostenuto il processo rivoluzionario, interpretando questa opposizione soprattutto in termini di autogoverno del mondo contadino. Fu, come è stato dimostrato, il progressivo mobilitarsi dell’universo rurale contro il “comunismo di guerra” e i prelievi forzosi delle risorse agricole ed alimentari in favore delle città ad aprire lo spazio alla guerra civile interna, a cui i bolscevichi risposero accentuando il modello repressivo, che finì per esercitarsi anche sulla classe operaia urbana, nel cui nome pure si stava facendo la rivoluzione (si pensi alla proposta di militarizzazione dei sindacati da parte di Trotsky). La pressione bolscevica risultava quindi duplice: da un lato sulle campagne per rifornire le città, dall’altro sui ceti urbani irreggimentati ed inquadrati nell’“Armata Rossa” o comunque chiamati ad un gigantesco sforzo di sostegno ai combattenti in armi. Ne derivò l’ulteriore accentuazione dei tratti “militari” e “burocratici” della militanza politica bolscevica che coincise sempre più con la funzione di combattimento nelle fila dell’“Armata Rossa”, in un quadro di complessiva perdita di freni inibitori determinata anche dalla evidente natura “totale” dello scontro: vincere o morire, sterminare o essere sterminati. Prolungando le caratteristiche di estrema violenza della guerra combattuta sul fronte orientale contro tedeschi e austriaci, i bolscevichi interiorizzano la dimensione della guerra civile come conflitto assoluto: ce lo confermano le memorie di figure come il colto economista Georgij Pjatakov, impegnato nella fucilazione di migliaia di oppositori in Ucraina e nel Donbass, che ritroveremo dopo la militanza nell’opposizione di sinistra tra i grandi costruttori dell’industria sovietica nel periodo dei piani quinquennali prima di finire anche lui travolto dalla repressione staliniana[6]. Di questo clima è sicuramente testimonianza significativa l’estrema rivendicazione (intellettuale e pratica) del terrore fatta dallo stesso Trockij nel 1920, che nel vivo dello scontro scriveva rispondendo a Kautsky: La rivoluzione richiede alla classe rivoluzionaria che essa raggiunga il proprio fine con tutti i mezzi a disposizione, e se necessario con una insurrezione armata; se occorre con il terrorismo. (…) in un periodo rivoluzionario, il partito che è stato spodestato (…) non può essere terrorizzato con minacce di incarcerazione perché esso non crede nella durata del nuovo potere. È proprio questo fatto semplice ma decisivo che spiega il frequente ricorso all’esecuzione nel corso di una guerra civile. (…) L’intimidazione è un potente strumento della politica, sia interna che esterna. La guerra, come la rivoluzione, si fonda sull’intimidazione[7]. Rivoluzione e guerra (civile) finivano così con il confondersi, con la prima che perdeva la sua dimensione sociale in favore di quella meramente militare, confondendosi con la seconda, ed assumendone i tratti “sterminatori” già sperimentati con la Grande Guerra. I bolscevichi fecero proprio questo atteggiamento mentale, che accomunò la gran parte del gruppo dirigente del partito comunista, accentuando la tendenza alla creazione di leadership carismatico-bonapartiste (nel senso di legate alla guida militare). Come hanno dimostrato gli studi più recenti, infatti, il culto di Stalin come guida d’acciaio, sicura e senza incertezza, si forma già nel periodo della guerra civile, in occasione della sua stretta collaborazione con Lenin nella repressione anticontadina e non appare, già allora, meno solido ed esteso di quello che altri gruppi, tra cui gli “specialisti” militari recuperati nell’“Armata rossa”, riservavano invece a Trotskij, sicuramente il maggior organizzatore dello sforzo militare nel corso della guerra civile. Va da sé che un simile approccio generasse delle contraddizioni destinate ad emergere: come ha ricordato il rivoluzionario Victor Serge, combattente bolscevico dell’Armata Rossa poi oppositore dello stalinismo, in un articolo sulla rivolta della base navale di Kronstadt, a lungo cuore della forza dei bolscevichi a Pietroburgo, i marinai insorti, e repressi nel corso di “un terribile massacro”, certo non erano controrivoluzionari, ma aggiungeva pure che inevitabilmente la eventuale loro vittoria in nome dei “Soviet senza i comunisti” avrebbe aperto la via alla controrivoluzione travolgendo il potere bolscevico[8]. Lo schiacciamento sul modello militare poneva quindi la leadership bolscevica di fronte ad una serie di problemi politici destinati a riproporsi. È dentro questo quadro che opportunamente Graziosi colloca il cambio di rotta maturato da Lenin, in sostanziale solitudine. Lo studioso sottolinea infatti che, prima ancora della appena citata rivolta nel 1921 della base navale, espressione massima dell’opposizione alla dittatura assunta ormai dal partito comunista recidendo via via il legame con le stesse basi sociali che l’avevano sostenuto nella presa del potere, siano state già le repressioni condotte nel corso del 1919 e del 1920 delle sollevazioni contadine (su tutte Tambov) a spingere Lenin ad un ripensamento complessivo della sua strategia politica, aprendo la strada a quella che sarebbe diventata la Nep[9]. Il nuovo orientamento politico di Lenin non significava ovviamente il rinnegamento dei metodi spietati di lotta contro i nemici interni e le sacche di resistenza al potere sovietico adoperati nel corso della guerra civile, con pratiche di fucilazioni di massa ed imprigionamenti di quanti venivano, a torto o ragione, considerati nemici di classe, quanto la consapevolezza, una volta raggiunta la vittoria militare, che quella “politica” andasse in qualche maniera costruita su basi diverse se si voleva rendere il regime stabile e non recidere del tutto ed in maniera irreversibile le basi sociali da cui pure la rivoluzione era partita. [1] S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale, Einaudi, Torino, 2012. A. Graziosi, L’Unione Sovietica 1914-2011, Il Mulino, Bologna, 2011. [2] S. Pons, La rivoluzione globale cit. p. 20. [3] A. Graziosi, L’Unione Sovietica cit. pp. 42-43. [4] M. Flores, 1917. La rivoluzione, Einaudi, Torino, 2007. [5] G. L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Roma, Laterza, 2005. [6] Cfr. A. Graziosi, Stato e industria in Unione Sovietica (1917-1953), Napoli, Esi, 1993. [7] L. Trotckij, Terrorismo e comunismo, Milano, Mimesis, 2011 (1920), p. 123. [8] Citato in E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 203-204. Sulla rivolta: J.J. Marie, Kronsdtadt 1921. Il soviet dei marinai contro il governo sovietico, Utet, Torino, 2007. [9] A. Graziosi, L’Unione Sovietica cit., p. 59.
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DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
19/5/2016
di Marcello Benfante
Nel centenario della morte di Jack London – uno dei più importanti e popolari scrittori americani, a cui devono moltissimo, tra gli altri, Hemingway e Kerouac – il narratore e critico Marcello Benfante (qui una nostra intervista) rilegge per PalermoGrad il romanzo che da più parti è indicato come il suo capolavoro: Martin Eden, storia di una incontenibile ascesa spirituale e di un tragico precipizio nel nulla. Martin Eden, considerato da molti il capolavoro di Jack London, apparve in volume nel 1909. Nello stesso anno usciva sulle pagine del giornale parigino “Le Figaro” il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. La concomitanza non potrebbe essere più stridente. Da un lato un romanzo ancora d’impianto ottocentesco, che potremmo in buona sostanza ricondurre alla lezione del verismo francese o assimilare per certi versi alla parabola di un Mastro don Gesualdo rivisitato come self made man dell’industria culturale. Dall’altro la nascita delle avanguardie con la loro insolente ma innegabilmente fertile provocazione destinata ad avere i più diversi esiti nell’arte e nella letteratura. Tuttavia, in certi suoi aspetti quasi parodici (un Bildungsroman talora sul punto di sconfinare in un semicaricaturale donchisciottismo) e soprattutto nella ricerca di una rappresentazione di remoti processi di autoanalisi introspettiva, Martin Eden presenta taluni risvolti in qualche modo sperimentali, sebbene ancora lontanissimi da qualcosa di paragonabile a uno stream of consciousness. Ma il 1909, allorché Jack London si accinge a costruire la sua “Wolf House”, è anche l’anno della morte di Algernon Swinburne, una figura chiave nel Martin Eden, che dischiude il simbolismo decadente che alimenta in modo latente il romanzo. L’avventura intellettuale di Martin inizia proprio con un libro di poesie di Swinburne, scoperto casualmente nell’istante profetico che precede il primo incontro con la fatale Ruth, nella sua raffinata abitazione, tempio e faro dell’intellighenzia alto-borghese. “Ma chi era Swinburne? Era morto un centinaio di anni prima, e anche di più, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo e vegeto e continuava a scrivere? tornò al frontespizio… sì, aveva scritto altri libri; bene, per prima cosa la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca pubblica per cercare di prendere qualche vecchia opera di Swinburne. Quindi si rimise a leggere e si dimenticò di se stesso, tanto da non accorgersi che una giovane donna era entrata nella stanza” (1). Galeotto fu il libro, potremmo dire. Ma soprattutto nel senso che è da questa sollecitazione epifanica che muove lo straordinario processo autodidattico di Martin, scatenando la sua irrefrenabile bramosia di conoscenza. E non può essere un caso che i versi di Swinburne accompagnino Martin nell’ultimo atto della sua tormentata esistenza, ispirandogli in modo suadente l’estremo gesto suicida: “Perché nessuna vita vive per sempre, perché i morti non risorgeranno mai, perché anche il più disperso dei fiumi trova la sua contorta, sicura strada verso il mare”. In una sorta di cerchio estetico ed esistenziale, Swinburne apre e chiude l’inane ascesa di Martin, nuovo Adamo che da una condizione edenica (da cui il suo nome) di selvaggia innocenza ha preteso di elevarsi oltre se stesso, creando, nella sua orgogliosa solitudine, una fantasmatica Eva da una costola della sua volontà di onnipotenza e onniscienza. L’apprendista übermensch Il romanzo di una morte annunciata, potremmo dire. Una morte che si rivela con la certezza dei suoi presagi. Ma anche il romanzo di una vita vissuta forse troppo intensamente, come a volerla bruciare. La vita stessa di Jack London. Ha scritto Fernanda Pivano: “ Naturalmente viene da pensare a Hemingway: ma gli eroi di Hemingway la morte la prevedono prima di cominciare a essere eroi, vanno alla caccia grossa o a lottare sull’arena dei tori o a pescare da soli il pesce spada già avviandosi verso la morte; mentre quelli di London cominciano sempre ad agire nel tantativo di conquistare la vita, di allargarla, di darle una dignità e finiscono per essere divorati, sconfitti, ma dalla vita stessa, non dalla morte” (2). Difficile dire quale delle due visioni pessimistiche sia più cupa, se la funebre ananke di Hemingway o l’inane rivolta di London. Quest’ultima è solo apparentemente più vitale e determinata. Martin è infatti un personaggio che fortissimamente, a dirla con Alfieri, vuole sapere, prima ancora di essere. Imparare è il suo modo di esistere, di rapportarsi al mondo. Caparbio edificatore e progettatore della propria formazione culturale, Martin è dapprima un lettore onnivoro e insaziabile che procede in modo febbrile e casuale. “I tanti libri che leggeva servirono, però, solo a far crescere la sua inquietudine. Ogni pagina di ciascun libro era uno spioncino sul regno della conoscenza. La sua fame si alimentava di ciò che leggeva, e aumentava”. In questa ricerca vorace si imbatte in Kipling e ne rimane affascinato. Tramite Kipling scopre la parola “psicologia” e ne apprende il significato sul dizionario che ha comprato ricorrendo ala “sua riserva di denaro” guadagnato con la periodica attività marittima. Procede intanto i suoi studi su un testo di grammatica e cerca di acquisire i principi del galateo per evitare magre figure nel mondo formale di Ruth e della sua famiglia. Il passo successivo è l’esame delle regole metriche e delle strutture poetiche. “La sua era una testa portata per lo studio, e dietro quella abilità a imparare c’era la sua natura tenace e il suo amore per Ruth. La grammatica che si era portata appresso, l’aveva letta e riletta sino a quando il suo instancabile cervello non era arrivato a padroneggiarla”. Nel frattempo continua sistematicamente lo studio del lessico, aggiungendo venti nuove parole al giorno al suo vocabolario. Coglie al volo qualunque occasione possa accrescere le sue conoscenze. A bordo di una nave scopre che il capitano, un norvegese, possiede le opere complete di Shakespeare, che non ha mai letto. Martin si offre di lavargli la biancheria in cambio del permesso di leggerle nel tempo libero. I suoi studi si allargano poi alla fisica, alla chimica, all’algebra; quindi alla geometria e alla trigonometria. Del latino invece non sa che farsene: “Vorrei che i popoli morti restassero morti. Perché io e la bellezza che è in me dovremmo essere guidati dai morti? La bellezza è viva e senza tempo. Le lingue vanno e vengono, sono la polvere dei morti”. Costantemente Martin allarga e approfondisce le sue nozioni e le va sistemando in un quadro sempre più organico grazie a un ritmo di apprendimento elevatissimo e ad una funzionale ed efficiente organizzazione dei materiali acquisiti. “L’immaginazione di Martin era viva come sempre e la sua mente un archivio di ricordi e fantasie, dove si entrava con facilità e dove tutto era sempre messo in ordine, pronto per venir ispezionato”. Quasi come il Funes borgesiano, Martin è dotato di capacità mnemoniche straordinarie. E al tempo stesso sa come utilizzarle, facendo di ogni apprendimento uno strumento per il suo lavoro o uno stadio propedeutico alla sua carriera di scrittore. I primi insuccessi letterari non lo scoraggiano. Esamina i racconti pubblicati dai giornali e ne ricava alcune costanti della cultura di massa che imita allo scopo di superare il vaglio delle redazioni (“non devono essere mai tragici, non devono mai finire male e nemmeno contenere raffinatezze linguistiche, sottigliezze di pensiero o delicatezze di sentimenti”). Si piega a rispettare queste condizioni riduttive al solo fine di aprirsi una strada verso l’affermazione della propria arte. Il suo tirocinio ha obiettivi precisi e scadenze inderogabili, e tuttavia Martin dimostra duttilità nell’uso delle sue notevoli doti. Ascesa e caduta dell’albatro Eroe della volontà categorica, che infine rimane schiacciato da una insopprimibile noluntas nichilista, Martin Eden è dunque un personaggio romantico e insieme decadente, che oscilla tra megalomania e depressione. La sua tragedia si estrinseca nella tensione infinita verso una meta irraggiungibile in quanto ogni volta posta in un oltre sfuggente. Egli mira a fare della sua vita il suo capolavoro, come un Oscar Wilde marinaresco o come un D’Annunzio proletario (l’autore de “Il piacere” è citato nel romanzo ed è l’unico scrittore italiano che partecipa alla formazione culturale di Martin Eden). La faustiana fame di conoscenza di questo personaggio ascetico, capace di uno sforzo titanico di assimilazione e rielaborazione, anziché accrescere la sua personalità, finisce per divorargli l’anima e per consegnarlo a un abissale tedium vitae. C’è all’inizio, insieme alla goffa purezza dell’albatro baudelairiano, una vena di arrivismo in Martin, una forte e appassionata determinazione a emanciparsi da una condizione di brutale insipienza, un sogno piccolo borghese di riscatto dal “fango” proletario in cui si avverte impantanato e imbrattato. In questa fase egli si allontana dal suo ambiente, per il quale prova sentimenti ambivalenti di rigetto, fino al disgusto, e di commiserazione. La sua è una tenace auto creazione dall’argilla della sua grezza specie, di invenzione del proprio destino. Ma a un certo punto, da Prometeo di se stesso, egli si trasforma in una alienante macchina per scrivere, divenendo ostaggio di un automatismo frenetico che lo obbliga a una superproduzione ossessiva e a vorticosi ritmi di corrispondenza con gli editori in un vizioso tourbillon epistolare di proposte e rifiuti. Sicché quando infine consegue il successo a cui così parossisticamente ha aspirato, si accorge di essersi ridotto a un automa svuotato di ogni pulsione vitale. La sua ferrea disciplina, paragonabile a una di quelle infernali lavanderie e stirerie in cui ha prestato servizio, lo ha del tutto essiccato degli umori interiori, rivelandosi un penitenziario di arsura e dannazione. Per una breve parentesi di relativo appagamento delle sue ambizioni, Martin, non più impacciato nei propri movimenti, ha potuto finalmente spiccare il volo, librarsi in un cielo di grazia e poesia. Ma è stato un volo di Icaro, trionfale e insieme ferale. L’inveramento/annullamento del proprio mito non gli concede altra fuga che il togliersi la vita proprio in quel mare da cui si è sottratto in cerca di un’autoaffermazione intellettuale. In questo drammatico epilogo (del personaggio e del romanzo) annunciato dai funebri versi di Swinburne e prima ancora di Longfellow, Martin, che ha dovuto costringersi a un ultimo sforzo di volontà per potere annegare, apprende il mistero ultimo dell’esistenza nel momento esatto in cui cessa di conoscere ogni cosa: “E nell’istante stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”. Ma paradossalmente la sterile rivelazione di questo definitivo enigma è insieme certificata e omessa dal narratore onnisciente. Il convulso individualismo cognitivo di Martin ha come esito un’assoluta amnesia di se stesso, la dissipazione nel nulla cosmico di tutto il sapere accumulato in molti anni di metodica e rigorosa esercitazione spirituale. Il suo disperato assalto al cielo si è dimostrato quindi assurdo quanto disumano. Eppure Martin, autore di un “Filosofia dell’illusione”, aveva teso spasmodicamente l’arco della propria esistenza al conseguimento di un’eternità da ottenere in grazia dell’amore e della poesia. A rendergli credibile questa chimera era stato l’incontro con Ruth Morse, sua musa e pigmalione, creatura eterea idealizzata e angelicata che in una prima fase gli appare “troppo spiritualizzata per potere avere un qualche genere di rapporto fisico con lui”, ma poi gradualmente si rivela una persona mediocre e colma di pregiudizi: “Ma ciò che aveva visto negli occhi di lei era l’anima, un’anima immortale che non avrebbe potuto mai spegnersi. Nessun uomo che avesse mai conosciuto, né alcuna donna, gli aveva fatto arrivare il messaggio dell’immortalità. Ma lei c’era riuscita”. L’ebbrezza purificatrice dell’amore spalanca nell’anima di Martin una prospettiva nuova e imperitura: “In Martin era invece svanita la necessità di bere cose forti. Lui era ubriaco in un modo nuovo e più profondo, era ubriaco di Ruth, che lo aveva acceso d’amore, facendogli intravedere una vita più nobile e infinita”. Alle prese con il suo sfiancante e dispotico tirocinio intellettuale, Martin è sostenuto da tre miraggi estatici, ossia da una sorta di trinità mistica, “la bellezza, l’intelligenza e l’amore”, verso cui si protende in un itinerario di progressiva elevazione spirituale. Diviene così, tra insonnie, meditazioni, digiuni e sacrifici quasi sovrumani, una specie di eremita incurante del mondo e della gloria stessa: “semplicemente un folle amante di Dio”. La stessa scrittura, in quanto miracolo della trasformazione di emozioni e sensazioni in parole che riprodurranno poi analoghe emozioni e sensazioni nel lettore, è intesa come “un compito divino”. Ma questo itinerarium mentis in Deum, ancorché in un Dio impersonale, condotto tuttavia in modi francescani di castità e semplicità con visionaria e quasi magica determinazione, s’interrompe con la scoperta sconvolgente di Herbert Spencer e la lettura dei suoi Primi principi, preso in prestito in biblioteca. E subito Spencer offusca perfino l’astro di Ruth: “leggendo tutto il pomeriggio, si dimenticò d’ogni cosa e persino del fatto che quello era il pomeriggio che Ruth dedicava a lui”. Dall’evoluzionismo spenceriano, Martin trae non solo una visione del mondo e della vita, ma finanche le forme espressive della propria scrittura: “Poi, ho anche letto La filosofia dello stile di Spencer e sono riuscito a scoprire un sacco di cose su quel che non va in me, o meglio nel mio scrivere, e per la verità anche nella maggioranza di ciò che viene pubblicato ogni mese nelle riviste”. Spencer quindi costituisce una scuola totale per Martin, al tempo stesso politica e filosofica, etica ed estetica, fisica e storica, che lo conferma nel suo distacco dalla plebe bovina e nel suo individualismo egocentrico, ponendolo tuttavia nel quadro di un universo in cui ogni cosa, dalla più piccola e vicina alla più grande e remota, è ugualmente collegata a tutte le altre da una relazione reciproca. Spencer diventa allora un credo che Martin assume e difende con fervore, fin quasi al fanatismo, una potente illuminazione di ogni suo atto e della sua stessa missione creatrice. Il misticismo materialista di Martin è ormai a un passo dal distacco totale dai falsi traguardi dell’amore e della letteratura. L’apprendista scrittore si dà un anno di tempo e chiede a Ruth un anno di pazienza e di fiducia. In realtà la deriva è ormai prossima. La morale del fare comincia a incrinarsi, a palesare la sua inconsistenza. Com’è noto, Jack London confessò allo scrittore Upton Sinclair che la sua intenzione era quella di dimostrare la sterilità dell’individualismo, lamentando che i recensori il romanzo non se ne fossero accorti. In realtà egli stesso, pur avendo aderito al socialismo, non era immune da confuse influenze nietzschiane e spenceriane che spesso hanno reso ambiguo il suo messaggio anticapitalista e proto-ambientalista. Nei suoi risvolti autobiografici (e nella stessa prefigurazione della morte di Jack London, avvenuta cent’anni fa, il 22 novembre del 1916, al ritorno dai Mari del Sud), Martin Eden è un romanzo di saldo realismo determinista. London non vi lascia trapelare alcuno spiraglio di trascendenza o sublimazione. Mostra anzi una demenziale, ancorché necessaria, corsa incontro all’affermazione del proprio io, che si rivela una pulsione autodistruttiva, una forza annientatrice del soggetto intrappolato nel proprio solipsismo. Non c’è quindi redenzione possibile, né alcun intento edificante o consolatorio: il romanzo di formazione si rivela un percorso ingannevole e beffardo, destinato allo scacco. La crescita culturale del protagonista, il suo stesso successo, sono l’espandersi canceroso di un male inesorabile. Di un doppio inganno, dapprima vissuto nell’illusoria finalità dell’amore, poi dirottato in modo non meno insincero e fallace su quella dell’arte per l’arte. La morte per acqua Jack London sembra talvolta far trapelare (sebbene con trasparente disillusione) la possibilità di una soluzione morale agli infelici dilemmi del suo alterego Martin Eden. Il socialismo potrebbe salvarlo, o almeno questo è l’auspicio che l’amico Brissenden, anch’egli poeta e anticonformista, formula poco prima di morire. “Vedi, mi piacerebbe vederti diventare socialista prima di andarmene. Darebbe un senso alla tua esistenza. È una di quelle cose che ti salveranno, nei tempi di disillusione che stanno arrivando per te”. D’altronde, l’esperienza più entusiasmante per Martin è stata la serata trascorsa al ghetto operaio di Marker Street (vero antipode della stucchevole residenza dei Morse), dove ha assistito alle dispute ideologiche ferratissime e mai banali di intellettuali proletari ai margini della cosiddetta società civile, “tutti ribelli di una specie o di un’altra”. Benché “eccitato come un bambino dopo la sua prima visita a un circo”, Martin non trasforma la sua ammirazione per questi spiriti liberi e reietti in una adesione politica alla causa del popolo, e resta fermo nel suo altero superomismo nutrito di darwinismo sociale e malthusianesimo. Questa è la posizione che Martin sostiene, con arrogante dogmatismo, durante una cena in casa Morse, nel corso di un’accesa disputa con uno dei commensali, il probo giudice Blount, altro self made man, ma di basso e banale profilo: “Per quel che mi riguarda, io sono un inveterato oppositore del socialismo, proprio allo stesso modo in cui sono un inveterato oppositore della sua democrazia fasulla, che non è nient’altro che pseudo socialismo mascherato sotto un fascio di parole che non reggerebbero la prova del vocabolario. Sono un reazionario, un reazionario così totale, che la mia posizione è incomprensibile per lei, che vive in una velata menzogna di organizzazione sociale, la cui vista non è abbastanza penetrante per superare quel velo”. Si capisce, allora, perché Martin Eden, pur non scampando ai roghi hitleriani, abbia spesso incontrato i favori del lettore destrorso e persino fascista (“io guardo solo all’uomo forte, all’uomo che arriva a cavallo per salvare lo stato dalla sua marcia futilità”). A conti fatti, il suo è un niccianesimo mistificato che sconfina nell’esaltazione farneticante di un’aristocrazia del temperamento e della determinazione a cui spetta il comando: “Il mondo appartiene veri nobiluomini, ai grandi animali biondi che non accettano compromessi, che sanno affermare”. Nonostante questo delirante atto di fede nelle leggi selettive dello sviluppo biologico, Martin si dimostra sempre un uomo generoso e perfino altruista, in un certo senso, disposto in ogni circostanza ad aiutare il prossimo in difficoltà. Si commuove “alla vista del corpo pesante e del passo strascicato della sorella”, martoriata dal suo durissimo lavoro e dalle angherie del marito, mentre si allontana singhiozzando. E lo strazio della sorella fa vacillare “l’edificio nietzschiano”, sebbene rimanga convinto che i “veri nobili uomini dovevano essere superiori alla pietà e alla compassione”, sentimenti che sono il prodotto della schiavitù e della debolezza. Nel suo isolamento e distacco dal mondo, Martin non percepisce più il proletario come il suo simile, né prova più un senso di familiarità di classe. Ma la superiorità è in fondo mera solitudine. Scomparsa ogni ragione per lottare, è cessata anche la voglia di vivere. Martin si abbandona al sonno e alla passività: “lasciarsi andare alla corrente era quel che comportava minor impegno vitale”. Il punto di arrivo di questo processo regressivo verso il nulla è la consapevolezza che la vita “sia un vergognoso errore” e lo smarrirsi in una disperata “Valle dell’Ombra”. È a questo punto, poco prima di farla finita con tutte le menzogne della vita, che Martin ha un ultimo colloquio con un timoniere socialista è sfiorato da un dubbio radicale riguardo “alle folli dichiarazioni di Nietzsche”, ai vaneggiamenti di “quell’uomo pazzo”. Ma anche quest’estrema occasione di revisionismo si disperde nell’impotenza estenuata di una morte annunciata. Un naufragare che non è dolce e non dà pace, ma è l’ultima beffa e l’ultima sconfitta dell’uomo solitario venuto dal mare e tornato al mare.
di Giovanni Di Benedetto
Lo scorso 22 aprile si è tenuto presso la scuola Waldorf di Palermo, in via Parlatore, l’ultimo incontro del ciclo Formazione di Comunità, organizzato dal Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci e dalla Libera Scuola Waldorf di Palermo. Si è trattato di una serie di incontri seminariali che, a partire da Gennaio, si sono prefissati l’obiettivo di analizzare l’opera teorica e pratica di Danilo Dolci e di Rudolf Steiner, con lo scopo di immaginare possibili sviluppi per la definizione di pratiche comunitarie e di condivisione. Il pregio dell’iniziativa è stato quello di mettere a confronto l’opera e la teoria di due figure centrali del panorama culturale, e non solo, del secolo scorso: Rudolf Steiner e Danilo Dolci. Al di là delle differenze di percorso intellettuale e di esperienza biografica, oltre che di contestualizzazione storica (il primo nasce nel 1861 quando ancora giganteggiava l’impero Austro-Ungarico, il secondo opera in Sicilia, a Partinico, fin dal secondo dopoguerra), è stato possibile esaminare le sorprendenti analogie che, dal punto di vista teorico, ma con immediate ricadute pratiche, animano la ricerca dei due. Il presupposto operativo che ha animato la ricerca e la riflessione dei partecipanti agli interessantissimi momenti di ricerca condivisa è relativo al fatto che la formazione pedagogica e educativa del singolo si intreccia inestricabilmente con la costruzione di un’idea cittadinanza attiva e partecipe che esige la definizione di soggetti liberi e autonomi. Sotto questo rispetto, significativa appare la tematica di partenza; non a caso essa è, infatti, per entrambi, quella della maieutica che, a partire dall’insegnamento socratico, viene declinata, formulando straordinarie affinità, sul terreno della ricerca e dell’esperienza pedagogica. Esiste tutta una corrente sotterranea che, nella tradizione occidentale, si oppone alla affermazione di modelli di costruzione del sapere centrati sull’egemonia dell’intellettualismo fine a se stesso, dell’unidirezionalità cattedratica, del nozionismo mnemonico e dell’acritica erudizione. Si può, per esempio, citare Steiner che ne L’educazione dei figli scrive della necessità di guidare il fanciullo (ma noi potremmo anche dire gli studenti e le studentesse) ad adoperare il proprio intelletto: “Non dobbiamo imporgli l’intelletto, ma dobbiamo condurlo in lui” (L’educazione dei figli, Mondadori, Milano, 2007, p. 71). Questa tradizione alternativa, se non antagonistica, parte dal presupposto che il discente non sia un oggetto passivo a cui somministrare pillole di conoscenza ma un soggetto attivo col quale dialogare e che deve essere messo nella condizione di esprimere da se stesso i propri talenti realizzandone tutte le potenzialità: “La cosa più grande che si può preparare nell’uomo in divenire, nel bambino, è che egli, nel momento giusto della sua vita, arrivi all’esperienza della libertà mediante la comprensione di se stesso. La vera libertà è un’esperienza interiore, e la vera libertà può venir sviluppata in un uomo soltanto se, come maestri ed educatori, si volge in tal modo lo sguardo verso l’uomo. Allora ci si dice: io non posso dare la libertà all’uomo, egli deve sperimentarla in se stesso. Avrò allora raggiunto questo di bello: avrò educato nell’uomo ciò che era da educare, e avrò lasciato intatto, in trepido rispetto dell’essenza divina in ogni singolo individuo, ciò che più tardi deve arrivare da solo alla comprensione di se stesso. Io attendo, mentre educo nell’uomo tutto quello che è proprio suo, fino a quando quello che è proprio suo afferrerà ciò che io ho educato in lui. Così io non mi intrometto brutalmente nello sviluppo proprio dell’uomo, ma preparo il terreno al suo sviluppo individuale” (Metodica di insegnamento ed esigenze dell’educazione, Stoccarda 8-11 Aprile 1924, Quarta Conferenza, Editrice Antroposofica, Milano, 2012, pp. 115-116). Analoghe considerazioni si possono agevolmente rintracciare nell’impegno instancabile e indomito di Danilo Dolci che, agli inizi degli anni ’70, in un saggio pubblicato dalla casa editrice Einaudi, dal titolo estremamente significativo, Chissà se i pesci piangono (1972), si misurava concretamente con la necessità di elaborare un’esperienza educativa che fosse in grado di fare i conti con il tema della sincera conoscenza reciproca tra educatore e studente, nel tentativo di superare ogni possibile deriva autoritaria insita nel rapporto pedagogico. Da questa prospettiva la maieutica si rivelava non già l’espediente tecnico per sensibilizzare e attivare l’attenzione affinché l’adulto possa poi appioppare la sua lezione con successo (265), quanto il processo dialettico in grado di suscitare negli altri capacità di scelta e assunzione di responsabilità (254). Se questo è vero, se ne deduce che “un vero educatore non può che accettare di essere cooperatore dello sviluppo psicofisico dell’alunno, diventando egli stesso alunno per apprendere quanto non sa e per dare in forma più perfetta quanto egli stesso ha provato. Viene a stabilirsi un rapporto veramente democratico di accettazione che è il fondamento stesso della concrescita” (258). È evidente che l’arte maieutica chiama in causa infinite connessioni, problematizzazioni, considerazioni. Se ne possono citare alcune, come quella del rapporto, nell’educazione, tra teoria e pratica. Avanziamo un paio di ulteriori citazioni: “durante il cosiddetto insegnamento di lavoro manuale, si possono vedere ragazzi e ragazze seduti gli uni accanto agli altri a lavorare con i ferri o con l’uncinetto. (…) Facciamo praticare ai ragazzi queste diverse arti, non tanto per insegnarle, ma soprattutto perché sorga comprensione in tutte le direzioni. Uno dei danni principali delle nostre condizioni sociali attuali è infatti che ognuno comprenda molto poco di quello che fanno gli altri. Dobbiamo veramente arrivare non a stare come singoli o come gruppi separati, ma a essere gli uni di fronte agli altri con piena comprensione. È poi fondamentale che l’esecuzione di lavori manuali renda i giovani abili nelle più diverse direzioni. Sembrerà forse un’affermazione un po’ paradossale, ma sono convinto che nessuno, che non sia in condizione, se è necessario, di rattopparsi le calze o di rammendarsi i vestiti, possa essere un bravo filosofo” (L’educazione dei figli, pp.139-140). Ed ecco Danilo Dolci che, contro il vacuo intellettualismo fine a se stesso, scrive del bisogno di imparare a usare orecchie, occhi, mani, bocca: “ci si educa a diverse forme di scoperta e di espressione mirando ad uno sviluppo organico. Un gruppo (di studenti e studentesse ndr.) apprende di un soggetto (…) parlandone e scrivendone, analizzando, fotografando, disegnando, plasmando, praticando, meditando: cioè vivendolo nel modo più opportuno. Tende alla verifica delle diverse forme di apprendimento verso un apprendimento unitario” (252). Sarebbe possibile continuare questa operazione di confronto suscitatrice di spunti, idee, similitudini, ancora per pagine e pagine, sottolineando la particolare attenzione per l’elemento artistico, la necessità di favorire la sana e armoniosa crescita dell’essere umano, l’attenzione per i talenti e le potenzialità di ogni singolo, la consapevolezza che occorre avvicinare l’essere, del bambino prima e del giovane poi, all’interesse e all’amore per il mondo imparando dalla vita, il bisogno, infine, di valorizzare la libertà di giudizio del singolo rendendolo responsabile nei confronti del contesto sociale nel quale vive. Da quanto si è detto emerge la considerazione del fatto che proprio un’educazione cattiva e inadeguata, come quella che purtroppo tanto spesso ci troviamo a incontrare come genitori, operatori e educatori, non può essere la chiave adeguata per affrontare molti dei problemi nei quali la nostra società è precipitata. Una consapevolezza di questo genere era fortissima in Steiner e in Dolci che non a caso scrivono della tragica connessione che lega la crisi di civiltà attuale e la corruttela veicolata da un’insana pedagogia: il fondatore della scuola Waldorf scrive che “se oggi l’insegnamento lascia tanto a desiderare, è appunto perché in fondo la civiltà odierna sviluppa di per sé negli adulti troppo poco senso artistico. Una sana pedagogia non può emanare da una singola arte, ma dal complessivo atteggiamento artistico della civiltà” (L’educazione dei figli, 71). Anche Danilo Dolci ne La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia 1996) si affrettava a riconoscere, poco prima di morire, che “il culto del dominio si insinua in questa problematica che ha immense implicazioni nella salute psicofisica individuale e sociale, del mondo. (…) Nessuna società ha mai subìto una così tragica frequenza di bambini e giovani suicidi come la moderna. Il sistema scolare trasmissivo non produce, né può produrre mai, sociali innovazioni. Consolida la realtà esistente. Non solo, ma produce fascismi, nazismi, machiavellici sistemi mafioso-clientelari a livello statale: non prodotti dalla gente semplice ma subìti, quando è incapace di organizzarsi” (249). La pratica dell’educare è oggi quanto di più complesso e difficile possa esserci: aumentano i rischi di insuccesso e di tragico fallimento. Tuttavia, proprio questa lucida visione delle immani difficoltà nelle quali si trovano i soggetti del cambiamento deve fare crescere la consapevolezza che, con un impegno che va alimentato in tutte le direzioni, da quella della comprensione razionale e intellettuale a quella della dimensione affettiva e emotiva, si possono far conseguire nei giovani e nelle giovani capacità, attitudini e qualità morali in grado di sviluppare personalità, forti del necessario spirito critico, pronte a distinguersi nella società. Non tanto per soddisfare i propri desideri narcisistici, egoistici e esibizionistici, come va tanto di moda oggigiorno, quanto per contribuire al bene comune, mettendo al servizio degli altri quanto si è conseguito. Del resto, non è proprio questa l’essenza del fare comunità? di Vincenzo Scalia
È della settimana scorsa la notizia che la giustizia inglese ha finalmente riconosciuto che nel maggio 1989, allo stadio Hillsborough di Sheffield, la morte di 96 persone nell’attesa dell’incontro di Coppa di Inghilterra tra Nottingham e Liverpool non fu causata dal teppismo dei tifosi Reds, bensì dall’operato della polizia, che, a partire dalla reputazione di hooligans che i tifosi della Merseyside avevano guadagnato nel corso della tragedia dell’Heysel, attuò una strategia di contenimento rivelatasi fatale. Furono infatti le forze dell’ordine a spingere i tifosi all’interno di un tunnel in disuso, ad impedirne l’uscita, e causare la strage. Minori responsabilità sono state attribuite nella sentenza finale anche alla società calcistica dello Sheffield Wednesday, proprietaria dell’impianto sportivo, e alla Lega Inglese, che scelse Hillsborough come luogo adatto a far disputare una manifestazione sportiva a vasto richiamo. Dopo 27 anni, la verità è stata accertata, e si scopre, come dice Suzanne Moore sul Guardian, che Hillsborough altro non era che uno degli episodi della guerra di classe che in Inghilterra si combatteva in quegli anni e si combatte tuttora, anche se con minore intensità, dato lo sbandamento delle classi subalterne inglesi. Gli anni ottanta hanno rappresentato un decennio cruciale per la società inglese, che si è posta suo malgrado come laboratorio del neo-liberismo europeo. In quegli anni, sotto l’arroganza neo-vittoriana di Margaret Thatcher, si scelse di liquidare 200 anni di patrimonio industriale. Le filande del Lancashire, i cantieri di Newcastle e Glasgow, le acciaierie di Sheffield, le miniere delle Midlands, vennero definitivamente dismesse, a detrimento di una vasta componente operaia, che di colpo si trovò priva di occupazione e di identità sociale. La reazione si manifestò sotto varie forme, dagli squatters allo sciopero dei minatori, dai riots agli hooligans, senza sortire risultati positivi. La guerra delle Falkland, l’impopolarità guadagnata da sindacati troppo corporativisti nel decennio precedente, le lotte intestine all’interno del Labour, l’incapacità di fermenti articolati di coagularsi in un progetto politico collettivo, permisero ai conservatori di attuare con successo la loro operazione di ingegneria sociale, che più tardi si sarebbe diffusa anche oltremanica, ricorrendo allo smantellamento dello stato sociale, a privatizzazioni massicce, alla repressione poliziesca. Non a caso, in quegli anni, i poliziotti furono gli unici addetti del settore pubblico i cui stipendi registrarono un massiccio aumento. E’ paradigmatico l’episodio che si verificò ai primi del 1985, quando i minatori in sciopero si videro sventolati dai poliziotti le buste paga con gli straordinari. La tragedia di Hillsborough si inquadra proprio in questo contesto: si legge, sin dai riots di Brixton del 1981, la questione sociale come materia di ordine pubblico, e si vedono nelle masse radunate anche per manifestazioni sportive degli assembramenti di “classi pericolose” da governare attraverso il manganello e la galera. Nel caso delle partite di calcio la sovrapposizione tra masse e sovversione diviene più evidente, sia perché in Gran Bretagna il football si connota, sin dalle origini, come sport della classe operaia, sia perché in quegli anni erano i club delle grandi città operaie del nord, Liverpool in primis, a dominare la scena calcistica. A completare il quadro, possiamo aggiungere l’attivismo di alcuni personaggi del calcio, come Bill Shankly e Brian Clough alla testa dei loro tifosi, quando, come lavoratori, protestavano e scioperavano contro la chiusura delle miniere o contro il licenziamento dei portuali. Il calcio, come fenomeno di massa e luogo di elaborazione di significati e rappresentazioni collettive, divenne, in questo contesto, come uno degli ambiti principali all’interno del quale applicare la bonifica sociale e proporre e veicolare un nuovo modello egemonico. La tragedia di Hillsborough fornì il pretesto per modificare radicalmente il calcio e trasformarlo in maniera definitiva in un business modellato su parametri hollywoodiani: fine dei vecchi stadi con posti in piedi e loro sostituzione con impianti che sembrano delle piccole Disneyland munite di ristoranti, centri commerciali, appartamenti; squadre costruite con l’ingaggio di vedette internazionali che percepiscono ingaggi stratosferici; ridimensionamento dei settori giovanili; merchandising modellato a misura delle tv e delle majors dell’abbigliamento sportivo; e, soprattutto, pubblico costituito da famiglie della classe media e conseguente espulsione del pubblico di origine operaia dagli stadi. Un modello che oggi si vorrebbe esportare anche in Italia, e che ha lo scopo di trasformare il pubblico calcistico in una folla inebetita, addomesticabile, focalizzata su gadget e format televisivi più che sull’evento calcistico in sé. Per queste ragioni, forse, la vittoria di Hillsborough arriva troppo tardi. La modifica del paesaggio sociale, e delle subculture calcistiche, hanno ormai preso piede, imponendo come orizzonti unici quelli del mercato. Tuttavia, questa sentenza, può costituire un punto di partenza per ricostruire i processi di ristrutturazione sociale e per dotarsi degli anticorpi necessari a contrastare trasformazioni simili. |
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Marzo 2021
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