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      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
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      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
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      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
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      • CHI DI MOSTRA FERISCE
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      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
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      • ADOLESCENZE FRAGILI
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      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
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      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
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      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
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      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
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      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
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      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
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      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
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PALERMOGRAD

IL 25 APRILE A VENIRE

25/4/2017
di Marcello Faletra 

​
Il 22 luglio del 1944 sul muro di una cella del carcere di Torino Ignazio Vian prima di essere impiccato a seguito di una delazione scrisse: MEGLIO MORIRE CHE TRADIRE. Oggi, conosciamo bene il senso profondo di quelle parole scritte col sangue. Il tradimento della democrazia è all’ordine del giorno. 

Il 25 aprile è la ricorrenza di un fatto eccezionale della storia del nostro paese: l’insurrezione di larghe masse non soltanto per riconquistare la libertà dalla dittatura nazifascista, ma anche per mobilitarsi contro i piani di distruzione delle fabbriche messi in atto dai tedeschi. L’insurrezione salvò gran parte delle industrie del nord col sangue dei partigiani. Il 25 aprile, dunque, non è una commemorazione che concerne solo i “partigiani”, ma investe anche la classe industriale e i loro nipotini d’oggi, le cui fabbriche furono salvate da una tempestiva preparazione di resistenza. Di questa memoria gli industriali che oggi delocalizzano per fare profitto ignorano la portata storica. D’altra parte non vedono l’ora di liberarsi della Liberazione in qualsiasi modo.

Infatti: l’ossessione che logora gli avvocati del neoliberismo al parlamento (senza distinzioni di bandiere) li ha spinti a tentare di cambiare la Costituzione, per favorire lobby, corruttori e il cinismo dei mercati, spacciando per “riforma” una controriforma. Ci hanno provato riscrivendo una pseudo-costituzione redatta da imbecilli al servizio di poteri interni e potenze straniere (il tifo della JP Morgan e Goldman Sachs perché ciò avvenisse è stato da stadio). Sono stati ricacciati nelle loro stalle. Ciononostante, continuano nel lavoro di massacro dei diritti. Diritti dei lavoratori, soprattutto. Era impensabile che proprio un partito sedicente di “sinistra” avrebbe fatto il “lavoro sporco” dando il colpo di grazia ai diritti dei lavoratori (art. 18), mettendosi dalla parte dei più forti. La loro idea di “liberazione” è quella della liberazione dai lavoratori, ricattandoli con politiche di delocalizzazioni e mortificazione.

Liberazione dai precari (“Giovani italiani vanno all’estero? Meglio non averli tra i piedi” – parole del ministro Poletti).

Liberazione dalla scuola come formazione di un pensiero critico.

Liberazione da quel poco di informazione libera che resta.

Predazione del bene comune – acqua, risorse energetiche; 20 miliardi di euro a carico dei cittadini per salvare il liberticidio criminale delle banche decretati in un pugno di giorni. 

Il massacro delle economie locali a vantaggio delle grandi aziende off-shore, petrolieri prima di tutto.

La costruzione di una società ricattabile al servizio dei più potenti, è l’orizzonte dei nostri “rappresentanti” non eletti, che legiferano illegittimamente (come recita una sentenza della Corte Costituzionale del 2013), e maldestramente su questioni decisive per il futuro del paese e delle generazioni a venire, e per questo eversori.

La liberazione non smette di finire. Ieri occorreva liberarsi dalla dittatura fascista. Oggi occorre liberarsi dalla ferocia neoliberista, dai loro portaborse parlamentari, dal gangsterismo bancario.

Ieri il 25 aprile – giorno della Liberazione – consentì agli italiani di costruire una democrazia concordata. Oggi stiamo subendo una democrazia dettata dai mercati. Ecco perché il 25 aprile non ha perso nulla del suo valore reale e simbolico di Liberazione e di costruzione di una democrazia partecipata, ostacolata dal populismo degli “antipopulisti”: coloro che cianciano “in nome degli italiani”.

Il 25 aprile deve spingerci a liberarci dalla politica intesa come “governance”, come si usa dire nel gergo neoliberista, vale a dire l’attività autoreferenziale dei governanti che hanno usurpato la sovranità popolare e legiferano per conto della finanza.

Il 25 aprile è la data di costruzione di un presente e un futuro liberati dall’impolitica di una classe di fanatici del potere, di accoliti della corruzione, di impostori col volto del “politico”. 
​
Il 25 aprile è a venire.
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ROLAND ​IN CAMPO - Barthes attuale, oltre il frammento e l’estetismo

25/4/2017
di Marcello Benfante

Il 2015, che già ci sembra lontanissimo, è stato l’anno delle celebrazioni per il centenario della nascita di Roland Barthes. 

Si sa che in questo tipo di ricorrenze ufficializzate c’è sempre il rischio dell’imbalsamazione accademica. O peggio ancora, forse, quello della banalizzazione mediatica nella grande kermesse di quella che una volta si diceva l’industria culturale.
Con una boutade non del tutto frivola potremmo dire che Roland Barthes è ormai un “mito d’oggi”. In un senso talora banalizzato (su cui già ironizzava Guccini nel ’76: “Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes!”). E anche in un senso più profondo e contraddittorio, che deve fare i conti col fatto che la stessa mitologia si è mitizzata e che ogni discorso contro gli stereotipi è divenuto esso stesso uno stereotipo.

Sono sospetti e riserve che sfiorano per un attimo Gianfranco Marrone, docente di Semiotica all’Università di Palermo, che al grande linguista e semiologo francese scomparso nel 1980 ha dedicato numerosi lavori, ai quali ora si aggiunge questo prezioso Roland Barthes: parole chiave (Carocci, pagine 244, euro 19).
“Occasione sprecata, dunque?”, questa scontata ma doverosa celebrazione, si domanda retoricamente Marrone, subito scartando l’ipotesi. Molte cose interessanti sono emerse ancora (insieme alle immancabili retoriche congressuali) su questo “personaggio unico nella storia culturale del Novecento”, di cui si è tanto scritto e detto, ma “che ha ancora parecchio da insegnarci”.
A patto però, avverte Marrone, di evitare tre perniciose tendenze critiche: il “biografismo esasperato”, cioè la riconduzione semplificatoria dello sguardo scientifico di Barthes a una sorta di soggettivismo ipertrofico in cui il fatto privato subordina l’elemento teorico; lo “storicismo sterile”, ovvero la ipostatizzazione diacronica del sincronismo rivendicato da Barthes; e infine “l’estetizzazione forzata”, ossia l’approccio prevalentemente stilistico e formale alla sua opera nell’intento di inserirla nell’alveo di una rassicurante tradizione letteraria.

V’è pure una quarta tendenza da evitare, implicita e pertanto ancora più insidiosa: la frammentazione, più o meno emulativa (sulla falsariga del suo “discours amoureux”), di un corpus testuale non sistemico ma pure non parcellizzabile.
Gianfranco Marrone ha concepito allora una sorta di saggio-matrioska che incanala la problematicità barthesiana in un reticolo di “attraversamenti progressivi, accostamenti molteplici, elenchi sovrapposti di idee e modelli”.
La forma che prende tale complesso tentativo è quella del lemmario (o sillabario, potremmo dire con Parise). Cioè di una messa a confronto e in relazione di una serie di parole chiave che stabiliscono tra loro modi trasversali di lettura e/o di integrazione reciproca, di “contrappunto”.
Un cruciverba, insomma, sebbene inteso diversamente da quello sciasciano, che invita il lettore a un’esplorazione orizzontale e verticale, in una spola continua tra un riferimento e l’altro.

Si tratta di una metodologia impegnativa che comporta lo scardinamento di un itinerario unidirezionale di scrittura e di lettura, consentendo invece svariati “camminamenti interni” e forse perfino la possibilità di smarrirsi all’interno di un labirinto di infinite corrispondenze.
Da Albero (del crimine e del sapere) a Utopia – passando per Autore, Critica, Denotazione, Grado zero, Madre, Moda, Nouvelle critique, Piacere, Racconto, Segno, Teatro, per citare soltanto una possibile sequenza di stazioni – sono ben cinquantatré le voci che ci propone Gianfranco Marrone in una specie di illuminante gioco dell’oca strutturalista che si presta sia a una prima scoperta del pensiero di Roland Barthes, sia a una riconsiderazione complessiva della sua opera con un percorso di rimandi esponenziali a venticinque fondamentali saggi.
​

Con una scrittura molto lucida e precisa, Marrone ci consegna un testo “aperto”, insieme analitico e sintetico, che nello stesso tempo è un contributo saggistico pregnante e un omaggio a una delle figure più affascinanti di una lunga e indimenticata stagione culturale a cavallo del Sessantotto.
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IL FUTURO DEL PASSATO - Parlando della città che verrà

21/4/2017
di Vito Bianco


Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo nel nostro dibattito sulla città – nel quale sono già intervenuti Roberto Salerno (qui) e Giovanni Di Benedetto (qui) –, che opportunamente lo estende al futuro prossimo di Palermo. 


Circola da tempo un aneddoto (un apologo?) che, se non è vero, potrebbe presto o tardi diventarlo: un turista giapponese, dopo una giornata in giro per calli e campielli, sul far del crepuscolo ferma un veneziano e gli chiede: “Mi scusi, a che ora chiude Venezia?”
Vera o falsa che sia, la storiella del giapponese che scambia la città lagunare per un parco a tema che a una certa ora chiude i cancelli (il tema: Venezia) dovrebbe far riflettere sul pericolo che corrono le maggiori tra le nostre città storiche, a cominciare proprio dalla più imitata, dipinta, visitata e fotografata. Quale pericolo? Diventare appunto dei parchi tematici per turisti compulsivi e viaggiatori colti; per scolaresche chiassose e disciplinati pensionati che si godono il meritato riposo periodicamente visitando “la storia”.

La questione della salvaguardia dei centri storici è una questione cruciale, ma non può essere affrontata isolatamente, staccandola dalla più generale e vitale questione dello spazio urbano nella sua interezza. Così facendo si rischia di creare due micro-mondi separati dal censo, due città che non comunicano: una turistica e pedonalizzata, abitata da benestanti che potranno reggere gli alti affitti e i prezzi di vendita degli immobili; l’altra periferica e inquinata, destinazione obbligata di tutti quelli che non saranno più in grado di sostenere l’aumento dei costi degli alloggi.
I sociologi hanno dato un nome a questo esodo involontario dal centro alla periferia: gentrification, che in sostanza significa modificazione a scopi speculativi del carattere sociale dei quartieri antichi ma non solo.
Palermo, per stare al caso che ci riguarda, corre seriamente questo rischio. Rischia per l’appunto di scindersi in due città separate; di fare del suo centro storico un’isola felice che volta le spalle al e ignora il resto del suo grande corpo, fatto anche di zone nuove e periferie malvissute e disagiate che bisognerebbe far rinascere, includendole in un progetto organico, integrato; nel fuoco di visione di una città futura che includa ogni singolo quartiere, nessuno escluso.

Mi domando se è questa la città che vogliamo. Vogliamo una città che sfoggia un’area storica liberata dal traffico a scapito della periferia? Vogliamo davvero trasformare il nucleo antico di Palermo (o di Firenze, o di Milano, o di Torino) in un museo a cielo aperto, in un itinerario monumentale a uso e consumo dei visitatori, dei turisti?
Non pochi, anche tra gli osservatori più avvertiti, sono convinti che Orlando si sarebbe finalmente deciso a trasformare il capoluogo siciliano in una “Barcellona del Sud”, e ne vedono il chiaro segno nel divieto alle macchine in gran parte dell’area che va dal Massimo alla Cattedrale, dai Quattro Canti a piazza Bellini a – sul lato del mare – piazza san Domenico.
Confesso di invidiare il loro ottimismo, ma non posso fare a meno di notare che l’attuale e probabilmente futuro sindaco di Palermo ha avuto tutto il tempo necessario a realizzare questo ambizioso progetto urbanistico. Perché non l’ha fatto? Non l’ha fatto perché ha sostituito la visione politica della città nel senso più lato del termine con la proiezione narcisistica della città-vetrina dei grandi eventi, che finiscono sui giornali ma lasciano il tempo che trovano.

E forse è utile ricordare che questa pedonalizzazione è il risultato di una circostanza favorevole che sconta la mancanza di un serio piano per la mobilità, ovvero del benestare dei commercianti di via Maqueda, i quali hanno chiesto che una chiusura temporanea venisse trasformata in una chiusura permanente, dopo aver scoperto, udite udite, che una via senza macchine fa aumentare le vendite.
In passato è accaduto il contrario: un provvedimento di chiusura ritirato dopo una settimana per l’opposizione degli stessi negozianti, il che la dice tutta sulla reale autonomia politica di un amministratore che si fa dettare l’agenda da una lobby che, in quanto tale, guarda quasi sempre al proprio vantaggio economico.
C’è poi da dire, a proposito di Barcellona, che il capoluogo catalano non è diventato per un miracolo la città amichevole e a traffico limitato che sappiamo. Ha una storia unica, una tradizione di amministratori illuminati, degli abitanti che considerano il territorio urbano un bene comune. È possibile trapiantare tutto questo a Palermo? Sarà mai possibile, a parità di efficienza della rete pubblica dei trasporti, convincere l’automobilista palermitano a spostarsi in tram o metropolitana (che ancora non c’è)?

Chi vive a Palermo o ci ha vissuto anche solo per qualche mese conosce la risposta. Ma tutto è possibile sul lungo, lunghissimo periodo. C’è solo un inconveniente: saremo tutti morti. È un guaio, ma non ci si può far nulla. Ne godrà chi ci sarà.
Voglio a questo punto ribadire un’idea alla quale sono molto affezionato. Ed è questa: le città si salvano e acquistano energia per l’avvenire nella loro interezza, o non si salvano affatto. Puntare sulla salvaguardia dei centri storici (sacrosanta) senza sapientemente legarla a un progetto complessivo che coinvolga tutto “l’organismo urbano” è miope, autolesionistico e finisce col fare gli interessi di pochi a danno di molti. Negli anni Settanta questa visione complessiva fu riassunta in uno slogan: “Ripartire dalle periferie”. Che quelle buone intenzioni abbiano dato pessimi risultati, non vuol dire che l’idea fosse sbagliata; era sbagliato il modo, superficiale e disorganico di realizzarla, che ha prodotto quello che ancora abbiamo sotto gli occhi: quartieri alla deriva privi di servizi e isolati, condomini sgraziati, slarghi anonimi di cemento al centro del nulla, comunità emarginate.

​Vicino o lontano, il futuro delle città comincia nel presente, con le scelte fatte da chi è chiamato a farle, con l’autonomia delle amministrazioni, col rifiuto delle demagogie e degli inganni che fanno guadagnare consensi ma creano nuovi disagi, con una visione della forma urbis che veda in ogni tassello una parte che contribuisce a realizzare il tutto, una parte che è già il tutto ma che da sola non può stare perché morirebbe di inedia o di congestione, di abbandono e solitudine.
Salvatore Settis ci ha di recente ricordato che sono tre i modi in cui muoiono le città. Il primo è la distruzione ad opera di un nemico; il secondo è la conquista e la cacciata degli autoctoni insieme ai loro dèi; “infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi” (Se Venezia muore, Einaudi).
È bene allora non dimenticare che c’è una maniera di perderla, questa memoria di sé (la memoria che la città ha di se stessa, e che gli abitanti hanno della città) che consiste nel recintare (anestetizzare), staccandoli dal tutto a cui intimamente appartengono per venderli ai viaggiatori di passaggio, i luoghi in cui essa più fittamente dialoga col presente della sua esistenza attuale, contraddittoria e cangiante, faticosa e conflittuale perché viva e vera.
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‘PERCHÉ QUI LA GENTECREDE IN DIO’ - Davide Reviati e il razzismo concreto,​tra storia e memoria

18/4/2017
di Tommaso Baris


​Ci sono oggi tanti modi di raccontare la Storia. Si può anzi dire che tale narrazione sia sostanzialmente sfuggita a quanti se ne occupano professionalmente, lasciando campo libero alla memoria dei protagonisti, ai romanzi, alle fiction televisive con risultati spesso (anche se non sempre) discutibili. Sono oggi questi gli strumenti attraverso i quali si costruisce un senso comune rispetto al passato molto più dei saggi scientifici di ricerca storica. 


In questo contesto si colloca l’ultimo lavoro di Davide Reviati, il graphic novel Sputa tre volte, apparso nel 2016 per Coconino Press, tra le più importanti case editrici di fumetto d’autore italiane. Il volume, che in questo richiama un precedente lavoro del disegnatore, Morti di Sonno, si presenta come un racconto di memorie. Protagonista della scena è infatti un gruppo di ragazzi, studenti di un istituto tecnico industriale, con scarsi risultati in verità, assunti come punto di osservazione della loro comunità di origine. Questa rimane indefinita ma si capisce chiaramente che siamo in una provincia rurale dell’Italia settentrionale, tendenzialmente nelle estreme propaggini della pianura padana: il tanto – in passato – citato e discusso Nord-Est, visto come locomotiva economica del paese. L’autore segue allora questo gruppo di giovani amici, Guido, Katango, Moreno detto Grisù e tanti altri e ce li mostra nel loro tentativo di dare un senso ad una vita che per molti versi appare piatta e priva di interesse, e li segue nel loro cercare una continua rottura del conformismo quotidiano e della cappa opprimente degli adulti (sempre sullo sfondo, e sentiti come distanti e ostili). Una ricerca di diversità che si traduce nella riproposizione di un micro gruppo giovanile il cui tempo comune è scandito dal consumo di droghe leggere, dalle tante e forti bevute collettive, dalle innumerevoli serate al bar e le fughe verso il mare e le sue discoteche senza che questo riesca a creare un sentire diverso e differente dal mondo aspro, duro e in definitiva sentito come falso e cinico, degli adulti.

Ad accompagnare questo processo di crescita che però sembra non portare nessuna reale maturazione, non produrre nessun vero apprendimento sentimentale ed affettivo, conchiuso com’è nella sua autistica ripetizione, utile casomai a ricordare che il cinismo e l’indifferenza possono albergare anche in chi ci sta accanto da tempo, si ritrova una piccola comunità di nomadi slavi, raccontati attraverso lo sguardo dei giovani protagonisti e le lenti deformate con cui la loro comunità gli ha insegnato a guardare all’altro e al diverso. Collocati negli spazi impervi delle campagne e costantemente paragonati agli animali, collocandoli nello stesso spazio mentale e culturale, la famiglia degli Stancic, gli “zingari ladri e senza Dio” di questa storia, permette di mostrare i pregiudizi, la paura del diverso, l’ostilità per i modi di vita altri che la comunità italiana contiene in sé ma nasconde dietro l’apparente religiosità e il finto perbenismo e moralismo conformistico. L’asprezza, la durezza, la rabbia, e la frustrazione che la pesantezza della vita nella cittadina del Nord-Est alimentano si sfoga allora attraverso la stigmatizzazione e la repulsione nei confronti di questa piccola comunità nomade. La giovane ragazza Loretta appare allora come una pericolosa strega, che già da piccola lasciava escrementi nelle case degli abitanti del posto, per presentarsi da adulta come una sorta di lupa feroce e selvaggia, che si aggira libera e furiosa nelle campagne. 

​In realtà gli Stancic si portano dietro una storia drammatica e devastante. Sono arrivati in Italia dopo aver attraversato lo sterminio razziale dei nazisti. Progressivamente allora Reviati inserisce nella storia una memoria altra, quella di un vecchio sinti, che rilegge dal proprio punto di vista i ricordi di Guido, permettendo al lettore di entrare dall’interno nell’universo familiare degli Stancic, disvelando così la loro storia di fuga e rifugio nel nostro paese, perché – come dice Mama, l’anziana matriarca che si reca a messa tutte le settimane arrivando per ultima e andando via per prima – “siamo venuti in Italia perché qui la gente crede in Dio”, e quindi dovrebbe essere, culturalmente e storicamente, in grado di accogliere chi fugge dallo sterminio e dalla violenza della distruzione. In realtà Reviati dimostra come, anche nell’Italia del tempo presente, alla celebrazione istituzionale e rituale della “giornata della memoria” non sia seguita la costruzione di una consapevolezza reale dei processi di stigmatizzazione e criminalizzazione dell’altro e del diverso, su base razziale. Lo sterminio dei sinti, a cui è dedicata nella parte finale una intelligente riflessione, è diventato infatti un ricordo di second’ordine e grado, come le sue vittime, incapace persino di produrre una rimessa in discussione di quegli stessi stereotipi e pregiudizi che furono alla base della scelta nazista di perseguitare gli zingari. Privi di Stato, nomadi e spesso identificati con la piccola criminalità, i sinti continuano a essere dipinti come un grave fattore di sconvolgimento dell’ordine sociale e morale costituito, riproponendo l’idea di una anomalia irriducibile e quindi da sanare in qualche maniera. Da questo punto di vista il volume dimostra la perdurante frattura tra il fiume di retoriche che accompagnano oramai gli eventi memoriali, anche e soprattutto quelli legati alla Shoah, e il dilagare concreto del razzismo. Le nuove recenti manifestazioni di intolleranza e violenza aperta nei confronti dei migranti che ieri come oggi fuggono da guerre e persecuzioni non paiono solo il frutto di nuove recenti paure alimentate dal terrorismo e dall’islamofobia ma rimandano anche ad un sostrato di fondo presente nella società italiana che andrebbe messo a tema e su cui bisognerebbe tornare con forza ad interrogarsi. La crescita economica, il benessere maggiore, l’aumento della ricchezza sembrano infatti non aver eliminato ma al contrario alimentato questa chiusura identitaria, riproponendo l’idea della vita come durezza da subire ed imporre agli altri, che in qualche modo l’indefinito Nord-Est raccontato da Reviati finisce per riassumere paradigmaticamente in questi suoi giovani protagonisti, oscillanti tra ribadimento della propria superiorità e voglia di rompere con il falso perbenismo del contesto di provenienza. Il finale resta però amaro, non solo per la digressione sulla vicenda della poetessa sinti Papusza, le cui opere poetiche, pubblicate in Polonia grazie al lavoro dell’intellettuale Jerzy Ficowski, finirono per isolarla dalla comunità di origine senza farla accogliere in quella polacca, che restò anche negli anni del comunismo a larga maggioranza sciovinista e razzista, ma soprattutto per l’amara conclusione dell’incontro ad anni di distanza tra Guido e AlPacino, il fratello di Loretta. Quest’ultimo aveva salvato il ragazzo italiano dopo una brutta sbronza dopo la quale Guido aveva perso i sensi finendo in mare aperto su un pedalò alla deriva, ma ciò nonostante il giovane sinti era stato poi derubato e lasciato a piedi dagli amici di Guido. Il loro rincontrarsi ad anni di distanza sembrerebbe andare verso un finale che apre qualche speranza di cambiamento, ma alla fine si scopre che non c’è stata in realtà alcuna salvezza e nessuna redenzione. Chiusura e durezza non producono che incrudelimento e distruzione, ma rispetto a tutto ciò non si intravedono strade di uscita.
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ANTI EURO: LI CHIAMAVANO TRINITÀ - Riflessioni a margine del sessantenario dei Trattati di Roma

14/4/2017
di Marco Palazzotto 

Lo scorso 25 marzo si sono svolte le celebrazioni per il sessantenario dei Trattati di Roma. Ne ha parlato martedì scorso Giovanni Di Benedetto qui.

Poco si è discusso sulle manifestazioni capitoline contro le politiche dell’Unione Europea. È vero che il numero dei partecipanti non ha superato le 10.000 unità, ma ciò non dovrebbe rappresentare un motivo per tacere la notizia. Mentre i nostri giornali hanno dedicato scarsa importanza all’argomento, il Ministero dell’Interno ha lavorato alacremente. Non si spiegherebbero altrimenti i numerosi fogli di via e i sequestri preventivi emessi dalle forze dell’ordine nei confronti di centinaia e centinaia di manifestanti (le fonti della Questura di Roma indicano circa 3000 fermati), ai quali è stato vietato di esprimere le proprie opinioni pubblicamente. La sensazione è che il governo abbia tenuto alto il “livello di sicurezza” (si tratta di fermati per possesso di fumogeni o soggetti presenti  nelle liste della polizia per motivi “ideologici”) per evitare che si accendessero i riflettori sui contestatori, invece che sui politici europei chiusi nei palazzi a festeggiare.

Ciò che riteniamo degno di interesse non sono tanto i numeri dei cortei, ma le organizzazioni politiche presenti. Sostanzialmente il fronte dei manifestanti anti UE era composto da tre categorie. Una parte che fa riferimento a pezzi di Sinistra Italiana, di Rifondazione Comunista, a CGIL, al movimento fondato dall’ex ministro greco Varoufakis (DiEM25). Questi rappresentano un gruppo molto eterogeneo che chiamerò per semplicità i riformisti dell’UE.

Una seconda categoria raccoglie, analogamente alla prima, consensi trasversali: dal filosofo Diego Fusaro, all’economista Alberto Bagnai, passando per la Lega Nord e Fratelli d’Italia (li chiamerò per semplicità No Euro).

Infine una terza categoria, a mio parere più degna di attenzione, fa riferimento agli anti capitalisti. Quest’area raccoglie i Sindacati di Base, la Rete dei Comunisti, centri sociali e movimenti, più attenti alle trasformazioni e contraddizioni del capitalismo contemporaneo nel nostro continente, e che d’ora in poi chiamerò Eurostop, per via del nome della campagna alla quale hanno aderito diversi soggetti.

Le tre categorie appena descritte propongono, per rompere con le politiche di austerità, tre diverse soluzioni. La prima più europeista, che ahimè raccoglie anche la FIOM e i partiti di sinistra radicale, crede ad una modifica – anche attraverso la “disobbedienza” – dei trattati europei, senza  modificare l’apparato istituzionale. Ciò sarebbe auspicabile anche per evitare le derive nazionaliste e xenofobe che coinvolgono ormai tutti i paesi membri. Questa compagine politica però sembra confusa dal punto di vista teorico. Non sono chiari i motivi per i quali le istituzioni politiche, economiche e finanziarie europee debbano tornare sui loro passi e modificare totalmente un impianto che è stato pensato e costruito per perpetrare un certo modello funzionale all’attuazione del neoliberismo. Modello, inoltre, basato sul conflitto contro le classi lavoratrici e a favore di un capitalismo sempre più verticalmente integrato verso il centro Europa. I riformisti infatti sembrano confusi su cosa stia succedendo al capitalismo europeo. Non è solo un problema di evidenziare l’inefficacia delle politiche di austerità (che anche il Fondo Monetario Internazionale ormai ammette). La confusione teorica all’interno dei riformisti probabilmente è dovuta alla eterogeneità dei soggetti che la compongono. Dentro troviamo frammenti di sinistra radicale italiana che per molti anni hanno sostenuto governi e amministrazioni locali del PD o comunque liberali (come ad esempio è successo a Palermo e Catania). Inoltre troviamo anche componenti dell’eurocomunismo e post-operaismo e infine del sindacalismo consociativo. Tali componenti continuano ad appoggiare le politiche di Alexis Tsipras (che palesemente ha fallito e continua a massacrare le famiglie greche con tagli imposti dai memoranda scritti dalla Troika, in continuità col PASOK) o trovano una nuova frontiera antagonista in Podemos in Spagna (partito che sembra assumere i connotati di un partito populista anti-casta come il Movimento 5 Stelle). Dentro questo potpourri non troviamo alcuna chiara ed univoca visione di come debba essere articolata una società europea più equa e più giusta, se non con qualche slogan del tipo: benecomunismo, società dei diritti, welfare, redistribuzione di ricchezza, carta dei diritti, ecc. ecc. ecc.

La seconda categoria, che ho chiamato No Euro, comprende anch’essa vari pezzi eterogenei, ma tutti uniti dalla parola d’ordine “sovranismo”. Dentro ci troviamo esponenti di alcuni minuscoli partiti che ancora usano il simbolo della falce e martello, alcuni pezzi di Sinistra Italiana che si riuniscono attorno all’ex viceministro nel governo Letta, Stefano Fassina, alcuni economisti keynesiani, passando per i partiti di destra come la Lega nord e Fratelli d’Italia. Intercettando anche consensi nel Movimento 5 Stelle. Questo fronte è riunito sotto lo slogan della sovranità monetaria. Secondo i No Euro si può uscire dalla crisi europea solo ritornando al protezionismo economico, proponendo l’uso di valute diverse e rompendo con l’Euro. Un ritorno alla sovranità monetaria porterebbe benefici dovuti ad una svalutazione della nuova valuta che si adeguerebbe ai differenziali di prezzo tra le diverse economie. Tali aggiustamenti valutari, influenzati dalle dinamiche di mercato, rilancerebbero le esportazioni e di conseguenza la produzione industriale e la domanda aggregata, sacrificando sul campo una iniziale - ma non devastante secondo i nostri - inflazione. Tali soluzioni però vengono articolate in modo diverso all’interno del paradigma No Euro. Ci sono alcuni che propugnano il ritorno al controllo pubblico dell’economia. Sembra però che il problema sia l’Euro e non le istituzioni europee. Alcuni suggeriscono la rottura del vincolo valutario ed una riforma delle istituzioni europee. Secondo le estreme frange, invece, occorre ritornare alla chiusura delle frontiere, anche nei confronti dei migranti provenienti dai paesi colpiti dalla guerre o dalla povertà. Spesso queste frange guardano di buon occhio il revanscismo lepenista, scadendo in una specie di rosso-brunismo.

Sul fronte Eurostop, la analisi sembrano più solide e logiche delle precedenti. Il gruppo si distingue per i tre NO: no all’Euro, no alla UE e no alla NATO. Sicuramente siamo di fronte ad un problema, quello europeo, che occorre analizzare da un punto di vista di classe e quindi anticapitalista. Qualunque forma di riformismo dei trattati è insufficiente a modificare la tendenza alla riduzione delle tutele sociali e lavorative. La costruzione dell’Europa unita deriva da una volontà ben precisa del capitale franco-tedesco di spartirsi il controllo politico europeo, un connubio tra modello militarindustriale francese e modello mercantilista tedesco. Pensare ad una riforma dei trattati significherebbe chiedere al suddetto asse di modificare i propri paradigmi. Sarebbe come chiedere in Italia il socialismo attraverso la riforma costituzionale o il referendum. Il polo Eurostop, altresì, sostiene la rottura con le istituzioni europee, unico modo per porre fine all’agonia recessiva che viviamo da dieci anni e all’attacco al mondo del lavoro che sperimentiamo da più di venti. I vantaggi della permanenza dell’Italia e degli altri paesi sono inferiori agli svantaggi e quindi sarebbe più utile ripartire da una ricomposizione sociale che abbia i caratteri nazionali.
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A nostro modo di vedere, il nodo non è rompere o non rompere con l’Euro o con l’UE oggi, domani o dopodomani (Euro ormai feticcio delle varie tifoserie che si contendono lo scettro della migliore analisi econometrica sui vantaggi e svantaggi derivanti dalla “exit”). La riflessione che a parere nostro sfugge riguarda la situazione dei rapporti di forza tra le soggettività che compongono il sistema produttivo europeo. Ci sembra scontato che un orizzonte di “integrazione europea” sia impensabile nei prossimi decenni, non c’è stato in questi 60 anni, non ci sarà in futuro. Perfino le élites parlano apertamente di “Europa a più velocità”. Come se nel capitalismo potessimo aspirare ad una “velocità unica”. Non si può che sperare e lavorare per costruire un soggetto sociale compatto che imbocchi la strada del conflitto in tutti gli strati della produzione e della società, e che faccia della propria coscienza il punto di partenza per una nuova idea di produzione. Pensare ad un’Europa dei diritti (al lavoro, alla cittadinanza, al welfare, ecc.) è pensare a un’Europa finta che non esisterà mai, perché i diritti – in un sistema di produzione borghese – sono per pochi e non per tutti.

Lo smantellamento dell’UE va quindi considerato come obiettivo, ma sarà irrealizzabile senza aver costruito un’entità capace di influire sui processi di cambiamento e senza poter incidere sul soggetto che guiderebbe l’eventuale disfacimento dell’organizzazione europea.
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In sostanza, il federalismo solidale ed egualitario che desideravano i padri fondatori dell’Europa non sarà mai realizzato, secondo quanto dichiarato dagli stessi politici (l’Europa a più velocità) e una retromarcia almeno sulle politiche valutarie arriverà a breve (già la BCE ha sconfessato se stessa con i continui interventi di politica monetaria espansiva post-crisi, risultati inefficaci). Non ci resta allora che lavorare per un fronte unito anti UE, che raccolga gli strati sociali più penalizzati nel conflitto avviato dai comitati d’affari europei. Fronte ampio ed internazionale che però dovrà colpire nel momento giusto, evitando rocamboleschi protezionismi dentro i confini nazionali che si potrebbero ritorcere contro, e in maniera più recrudescente, sulle classi lavoratrici.
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L’INSOSTENIBILE​LEGGEREZZA DEL LABOUR

11/4/2017
di Vincenzo Scalia

Nel settembre 2015 una vampata di speranza scosse la sinistra britannica e quella europea, in seguito all’elezione a segretario del Labour Party di Jeremy Corbyn, deputato laburista. La sua leadership, per quanto popolare e foriera di rinnovamenti, venne subito messa in discussione dall’apparato del partito, che chiese e ottenne una nuova elezione per la segreteria in seguito a una sfiducia contro Corbyn votata dall’81 per cento dei parlamentari laburisti. L’esito della nuova elezione confermò quello dell’anno precedente, con un’ulteriore aumento dei consensi per il segretario uscente, passati dal 59,5% del 2015 al 64% del 2016. A questo punto – si pensava – un partito più coeso, senza problemi di leadership, avrebbe rilanciato la propria iniziativa sullo scenario politico. Soprattutto, si sperava in una politica alternativa, che potesse fare da guida alle sinistre europee nel contrasto al neo-liberismo. Ci troviamo invece oggi in una situazione scoraggiante: i sondaggi danno i laburisti molto indietro; i Tories, malgrado (o forse, proprio grazie a) le loro lacerazioni interne, occupano il centro della scena politica. Corbyn si trova costretto a inseguire gli umori pro-Brexit, mentre da destra l’ex-premier Tony Blair lo incalza col gruppo Open Britain, che vorrebbe mettere in discussione il referendum del 23 giugno 2016.  Le cause del mancato decollo dei laburisti sotto la leadership di Corbyn sono molteplici.


In primo luogo, molti militanti di base rimangono delusi rispetto all’atteggiamento tenuto dal leader laburista rispetto ai nuovi tagli alla spesa pubblica. I County Councils, ovvero le amministrazioni locali, rischiano di dovere chiudere servizi essenziali come biblioteche, scuole e community centres (centri di quartiere), con un conseguente deterioramento della qualità della vita, nonché con l’espulsione dal circuito occupazionale di decine di migliaia di dipendenti pubblici. Inoltre, anche i benefit, vale a dire i sostegni diretti e indiretti alle classi svantaggiate, che vanno dal sussidio di disoccupazione a un’integrazione sul pagamento di bollette e affitto, stanno subendo tagli drastici. Per quanto a parole Corbyn si sia opposto in Parlamento a questi tagli, a livello locale i consiglieri laburisti, in particolare nei luoghi dove il Labour amministra, si mostrano i più zelanti nell’eseguire questi tagli, rifiutando ogni mediazione con le parti sociali e trincerandosi dietro le responsabilità del governo centrale. In realtà, a livello locale, i laburisti disporrebbero di margini di mediazione. E i nuovi militanti attratti da Corbyn potrebbero fornire loro sostegno. I fatti vanno però nella direzione opposta, anche per il mancato pronunciamento del leader che, sollecitato in più di un’occasione  dai Laburisti locali, ha rifiutato di prendere posizione.

In secondo luogo, tali dinamiche sono possibili in conseguenza della disarticolazione della macchina organizzativa Labour, che dà vita a dinamiche simili a quelle che hanno favorito in Italia l’ascesa di Renzi a leader del PD. Pur essendo un membro del Parlamento, Corbyn avrebbe avuto bisogno del sostegno di trenta parlamentari per candidarsi. Non avendo raggiunto il quorum, la sua candidatura è stata “imposta” da UNITE, la più grande confederazione sindacale britannica (circa un milione e mezzo di iscritti), la cui influenza all’interno del Labour Party non è secondaria. Per frenare i risentimenti della macchina di partito in seguito a questo golpe, Corbyn adotta una strategia improntata alla mediazione, o meglio alla spartizione dei contesti. I maggiorenti locali e nazionali si occupano dei collegi elettorali e delle amministrazioni locali, mentre il segretario funge da catalizzatore dell’attenzione dei media nazionali, coi suoi proclami socialisteggianti. I nuovi iscritti corbyniani stanno cominciando a prendere piede soltanto da poco, ma, se la disarticolazione organizzativa si riverbera – com’è successo finora – nella mancanza di chiarezza strategica, è dubbio che si possa formare una nuova leadership in grado di imprimere un deciso cambiamento di passo e di segno alla politica laburista. 

Infine, Corbyn sconta, come molti altri condottieri della sinistra d’oggi, quella che potremmo definire come “ la patologia dei leader” che affligge ormai da decenni la sinistra occidentale. I partiti socialisti e comunisti si sono distinti storicamente per il loro radicamento presso i referenti sociali da cui attingevano i voti, derivandone sia un progetto politico sufficientemente coerente, sia una leadership coesa e articolata. L’evaporazione dei referenti sociali sopraggiunta alla deindustrializzazione, la crisi dei socialismi, la frammentazione delle classi, l’affermarsi della politica-spettacolo, hanno fatto sentire il loro effetto anche sulle sinistre. In altre  parole, sia che si dichiari di puntare a creare dei partiti di massa (come fece il PRC in Italia negli anni Novanta), sia che si parli di pluralismo e di apertura ai movimenti, il risultato è lo stesso. I partiti sono ridotti a una macchina elettorale che cerca di creare appeal tra gli elettori candidando nomi di richiamo che pronunciano slogan ad effetto. Di conseguenza il leader deve essere la sintesi di questa politica-spettacolo, che però, nei fatti, è slegata dai processi sociali e culturali che proclama di volere promuovere. Corbyn è parlamentare dal 1983, radicato nel suo collegio di Lewisham ma senza grandissimi legami col resto della Gran Bretagna; famoso presso l’opinione pubblica per le sue dichiarazioni pro-Castro e a favore della Palestina, ma non per avere promosso una qualche iniziativa politica in favore di lavoratori, migranti o minoranze. 

Da questo processo non sono immuni elettori e militanti, che decidono di impegnarsi nell’arena pubblica al seguito di un leader piuttosto che per costruire un progetto. Dopo la candidatura di Corbyn a leader, per esempio, il Labour, in certe zone, aveva decuplicato il numero dei militanti, spingendo l’apparato blairiano a chiudere una sezione come quella di Brighton, composta soltanto di corbyniani. Negli ultimi mesi si assiste a un ritrarsi di questi militanti in seguito alle delusioni ricevute dal nuovo condottiero. Come se leader e progetto si identificassero, e non necessitassero della mediazione politica da parte degli iscritti, che dovrebbero essere i veri e propri detentori dei destini del partito. 

Di questa militanza fatua, vaporosa, priva di contenuti, Corbyn non è responsabile. Però, sui tagli alla spesa pubblica, si attende ancora una sua iniziativa....
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COSA SUCCEDE A PALERMO?

7/4/2017
di Giovanni Di Benedetto 

Cosa succede a Palermo? La stagione delle grandi manovre, per assicurarsi il successo alle prossime elezioni comunali, sta entrando nel vivo. Ne ha già parlato, sulle pagine di questo sito con un suo interessantissimo approfondimento, Roberto Salerno, che constatava come la grande capacità di Orlando fosse quella di proporre un progetto in grado di trascinare tutti nell’approdo finale della parabola interclassista (“il mio partito è Palermo”). Salerno ricordava, a mio avviso correttamente, come la strategia di Orlando avesse la capacità, risalente probabilmente al suo passato democristiano, di condizionare abilmente le strategie della sinistra costringendola a giocare la competizione elettorale solo e soltanto con le armi degli avversari.
 

A circa un mese da quel contributo i recenti eventi relativi alla problematica palermitana, ancora una volta oggetto dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, necessitano forse di un aggiornamento e di un sovrappiù di riflessione. Senza peraltro che i ragionamenti di Salerno evocati sin qui perdano di cogenza perché, invece, ne escono ulteriormente rafforzati. L’obiettivo di questo intervento non vuole essere pretenzioso, giungere a una chiarificazione del problema palermitano richiederebbe competenze e conoscenze che non possiedo, né dispensatore di dogmatiche verità. Si propone, più semplicemente, di contribuire a tenere aperto il problema concorrendo, magari, a avviare su un tema importantissimo per i destini del capoluogo siciliano, una discussione costruttiva e pacata.

Veniamo allora ad una preliminare ricostruzione dei fatti. Sul Quotidiano di Sicilia in un articolo del 29 marzo intitolato Democratici e popolari: Orlando può contare su PD, Ap e centristi si legge: “il matrimonio è stato celebrato, se sarà felice si vedrà col tempo. Il sindaco Leoluca Orlando, a caccia del quinto mandato a Palazzo delle Aquile, ha presentato all’Hotel Wagner la tanto attesa lista “Democratici e popolari” composta da Pd, Ap – la nuova formazione di Angelino Alfano – e Centristi per l’Europa, i fuoriusciti dell’Udc. (…) Il segretario provinciale Carmelo Miceli si è presentato sorridente parlando di una bella giornata che risana l’innaturale rottura di cinque anni fa”. A benedire l’accordo, tra gli altri dirigenti, il responsabile regionale dell’organizzazione del Pd Antonio Rubino. L’articolo, inoltre, ricorda che alla conferenza stampa di presentazione figuravano anche i leader centristi Dore Misuraca e Adriano Frinchi, nonché il vicepresidente dell’Ars Giuseppe Lupo e la deputata Teresa Piccione, esponenti di spicco, di certo non dei fuoriusciti dell’ultim’ora, sempre del Partito democratico.

Continuiamo con le notizie di cronaca politica riportate dalla stampa. Sul quotidiano online Libero.it del 1 aprile si legge: “A tentare la rivincita dopo il ko del 2012 proprio contro Orlando è anche Fabrizio Ferrandelli. L'ex Idv, passato al Pd prima di dire addio anche ai democratici e fondare il suo movimento ‘I Coraggiosi’, però, questa volta avrà al suo fianco Forza Italia e Cantiere popolare. Un'intesa che proprio qualche giorno fa ha rischiato di saltare a causa del no di Ferrandelli al simbolo di Fi e l’irrigidimento di Micciché. A fare da pontiere Saverio Romano, capogruppo di Ala alla Camera, ma soprattutto l’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro. Proprio l’ex presidente della Regione avrebbe giocato un ruolo di primo piano nell’intesa tra gli azzurri e l’ex dem, convincendo il leader de I Coraggiosi ad accettare la lista con le insegne di Forza Italia, anche se con una connotazione territoriale. D’altra parte lo stesso ex presidente della Regione che a Rebibbia ha scontato una condanna per mafia non ha fatto mistero delle sue simpatie per il giovane Ferrandelli.”

Concludiamo questa nostra carrellata di riferimenti giornalistici, forse troppo lunga ma necessaria, riportando quanto scrive sempre il Quotidiano di Sicilia del 4 aprile in un articolo a firma di Gaspare Ingargiola e intitolato Elezioni, Ferrandelli non teme il M5s, la sfida è con Leoluca Orlando: “Sulla gestione degli stemmi di partito Ferrandelli ha attaccato i suoi vecchi compagni dem: «In queste ore abbiamo ritenuto corretto non mortificare in un gioco dell’ipocrisia le identità che concorreranno a questo progetto. Il Pd», invece, è «ipocrita», perché «camuffa le bandiere e per candidarsi con uomini di Alfano nasconde la propria identità (si riferisce alla lista a sostegno di Orlando Democratici e Popolari, ndr). Hanno fatto una scelta di convenienza.»”  
A dire il vero ce n’è abbastanza per farsi prendere dallo sconforto. Da un lato un candidato che ha militato prima nell’Italia dei valori e poi nel Pd e che è sostenuto adesso da Forza Italia e sponsorizzato da Cuffaro. Dall’altro, il sindaco uscente che organizza e appronta una coalizione tanto larga e variopinta quanto caratterizzata da identità e prospettive differenti se non alternative. In realtà non c’è proprio niente di nuovo sotto il sole, semmai la riproposizione beffarda del tradizionale gioco trasformistico dei ceti politici siciliani e palermitani. Dentro questo scenario desolante la politica è scomparsa, rimangono soltanto cricche e camarille locali, notabilati e consorterie. 

D’altra parte occorrerebbe, forse, tornare a interrogarsi su quali sono oggi a Palermo e in Sicilia i centri di potere e di raccolta elettorali, di quali interessi, particolaristici o collettivi, sono espressione oggi le forze in campo a sostegno delle due coalizioni. Nel quadro della crisi globale e dell’euro sarebbe il caso di chiedersi che fine ha fatto il potere di condizionamento di quella borghesia funzionalmente intermediaria e parassitaria che ha tradizionalmente consolidato la propria primazia attraverso il saccheggio delle risorse finanziarie di origine regionale, nazionale, e comunitaria. Insomma, è lecito chiedersi chi sosterranno alle prossime comunali, attraverso i propri canali di intermediazione clientelare, le classi dirigenti siciliane che gravitano su Palermo, che non dimentichiamo è anche il centro della politica regionale. Quelle classi dirigenti che sono state complici del disastro di questi ultimi dieci anni e che nulla hanno fatto per invertire le dinamiche asimmetriche che hanno concorso ad accentuare, rispetto alle altre regioni del Paese, sviluppo duale e divaricazione economica e produttiva.

E magari occorrerebbe interrogarsi anche su quali orizzonti di senso e su quali prospettive politiche si fonda l’antropologia degli attuali candidati, quali le loro aspirazioni e le loro, si fa per dire, vocazioni. Probabilmente ci si accorgerebbe che per molti dei protagonisti della competizione elettorale sarebbe indifferente militare nell’uno o nell’altro dei campi avversi, considerato che entrambi sembrano essere cannibalizzati da pulsioni arrivistiche e individualistiche, da ambizioni anche legittime ma sempre sussunte dentro la logica minacciosa del clientelismo, della mercificazione privatistica, del primato del mercato e del profitto. Insomma, candidarsi, e magari essere eletti, se rimane un’impresa difficile è, oggi, un’esperienza dai più, per carità e per fortuna non da tutti, vissuta come il partecipare a un concorso pubblico o il vincere il terno al lotto. Se va bene c’è sempre un gettone di presenza o un onorario con cui tirare a campare. La crisi della politica è, purtroppo, anche questo.  

Ma veniamo alla questione centrale. L’abilità di Orlando nell’assicurarsi, si guardi al solo numero delle liste, un ampio sostegno e ampi margini di manovra per governare, qualora venisse eletto, nella prossima sindacatura, non è in discussione. Tuttavia, sul piano politico ed elettorale il sistema di potere realizzato da Orlando ha alimentato nuove forme di centralismo, determinando un meccanismo di dipendenza parossistico: non è il sindaco ad essere espressione di forze e di programmi, i cui contenuti possono essere pure diversificati ma sostanzialmente assimilabili, ma è l’insieme delle forze della coalizione, fra loro differentissime e con programmi e finalità, a breve, medio e lungo termine alternativi, che è espressione del potere monocratico di uno. Per la dialettica democratica è un fallimento e, se si considera che Orlando è il protagonista indiscusso della politica palermitana da quattro decenni, è sintomo della assenza di un fisiologico ricambio delle classi dirigenti. 

Altro punto che merita un minimo di analisi: sembra piuttosto ovvio esigere di sapere quale sarebbe il profilo politico e la natura della coalizione che sostiene il sindaco uscente, considerato che, a quanto riportano le fonti giornalistiche, l’insieme di tali forze annovera soggettività che a livello nazionale e regionale presentano profili programmatici e pratiche politiche antitetici. Sarebbe proprio il caso di chiedersi che c’azzecca, per citare per l’appunto il ministro di un fallimentare centrosinistra prodiano che fu, la presenza di sensibilità politiche (si fa per dire) che fanno riferimento al ministro Alfano o al segretario Miceli con l’impegno e i contenuti espressi da chi in questi anni si è battuto generosamente, e dall’opposizione, contro il Jobs act e la legge 107 sulla scuola, contro le politiche di austerità e il fiscal compact, contro il taglio dei salari e degli stipendi dei lavoratori, contro la disoccupazione e il crescente sfruttamento nei luoghi di lavoro e così via. L’annuncio del possibile insediamento di un hotspot a Palermo per la reclusione di migranti appena sbarcati pare, da questo punto di vista, piuttosto allarmante. Per non parlare di quegli elementi di degrado e malcostume etico caratteristici del blocco di potere dominante a livello nazionale e regionale, e che tuttavia non mancano neanche nella borghesia mafiosa palermitana, che si condensano in un diffuso parassitismo, in una mortificante inettitudine, in una significativa ignoranza e in una vile corruzione. 

Da qui un’ultima considerazione. A sinistra, autorevolmente, si sostiene che il sostegno al sindaco Orlando sarebbe necessario per rilanciare e rafforzare una soggettività unitaria, alternativa alle politiche liberiste e in condizione di preservare, chiedo venia se semplifico, le importanti conquiste per la collettività guadagnate nel corso degli ultimi cinque anni. Sarebbe scorretto e miope non riconoscere un significativo elemento di verità in queste posizioni. Tuttavia, come ho ripetutamente sostenuto, intravedo il rischio di continuare a farsi rimorchiare lungo una direzione di marcia e entro gli alvei di una proposta politica priva della necessaria radicalità e incapace di andare oltre la mera amministrazione dell’esistente. Sembra che non si riesca a comprendere che le alleanze, se si vogliono spostare gli equilibri, vanno fatte da una posizione di forza e contestualmente ad una analisi della struttura e delle aspirazioni di ceti e categorie sociali, ad uno studio degli assetti dei soggetti sociali e dei quadri dirigenti e, per finire, a una ricerca degli interessi delle componenti economiche. E, soprattutto, condizione per cambiare gli attuali equilibri non può essere data se non avendo dalla propria parte una forza, direi quasi di massa, che si coaguli attraverso un’imponente e permanete mobilitazione collettiva. Non si può pensare di governare i processi politici quando non si comandano le leve dei rapporti di forza, pena il pericolo di una sostanziale subalternità. D’altra parte, occorre inoltre ricordarsi che il rischio di rimanere in una condizione di ininfluenza va proiettato anche oltre l’immediatezza della scadenza elettorale visto che, anche in considerazione delle prossime elezioni regionali e delle prossime politiche, il blocco delle forze moderate, neoliberiste e pro euro si sta riorganizzando attorno a una possibile alleanza tra Pd e Forza Italia, in funzione di una comune lotta contro il M5s di Grillo.

È davvero in gioco il futuro della città di Palermo e di quella flebile speranza di ricostruire una sinistra che abbia spessore progettuale e programmatico, nonché adesioni di massa. Palermo, forse, si merita ben altro, e piuttosto che andare al rimorchio delle élites politiche dominanti dovrebbe costruire piattaforme e progettualità per disarticolarle. Sarebbe necessaria una contestazione globale dell’attuale sistema a tutti i livelli per produrre l’efficacia di un mutamento del quadro politico attualmente esistente a Palermo e in Sicilia. Sarà che io vedo soltanto gli elementi caratteristici della crisi, la constatazione di un fallimento da cui non può che derivare un’ulteriore disaffezione e sfiducia da parte dei palermitani i quali, soggettivamente, esprimono profili tutt’altro che caratterizzati da attivismo e impegno civico. Sarà che io vedo esclusivamente le forme dell’agire insocievole dell’indifferenza, dei disincanto, del disimpegno, dell’irritazione per la casta, alla quale anche la sinistra viene assimilata, del disfattismo. 

​Vado a concludere. Il monocraticismo populistico e accentratore incarnato dall’orlandismo, nel nome del bene indistinto per la città di Palermo, non è una strategia nuova né tantomeno originale. Cova da sempre nel DNA delle classi dirigenti meridionali e si accentua nei momenti storici segnati dalla crisi e dalla conseguente instabilità. Momenti nei quali sarebbe opportuno lavorare al risveglio e allo stimolo dei soggetti dell’alternativa, dal mondo del lavoro a quello dei migranti, dei disoccupati, degli oppressi e degli sfruttati. Si dovrebbe lavorare per innescare il conflitto, intensificare le lotte, organizzare il malcontento sociale traducendolo in soggettività politica. Solo in questo modo, indirizzando le istanze di alternativa nella pratica politica, nell’idea della politica, nella formazione di un nuovo immaginario e nell’invenzione delle forme dell’egemonia si potrebbe, oggi, tentare di modificare gli attuali rapporti di forza e equilibri di potere.
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MA UN GIORNO, CARA STELLA- Idoli della demagogia contro utopia populista nel Mago di Oz 

7/4/2017
di Marcello Benfante

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“Life is bad 
Gloom and misery everywhere 
Stormy weather, stormy weather” 
(Stormy Weather, Harold Arlen e Ted Koehler)


Pensare di poter dire qualcosa di nuovo e di originale su un libro così famoso e così attentamente analizzato da ogni punto di vista (sociologico, economico, politico, teologico… ) come Il mago di Oz di Lyman Frank Baum è probabilmente un atto di presunzione o quanto meno un azzardo. 
Nel mio caso è soltanto un gesto doveroso di riconoscenza e d’amore nei confronti di un libro che appartiene alla mia infanzia e che poi ho periodicamente ripreso con sempre maggiore interesse. 
Forse tutto è stato già detto, su questo classico a suo modo misterioso, ma sarà bene comunque ribadirlo, almeno come omaggio a un piccolo capolavoro di inestimabile grazia e importanza. O magari perseguire qualche filone interpretativo meno sfruttato, se è possibile, e confidare nell’inesauribilità di un’opera pressoché perfetta.

The Wonderful Wizard of Oz apre in modo dirompente il XX secolo con una ventata di freschezza e modernità che subito fu accolta con grande entusiasmo, ma anche con tenace ostilità per il suo utopismo populista. Nell’Introduzione al suo libro – datata Chicago, aprile 1900 – Baum dichiara il mero intento “di far piacere ai bambini” con una “fiaba modernizzata” in cui l’elemento meraviglioso e l’aspetto gioioso non siano turbati da “angosce e incubi”.
E in effetti, rispetto alla tradizione classica, per esempio alle fiabe dei Grimm o a quelle di Andersen, Il mago di Oz (1) risulta subito assai meno cupo e inquietante, anche se non manca di una sua linea sotterranea di malinconico struggimento.
Le premesse, comunque, sono tutt’altro che allegre: la protagonista, Dorothy, è un’orfanella che vive con gli zii, Emma ed Enrico, in una sperduta fattoria del Kansas, circondata da una brulla prateria che un sole implacabile ha ridotto a “una grande massa grigia”.
Lo scenario è dunque deprimente per l’assenza di colori e un senso di vasta solitudine, ma anche per i segni di una evidente povertà. Dorothy, che non ha fratelli ed è consolata soltanto dalla compagnia del suo piccolo cane Totò, vive in una casetta minuscola, costruita col solo legno che è stato possibile reperire in quel paesaggio arido che serra la sua famiglia in una specie di assedio.

“C’erano quattro muri, un pavimento e un tetto che costituivano un’unica stanza; e questa stanza conteneva un vecchio fornello dall’aria arrugginita, una credenza per i piatti, un tavolo, tre o quattro sedie e i letti”.

In quest’unico ambiente, angusto e arredato in modo elementare, privo di solaio e di una vera cantina, ma provvisto di una nicchia scavata nel suolo dove rifugiarsi nelle emergenze dovute ai frequenti cicloni, vive l’intera famigliola, certamente in modo poco confortevole. Gli zii, la cui unica gioia è proprio la piccola Dorothy, sembrano consunti dalle diuturne fatiche e preoccupazioni.
Emma è ormai una donna sfiorita che ha perduto la sua grazia giovanile, corrosa dal sole e dal vento impietosi. Enrico è un lavoratore instancabile dall’aspetto austero che non ride mai e rimane sempre in silenzio a contemplare, forse, l’indecifrabile enigma dell’universo.
Molti lettori e studiosi del capolavoro di Baum hanno espresso stupore per il fatto che Dorothy, nel corso della sua avventura nel meraviglioso mondo di Oz, esprima ripetutamente il desiderio di tornare in questo ambiente triste e desolato. È uno stupore un po’ sciocco, a mio parere. Dorothy ovviamente vuole ricongiungersi agli amati zii, alla sua famiglia. E poi, quale emigrante non prova nostalgia per i luoghi natii che ha dovuto lasciare, ancorché poverissimi?
Sotto questo aspetto, la fiaba di Dorothy è assolutamente realistica. Essere sradicati dal proprio ambiente, per quanto esso possa essere squallido e misero, è sempre un trauma molto doloroso.
Per la verità, Dorothy viene sradicata con una certa dolcezza. Il ciclone solleva la casetta e la trasporta in un lungo volo, lasciandola integra come i suoi due occupanti: il piccolo Totò, che all’inizio si agita e rischia di cadere nel vuoto, e l’imperturbabile Dorothy, che arriva perfino ad assopirsi sul suo lettino (vedremo in seguito che Dorothy, sebbene operosa, gode sempre di un sonno facile e placido, anche in situazioni difficili).
L’atterraggio della casetta volante dovrebbe supporsi distruttivo, Invece la casa resta intatta, tanto che poi Dorothy, allontanandosi, può addirittura chiudere la porta a chiave, dopo aver fatto merenda col pane e il burro ordinatamente conservati nella dispensa.
Ma l’impatto è stato fatale per la Perfida Strega dell’Est, che è rimasta schiacciata sotto il pavimento. È il primo streghicidio involontario di Dorothy, la quale, a dispetto del suo candore, è davvero una piccola femme fatale.
Come un meteorite, la casetta è piombata con esiti politici destabilizzanti nell’ameno paese dei Succhialimoni, un popolo pacifico, di bassa satura, che predilige in ogni cosa, dal vestiario alle abitazioni, il colore azzurro. Ora i Succhialimoni sono liberi dall’oppressivo dominio della Perfida Strega dell’Est e dunque vedono in Dorothy una provvidenziale salvatrice. 
Ad accogliere la redentrice piovuta dal cielo accorre un’altra Strega, stavolta buona, il cui regno è a Nord, la quale baciandola in fronte le imprime un luminoso contrassegno magico che nel prosieguo della storia salverà la nostra eroina da alcune situazioni pericolose. 
È lecito dedurre che il ciclone stesso che ha prelevato e trasportato Dorothy nel ridente paese dei Succhialimoni sia stato un mezzo magico, anche se interpretazioni più secolarizzate lo propongono come simbolo dei rivolgimenti storici o della crisi economica di fine Ottocento:

“L’uragano aveva deposto la casetta – che pensiero gentile per un uragano! – in mezzo a un paese di straordinaria bellezza”.

Si tratta di una cortesia oculata e misurata, ma al tempo stesso inesplicabile, che induce  a pensare a una finalità soprannaturale. 
La situazione, per analogia, si potrebbe accostare forse a La Tempesta di Shakespeare: una tempesta immaginaria, creata con arti magiche dal sapiente Prospero, ha trasportato un intero equipaggio in modo indolore, senza nemmeno bagnarne gli abiti, su un’isola misteriosa. Ma ancora più calzante appare un riferimento a La Nuova Atlantide di Francesco Bacone: una nave salpata dal Perù viene trascinata da un fortissimo vento presso un’isola sconosciuta e ricca di boschi dove un popolo ignoto al resto dell’umanità, le cui insegne sono azzurre, l’accoglie con grande ospitalità, ma non senza alcune prudenti precauzioni (2).
I Succhialimoni abitano una terra incantevole. Tutt’intorno si scorgono grandi alberi carichi di frutti, fiori rigogliosi, uccelli dalle splendide penne variopinte. Siamo, da un punto di vista paesaggistico, agli antipodi del Kansas (3). Qui la natura è lussureggiante e ricca di acque che subito allietano l’udito di Dorothy. Un paradiso, dunque. Un Eden ritrovato. Dal quale però Dorothy intende subito fuggire. 
Lo spiegherà in seguito al perplesso Spaventapasseri:

“Noi gente di carne ed ossa preferiamo vivere nelle nostre case, anche se grige e malinconiche, piuttosto che in qualunque altro paese, fosse anche il più bello del mondo. Non c’è nulla di così bello come la propria casa”.

Non è questa tuttavia, come s’è detto, la vera incongruenza. La quale invece consiste nella misteriosa reticenza della buona fata settentrionale, la quale non rivela a Dorothy il potere delle pantofoline d’argento della Strega perita nell’incidente. Possiamo solo immaginare che tale riserbo si spieghi con la missione salvifica che Dorothy è chiamata, per destino ed elezione, a svolgere e che la fata non vuole o non può ostacolare.
Dorothy dunque viene indirizzata piuttosto laconicamente alla volta della Città di Smeraldo, circondata da un grande deserto, proprio come la fattoria dei suoi zii nel Kansas. Qui potrà chiedere udienza e consiglio al grande Mago di Oz.
Diciamolo pure: la bambina sembrerebbe mandata allo sbaraglio. Se i Succhialimoni appaiono degli ingrati, la fata è mendace o quanto meno fuorviante: possibile che ignori che le scarpette d’argento, di cui Dorothy si è impossessata come spoglie del nemico sconfitto e che ha indossato in sostituzione delle sue calzature logore, siano dotate della virtù prodigiosa di condurre in qualsiasi luogo? È lecito dubitarne, anche se si tratta di una fata anziana e debole, che non poteva opporsi alla prepotenza della sua malvagia collega orientale.
E così Dorothy intraprende con flemmatica diligenza, recando con sé un panierino con poche vivande, il suo viaggio iniziatico e catartico sulla base di indicazioni vaghissime. Dovrà seguire una strada pavimentata da mattoni gialli. Saranno d’oro questi mattoni? Siamo quindi in una specie di Eldorado? 
Forse. Di sicuro le genti che Dorothy incontra sembrano godere di un florido e probo benessere, nonostante la schiavitù a cui erano sottomesse, e si dimostrano generose con la piccola viandante e la sua strana combriccola.
Dorothy infatti verrà subito affiancata da alcuni simpatici adiuvanti che, se dapprima si contraddistinguono per le loro specifiche lacune, ben presto si rivelano utilissimi alleati.
Il primo è lo Spaventapasseri, che Dorothy libera dal palo in cui era infilzato (o crocefisso).
Lo Spaventapasseri è un precocissimo neonato. Ha appena due giorni di vita, ma già ha una personalità sviluppata e una sua visione del mondo. In lui risiede il mistero della vita. Per quanto smembrato, con la paglia che lo costituisce pesta e dispersa, egli continua a esistere, sicché basta ricomporne il corpo, ridando forma al suo corpo disfatto, riempiendo di stoppie i suoi cenci, ed ecco che egli torna ad essere un soggetto animato che ha idee e percezioni (4). Tuttavia, forse a causa della sua scarsa efficacia come guardiano dei campi, lo Spaventapasseri si ritiene sprovvisto di cervello. Ambisce quindi ad ottenerlo per intercessione del Mago di Oz, associandosi al pellegrinaggio di Dorothy.
Lo Spaventapasseri è un piccolo Golem, ancorché scaturito da un’inconsapevole alchimia. Il contadino che lo costruisce crede di imitare soltanto una forma umana, assemblando un mero fantoccio. Ma ogni qual volta provvede il pupazzo di un senso simulando con rudimentali accorgimenti l’organo corrispondente, nello Spaventapasseri si accende una sensazione che, come nella statua di Condorcet, si aggiunge alle altre, dando vita a una sempre più vasta consapevolezza. L’atto finale di questa creazione artigianale (che viene istintivo paragonare a quella di Pinocchio) è la saldatura della testa al resto del corpo. Ora lo Spaventapasseri ha una “testa sulle spalle”. È quindi un individuo in piena regola e del tutto conscio delle proprie responsabilità. A lavoro finito, il contadino, soddisfatto della sua opera, commenta: “sembra proprio un uomo!”. E un altro contadino, che ha assistito a questa arcana genesi, ribatte: “Ma è un uomo!”. 
Lo Spaventapasseri è d’accordo. Ha già la piena coscienza della propria umanità. Suo unico cruccio sarà d’ora in poi la mancanza di un cervello. Sua unica paura l’essere divorato dalle fiamme. Come se il pensare con la propria testa fosse tutt’uno con il pericolo di finire sul rogo.
Con il suo aspetto da giullare, lo Spaventapasseri suggerisce l’insidia di una qualche inespressa follia o eresia. 
In realtà, lo Spaventapasseri è già perfettamente provvisto di un cervello e nel corso del viaggio a fianco di Dorothy darà prova a più riprese della sua intelligenza, trovando ingegnosi escamotage per risolvere le situazioni più problematiche.
Analogamente, il Boscaiolo di Stagno che teme di aver perduto la propria umanità man mano che le membra del suo corpo venivano sostituite da protesi di metallo, e che pertanto vorrebbe recuperare il suo cuore che si era dimostrato capace di un amore appassionato, è tutt’altro che una creatura priva di sentimenti. Se lo Spaventapasseri ha un cervello sopraffino, il Boscaiolo ha un cuore generosissimo. 
Non appena sbloccato con un po’ d’olio versato sulle sue giunture arrugginite, si dimostra subito “una persona molto educata e capace di gratitudine”. L’uccisione accidentale di uno scarabeo, che ha involontariamente calpestato, lo getta in un tale sconforto che le sue lacrime, copiosamente sgorgate per il dispiacere e il rimorso, gli arrugginiscono e bloccano le mascelle.
Tra l’avere un cuore e il disporre di un cervello, il Boscaiolo non ha dubbi, “perché il cervello non basta a render felice una persona e la felicità è quello che conta di più al mondo”.
Parafrasando Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Sennonché, è proprio il cuore, ovvero la pietas, a causare al Boscaiolo un travaglio morale angoscioso che scaturisce dalla possibilità ipotetica di compiere il male senza volerlo e di arrecare sofferenza in un modo meccanico e casuale, come nell’incidente che ha provocato la morte dello scarabeo. 

“Voi che avete il cuore, – diceva – avete qualcosa che vi guida e quindi non è necessario che vi affanniate tanto a far il bene: ma io non l’ho, ed è necessario che vada molto cauto”.

È un ragionamento etico che non manca di una sua sottigliezza, ma che è inficiato da una fondamentale contraddizione, ossia dal suo essere una considerazione che presuppone proprio l’esistenza di un cuore sensibile e tenero che si affligge per la malasorte, perfino potenziale, del prossimo, tanto da costringersi a una condotta morale prudente e rispettosa delle altrui condizioni.
Il trittico dei sodali di Dorothy è completato dal Leone, il quale ambisce a un coraggio degno del suo rango, di cui si sente privo per un difetto congenito e che cerca vanamente di simulare con atteggiamenti feroci. Inutile dire che anche il Leone possiede già quanto cerca e vorrebbe implorare al Mago di Oz. 
Già nell’avventura contro i terribili Tamaruc – “enormi bestioni dal corpo di orso e dalla testa di tigre” – il Leone, che si suppone codardo, dimostra una generosa temerarietà per difendere i suoi amici.
Ciascuno, insomma, si ritiene privo di una particolare virtù di cui invece dispone abbondantemente. E la stessa Dorothy è inconsapevole del fatto che le scarpette magiche che indossa potrebbero condurla in un attimo nel suo agognato Kansas.
Se lo Spaventapasseri si sforza di aguzzare l’ingegno che pensa di non avere e il Boscaiolo si impone un rigore morale al quale in teoria non dovrebbe essere abilitato per insufficienza cardiaca, il Leone si fa coraggio con uno sforzo autarchico di volontà, smentendo il pusillanime aforisma del Don Abbondio manzoniano.
Ad esaltare le doti nascoste di questi tre personaggi sembra essere il potere taumaturgico della piccola Dorothy. Ciascuno detiene virtù complementari che unite a quelle dei compagni formano una solidissima società. Se Dorothy ha svolto un ruolo liberatorio – alla San Girolamo – nei confronti dell’inibito Leone, ed emancipatorio nei confronti dell’impacciato Spaventapasseri, è ai suoi comandi che il Boscaiolo si dimostra un pioniere e un soldato inarrestabile e talora micidiale. La sua scure abbatte enormi tronchi, spianando la strada attraverso la foresta, e mozza teste di belve e nemici, rivelandosi una mannaia implacabile.
Corazzato e impavido, il Boscaiolo – più che un operaio, come a qualche esegeta è sembrato – sembra un guerriero, un paladino, che brandisce una specie di invincibile Durlindana.
Il gruppo dorothiano, infatti, a prima vista si configura come una sinergia di debolezze: una bambina con un minuscolo cagnolino, un leggerissimo uomo di paglia, un falegname anchilosato e rabberciato, un leone vile e piagnucoloso. Ma a conti fatti questo gruppo si rivela uno straordinario manipolo di conquistadores capace di espugnare un regno dopo l’altro.
Pur ottenendo il consenso dei popoli con cui entrano in contatto, Dorothy e i suoi amici non innescano processi rivoluzionari o di ribellione. Né d’altra parte aspirano al potere. Le loro ambizioni sono di mera autorealizzazione e, nel caso di Dorothy, di restaurazione di uno stato quo ante di armonia familiare, sconvolto dall’intervento devastante del ciclone.
Tuttavia questo eteroclito gruppo di amici impara strada facendo – e a sua volta insegna – una vincente lezione strategica: l’unione solidale dei piccoli può dar vita a una compagine vincente, più forte perfino della natura ostile e della magia nera. La dimostrazione di questa tesi è affidata in modo esemplare al popolo dei topi, i quali per ripagare l’aiuto prestato dal Boscaiolo alla loro regina, salvano il Leone dal sonno mortifero causato dal campo di papaveri. Minuscoli ma numerosi, topini e ratti campagnoli riescono a trascinare la pesante belva assopita lontano dagli effluvi soporiferi con l’ausilio di tante piccoli funi e di un carretto prontamente realizzato dall’alacre Boscaiolo.
Queste manifestazioni di riconoscenza e di mutuo soccorso sono tipiche degli animali o comunque dei personaggi non umani. Anche le Scimmie alate, dapprima obbligate a servire la Perfida Strega dell’Ovest, si dimostrano in seguito delle creature leali e grate. 
Non a caso nella città degli Smeraldi, ove ha sede la reggia di Oz, non vi sono animali.

“Non si vedevano né cavalli né altri animali: la gente trasportava la merce su piccoli carretti verdi che spingeva da sola”.

Non si tratta di un’assenza dovuta a povertà (“Tutti avevano l’aspetto prospero e felice”), ma di una sorta di interdizione. È come se Oz, “il Terribile” e occulto Signore che fonda il proprio potere sulla paura e sul mistero riguardo alla sua persona, temesse di poter essere smascherato dagli animali in quanto creature non suggestionabili dai suoi trucchi plateali. E infatti, a svelare la sua messinscena sarà proprio Totò, l’unico sprovvisto di parola, ma pur sempre eloquente nei suoi comportamenti.
Il Mago di Oz non è altro che un ciarlatano che ha creato intorno a sé un alone esoterico azionando e rappresentando una complessa macchina teatrale che lo fa apparire di volta in volta nelle più diverse sembianze. Nascosto dietro un paravento, egli è soltanto il regista di un fantasmagorico spettacolo il cui fine è suscitare stupore e soggezione.
Anche queste metamorfosi di Oz suggeriscono un accostamento al pensiero di Francesco Bacone e in particolare ai suoi “idoli” (idola tribus, idola specus, idola fori, idola theatri), cioè quelle false nozioni che sono profondamente radicate nell’animo umano e che alimentano gli equivoci, i pregiudizi, le finzioni, tutto ciò che è fittizio.
Baum si dimostra un acutissimo critico dei meccanismi politici di creazione del consenso e di autorappresentazione simbolica del Potere. Attraverso un uso ipnotico del colore verde, che si stende in modo pervasivo su tutto il panorama urbano, Oz imprime ed esprime il proprio suggello e controllo su ogni aspetto della vita sociale. Sottraendosi alla vista del popolo, si rende inoltre incontrollabile e incontestabile. Ignoto e irraggiungibile, Oz assume aspetti allegorici che lo mostrano ora come un emblema macrocefalo, ora come un’apparizione leggiadra e danzante, ora come un terrificante Leviatano. Niente è come sembra. E in particolare, la natura del dominio politico è proprio la mistificazione delle sue forme. 
In realtà Oz è un ometto insignificante, “calvo e rugoso”. Un ventriloquo e un imitatore, specializzato nella riproduzione dei versi degli animali. Nato ad Omaha (“non tanto lontano dal Kansas!”) ha lavorato in un circo equestre. Un giorno, mentre svolgeva un numero a bordo di un pallone aerostatico, fu trascinato via da una corrente d’aria e volò per un giorno e per una notte, giungendo infine in “un paese strano e meraviglioso” i cui abitanti lo scambiarono per un mago. Il qui pro quo è il risultato di un classico effetto scenico. 
La stessa Città di Smeraldo appare interamente verde solo perché una legge impone a tutti gli abitanti di inforcare lenti colorate di verde (“se tu metti un paio di occhiali verdi, si capisce che tutto quel che guardi ti sembra di questo colore”). Probabilmente qui Baum sta citando in modo parodistico un noto passo della Critica della ragion pura di Kant.
Oz è dunque un illusionista. Millanta facoltà che non possiede e finge di essere ubiquitario. In verità non è in nessun luogo, poiché Oz non esiste, è un equivoco, un’allucinazione ottica e acustica. La sua è una voce falsa. Come lo sono le sue proiezioni caleidoscopiche.
La venuta di Dorothy ha spazzato via, proprio come un ciclone, questo suo castello di carte false. Qual è dunque lo sconvolgente potere di Dorothy? Sembrerebbe infatti una bambina sprovvista di particolari doti. Certo, il coraggio non le manca, ma il suo autocontrollo sembra soprattutto il risultato delle buone maniere impartitele dagli zii. Dorothy è una piccola maniaca dell’ordine e della pulizia. Giunta avventurosamente nel meraviglioso mondo di Oz, non si scompone più di tanto. Accingendosi a partire alla volta della Città di Smeraldo, non dimentica di fare toletta e di assumere l’aspetto più lindo e dignitoso che il suo povero guardaroba le consente: “La bimba si lavò con cura, mise il vestitino pulito e si legò intorno al capo la cuffietta rosa da sole”. Lungo il cammino, si preoccupa di mantenersi il più possibile impeccabile, “rassettandosi con cura le pieghe” che fatalmente si sono prodotte nell’abitino di mussola lavato e stirato con dedizione amorevole dalla zia Emma. Da “bimba beneducata”, non si lascia distogliere dalle peripezie del viaggio nella cura della propria igiene. Benché sia costretta talora a dormire per terra e a ricoprirsi di foglie, provvede comunque a mondarsi da ogni impurità, ricorrendo a quanto le offre la natura stessa (“Allo spuntar del giorno, Dorothy si lavò in un ruscello d’acqua limpida”).
Questa sua indole candida, non solo esteriore, certo, ma sempre attenta alla forma, all’etichetta, sarà l’arma che le consentirà di sconfiggere e uccidere la Perfida Strega dell’Ovest.
Laida e ributtante, la strega è una specie di Moira guercia che col suo unico occhio, “potente come un telescopio”, vede e controlla ogni cosa. Forse è per questa menomazione che teme il buio: avere un solo occhio espone ai rischi del Polifemo omerico. Ovvero a quella cecità che vanifica ogni forza. E il non riuscire a vedere è quanto più si approssima a una condizione di impotenza. Ancora di più però teme l’acqua, di cui ha un vero orrore poiché potrebbe liquefarla (come infatti avverrà ad opera della tremenda Dorothy).
Presa prigioniera dalla strega (che come certi pirati porta una benda nera sull’occhio mancante nelle splendide illustrazioni originali di W. W. Denslow), Dorothy viene relegata in cucina, dove, per una sorta di contrappasso, le viene imposto “di pulire le pentole e lucidar le padelle, di scopare il pavimento e di tenere viva la fiamma del camino”.
Trasformata, dunque, in una Cenerentola, la piccola Dorothy sembrerebbe avere poche speranze di affrancarsi da questo umiliante servaggio. Ma la sua stessa inclinazione alla pulizia costituisce la migliore garanzia della sua salvezza e della sua riscossa. La strega si tiene infatti a distanza di sicurezza da Dorothy, che è sempre intenta in attività che prevedono l’uso dell’acqua, sia per detergere le stoviglie, sia per la cura scrupolosa dell’igiene personale (“non si avvicinava mai mentre la bambina faceva il bagno”).
Tale prudenza non la salverà tuttavia da un esiziale secchio d’acqua scaraventatole addosso da Dorothy con una reazione istintiva nel tentativo di difendere le sue scarpette argentate.
Ridotta a “una massa liquida, informe e bruniccia”, quel che resta del corpo della strega imbratta il “pavimento ben spazzato della cucina”. Sicché a Dorothy non resta da fare, come esequie e rituale esorcistico, che gettare “su quella poltiglia un altro secchio pieno d’acqua” e ramazzare via gli ultimi luridi resti della sua nemica. Infine, recuperata la scarpetta che la strega voleva sottrarle, “la pulì e la lucidò con un cencio, poi se la rimise al piede”.
Con le armi di una massaia, Dorothy si è sbarazzata della potente rivale. Come i suoi inseparabili amici, anche lei potrebbe esclamare: “Questa è la mia battaglia”. 
Come una tempesta, è caduta dal cielo sul meraviglioso mondo di Oz per nettarlo dalle sue scorie più nocive e nauseanti. In fondo tutta questa diavoleria è solo sporcizia! 
E ogni cosa ora vacilla sotto l’impeto delle secchiate d’acqua della innocente ma risoluta bambina. Il primo a essere travolto è proprio il Mago di Oz, costretto a rivelare la “commedia” truffaldina che ormai replica da lungo tempo e a pianificare la sua fuga.
Dovrà prima esaudire le richieste che gli sono state rivolte e per le quali ha vanamente tentato di temporeggiare e mercanteggiare.
Ricorrendo a suggestive procedure retoriche, il mago fornisce lo Spaventapasseri di un cervello composto da spilli ed aghi, che esprimono metaforicamente la sua “acutezza”. Analogamente trapianta nel petto metallico del Boscaiolo un cuoricino d’argento, operando una rituale saldatura. Infine somministra al Leone un placebo contenuto in una bottiglietta verde allo scopo di infondergli il coraggio.
Sono prodigi da burla che non producono altro effetto in coloro che ne beneficiano che dare fiducia in loro stessi e fugare ogni residua incertezza. Miracolo, se vogliamo, di valore non trascurabile, considerando che le vittoriose gesta del trio, benché clamorose ed entusiasmanti, non lo avevano liberato da un profondo senso di inadeguatezza. E se Dorothy si dimostra indulgente con il patetico impostore (“era un buon uomo, anche se un cattivo mago”), forse il Boscaiolo di Stagno si avvicina di più a una paradossale verità quando esclama con riconoscenza “Oz non era un mago da poco, dopo tutto”.
È infatti proprio grazie alla terapia di Oz che lo Spaventapasseri ha superato la sua intima convinzione di essere un povero stolto e può accettare la proposta unanime di assumere l’incarico di Governatore (come Sancho Panza) della Città degli Smeraldi, rivelandosi un ottimo leader (ancorché di paglia, ci rammenta Baum con un pizzico di satira politica).
Analoghi incarichi onorifici e gerarchici spettano al Boscaiolo e al Leone: il primo presso i Martufi, l’altro come re degli animali della foresta che ha liberato dal pericolo di un mostro immondo. Al seguito di Dorothy, tutti hanno fatto carriera e si è costituito un nuovo assetto politico basato sulla libertà dai sortilegi e dalla paura. Come per i poteri magici di Oz, anche il carisma di questi nuovi capi è frutto di una mitopoiesi popolare. Su questo punto Oz è molto chiaro e sincero: “Ma come faccio a non comportarmi da ciarlatano, – disse parlando tra sé, – quando tutta questa gente mi costringe a far cose che tutti sanno benissimo che non si possono fare?”.
Come dire che non tutta la demagogia è attribuibile alle colpe del demagogo, e che una parte non piccola di responsabilità va ricercata anche in una sorta di vocazione delle masse a lasciarsi ingannare.
Dalla risistemazione geopolitica scatenata dal ciclone Dorothy (il suo cognome, tenuto in verità un po’ nascosto, è Gale, cioè burrasca) resta escluso il Regno della Porcellana, di ascendenza anderseniana ma anche autobiografica (5), troppo fragile per sopportare un qualsiasi intervento riformatore e raggelato nel suo terrore di essere spezzato e infranto da un semplice tocco.
Come pure l’inaccessibile bosco sacro, protetto dai proto-ecologici “guardiani della foresta”, i grandi alberi che sbarrano il passo a chiunque intenda violare il sacro perimetro verde (ma che dovranno vedersela con l’affilata scure del Boscaiolo di Stagno).
Benché feriti e mutilati, a causa del passaggio di Dorothy e dei suoi amici, questi due mondi rimangono inalterati e chiusi nel loro autoisolamento. 
Il meraviglioso mondo di Oz è invece mutato radicalmente. Va via il suo Principe-Mago, proprio com’era venuto, mediante una mongolfiera. Il male è stato estirpato. Nessuna servitù feudale vi è più applicata (le stesse Scimmie Volanti sono tornate in possesso del berretto d’oro che le costringeva a ubbidire a tre comandi).
Dorothy, che ha scatenato questa ventata di rinnovamento, torna a casa con inaspettata facilità. Occorre soltanto che batta tre volte i tacchi delle sue scarpette fatate e che faccia appena tre passi. 

“Si trovò d’un tratto a roteare per aria a una velocità così straordinaria, che tutto quel che poteva vedere o sentire era il vento che le fischiava nelle orecchie.
Le scarpette d’argento non fecero più di tre passi e poi Dorothy si fermò così bruscamente che ruzzolò sull’erba diverse volte prima di capire dove si trovava”.

Tutto il percorso formativo di Dorothy, la sua odissea, culmina in questo nostos che chiude il cerchio della storia. Dov’era dunque il Regno di Oz? A un giorno e una notte di volo in pallone dal Nebraska? A soli tre passi, ancorché magici? In un altrove incommensurabile?
Da qualche parte oltre l’arcobaleno, è l’indicazione sognante e indefinita della celebre canzone interpretata da Judy Garland (6). Over the Rainbow è il manifesto tematico del film di Fleming. Per Salman Rushdie “è, o dovrebbe essere, l’inno di tutto gli emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca del luogo in cui ‘i sogni che osi sognare realmente si avverano’. È una celebrazione della Fuga, un grande peana dell’Io Sradicato, un inno – anzi l’inno – all’Altrove” (7). Stupisce pertanto che Rushdie ritenga l’alterità onirica del mondo di Oz “il peggiore dei cambiamenti apportati all’idea originale di Baum”, dove “infatti, non c’è ombra di dubbio che il Regno di Oz sia reale, ossia un posto del medesimo ordine, se non della medesima specie, del Kansas” (8).
Con tutto il rispetto, mi permetto di dissentire. Dorothy non è Alice, anche se indubbiamente ne scaturisce.
“Da che parte del mondo vieni, si può sapere?”, chiede la zia Emma, abbracciando la nipotina appena tornata. Certamente da un altro mondo. 
Quando Baum mostra Dorothy e il suo seguito nell’atto di uscire dal bosco, che il Leone ha appena liberato da un ragno gigantesco che atterriva tutti gli animali, e scrive che “uscendo a riveder la luce, si trovarono davanti a una ripida collina”, sta forse offrendoci una chiave di lettura dantesca.
Il viaggio ultraterreno di Dorothy ha avuto ripercussioni sconvolgenti anche per il desolato Kansas: lo zio ha costruito una “nuova fattoria” che è facile immaginare un po’ più ricca. Il che certamente rende Dorothy ancora più “felice di essere tornata a casa”.

1. Lyman Frank Baum, Il Mago di Oz, Milano, Rizzoli, 1978, traduzione di Nini Agosti Castellani.
2. “Ma il vento improvvisamente cambiò spirando per molti giorni ostinatamente da Occidente, tanto che, costretti ad avanzare lentamente, già pensavamo di tornare indietro, quando di nuovo si levarono fortissimi venti australi leggermente inclinati verso oriente; e noi, pur cercando di resistere nei limiti delle nostre possibilità, fummo tuttavia spinti verso settentrione”, Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, Milano, TEA, 1991, a cura di Paolo Rossi, p. 51.
3. Nel bellissimo film di Victor Fleming The Wizard of Oz (1939) con Judy Garland nella parte di Dorothy, tale dicotomia tra il piano della realtà e la dimensione, forse onirica, della meraviglia, è resa tramite il passaggio dal bianco/nero delle sequenze iniziali a un ipercromatismo surreale.
4. Analogamente il Boscaiolo di Stagno mantiene la propria individualità come organismo vivente anche dopo che ogni parte del suo corpo è stata sostituita con ricambi di latta. Come nel mito di Argo, il Boscaiolo è divenuto un po’ alla volta tutt’altro, rimanendo però se stesso. Anche sotto questo aspetto, che potremmo definire di vita artificiale, il personaggio di Baum è un prototipo (con largo anticipo su Karel Čapek) di quei robot che saranno nel corso del Novecento un elemento tipico delle narrazioni fantascientifiche.
5. Tra i molti lavori che Baum svolse nella sua vita (attore, impiegato, avicoltore, negoziante, giornalista, editore, produttore cinematografico…) vi fu anche quello di venditore porta a porta di porcellane.
6. Com’è noto Over the Rainbow, una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ha rischiato di essere tagliata dal film di Victor Fleming, di cui peraltro è uno dei momenti di maggior lirismo e intensità. È altrettanto noto che la canzone di Harold Arlen (musica) e E. Y. Harburg (testo), considerata dai discografici statunitensi la “migliore canzone del XX secolo”, è un evidente plagio dell’Intermezzo del Guglielmo Ratcliff (1895) di Pietro Mascagni. Tuttavia è uno di quei casi in cui la reinvenzione dell’originale è legittimata a posteriori da una perfetta coerenza e organicità con l’opera complessiva in cui è incastonata. 
7. Salman Rushdie, Il Mago di Oz, Milano, Oscar Mondadori, 2000, traduzione di Giuseppe Strazzeri, p. 34.

8. Ivi p. 40.
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HOTSPOT A PALERMO - Non è un problema di design

7/4/2017
Pubblichiamo e aderiamo, come redazione di PalermoGrad, all’appello del movimento antirazzista palermitano predisposto da “Abbattiamo i muri”. Il documento è stato predisposto da COBAS Antirazzista di Palermo e riguarda la notizia dell’apertura nel capoluogo siciliano di un hotspot per 150 migranti.  

Lo scorso 17 marzo il movimento antirazzista di questa città ha dovuto fare i conti con una pessima notizia nell’aria da mesi: a Palermo entro giugno si aprirà un hotspot, per “accogliere” i profughi appena sbarcati, capace di “ospitare” fino a 150 migranti. La struttura dovrebbe sorgere su un terreno non edificato di 2.800 metri quadrati, ex proprietà della famiglia mafiosa dei Graviano, situato in viale Regione Siciliana, nei pressi di via Oreto. In quest’area il ministero dell’Interno e la Protezione civile dovrebbero realizzare un “hotspot leggero”, composto “solamente” da alcuni prefabbricati. Al momento in Sicilia sono presenti 3 hotspot e una nuova struttura dovrebbe essere allestita nella caserma Gasparro a Messina; Palermo rientrerebbe, così, a pieno titolo, nel piano di potenziamento del “sistema della prima accoglienza”. La struttura, come annunciato da Gerarda Pantalone, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, dovrebbe “ospitare” insieme migranti adulti e minori stranieri non accompagnati – pratica del tutto illegale – appena sbarcati e in attesa di essere smistati nei centri di seconda accoglienza.
Il 18 gennaio, il Giornale di Sicilia ci ha fatto credere che Palermo, città accogliente, avesse rifiutato di aprire un hotspot su ordine di Roma. Eppure, lentamente, l’idea ha preso piede. 
E nonostante la natura fortemente retorica delle dichiarazioni, l’uso di belle parole come “accoglienza” e “ospitalità”, nonostante i toni rassicuranti di un comunicato che parla di “hotspot leggero” e nonostante il tentativo, ben congegnato alla vigilia della Giornata in memoria delle vittime della mafia, di sottolineare la natura di bene confiscato del terreno in questione, come a contrapporre la dimensione dell’accoglienza alle logiche mafiose, la notizia ha avuto un forte impatto. Le condizioni di vita dei migranti negli hotspot già esistenti a Lampedusa, Pozzallo e Trapani sono note e ampiamente documentate, così questo annuncio ha creato non pochi problemi all'amministrazione in carica alla vigilia delle elezioni, specie se si pensa che Palermo è stata appena nominata “capitale della cultura 2018” proprio come “città dell'accoglienza” e inaugurerebbe il suo neoconquistato titolo con i segni tangibili di una chiara svolta securitaria nel suo territorio. Nel tentativo di correre ai ripari, l’Amministrazione ha subito chiarito che non di vero e proprio hotspot si parla, ma soltanto di una struttura di supporto alle operazioni di prima identificazione dei migranti appena arrivati, che il progetto non rientrerebbe nel sopracitato piano del Ministero dell’Interno, ma servirebbe soltanto ai migranti per evitare che le operazioni di prima accoglienza si svolgano unicamente in banchina, al porto, con tempi lunghissimi e in condizioni logistiche che rischiano di essere non rispettose della dignità. Il Comunicato ufficiale del Comune ribadisce di aver sempre rigettato la prassi e la logica degli hotspot, che non riconosce come modello di accoglienza perché producono degenerazioni ben note, come privazione delle libertà individuali e mortificazione delle persone. Fa eco, sulla stessa linea d’onda, la neo prefetta di Palermo Antonella De Miro, che si affretta a spiegare che non di una vera struttura si tratterà ma di prefabbricati, a disposizione del sistema di prima accoglienza soltanto per garantire la rapidità delle procedure di identificazione e la partenza per le altre destinazioni, come si fa adesso in questura.
 
Queste dichiarazioni, però, non ci convincono, specie nell’epoca Minniti. In primo luogo, come si legge chiaramente nelle “Procedure Operative Standard (SOP)” (facilmente reperibili in rete) redatte dal Ministero dell’Interno su indicazione della Commissione Europea e di altre realtà come Europol e Frontex, rese note lo scorso giugno, “hotspot” è, di per sé, un modello organizzativo leggero, pensato per la gestione di grandi arrivi che può essere stabilito in qualsiasi area territoriale. In realtà, come si legge, l’hotspot non è un “luogo”, ma un metodo di lavoro, con cui le Forze di Polizia, il personale sanitario e le organizzazioni internazionali e non governative devono gestire i migranti in ingresso. Tutte le strutture già esistenti sono già state allestite per “accogliere” i migranti e fornire le operazioni di prima assistenza, l’identificazione e la somministrazione delle informazioni necessarie alla richiesta della protezione internazionale, in attesa che vengano inseriti nel piano di relocation in Europa. Ora, come già previsto dal protocollo, la procedura di ricollocazione ha tempi molto variabili e dovrebbe essere completata entro due mesi, ma non occorre essere dei fini analisti per comprendere come i tempi in realtà siano ben diversi. Anche per fronteggiare l’emergenza sbarchi, questa struttura non avrebbe ragion d’essere. Ammesso che di emergenza si parli (dal momento che ogni arrivo è largamente previsto, per cui basterebbero semplici operazioni come implementare il personale disponibile in questura e organizzare in modo più opportuno la permanenza in banchina), anche in questo senso una struttura capace di ospitare 150 persone non risolverebbe il problema posto dagli sbarchi che sono stati molto numerosi e non così tanto frequenti da giustificare l’apertura di un (non-)luogo specifico.
 
Il punto, dunque, è ben diverso, non riguarda la natura dell’edificio in sé, ma la sua natura giuridica: si tratterebbe di un spazio di fatto escluso da ogni controllo giurisdizionale e legale, dove né gli avvocati né le associazioni potrebbero accedere. Infatti, “hotspot” ancora non indica un luogo con un preciso status legale, ma denomina un “approccio”, tanto minaccioso quanto vago, che la Commissione Europea ha annunciato a maggio 2015. Sulla base di questa logica impartita dall'alto, un luogo designato deve essere reso conforme a questo modello (non il contrario) in base alle norme italiane. Come ampiamente documentato, negli hotspot di Lampedusa e Pozzallo, le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato le gravissime condizioni in cui vivono i migranti, la lunghezza dei tempi di attesa, la prolungata presenza di minori non accompagnati. Si tratta di luoghi in cui non sono affatto garantiti i diritti di informazione individuale, si tratta di luoghi in cui si travalicano norme e regole, in nome della retorica dell’emergenza e della sicurezza, luoghi dove si registra il più alto numero di respingimenti, per lo più formulati in base alla folle distinzione tra “migranti economici” e “richiedenti asilo”, formulata nel corso di una prima e quasi sempre errata prima identificazione.
 
Del resto, come ben chiarito nei protocolli, in alcuni casi tali respingimenti negli hotspot potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni, immediatamente oppure mediante il trasferimento in un CIE, perché in questi luoghi di fatto sono le forze di polizia che distinguono tra richiedenti asilo (soggetti inespellibili) e migranti economici irregolari, senza però avere né le competenze né l’autorità per farlo.
 
La memoria del movimento antirazzista è piuttosto lunga; questo non sarebbe di certo il primo esempio di struttura leggera capace di essere presto trasformata in lager. Era il 30 marzo del 2011 quando a Trapani, in contrada Chinisia, veniva annunciata l’installazione di un'altra struttura leggera, una tendopoli capace di ospitare circa 500 persone, per accogliere i migranti solo “temporaneamente”, in attesa di ricollocazione. Le tende sono poi state circondate da una spessa rete alta 3m, il luogo presidiato costantemente da un cospicuo contingente di Forze dell’ordine, i migranti “ospitati” sono diventati mille, la sosta durava diversi mesi e le organizzazioni umanitarie avevano grande difficoltà ad entrare per effettuare il monitoraggio. Proprio il modello Chinisia dimostra, ancora una volta, che il problema non è la struttura, ma l’intento politico che la determina. Una volta edificata, di qualsiasi struttura si tratti, dipenderà dal Ministero degli Interni deciderne l’utilizzo, confrontandosi tutt’al più con l’Amministrazione Comunale al momento in carica.
 
Su queste dinamiche, questi equilibri e queste relazioni siamo ben consapevoli che avremo davvero poche certezze e poco potere. Ma di una cosa siamo abbastanza sicuri. Abbiamo letto con attenzione i decreti Minniti, conosciamo gli schemi di accelerazione delle procedure di identificazione dei cittadini non comunitari e di contrasto all’immigrazione clandestina. Abbiamo letto chiaramente in quel decreto l’intento di assicurare l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e allontanamento dei cittadini stranieri irregolari mediante l’istituzione di sezioni speciali in alcuni tribunali tra cui Palermo. Abbiamo letto di come cambieranno le modalità di richiesta, di come avverrà il nuovo colloquio videoregistrato, di come l’interprete sarà tenuto a verificare la correttezza della trascrizione dopo la conclusione del colloquio e di come per accelerare le procedure di asilo si elimini un grado di appello in caso di respingimento. Abbiamo letto anche di come ai questori e ai sindaci sia riconosciuto il potere di allontanare per sei mesi chiunque venga considerato “indecoroso” – neppure necessariamente indagato – mediante un “mini Daspo urbano”.
 
E quindi, scusate se non ci fidiamo del bravo Ministro, del buon Sindaco e della zelante Prefetta.
 
Perché avevano ragione gli eritrei che nel 2015 a Lampedusa protestarono con uno sciopero della fame, quando il centro di prima accoglienza divenne un hotspot e i nuovi arrivati furono costretti, con la violenza, a lasciare le loro impronte digitali. Avevano ragione anche gli uomini fuggiti da Milo nel 2016, sotto gli occhi delle guardie armate. Come hanno ragione i presunti “scafisti”che, costretti con una pistola alla testa a guidare un gommone strapieno di persone, rivendicano la propria innocenza quando vengono arrestati non appena sbarcati sulle coste siciliane. Gli stessi migranti, le cavie destinate di questo processo, usati sin da subito come laboratorio umano su cui testare queste pratiche sistematiche di annientamento delle libertà personali, hanno dimostrato concretamente in questi anni cosa voglia dire Resistere. E il processo e le lotte continuano.
 
In questo clima politico ogni terreno può essere murato, ogni tenda imprigionata tra spesse reti, ogni edificio circondato da sbarre: ogni donna e ogni uomo possono essere reclusi. Poi abbattere quei muri, tagliare quelle reti e quelle sbarre sarà ben altra impresa. Ma al momento c’è solo un terreno vuoto e un movimento antirazzista che non ha intenzione di cedere, né di indietreggiare, che non vuole trattare, ascoltare, né discutere, ma che al contrario è intenzionato a lottare perché la nostra Palermo non porti sul suo corpo i segni della deriva securitaria in atto. Ci piace pensare di vivere davvero in un porto aperto, accogliente, cosmopolita da condividere e salvaguardare. Per questo chiediamo a tutte e tutti, singoli/e, realtà politiche e sindacali, associazioni, candidati e candidate e persino all’Amministrazione Comunale di aiutarci ad impedire in ogni modo qualsiasi progetto di costruzione. Senza frontiere, per la libera circolazione di tutti e tutte.

Palermo, 27/03/17


Primi/e firmatari/e
A-dif, Arci Palermo, Assemblea Montevergini, Borderline Sicilia, Centro Salesiano Santa Chiara, CISS, Cobas Antirazzista Palermo, Democrazia e Lavoro CGIL, Forum Antirazzista Palermo, Isati Junco#PoterePopolare, Laici e laiche comboniani/e, Missionari comboniani Palermo, Osservatorio Noureddine Adnane, Palermosenzafrontiere, Mariarosa Ragonese, Tania Macaluso, Silvia Timoneri​
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