LEI NON SA CHI SIAMO NOI
26/5/2015
Scritto da Vincenzo Marineo 26 maggio 2015
Le decine di recensioni raccolte sul sito clashcityworkers.org testimoniano l’attenzione che questo libro, ora alla terza ristampa, ha suscitato. Dove sono i nostri, del collettivo Clash City Workers (edizioni La casa Usher, 2014, pagine 202, euro 10,00) risponde a due domande: come si produce ricchezza oggi in Italia? chi la produce? La risposta è in 157 pagine di dati statistici, grafici, tabelle, analisi, che rendono conto della struttura produttiva italiana e delle caratteristiche della forza lavoro. Non sono solo numeri, c’è anche l’esperienza che il collettivo ha accumulato sul campo, seguendo vertenze sindacali, tradotta in proposte di intervento politico, settore per settore. Luoghi comuni ormai classici dell’economia popolare quali la deindustrializzazione, la residualità degli operai, la centralità del cognitariato, sono ricondotti alla loro condizione di narrazione fantastica. Nella realtà, il terziario che è cresciuto è quello legato alla manifattura, il lavoro operaio non è sparito, il valore nasce nella sfera della produzione. Il modo di produzione non è cambiato. Cose, è da supporre, ben note all’ufficio studi di Confindustria, che non fa le sue analisi basandosi sui talk show e sugli editoriali. Cose che non dovrebbero sorprendere chi si richiama, in qualche modo, a un pensiero socialista. E il problema non è “la casta” dei politici, o la corruzione. Questi argomenti, si potrebbe aggiungere, lasciamoli a Beppe Grillo. Tutto il libro è un invito a pensare la trasformazione della società, a rimettere in movimento un pensiero critico, un pensiero che innanzitutto non si stupisca del fatto che qualcosa non funzioni, che c’è la crisi. Il punto di partenza deve essere il confronto con i dati della realtà. Vediamo allora che non possiamo parlare di deindustrializzazione, o di terziarizzazione dell’economia; possiamo piuttosto constatare la terziarizzazione del settore manifatturiero: «il terziario che è cresciuto non è quello del turismo, della distribuzione e del commercio, della pubblica amministrazione o dei vari lavori “cognitivi”, come si pensa spesso, ma il terziario più legato – anzi interdipendente e spesso corrispondente – alla manifattura.» L’esternalizzazione, per esempio, fa comparire sotto la voce “servizi” fasi o figure lavorative che precedentemente erano considerate interne al processo produttivo. Il lavoro dipendente non è affatto in via di estinzione; l’Italia è sì uno dei paesi europei in cui c’è maggiore presenza di lavoro autonomo, ma la tendenza è verso la trasformazione dei lavoratori indipendenti in lavoratori dipendenti, tendenza riscontrabile in tutti i paesi OCSE nel decennio 2000-2010. Viene rilevata la tendenza all’omogeneizzazione tra le condizioni dei lavoratori pubblici e dei lavoratori privati, in particolare per quanto riguarda le retribuzioni, e anche la tendenza al livellamento (al ribasso) delle retribuzioni in generale. Quest’ultima tendenza viene attribuita alla crescente finanziarizzazione delle imprese, e alla conseguente necessità di una crescente remunerazione del capitale: necessità che si realizza intervenendo sul capitale variabile. Manca qui, va osservato, il collegamento di questa svalutazione del lavoro con l’impossibilità della svalutazione dei cambi derivante dall’adesione dell’Italia al sistema dell’euro. Pur vedendo l’unione europea come una esigenza del capitale, la prospettiva internazionalista adottata e i conseguenti timori di un nazionalismo interclassista collegato all’eventuale ritorno alla sovranità monetaria impediscono di analizzare più da vicino il ruolo che l’euro gioca nell’imporre specifiche politiche economiche. Grande attenzione è riservata all’attività sindacale, alla sua evoluzione, alle forme che ha assunto; frutto anche dell’esperienza diretta del collettivo nelle lotte che ha seguito. Meno definita è la prospettiva più propriamente politica, ma è ben chiara la necessità di organizzarsi su questo piano. C’è la critica ad alcune categorie interpretative il cui utilizzo si è diffuso, quale quella dei NEET (i giovani di 15-34 anni che non lavorano e non studiano), categoria in realtà composita ed eterogenea, che non aiuta a capire la struttura della società italiana; ma che è utilizzata nel dibattito pubblico per accreditare l’esistenza di una massa indifferenziata di giovani parassiti che non vogliono lavorare e vivono a spese dei genitori (i “bamboccioni”). Una categoria che, come spesso accade, viene offerta come neutro aggregato statistico, e che è invece un arnese retorico costruito per orientare l’interpretazione.Ma questi sono solo alcuni esempi, insufficienti a rendere la mole di lavoro svolto dagli autori. A cosa può servire questo libro? C’è una terza domanda, oltre alle due su come si produce la ricchezza, e su chi la produce; è nascosta nella copertina: chi sono i nostri? Domanda che ne nasconde un’altra: chi siamo noi? C’è pure la risposta, nelle (202 - 157 = ) 45 pagine dell’introduzione e della conclusione: noi siamo i comunisti, e i nostri sono i proletari. Questa salutare chiarezza non deve però mettere il libro sotto il segno di una prospettiva che può non trovare riscontro in posizioni politiche che dovrebbero invece anch’esse essere interessate a usarlo. Intanto la nozione di proletariato che viene fuori, ed è uno dei principali meriti del libro, è attuale e non più coincidente con quella della classe operaia e del lavoro in fabbrica. In ogni caso, qualsiasi progetto di trasformazione della società deve correttamente partire dall’identificazione dei soggetti cui il progetto si rivolge come protagonisti, e le analisi contenute nel libro sono a questo scopo necessarie, quale che sia la posizione politica che si vuole sviluppare. L’evidente difficoltà in cui si trova il processo di formazione di organizzazioni che riempiano il vuoto di rappresentanza del lavoro che c’è oggi in Italia dovrebbe portare chi si muove in questa direzione a individuare Dove sono i nostri come un punto di riferimento per l’elaborazione di analisi condivise. Si può non essere d’accordo con questa o quella proposta di intervento politico del libro, o con alcune analisi; ma esso costituisce comunque un testo che, letto e discusso, può aiutare a far convergere posizioni (anche ideologicamente differenziate) verso una cultura politica condivisa, che si giovi degli apporti teorici ritenuti più opportuni, ma che sia costretta a scontrarsi con la testardaggine della realtà. Occorre partire dal confronto con la realtà, e Dove sono i nostri offre la possibilità di farlo. Lo scopo dichiarato del libro è peraltro questo, fornire uno strumento di lavoro: e sarebbe utile che, da opera collettiva quale è, esso venga letto e discusso collettivamente. Possibilmente, a sinistra.
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Scritto da Mario Guarino 21 maggio 2015
This changes everything – Capitalism vs. Climate - nella versione italiana “Una rivoluzione vi salverà – perché il capitalismo non è sostenibile” - è il libro di Naomi Klein che ha suscitato nel mondo un acceso dibattito e in America ha attirato sull’autrice una montagna di critiche dalla destra, dai moderati neo-liberisti e, perfino dalla sinistra radicale. La parola “rivoluzione” che compare nel titolo italiano è un lusso che, come si vedrà, l’editore americano non poteva permettersi.Il tema svolto dall’autrice è attualissimo. L’incremento dell’anidride carbonica nell’atmosfera non segue, come dimostrato da trend pluridecennali, una progressione lineare. Non è quindi possibile stabilire il momento in cui, in assenza di interventi di abbattimento radicali, si supererà il punto di “non ritorno” - stimato in un aumento di 2° della temperatura media - oltre cui il cambiamento climatico, già in atto, diverrà irreversibile come asseriscono autorevolmente e concordemente numerose fonti scientifiche. A livello governativo il problema è avvertito, anche se con scarsa propensione a trovare soluzioni efficaci, come testimoniato dai numerosi protocolli in materia, tra cui spiccano quelli di Kyoto del 1997 e di Doha del 2012. L’inefficacia dell’azione dei governi appare scontata in un sistema di produzione e di scambi dominato dal capitalismo globalizzato che ormai agisce al di fuori di ogni regola. La logica espansiva del capitalismo deregolamentato si basa su un processo di accumulazione continuo e apparentemente senza limiti. Limiti che però esistono e che sono costituiti dal mantenimento di condizioni ambientali compatibili con la sopravvivenza delle specie viventi, tra cui l’umana. L’insofferenza del capitalismo a qualunque tipo di freno si fonda sul dogma delle capacità autoregolatrici del mercato. Un’asserzione da cui consegue, per evidenti ragioni, un atteggiamento strenuamente negazionista dell’impatto climatico. Naomi Klein scrive: “…l’intersezione tra l’ideologia estrema [liberista] e la negazione del mutamento climatico si fa davvero pericolosa. Non soltanto questi tipi “cool” [liberisti negazionisti] negano la climatologia perché minaccia di capovolgere la loro visione del mondo fondata sul dominio, ma tale visione fornisce loro gli strumenti intellettuali per liquidare con un tratto di matita una enorme porzione di umanità e di fatto per giustificare l’uso di questa stessa crisi per realizzare ulteriori profitti”. Lo sviluppo, nel modello capitalista, non può prescindere dallo sfruttamento sempre più intensivo delle risorse energetiche non rinnovabili, anche di quelle più marginali, sia in termini di costi di produzione che di inquinamento. Lo spianamento e la distruzione delle grandi foreste tropicali, i sondaggi petroliferi in aree delicatissime per l’ecosistema, le conseguenze politiche, economiche e sociali che derivano da un sistema di rapporti di produzione basati sull’oppressione di enormi masse umane, sono le colonne portanti di una gigantesca, globale, sistematica spoliazione che produce un flusso di ricchezza come mai si è visto nelle epoche precedenti a favore di una ristretta classe privilegiata. E’ comprensibile che, a difesa di questo imponente blocco di interessi, si schierino non soltanto le forze più scopertamente reazionarie ma anche quelle che, mascherate sotto apparenze progressiste, svolgono un lavoro molto più sottile e insidioso, come si dirà appresso a proposito dell’accoglienza riservata al libro della Klein negli Stati Uniti. La Klein cita come esempio, all’inizio del suo libro, l’Heartland Institute, una fondazione finanziata direttamente e scopertamente dai magnati del petrolio. L’istituto ha condotto e conduce campagne negazioniste del cambiamento climatico ed è l’esempio operativo della aggressività con cui il capitalismo passa al contrattacco al minimo profilarsi di una minaccia ai propri interessi, bollando gli avversari con il marchio di grigi profeti di sistemi economici pianificati di stampo sovietico. L’approccio negazionista è però controbilanciato presso il pubblico dall’evidenza del cambiamento climatico che si manifesta con estrema violenza dovunque, senza risparmiare, con devastanti cicloni e tremende tempeste di neve, lo stesso Nord America. La Klein dopo la pubblicazione del suo libro è stata oggetto di attacchi assai virulenti non solo da parte della stampa americana di destra, ma soprattutto e con sottile velenosità da quella liberal come attesta un recente articolo comparso sul numero di febbraio della Monthly Review. Gli autori dell’articolo (J.Bellamy-Foster e B.Clark) sottolineano come la Klein con questo libro si sia lasciata alle spalle la comoda posizione di critica del neo liberismo capitalista per “attraversare il fiume di fuoco” passando, sull’altra sponda, nelle file dei critici del capitalismo come sistema. Questa transizione ha suscitato reazioni che vanno da quella rabbiosa della stampa di destra, a quella più “avvolgente” e subdola di coloro che hanno cercato di riportarla dentro gli schemi di una critica “dentro il sistema” piuttosto che “contro il sistema”. In sostanza una abiura. Nell’articolo sono citati molti esempi sul modo in cui viene portata avanti l’operazione che mira a devitalizzare il nucleo portante del pensiero della Klein. Tra di essi spiccano gli epigoni Liberal-Left di osservanza neo-keynesiana, ben compresi nel ruolo di critici molto inseriti nel tessuto della società capitalista, che vedono nella crescita l’unico mezzo per l’avanzamento sociale. Gli autori dell’articolo osservano che il libro della Klein non è stato subito catalogato tra le opere “pericolose” in quanto in esso non si ritrovano le classiche e tipiche parole d’ordine della sinistra, come il termine “sfruttamento” e in più emerge una preoccupazione “umanista” sulla sorte dell’umanità posta di fronte a una natura non più controllabile, preoccupazione che può essere condivisa senza pericolo di deviare dal politcal correct. Ma la Klein rincara la dose quando comincia a parlare senza alcuna remora di diritti, mettendosi dalla parte della protesta a cominciare da Occupy Wall Street, criticando coloro che sottovalutano la minaccia climatica in base a ragionamenti fideistici sulla capacità della scienza di stornare la minaccia o che enfatizzano operazioni di pura facciata, come quella del Climate Bill del 2006 in California - auspice il governatore Schwarzenegger – mirante a ridurre entro il 2020 le emissioni di CO2 al livello del 1990. Ed è proprio questo atteggiamento mentale – notano gli autori della recensione – il principale obiettivo contro cui muove il libro. Fallito il tentativo di incapsulare il libro della Klein entro gli schemi rassicuranti di un semplice pamphlet auspicante il ritorno a un capitalismo dal volto umano, l’attacco alla Klein si è svolto su più piani per dimostrare che ella è “Taken Off From the Planet”, tangibile prova del fatto che ha davvero attraversato “The River of Fire”… Anche da sinistra è giunta qualche critica, motivata dal fatto che la Klein non si è espressa sul ruolo della classe operaia, senza di cui il cambiamento è impossibile, ma anche per aver glissato sulla questione di classe, evitando di spendere quelle parole decisive e in fin dei conti leggibili tra le righe del libro – per esempio “socialismo o barbarie” - che l’avrebbero esposta alla condanna del silenzio e all’oscuramento mediatico come ben sa Noam Chomsky. Forse per questo motivo la parola “rivoluzione” che campeggia nella copertina italiana non poteva trovar posto nell’edizione americana… DALLA SCOZIA CON FURORE. PARTITO DELLA NAZIONE, TRAMONTO LABURISTA, CRISI DI IDENTITA' A SINISTRA
18/5/2015
Il dato più evidente emerso dalla elezioni britanniche è senz'altro la clamorosa affermazione dei nazionalisti scozzesi, che hanno fatto il pieno di voti a spese della sinistra. Pubblichiamo in proposito l'analisi - "arrabbiata" il giusto - di un membro di Left Unity Glasgow South. Left Unity è l'unico partito britannico affiliato alla Sinistra Europea.
Scritto da Chris Cassels 18 maggio 2015 Le elezioni del 7 maggio hanno fatto registrare un’impennata nazionalista su entrambi i versanti del Vallo di Adriano. A nord, lo Scottish National Party (SNP) ha ribaltato il lunghissimo dominio del Partito Laburista, conquistando 56 dei 59 seggi riservati alla Scozia nel parlamento britannico; i Conservatori sono risultati invece il partito con più voti e più seggi per quanto riguarda il Regno Unito nel suo complesso. Lo SNP ha vinto grazie allo slogan nazionalista “Stand Up for Scotland”. I Tories hanno vinto alimentando la paura di un governo laburista di minoranza sostenuto dai nazionalisti scozzesi: in sostanza hanno vinto facendo appello al nazionalismo inglese. E’ impossibile minimizzare la portata del cambiamento avvenuto sulla scena politica scozzese nel corsi degli ultimi anni. Il Labour Party in Scozia è riuscito a mantenere un solo seggio : il peggior risultato in termini di candidati eletti dal 1900 ad oggi. Si pensi che il partito aveva la maggioranza dei seggi scozzesi sin dal 1964, e che già nel 1906 era riuscito a far eleggere due candidati: il doppio della rappresentanza attuale. In quanto socialisti, non riponiamo illusioni nel Partito Laburista e vediamo nella sua rovina la naturale conseguenza del disintegrarsi in tutta Europa di quella socialdemocrazia che dagli anni Novanta in poi ha sposato in pieno il liberismo (per non dire dei profondi limiti che le sono stati propri sin dal principio). D’altro canto, fino a qualche tempo fa pareva legittimo sperare che la crisi del riformismo potesse dar luogo ad una forte ripresa delle idee autenticamente socialiste e dei soggetti politici che vi fanno riferimento. Inutile dire che non è andata così. È successo invece che, con il tacito – e in certi casi esplicito – sostegno della sinistra (compresi il Socialist Workers Party, il Socialist Party Scotland, lo Scottish Socialist Party, i gruppi e gli individui che gravitano intorno alla Radical Independence Campaign), il nazionalismo è divenuto il movimento politico dominante sulla scena scozzese. Se non ci mettiamo in gramaglie per la scomparsa del Partito Laburista in Scozia, dobbiamo però riconoscere che questo spettacolare successo nazionalista costituisce un vero e proprio passo indietro per i lavoratori scozzesi. Se voti laburista, perlomeno stai votando in compagnia della tua classe sociale: stai votando per il “partito dei lavoratori”, per quanto confusa e malriposta possa essere tale definizione. Se voti SNP stai votando per la tua nazione, nel nome dell’interesse patriottico… basta leggere il nome sull’etichetta: Scottish National Party significa dopotutto Partito Nazionale Scozzese. La sinistra nazionalista ha interpretato il voto per lo SNP come un’espressione di scontento rispetto allo status quo, come opposizione alle politiche di austerità e volontà di rompere con l’unanimismo neoliberista dei principali partiti, laburisti compresi. E può anche essere vero – fino a un certo punto – che a spingere la gente ad assestare “un calcio nel sedere ai laburisti” sia stato una diffusa indignazione rispetto a cinque anni di austerity, in larga misura appoggiate dallo stesso Labour. Ma l’altra motivazione principale – enfatizzata dalla sinistra scozzese sin dalla campagna referendaria dell’anno scorso – è l’idea che la Scozia soffra di un deficit democratico in quanto nazione. Di qui lo slogan “Stand Up for Scotland”. Ma le affermazioni secondo le quali la Scozia “merita di meglio”, oppure “deve far sentire la propria voce” all’interno del Regno Unito, oppure ancora – per citare lo slogan della Radical Independence Campaign – “Un’Altra Scozia è Possibile”, sono in effetti altrettante espressioni di nazionalismo. Si tratta delle rivendicazioni di una nazione, non certo di una classe. Non diversamente da quanto succede in giro per l’Europa, la sinistra scozzese è frammentata e debole. In 15 dei 59 collegi scozzesi si sono presentati 16 candidati socialisti, appartenenti alla Trade Unionist and Socialist Coalition (TUSC), allo SSP, a Left Unity, al Communist Party of Britain (CPB) [la formazione che pubblica il quotidiano Morning Star, ndt] ed al Socialist Equality Party (SEP). Complessivamente hanno ottenuto soltanto 2.911 voti su un totale di oltre 2 milioni e 900.000, ovvero più o meno lo 0,1% . Non che in Inghilterra e nel Galles la sinistra di classe abbia fatto molto meglio. Parte della responsabilità per l’irrisorio risultato va attribuita alle stesse sigle di cui sopra. La TUSC è frutto di un accordo raffazzonato tra il Socialist Workers Party e il Socialist Party, due gruppi altrimenti noti per la reciproca ostilità. Ha un programma elettorale anti-austerity che è una sorta di minestra keynesiana riscaldata, ed esiste come TUSC solo ed esclusivamente in occasione delle varie scadenze elettorali: tra l’una e l’altra SWP e SP tornano entrambi a dedicarsi al rispettivo lavoro politico. Left Unity è invece un’organizzazione relativamente nuova, il cui gruppo dirigente – pur avendo promesso, al momento della fondazione, di dar battaglia sul terreno elettorale - all’atto pratico si è rivelato tutt’altro che entusiasta dell’idea di presentare effettivamente dei candidati, preferendo sostenere i Verdi e la sinistra del Partito Laburista (http://bright-green.org/2015/02/13/left-unity-to-back-anti-austerity-greens-in-general-election/). Lo Scottish Socialist Party ha invece tentato di accreditarsi quale alla sinistra dello SNP, cui ha proposto un’alleanza elettorale per la consultazione del 2015, nel segno dell’indipendentismo. Non inaspettatamente, il SNP ha declinato l’invito, nonostante il prezioso lavoro svolto dal SSP nell’appoggiare acriticamente la campagna referendaria del 2014: i nazionalisti, ben lieti di servirsi dei militanti di sinistra in qualità di utili idioti quando c’era da sgobbare per il referendum, hanno reso noto di non desiderare ulteriori legami. Ad ogni buon conto, il programma elettorale del SSP comprendeva l’impegno a battersi per una “moderna, competitiva economia scozzese”, con una chiara preferenza per il progetto nazionale a scapito dell’orientamento socialista. Per quanto riguarda il CPB ed il SEP, si tratta, rispettivamente, dei postumi della sbornia stalinista e di un gruppuscolo ultrasettario della corrente trotzkista un tempo capeggiata da Gerry Healy: se meritano una cursoria menzione è perché quantomeno non hanno ceduto all’imperante nazionalismo di sinistra (anche se un altro genere di nazionalismo, quello britannico, è proprio del CPB, il che diverrà evidente in occasione del referendum sull’Unione Europea). Ad ogni modo, a parte le inadeguatezze dei partiti che hanno partecipato alle elezioni, ci sono ulteriori e significative ragioni che spiegano la minuscola entità del voto a sinistra. Nel novembre 2014, la Radical Independence Campaign (RIC) – una coalizione di socialisti e generici sinistrorsi che avevano fatto campagna per il ‘Sì’ nel referendum sull’indipendenza – ha riunito 2.500 delegati a Glasgow. Un leader della RIC dopo l’altro ha spiegato ai convenuti che il popolo scozzese era galvanizzato dalla possibile nascita di un nuovo movimento sociale capace di coniugare il desiderio dell’indipendenza con una politica progressista e anti-austerità. E proprio la RIC, si affermava, era quel movimento. È chiaro tuttavia che il popolo scozzese la pensa diversamente. Lo stesso giorno, sempre a Glasgow ma dall’altra parte della strada, una manifestazione del SNP cui partecipavano 12.000 persone festeggiava il rapidissimo aumento di iscritti – il partito conta adesso più di 100.000 tesserati – nei giorni seguenti la sconfitta referendaria. Campagne indipendentiste come quella della RIC, in definitiva, non hanno fatto altro che spingere tra le braccia dello SNP i propri sostenitori all’interno della classe lavoratrice. E d’altro canto, se passi un anno intero a raccontare alla gente che l’indipendenza è l’unica via per combattere l’austerity, liberarsi degli armamenti nucleari e conquistare riforme di segno progressivo, non devi stupirti se poi la gente di cui sopra accorre verso l’unico partito concretamente in grado di ottenere l’indipendenza: lo SNP. E difatti, in vista delle elezioni, gran parte della sinistra scozzese – militante nella RIC o gravitante intorno ad essa – ha salutato con favore l’ascesa dei nazionalisti, che durante gli ultimi mesi hanno sostenuto di essere un partito anti-austerità e dichiarato che non avrebbero sostenuto i Conservatori nell’eventualità in cui fosse stato necessario formare un governo di coalizione. Nonostante la manifesta assurdità di questo autoritratto, gran parte delle sinistra scozzese – pur senza giungere all’esplicita indicazione di voto per i nazionalisti, con la vergognosa eccezione del Solidarity Party di Tommy Sheridan – ha deciso di non esser d’intralcio al SNP, rifiutandosi di sostenere i pochi candidati socialisti che partecipavano alle elezioni. Se lo scarso entusiasmo nei confronti di progetti come la TUSC è comprensibile, il rifiuto di presentare un’alternativa al nazionalismo (o quantomeno di criticarlo a dovere) non lo è affatto. La RIC e simili, prefigurando l’indipendenza, debbono verosimilmente aver ritenuto la partecipazione al parlamento del Regno Unito incompatibile con la costruzione di un movimento politico tutto e solo scozzese. Ma la ragione principale di certe scelte è che gran parte della sinistra scozzese vede effettivamente nel voto per lo SNP uno spostamento a sinistra. Ci ripetiamo: tale spostamento sarà anche avvenuto nella coscienza degli elettori, ma rimane il fatto che ha trovato un’espressione politica nazionalista, non certo socialista. Prendiamo in esame la realtà dello SNP. I nazionalisti in Scozia sono al governo dal 2007, disponendo della maggioranza nel parlamento di Holyrood, creato nel 1998 in seguito alla “devolution” approvata da un referendum l’anno precedente. Tra il 2007 e il 2011 lo SNP si è avvalso dell’appoggio dei conservatori scozzesi onde approvare le annuali leggi di bilancio. Nel 2011 ha conquistato la maggioranza assoluta, procedendo ad oltre 3 milioni di sterline di tagli alla spesa pubblica: abbiamo assistito inoltre alla perdita di oltre 60.000 posti di lavoro nel settore pubblico, a scelte di tipo fortemente regressivo per quanto riguarda le imposte comunali, alla creazione di una forza di polizia centralizzata e alla decimazione delle amministrazioni locali. Per quanto concerne l’austerity, l’indipendente Institute for Fiscal Studies ha evidenziato come nel programma elettorale dello SNP le promesse in termini di spesa pubblica fossero addirittura inferiori a quelle del Labour, un partito esplicitamente votato alle politiche di austerità. Per quanto riguarda gli armamenti nucleari, la posizione dello SNP è del tutto incoerente: vuol disfarsi del programma Trident restando all’interno della NATO. Aggiungiamo a tutto ciò il rifiuto da parte dello SNP di istituire il salario minimo in Scozia, il suo sostegno nei confronti della monarchia e della presenza di reggimenti scozzesi all’interno dell’esercito britannico, nonché l’affettuosa amicizia con i giornali di Rupert Murdoch (l’edizione scozzese del Sun ha appoggiato la campagna elettorale nazionalista), ed ecco che l’idea che lo SNP sia un partito anti-austerità, e addirittura anti-establishment , appare chiaramente assurda. Oltretutto lo SNP durante la campagna elettorale si è premurato di rassicurare tutti di non avere alcuna intenzione di indire un secondo referendum sulla scorta di un grande successo alle urne, contraddicendo la tesi dei suoi sostenitori a sinistra, per cui il voto allo SNP andava visto in immediata continuità con la campagna referendaria. I principali appuntamenti politici dei prossimi anni sono due. Il primo è costituito dalle elezioni del 2016 per il rinnovo del parlamento scozzese; il secondo dal referendum, promesso dal governo conservatore, per decidere se il Regno Unito debba stare “dentro o fuori” l’Unione Europea. In proposito, va detto che quella sinistra che appoggia l’indipendentismo scozzese è tradizionalmente favorevole all’uscita dall’UE. Se terrà ferma su questo punto entrerà in rotta di collisione con il SNP, capitolando peraltro nei confronti di un’altra forma di nazionalismo. Se, al contrario, cambierà posizione in merito all’UE, si tratterà quasi certamente di una manifestazione di codismo nei confronti dell’europeista SNP. Nessuna delle due posizioni è all’altezza dei tempi: sarebbe piuttosto necessario impegnarsi per un’Europa rifondata su basi democratiche e socialiste. Rispetto a questo obiettivo, uscire dall’UE costituirebbe un passo indietro. Per quanto riguarda l’elezione del parlamento di Holyrood, è emersa l’ambizione di formare un nuovo partito di sinistra in Scozia. A questo scopo è nato lo Scottish Left Project, cui partecipano diverse figure della leadership della Radical Independence Campaign. La strategia è chiara: rimpiazzare i laburisti in veste di bonaria opposizione allo SNP, con il quale poi unire le proprie forze in vista di un secondo referendum per l’indipendenza. In altre parole, la lotta per il socialismo deve attendere che arrivi l’indipendenza, e nel frattempo bisogna accontentarsi di un programma riformista e nazionalista di sinistra. Che il declino dei laburisti in Scozia sia di natura terminale non è minimamente in discussione. A cinque giorni dal disastro elettorale, Jim Murphy – che ha perso il proprio seggio ad opera dello SNP – rifiutava ancora di rassegnare le proprie dimissioni da leader dell’organizzazione scozzese del partito: se dovesse restare in sella, il Labour va incontro a ulteriori umiliazioni nel 2016. Se si dovesse invece verificare una svolta a sinistra nel partito, i laburisti potrebbero riconquistare un po’ di voti, ma l’ipotesi più probabile – a meno di imprevedibili disavventure – è quella di un’ampia maggioranza assoluta per lo SNP a Holyrood. L’unico potenziale ostacolo è la proposta di piena autonomia fiscale per la Scozia, che comporterebbe un deficit di 7 miliardi di sterline nel bilancio, mettendo lo SNP nella posizione di dover adottare politiche di austerità senza più poterne attribuire la colpa a Westminster. L’idea di costringere la Scozia alla “responsabilità fiscale” incontra un certo favore presso il governo Cameron; e in ogni caso lo SNP svolge l’utile funzione di dividere i lavoratori, sottraendo energie alla politica di classe per incanalarle verso un addomesticabile nazionalismo, peraltro al momento incapace di aggregare una maggioranza assoluta degli scozzesi intorno alla richiesta dell’indipendenza. La piena autonomia fiscale potrebbe mostrare che l’intero progetto nazionalista è un vicolo cieco, creando le premesse di un revival del movimento socialista: ciò che temono i più preveggenti settori della classe dominante. Ma bisogna considerare la possibilità di un altro scenario, in cui la rivendicazione indipendentista diverrebbe inarrestabile. Un anno di austerità spietatamente inflitta dal governo conservatore, una maggioranza dello SNP a Holyrood nel 2016, l’uscita dalla UE in seguito all’ annunziato referendum: la combinazione di questi tre fattori renderebbe quasi certo un “Sì” all’indipendenza per mezzo di un seconda consultazione referendaria. Come socialisti, il nostro compito è di opporci a tutte e tre le eventualità di cui sopra; non certo di “non intralciare” la creazione di un nuovo stato capitalista che comporterebbe l’ulteriore impoverimento del proletariato, dacché una Scozia indipendente sarebbe costretta ad offrire un mercato del lavoro più “competitivo” e “flessibile” al capitale internazionale. Prima del referendum dell’anno scorso, quanti a sinistra si opponevano all’indipendenza fecero una serie di affermazioni, gran parte delle quali si sono rivelate esatte. 1) La gestione socialdemocratica di un’eventuale Scozia indipendente non poteva esser finanziata facendo affidamento sull’instabile mercato del petrolio: e il prezzo del petrolio si è più che dimezzato dal settembre scorso ad oggi. 2) L’appoggio della sinistra alla causa dell’indipendenza avrebbe portato all’ascesa dei nazionalisti, a scapito del movimento socialista: ma neppure noi avremmo potuto prevedere che lo SNP quadruplicasse gli iscritti. 3) La sinistra scozzese aveva abbandonato la politica di classe in favore del progetto nazionale: e difatti l’indipendenza rimane la priorità del movimento, mentre i tagli operati dallo SNP quasi non incontrano opposizione. 4) Avevamo detto, infine, che la vittoria del “Sì” avrebbe dato luogo, per citare James Connelly, ad un “carnevale della reazione” tanto in Scozia che in Inghilterra, dacché il lungo processo di “divisione dei beni” necessario a formalizzare l’indipendenza non avrebbe fatto altro che rinfocolare sciovinismi e campanilismi. Pare purtroppo che ciò stia accadendo comunque. Senza dubbio la situazione sarebbe stata peggiore nel caso di vittoria del “Sì”, ma l’impennata dei due opposti nazionalismi non è da sottovalutarsi. Sin troppo spesso, a sinistra, il nazionalismo scozzese (quando la sua esistenza viene ammessa, anziché parlarne come se si trattasse semplicemente di un movimento “anti-austerità”) viene dipinto come una benigna, civilissima forma di patriottismo; tutt’altra cosa dal razzismo dei rancorosi inglesi. Indubbiamente lo sciovinismo inglese è il più pericoloso dei due, ma la sua crescita attuale si deve anche all’ondata nazionalista in Scozia. In altre parole, stiamo assistendo all’inizio della disintegrazione sociale della working-class in Gran Bretagna in una serie di frammenti nazionali, regionali, persino locali: si vedano fenomeni come Yorkshire First, Mebyon Kernow (i nazionalisti della Cornovaglia), Plaid Cymru (i nazionalisti del Galles), fino ad arrivare magari a Tower Hamlets First e cose del genere. Una classe lavoratrice divisa è una classe lavoratrice debole, cosa che i Conservatori sanno sin troppo bene. Ai lavoratori inglesi viene adesso raccontato che l’unico modo di evitare che gli inetti scozzesi seguitino a metter le mani nel portafoglio degli industriosi cittadini del Sud è dare il voto ai Tory. Il trucco in parte ha funzionato e i conservatori adesso hanno la maggioranza assoluta: bisogna però controbattere con fermezza la versione dei fatti populista per cui “L’Inghilterra” avrebbe votato compatta per i Conservatori, cosa che in realtà una larga fetta dei lavoratori inglesi si è guardata bene dal fare. Ad ogni buon conto, la reazione della sinistra nazionale scozzese ai risultati emersi l’8 maggio è stata quella di rivendicare un nuovo referendum: un’altra bella dose di nazionalismo, in altre parole. Non c’è dubbio che nel dopo-referendum il discorso nazionalista abbia messo radici entro il dibattito politico scozzese. Persino i laburisti locali adesso pensano di modificare lo statuto del partito, in cui ci si vanterà di operare “nell’interesse patriottico del popolo di Scozia”. Le prospettive per i socialisti sono invece piuttosto cupe. Un eventuale nuovo partito di sinistra sposerebbe sin dal principio la causa dell’indipendenza e, stando all’esperienza passata, sarebbe estremamente prono al compromesso con lo SNP. Se poi il modello è la Radical Independence Campaign, non si tratterà certo di una organizzazione democratica: infatti non è possibile iscriversi alla RIC, che non mette ai voti alcunché in occasione dei suoi convegni e la cui leadership è del tutto autonominata. Ad ogni modo, qualsiasi cosa venga fuori dallo Scottish Left Project non potrà che marginalizzare la sinistra anti-nazionalista, dato che la rivendicazione dell’indipendenza, che precedentemente era considerata un fatto di strategia, è stata elevata a parola d’ordine di per sé socialista. Sullo sfondo, si profila adesso una spaventosa espansione del programma di austerity dei Conservatori, liberi dai vincoli del precedente governo di coalizione. Da parte scozzese, l’impegno ad opporsi a tutto ciò attraverso l’unità dei lavoratori da un capo all’altro della Gran Bretagna è stato, nel migliore dei casi, tiepido: e non possiamo che immaginare che tale rimanga. Tutto quello che possiamo fare, in questo periodo di regressione per quanto concerne la coscienza di classe dei lavoratori, è seguitare a mettere in chiaro l’essenza reazionaria del nazionalismo scozzese e batterci all’interno della sinistra per un movimento socialista unitario su scala europea, l’unica alternativa praticabile all’austerity e al capitalismo. (traduzione di Angelo Foscari) Reddito minimo, reddito incondizionato, reddito di dignità? Attraverso questo intervento di Marco Palazzotto – che esamina criticamente le proposte di legge attualmente in ballo - PalermoGrad entra nel dibattito in corso oggi in Italia, con l’ambizione di precisarne ulteriormente i termini e di allargarlo a tutte le realtà di movimento, sindacali, politiche etc. etc. disposte a confrontarsi. L’obiettivo politico che ci interessa è impedire che la montagna inaccessibile del Reddito Universale Incondizionato finisca col partorire il ratto di una riforma “alla tedesca”, con un mercato del lavoro spezzato in due tronconi; e, visto che siamo in Italia, col rischio tangibilissimo che il troncone “buono” cominci a gravitare verso il basso, “tanto c’è il reddito minimo”. Pensiamo che, accanto alla doverosa erogazione di un reddito sociale per i disoccupati, la crisi occupazionale vada affrontata nell’ottica del “Lavorare Meno, Lavorare Tutti”. Una logica solidale che peraltro può reggersi soltanto sulle gambe della creazione di nuovo lavoro, attraverso l’imprescindibile intervento del “pubblico”. In questo scenario, la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario può costituire la base materiale per un nuovo spirito di condivisione e partecipazione che possa aggredire sul serio il nodo del lavoro di riproduzione , contestando in pratica quel “compromesso tra capitalismo e istituzioni eteropatriarcali” (si veda in proposito l’incisivo contributo del Laboratorio Smaschieramenti qui, al di là dell’ancoraggio al discorso del reddito incondizionato) - con il suo welfare al contempo scadente e modellato intorno alla famiglia “tradizionale” - che scarica il peso del lavoro di cura sulla donna e mimetizza la realtà LGBTQ. Non ci consideriamo detentori di verità precostituite, ma di sicuro vorremmo contribuire alla definizione di parole d’ordine che non ricalchino – paradossalmente! – quell’atomizzazione capitalista che a parole tutti denunciano. Scritto da Marco Palazzotto 13 maggio 2015 Di recente è tornato in auge il dibattito sulle forme di sostegno al reddito per cittadini che si trovano in condizioni economiche disagiate. Il confronto, soprattutto a sinistra, si è rinvigorito dopo le recenti proposte legislative del gruppo parlamentare di SEL e Movimento 5 Stelle su, rispettivamente, “reddito minimo” e “reddito di cittadinanza” e (qui e qui trovate due articoli che ne parlano). Tralasciando gli aspetti tecnici sulle differenze tra i due strumenti di welfare, la proposta del M5S prevede una erogazione di un reddito di € 9.360 annui a tutti i cittadini italiani ed europei residenti. Il costo è stimato in circa 17 miliardi di Euro annui da finanziare attraverso i tagli delle pensioni d’oro, tagli alle spese militari, pagamento IMU da parte della Chiesa Cattolica, aumenti di tassazione del gioco d’azzardo. Sinistra Ecologia e Libertà invece propone un reddito minimo di € 7.200 annui aumentabile in base al nucleo familiare. La proposta è rivolta a inoccupati, disoccupati e precari. Oltre alla somministrazione monetaria SEL propone una integrazione in natura, attraverso aiuti per l’acquisto di libri, prestazioni sanitarie, abbonamenti bus, ecc. Le risorse finanziarie per coprire questa proposta derivano dalla <<fiscalità generale>>. Le misure sopra descritte si inseriscono in un quadro europeo di welfare dove già esistono forme di reddito garantito e il cittadino italiano che guarda a queste proposte a tutta prima non può che trovarsi d’accordo, vista la situazione di crisi economica che ci attanaglia dal 2008. Nella realtà le forme di assistenza reddituale pongono alcuni problemi scaturenti da considerazioni di tipo sia teorico che politico. Tenterò di suddividere l’analisi ripercorrendo due filoni di pensiero che caratterizzano la discussione a sinistra su questi temi. Discussione che già prima della crisi del 2008 è stata arricchita da molti contributi, tra i quali quelli riportati sul Manifesto diversi anni fa e ripresi in questa rassegna di articoli di recente pubblicata da Contropiano.org. Il primo filone al quale si può far riferimento considera funzionante un sistema capitalistico in cui la produzione sia “data”, predeterminata, e pensa che malfunzionamenti e disuguaglianze che ne scaturiscono dipendano da una iniqua distribuzione del prodotto sociale. L’azione politica pertanto andrebbe rivolta verso una riduzione delle disparità tra percettori di reddito. Un sistema economico di tal fatta, come il sistema capitalistico, sarebbe quindi riformabile e stabilizzabile grazie ad un intervento politico che tenda a ridurre drasticamente, se non eliminare, gli squilibri distributivi. Un capitalismo quindi “buono”, con un welfare evoluto, un ritorno al keynesismo europeo post bellico, come cerca di prefigurare l’economista Thomas Piketty nei suoi bestseller “Il Capitale nel XXI secolo” e “Disuguaglianze”. Un secondo filone di pensiero, invece, affascina i teorici post-operaisti secondo i quali il “capitalismo post-fordista” avrebbe reso obsoleta la teoria del valore-lavoro. Il capitalismo dell’organizzazione manifatturiera taylorista sarebbe stato sorpassato da una economia terziarizzata e l’occupazione sarebbe creata fuori dall’industria. In questo contesto si sarebbe sviluppato un capitalismo “cognitivo” rappresentato soprattutto dalla produzione “immateriale” in cui il tempo di vita e le relazioni sul territorio producono valore. Pertanto il tempo di vita deve essere remunerato integrando la retribuzione salariale. Quest’ultima visione del capitalismo offre una interpretazione parziale della realtà, focalizzata oltretutto sulla parte più sviluppata del mondo. Tale visione taglierebbe fuori l’80% del pianeta che invece dipende ancora dal settore manifatturiero nel blocco occidentale e nei paesi oggi chiamati B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Anche l’Italia, tuttora secondo paese manifatturiero in Europa e ottavo nel mondo, vede sì una crescita del settore terziario, ma dipende pur sempre dall’industria. Pensiamo ad esempio ai precari delle pulizie, o al settore informatico, o alle finte partita IVA dei servizi, o ancora ai call center. Tutti settori che nella realtà offrono servizi per il funzionamento del settore manifatturiero. In un interessante saggio dei Clash City Workers “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi” (pubblicato da La Casa Usher nel 2014), gli autori producono una fotografia molto particolareggiata dell’economia italiana, offrendo un quadro diverso rispetto a quello raccontato da chi tenta di superare il valore- lavoro per rappresentare i rapporti di produzione e quindi la struttura stessa della società. Insomma, un reddito di esistenza, o di cittadinanza, o minimo, produrrebbe l’effetto, in un periodo come quello che attraversiamo, di peggiorare le condizioni delle classi meno abbienti. Infatti i governi, una volta attivate queste forme di supporto, giocheranno sempre al ribasso, vendendo come aumento dell’occupazione l’introduzione di forme lavorative con redditi base. Si creerà un mercato del lavoro frammentato (come è successo in Germania con i mini jobs) fatto da sempre meno “privilegiati” (gli stabili e qualificati) e sempre più precarizzati. Come nota l’economista Joseph Halevi in questa presentazione queste tipologie di reddito sono inconcepibili se non agganciate ai salari medi da fissare tra governo e parti sociali. Ma tale contrattazione può avvenire solo in un momento in cui le forze sindacali abbiano maggiore potere contrattuale cioè in un periodo di piena o quasi piena occupazione. Infatti queste erogazioni erano più sostanziose – vedi l’esempio dei paesi scandinavi - in periodi di bassa disoccupazione. Dopo lo scoppio della crisi dei subprime questi sostegni si sono ridotti drasticamente e hanno spinto i salari verso il basso, in una spirale senza fine. Guardiamo ad esempio cosa sta succedendo in aree come la Scandinavia, o Francia o Germania, dove è attiva una forma di welfare di questo tipo, e dove i tassi di povertà sono in aumento pur avendo avviato questi strumenti da molti anni. Insomma sembra che questa tipologia di proposte rischino di creare ulteriore frammentazione all’interno del mondo del lavoro. Le esperienze, come da ultimo le riforme Hartz in Germania, hanno avuto lo scopo di mantenere bassa l’inflazione comprimendo la domanda interna grazie a salari reali al di sotto della produttività, rendendo così appetibili i prodotti del manifatturiero tedesco nel mondo e allo stesso tempo mantenendo alti tassi di profittabilità. Guardate il grafico dei salari reali in Germania durante e dopo le riforme Hartz e l’andamento della quota salari rispetto al reddito nazionale: Le proposte presentate in premessa infatti somigliano tanto alle riforme Hartz I, II, III, IV concluse con l’ultimo governo Schröder. Lotta alla disoccupazione con i mini jobs (più di 7 milioni di tedeschi lavorano per 450 € mensili e 14 milioni per meno di 900 €) o in alternativa forme di sussidi di disoccupazione con una integrazione in natura (edilizia residenziale sociale ed energia elettrica).
Tra l’altro la proposta presentata dal gruppo parlamentare di Sinistra Ecologia e Libertà indica come copertura finanziaria la <<fiscalità generale>>, lasciando pensare ad un aggravio fiscale su tutte le fasce di reddito e quindi anche sui lavoratori stessi che vedrebbero ridursi il potere di acquisto. Quantomeno, da questo punto di vista, la proposta del Movimento 5 Stelle non caricherebbe la misura sulle spalle delle famiglie. Ovviamente il momento storico non permette di incidere, dal punto di vista politico, sulle modalità di controllo della produzione sociale, ma se l’obbiettivo è quello di ridurre le disuguaglianze gli strumenti appena descritti risultano inefficaci, e anzi controproducenti, se non accompagnati da altre misure. Senza poter gestire le componenti autonome del reddito (in primis gli investimenti pubblici) e la finanza, risulta impossibile incidere sui livelli di produzione e occupazione. Quindi perché non proporre soluzioni che rendano più stabili e più numerosi - riducendo magari l’orario di lavoro per diminuire, in questo senso, i tassi di profitto - i posti di lavoro, anziché rischiare di attivare circuiti di maggiore precarizzazione e impoverimento come sta succedendo in quei paesi dove esistono già queste forme di welfare? |
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