RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
30/4/2015
La scuola pubblica è un posto davvero pericoloso. Rimangono ancora impresse nella memoria le immagini del crollo di qualche settimana fa degli intonaci del solaio nella scuola elementare Pessina di Ostuni. Feriti due bambini e una maestra. E ce ne sarebbe da raccontare: il distacco dell’intonaco in un Istituto Alberghiero di Pescara a Febbraio, il crollo, qualche anno fa, del controsoffitto del Liceo Darwin di Torino che provocò la morte di uno studente di 17 anni; il cedimento di calcinacci, lo scorso mese di Marzo, nella scuola Cirrincione di Bagheria, con due bambini curati al Pronto Soccorso. E si potrebbe continuare ancora. Il fatto è che le macerie, i crolli e il degrado dell’edilizia scolastica, oltre ad essere gravi di per sé, rimandano ad un altro genere di degrado, quello dell’istruzione pubblica nel nostro paese. La scuola italiana è davvero ridotta in frantumi. Rovine su rovine.
Sarà anche per questo che l’indignazione che negli ultimi mesi è cresciuta contro la cattiva scuola di Renzi ha attraversato il guado ed è straripata in quello che si annuncia, per il 5 Maggio, come lo sciopero dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola più grande di sempre. La stessa decisione sciagurata di rinviare le prove Invalsi per le elementari, provvedimento nella sostanza illegittimo e antisindacale, è la conferma di quanto forte è, oramai, la marea montante contro il Disegno di Legge di Renzi. D’altra parte, pare davvero intollerabile questa forma sleale di boicottaggio che, con un semplice atto amministrativo, prefigura la soppressione dello stesso diritto di sciopero. L’elemento che più rende allibiti è dato dalla elementare constatazione che nel DDL sulla cosiddetta “Buona Scuola” non si fa alcun cenno alle grandi questioni della didattica e della pedagogia. Non c’è nessun riferimento ad un possibile orizzonte di senso che si misuri con il grande interrogativo che attraversa, oramai da quasi tre decenni, il tema del significato dell’insegnamento, tema a partire dal quale calibrare la verifica dell’efficacia dell’azione educativa. Ma si sa, gli stolti capovolgono, diceva Spinoza, il rapporto tra cause ed effetti e credono di rintracciare in questi ultimi l’eziologia di un determinato processo. Eppure, a leggere il DDL, ci si accorge immediatamente che in esso ci sono due assi portanti, rispetto ai quali risulta quasi facile far scaturire le naturali deduzioni consequenziali. Il primo è quello dell’Autonomia, inteso come equiparazione della scuola pubblica ad un’azienda, il secondo è quello della centralità del Preside, inteso come l’equivalente di un manager. Da qui, tutto discende a cascata. Nei 24 articoli del disegno di legge i due assi, le due idee guida, ovviamente convergono, visto che potenziamento dell’autonomia significa “rafforzare la funzione del Dirigente scolastico” (art. 2) che diventa “responsabile (..) delle scelte didattiche, formative, della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti”. Quel residuo di potere collegiale che rendeva unica la scuola pubblica italiana, e che costringeva i lavoratori della scuola a condividere in modo partecipato quanto si stabiliva in tema di didattica e di valutazione, viene ulteriormente calpestato. Ciò che deve contare è la primazia giuridica del DS, attinente non solo agli aspetti amministrativi ma anche a quelli che attengono alla libertà di insegnamento, sancita, almeno fino a quando esisterà ancora, dalla nostra Carta Costituzionale. Che la scuola pubblica debba essere ridotta alla stregua di un’azienda, oltre che da una sempre più esplicita gerarchizzazione (tra DS e insegnanti, tra collaboratori del DS e gli altri colleghi e tra questi stessi) e da una presenza del territorio negli organismi di gestione (leggasi ingerenza di interessi privatistici e imprenditoriali), è testimoniato da un ulteriore ampliamento delle attività riservate all’alternanza scuola-lavoro. Il dispositivo di legge configura l’alternanza scuola-lavoro come una vera e propria introduzione alle logiche del mercato e del profitto. Ho avuto modo di registrare personalmente come, tra i miei studenti e le mie studentesse, possa esser gratificante esperire in modo diretto le dinamiche e le relazioni presenti nel mondo del lavoro. Tuttavia, un conto è aprire la scuola a relazioni che facciano emergere le potenzialità, le vocazioni e la consapevolezza degli studenti, un conto è sottrarre ore di studio, riflessione critica e elaborazione a forme di lavoro gratuito (come, per esempio, quello della commessa in una libreria), quali si configurano certe attività di formazione aziendale, che, in aggiunta, sottraggono risorse economiche all’istruzione pubblica per regalarle alle imprese. La scuola pubblica ha come missione quella di fornire agli studenti e alle studentesse gli strumenti conoscitivi per capire criticamente in quale contesto si trovano, il senso del lavoro che possono fare, per quali ragioni si produce e secondo quali criteri. Insomma, la scuola, oltre a permettere l’apprendimento di nozioni da impiegare nei luoghi di lavoro, ha il compito di dedicarsi alla cura e alla formazione del cittadino, oltre che del lavoratore. Occorre ricominciare a recitare verità che fino a qualche decennio fa apparivano banali e quasi scontate e che oggi invece suonano come eretiche od eversive: il diritto all’istruzione vuol dire, per i nostri/e figli/e e i nostri studenti/esse, elaborare saperi autonomi, pensiero critico, idee personali con cui vivere liberamente e responsabilmente il mondo, con cui essere consapevoli del nostro essere parte di una sfera pubblica, con cui partecipare in piena uguaglianza al fare collettivo. In una parola, la nostra scuola deve formare alla cittadinanza per scongiurare il pericolo dell’essere sudditi. Il progetto di Renzi risponde a questo obiettivo? Assume come proprio il dettato costituzionale che fa del diritto allo studio e della libertà di insegnamento una sorta di a priori trascendentale per garantire l’esercizio effettivo della sovranità popolare? Non pare proprio, anzi. Renzi si muove secondo una logica di scambio, l’assunzione dei 100.000 precari, fino al settembre scorso erano 148.000, deve essere subordinata all’aziendalizzazione della scuola. Sta qui il motivo per cui il nostro ha impedito che si varasse un decreto legge limitato alle sole assunzioni. Se il Parlamento non dovesse fare in tempo ad approvare il DDL si apriranno almeno due scenari. Da una parte Renzi scaricherà sul Parlamento la responsabilità di far saltare le assunzioni, dall’altra lo stesso capo del governo si sentirà rafforzato nel suo piglio decisionistico e potrà agire per decreto legge assumendo in toto il pacchetto della controriforma della scuola. In verità, la concezione a cui rimanda il disegno dell’attuale capo del governo è quella che fa della scuola pubblica un’ancella del mercato e del mondo imprenditoriale. A questo imperativo vanno funzionalizzate didattica e formazione, costruzione di competenze e risorse pedagogiche. Si dirà, niente di nuovo sotto il sole, in fondo era proprio questo il modello lanciato e sponsorizzato dal berlusconismo. Una scuola edificata su coordinate culturali tossiche e asfittiche, impregnata della retorica insulsa dei crediti e dei debiti, offensiva nei confronti dei nostri giovani ridotti ad utenza e clienti, deformante e falsificante nella misura in cui è fondata sul target dell’offerta formativa. Sì, sembra proprio che la finalità sia la stessa, fare della scuola pubblica il luogo in cui mortificare i cervelli, svilire la creatività, creare omologazione e assuefazione, generare umani sussunti dall’unico scopo del produrre e del consumare. Negli ultimi dieci anni, scrive James Fergusson sul The Indipendent, gli attacchi del terrorismo fondamentalista contro scuole e università sono aumentati in modo vertiginoso. Ormai sono diventati una tattica ricorrente del terrorismo globale. L’istruzione, infatti, scrive l’editorialista britannico, ostacola la diffusione dell’integralismo. Chiedo venia, ogni confronto fra quello che è recentemente accaduto in Kenya e in Pachistan, dove sono morte centinaia di studenti e studentesse e decine di insegnanti, e le nostre vicende nostrane può apparire sacrilego e irriguardoso. Ma a ben guardare è questa la sfida con la quale siamo chiamati a misurarci: la scuola pubblica con le sue profonde contraddizioni e la sua mai banale complessità è come un campo di forze nel quale si fronteggiano opzioni contrapposte, poteri molari e relazioni molecolari, istanze autoritarie e strategie sovversive. Contro la subordinazione di ogni altra finalità a quella dell’estremismo della società di mercato e a quella integralista dell’addomesticamento dei cervelli vale la pena di lottare. Per decolonizzare le coscienze, per tornare a pensare che non possono essere l’esistenza e la buona vita un mezzo dell’economia ma deve essere l’economia uno strumento per la buona vita.
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25/4/2015
PalermoGrad intervista Nick Wrack. 25 aprile 2015
Dopo cinque anni di austerity somministrata dalla coalizione tra Conservatori e Liberal-Democratici guidata da David Cameron, gli elettori britannici si apprestano – il prossimo 7 maggio - a rinnovare con il loro voto la Camera dei Comuni. Abbiamo pensato perciò di rivolgere alcune domande a Nick Wrack, la cui candidatura al parlamento ci pare particolarmente significativa, trattandosi di una delle poche convergenze tra le due principali realtà elettorali a sinistra del Labour Party [difficile considerare tali formazioni totalmente interclassiste nonché ambigue in materia di austerità quali i Verdi e i Nazionalisti Scozzesi] ovvero da un lato la coalizione TUSC e dall’altro Left Unity, il partito affiliato alla Sinistra Europea nato nel 2013 in seguito ad un appello del regista Ken Loach. Innanzitutto dicci un po’ di te, della tua appartenenza politica e della tua partecipazione a queste elezioni… Sono di idee socialiste sin da ragazzino. Andavo a volantinare insieme ai miei genitori, e ricordo in particolare una marcia per raccogliere fondi in favore dei Giovani Laburisti [orientati fortemente a sinistra all’epoca cui si riferisce Nick, ndr]: avevo 11 anni. Da adulto ho abbracciato il marxismo. Sono originario di Manchester - e ci tengo a farvi sapere d’essere stato tra i fondatori del Football Club United of Manchester [democraticamente gestito dai tifosi, ndr]- ma da 35 anni vivo a Londra, nel distretto di Camberwell e Peckham, dove sarò candidato al Parlamento nelle elezioni generali del prossimo 7 maggio. Sono avvocato penalista, specializzato nei casi che riguardano i diritti civili. Faccio parte del comitato direttivo della TUSC ma anche della sezione di Southwark di Left Unity. Sono altresì segretario dell’Independent Socialist Network, di cui dirigo insieme ad altri compagni la rivista online The Project (http://www.socialistproject.org/). Le politiche di austerità nel Regno Unito ci sembrano pesare specialmente in termini di tagli ai servizi sociali e di privatizzazione strisciante del Servizio Sanitario Nazionale. Cosa puoi dirci in proposito? Guarda, precisiamo subito che la politica dell’ austerity – attraverso la quale il conto della crisi viene presentato alla classe lavoratrice - è appoggiata da tutti i partiti principali. In questo momento nel Regno Unito abbiamo oltre un milione di persone costrette a fare affidamento sulle foodbanks, che distribuiscono gratuitamente cibo ai bisognosi, nello stesso momento in cui i servizi sociali vengono smantellati. È chiaro che siamo lontani dai livelli di povertà presenti in Grecia o anche in Spagna: ma nondimeno abbiamo milioni di persone che soffrono sul serio. Riguardo il Servizio Sanitario Nazionale: è una delle conquiste più importanti ottenute nell’ambito della società britannica. Consente a tutti l’accesso a cure di alto livello e rimane in gran parte gratuito, nel senso che nessuno viene messo alla porta per mancanza di soldi. Ma tutto ciò al momento è a repentaglio. I laburisti hanno aperto la porta al mercato e alla privatizzazione e la coalizione liberal-conservatrice ha continuato lungo questa strada. Io mi batto per invertire questo processo, che subirà senz’altro un’accelerazione se dovessero vincere i Tory, ma che continuerà anche in caso di affermazione del Labour, che a suo tempo avviò il processo di privatizzazione strisciante cui facevi riferimento. È evidente inoltre come la stessa esistenza del Servizio Sanitario Nazionale come l’abbiamo conosciuto sarebbe minacciata dall’eventuale ratifica del TTTP, la Transatlantic Trade and Investment Partnership che comporterebbe l’ accesso delle grandi corporations ad appetitose realtà attualmente in mano pubblica, all’insegna della deregulation e dunque a scapito della salute e della sicurezza del personale e degli utenti, nonché ovviamente del salario dei dipendenti pubblici. Sappiamo come l’introduzione (prevista dal TTTP) dell’istituto delle ”Investor-State Dispute Settlements” consentirebbe alle multinazionali di intentare causa ai governi nazionali i cui provvedimenti fossero ritenuti nocivi ai profitti, il che potrebbe semplicemente significare imporre regole anti-inquinamento o rendere nuovamente pubblici settori privatizzati in precedenza… A questo punto abbiamo lasciato spazio alle domande dei nostri lettori. Richard – un sostenitore di Left Unity che attualmente vive a Palermo – chiede: Al momento sono in corso proteste nella maggior parte dei centri di detenzione per immigrati del Regno Unito (ed è la prima volta!). Pensi che tutti i centri di detenzione vadano chiusi? Da tempo sono in corso campagne per la chiusura dei centri di detenzione, ma i media non se ne occupano più di tanto. Io penso che questi centri (che mi paiono in effetti più simili a campi di concentramento che a centri detentivi) siano una vergogna per qualsiasi paese civile e vadano chiusi immediatamente. Più in generale sono contrario a limitare l’immigrazione, ovvero a negare libertà di movimento ai poveri e agli oppressi del mondo, laddove i ricchi possono andare dove gli pare e piace. Dar la colpa della crisi economica a immigrati e profughi significa deviare l’attenzione da padroni e banchieri, i veri responsabili. Caterina, un’insegnante, domanda: Per quanto riguarda la scuola, di recente in Italia abbiamo ascoltato parecchia retorica in merito all’”autonomia” delle istituzioni scolastiche dal controllo statale e delle autorità locali; e ci viene detto e ripetuto che le risorse disponibili andrebbero concentrate sulle “eccellenze”. Cosa puoi dirci in merito a quello che è successo da voi con l’istituzione delle Academies? Il governo liberal-conservatore ha fatto danni gravi, per quanto riguarda la pubblica istruzione. L’apertura di “libere scuole” e “accademie” - istituti finanziati dallo Stato ma sottratti al controllo diretto delle autorità scolastiche locali, che possono ricevere finanziamenti o donazioni di materiale didattico da parte di privati o di imprese che fanno da sponsor - ci ha consegnato un sistema scolastico frammentato e diviso, in cui la continua somministrazione di test e l’ossessione per le “classifiche” di merito hanno oltretutto reso l’atmosfera scolastica alquanto tetra sia per il personale che per gli studenti. Anche la qualità dell’insegnamento ne ha risentito, in quanto, dovendo affrontare continue valutazioni [rese ancor più “necessarie” dal dover confrontare le performance di scuole statali e academies, ndr] si finisce con l’appiattirsi sul cosiddetto “teaching to test”. Bisogna invertire la rotta rispetto a queste politiche, ma – vergognosamente – il Partito Laburista non appare affatto intenzionato in tal senso: un maggiorente del Labour come David Blunkett ha detto con la massima chiarezza che “le accademie resteranno”. Ed il Ministro-Ombra Tristram Hunt si è unito al coro conservatore nel colpevolizzare gli insegnanti per tutto ciò che a ben vedere è causato dai tagli, dalla povertà delle famiglie e da politiche dell’istruzione che tendono innanzitutto a dividere. Io mi oppongo decisamente alle “accademie” e mi batto per il controllo democratico delle scuole a livello locale. Occorre inoltre abolire le esenzioni fiscali a beneficio di tutto il settore scolastico privato, in base a cui tutti i contribuenti finanziano in sostanza gli studi dei figli dei ricchi. Per finire: valutiamo positivamente il fatto che tu sia candidato congiunto della TUSC e di Left Unity; ci sembra un passo concreto verso l’unità politica dei marxisti, innanzitutto in Gran Bretagna ma anche – si spera – in tutta Europa. Spiegaci però che cosa esattamente divide le due formazioni suddette. In Gran Bretagna il panorama della sinistra di ispirazione socialista e marxista è estremamente frammentato, il che ovviamente costituisce un elemento di debolezza nella lotta contro il capitalismo. Io mi batto per un partito socialista unitario e di massa, di ispirazione marxista. Tale raggruppamento dovrebbe prevedere un vivace dibattito interno, in cui ciascuno possa presentare il proprio punto di vista, e l’unità d’azione rispetto alle iniziative approvate democraticamente. La frammentazione di cui parlo è stata esacerbata da 30 anni di arretramento di fronte all’iniziativa capitalista; adesso occorre però recuperare un minimo di senso delle proporzioni, dotarsi di una prospettiva. Le differenze tra marxisti possono anche essere rilevanti, ma non giustificano l’esistenza di organizzazioni separate. Per tornare alla domanda, sia TUSC che Left Unity sono al momento lontane dalla perfezione. TUSC è una coalizione di gruppi politici, non è un partito cui ci si possa iscrivere. Left Unity funziona invece per adesione individuale, ma ha adottato a maggioranza un programma che è una sorta di riformismo di sinistra, di keynesismo, laddove io ritengo che soltanto posizioni esplicitamente marxiste siano utili rispetto ai problemi che abbiamo di fronte. All’interno di Left Unity c’è una certa ostilità nei confronti della TUSC, dovuta alla presenza in quest’ultima dei due maggiori gruppi di derivazione trotzkista, il Socialist Workers Party ed il Socialist Party. Tuttavia come Independent Socialist Network ci siamo dati da fare per rendere possibili una serie di candidature congiunte, tra cui la mia. Continueremo ad adoperarci per l’unità tra TUSC e Left Unity, purché abbia luogo su basi chiare. Grazie per aver risposto alle nostre domande, Nick, e in bocca al lupo per il 7 maggio! PADRI E PADRONI
9/4/2015
Scritto da Salvatore Cavaleri
Qualche settimana fa sono stato invitato a tenere un seminario in un liceo di Palermo, all’interno di un corso di storia contemporanea, su «Genova 2001 e il movimento altermondialista». Per la prima volta ho avuto l’occasione di parlare di quegli avvenimenti con un gruppo di ragazzi che all’epoca aveva appena tre anni. Qualcuno aveva già visto il film Diaz, i più informati avevano guardato dei video su Youtube, altri si erano documentati per l’occasione andando a recuperare vecchi articoli. In generale la percezione che avevano di quelle giornate era di «un gran casino»: Diaz, black bloc, Carlo Giuliani, defender, lacrimogeni, tute bianche, cariche, vetrine rotte, auto in fiamme, zona rossa, teste rotte, scudi, Bolzaneto. Quello che per loro non era affatto chiaro era cosa ci fossero andate a fare tutte quelle persone a Genova. Quale fosse il contesto storico in cui si collocavano quelle giornate e quale fosse il loro significato politico. Per questo, pur dando conto di ciò che è successo tra il 19 e il 21 luglio del 2001, ho provato a parlare con quei ragazzi delle ragioni che ci hanno portato a Genova, di quel camminare domandando che imparammo durante gli anni Novanta e dell’attualità di una ricerca quotidiana di altri mondi possibili. Soprattutto, ho voluto parlare dell’importanza di costruire forme di conflitto adeguate al presente, della ricerca di legami in cui essere al tempo stesso singolari e molteplici, orgogliosi delle proprie differenze e in lotta per l’uguaglianza. È probabile che nel discutere con quei ragazzi, i miei discorsi abbiano risentito l’influenza della recente lettura del libro di Paolo Godani Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo (DeriveApprodi, 2014), libro che non parla affatto di Genova 2001, ma che di certo ci aiuta a ricercare nuove forme di lotta dentro la globalizzazione. Se a prima vista il libro di Godani si presenta come una semplice invettiva, come un libro scritto per muovere una critica (sacrosanta) ad altri autori, andando in profondità si capisce che Senza padri è un libro affermativo, nel quale entrare a gamba tesa nel dibattito teorico attuale serve ad assorbire i colpi, per poi andare all’attacco. Il polo polemico da cui prende le mosse il testo è quello da lui chiamato dei «neopaternalisti», dentro cui annovera, pur riconoscendo le enormi differenze, Jean-Claude Milner, Alain Badiou, Slavoj Žižek e, soprattutto, la psicostar Massimo Recalcati. La tesi principale che in qualche modo accomuna questi autori è che la società contemporanea sia sempre più segnata dalla «sparizione del limite» e che, di conseguenza, sia avvenuta una «rottura dei legami» che caratterizzavano la società tradizionale. All’interno di questo scenario questi autori auspicano, ognuno a modo proprio, un «ritorno del Padre», un riaffermarsi della «Legge» che possa riportare ordine nel caos indistinto della contemporaneità. Ciò che Godani rimprovera ai neopaternalisti è di non accorgersi di come il capitalismo contemporaneo rimuova sì i vincoli tradizionali, ma soltanto per rimpiazzarli, marxianamente, con limiti nuovi, adeguati alle nuove forme di produzione. Ad ogni de-territorializzazione, per dirla stavolta con Deleuze e Guattari, segue sempre una ri-territorializzazione. Il problema è, infatti, che, portato alle estreme conseguenze, il «nuovo ordine del discorso paternalista», conduce inevitabilmente ad un bivio, in cui da un lato c’è la rassegnazione di fronte al dilagare del disordine provocato dall’assenza della Legge, dall’altro la restaurazione dell’autorità, di un nuovo ordine ristabilito dal ritorno del Padre. In ogni caso non viene mai annoverato il conflitto. Viene esclusa ogni possibilità di soggettivazione che possa mettere in discussione l’ordine, o il disordine, costituito. «Non deve essere un caso», nota Godani, «se in Recalcati non si trova traccia di una critica ai meccanismi dello sfruttamento e ai dispositivi repressivi che governano la nostra società “del godimento”». [pag. 31] Nel leggere Cosa resta del padre? di Recalcati avevo condiviso esattamente questa sensazione. Nel leggere la sua definizione della nostra epoca come caratterizzata dal «desiderio senza legge», mi risuonava nelle orecchie l’odiosa retorica che rimprovera di avere vissuto tutti «al di sopra delle nostre possibilità». Nel leggere quella definizione mi sembrava di sentire il ministro Padoa-Schioppa chiamare i giovani precari «bamboccioni». Recalcati, pensavo, lo dovrebbe spiegare al 44% di giovani disoccupati, alla miriade di lavoratori ipersfruttati, che questa è l’epoca del «puro desiderio» e che la loro condizione è generata dall’assenza di «Legge». Magari loro sono ancora convinti che dipenda dall’affermazione del neo-liberismo come Legge unica e totalizzante. Mi sembrava, per l’appunto, che Recalcati non facesse i conti con la «crisi», che parlasse di una realtà pacificata, da «fine della storia». Mi sembrava, cioè, che Recalcati non cogliesse i nuovi vincoli che nella contemporaneità hanno soppiantato i vincoli precedenti. Ciò che Godani rimprovera a Recalcati è di confondere la «funzione del limite», che per Lacan agisce su un piano trascendentale, trasferendola «surrettiziamente» su un piano etico. Un conto è il «limite interno» necessario al desiderio per funzionare, ben altra cosa è il «limite esterno», funzionale soltanto alla sopravvivenza dell’Ordine sociale. Il cortocircuito avviene, quindi, proprio quando Recalcati prova ad estendere su un piano politico-sociologico, intuizioni di carattere psicopedagogico. La questione è che i neopaternalisti sembrano voler arrivare alla resa dei conti con tutto un filone teorico-politico, ma sbagliando decisamente bersaglio. Si scagliano contro il «postmoderno», ma lo fanno attaccando i teorici critici della postmodernità e non gli apologeti. Il bersaglio principale, tanto di Recalcati quanto di Žižek, sono infatti Deleuze e Guattari, con un risultato paradossalmente uguale ed opposto a quello di chi rintraccia, da destra, in Foucault una fascinazione per il neoliberismo (http://www.uninomade.org/foucault-per-tutti/). I teorici che per primi hanno descritto i nuovi dispositivi di potere, ed inevitabilmente i piani di resistenza possibili, vengono adesso additati come i responsabili teorici della catastrofe contemporanea. Conseguentemente Recalcati e Žižek, ma anche Mario Perniola, Valerio Magrelli e (sic) Nicolas Sarkozy additano il «sessantotto» come l’origine di ogni male. Nel sessantotto, a dir loro, non si andava instaurando un nuovo piano del conflitto a partire dalle trasformazioni linguistico-tecnologiche e dalle conseguenti mutazioni della composizione di classe, ma quel «movimentismo» stava contribuendo ad instaurare il nuovo ordine del discorso dominante. È da lì, da quella spinta di liberazione antiautoritaria, che deriverebbe il Berlusconismo. Anche qui la deriva della nostra società originerebbe dalle istanze liberatrici che per prime l’hanno descritta. Come se la crisi della razionalità, dell’idea di progresso, della linearità della storia, dei concetti di verità e dell’autorità del nome del padre fossero il prodotto di speculazioni teoriche e non di trasformazioni storiche, politiche ed epistemologiche. L’aspirazione ultima di questo atteggiamento «paternalistico» non può avere, allora, che un sapore «tecnocratico». Il «popolo» viene visto, con una certa dose di apprensione, come una massa informe ed irrazionale, spinto da pulsioni istintive, incontrollate, che necessitano l’avvento di un élite, fatta di Tecnici o di Padri (di destra o di sinistra), in possesso dell’Autorità necessaria a ripristinare l’Ordine. Un conto è dire, come David Foster Wallace, che, per rompere con un certo «postmodernismo distaccato», è arrivato il momento in cui «noi dobbiamo essere i genitori» (http://cronacheletterarie.com/2012/09/24/prova/), ben altra cosa è continuare a sperare che i genitori ritornino: i genitori non torneranno più e alimentare ancora questa speranza vuol dire continuare a pensarsi, comodamente, come delle nullità. Vuol dire continuare a replicare quell’atteggiamento deresponsabilizzante da cui si vorrebbe prendere le distanze. Quello che è in questione nel libro di Godani è, invece, proprio la ricerca di forme politiche che non si affidino alla potenza salvifica dell’Uomo forte. Se tutto lo scenario mediatico è inzuppato di mezze figure spacciate per leader autorevoli, quello che qui è in gioco è la ricerca permanente di un terreno di soggettivazione composto non da «individui», ma da singolarità che accedono a «molteplicità variabili di tratti comuni». Se sono partito da Genova 2001 per parlare di questo libro, forse, è proprio perché quel movimento ruppe radicalmente con la mitizzazione dei propri padri, anche quelli nobili, anche quelli del sessantotto. Ai ragazzi di quel liceo ho voluto raccontare di come l’eredità dei nostri padri ce la portassimo sempre dietro, ma senza nostalgia. E che, oggi come allora, la questione sia come armarci del presente, come vivere la nostra epoca con la consapevolezza conflittuale dei legami e dei vincoli di cui siamo partecipi, facendoci forza con chi ci sta accanto, reggendoci su ciò che abbiamo in comune, perché comune è la strada da fare. Insomma, per dirla con Godani: «se questo non è più il tempo dei re, non è neppure il tempo dei padri. È il tempo in cui l’alleanza, una società della fratellanza e della sorellanza, sostituisce la filiazione, il tempo di una comunità di celibi». [Pag. 150] Il prossimo 27 maggio Paolo Godani presenterà il libro Senza padri ai Cantieri della Zisa di Palermo e ne discuterà con Salvatore Cavaleri (autore di questo articolo), Marcello Faletra e Calogero Lo Piccolo. Scritto da Giovanni Di Benedetto
«Nel mezzo»: Microfisica della mediazione nel mondo greco antico è il titolo del libro, di ben 496 pagine e pubblicato dalla Pisa università press, con cui Andrea Cozzo indaga i dispositivi di mediazione per la gestione dei conflitti a partire dalla cultura e letteratura greca. Come giustamente ricorda Giovanni Scotto nella sua introduzione “il campo di indagine del libro si situa all’intersezione tra l’esplorazione del linguaggio e del significato dei termini nei testi greci, anche nella loro dimensione etimologica, e l’analisi delle relative pratiche di gestione nei conflitti nelle società in cui il greco è stato via via lingua d’uso, in un arco di tempo di oltre un millennio.” Si tratta di un’impresa nel senso forte del termine, un lavoro profondo che copre un orizzonte culturale, da Omero al IV secolo dopo Cristo, dalle proporzioni ampie ed estesissime. E che testimonia, non me ne voglia l’Autore, sempre attento a coniugare teoria e pratica, un’erudizione non comune. Il lavoro di Cozzo si configura come una sorta di scavo genealogico, fin dalle origini della tradizione occidentale, alla ricerca di teorie e pratiche di mediazione e di gestione dei conflitti alternative alla violenza. Dico subito che ho trovato il libro, per l’impostazione e per la chiave di lettura che suggerisce, molto bello e molto importante. A fare da sfondo, è l’esigenza di costruire una visione della storia attenta, piuttosto che alle guerre e ai conflitti, a tutte quelle strategie presenti nel mondo antico in grado non solo di limitare la violenza e i conflitti ma anche di proiettarsi nel futuro secondo un’ottica fondata sulla conciliazione e, se non proprio sulla nonviolenza, sulla ri-costruzione di rapporti pacifici orientati sull’utile di tutti i contendenti. Il mondo greco, nei rapporti interpersonali, in quelli all’interno della polis e in quelli tra le poleis, sembra possedere strategie di mediazione e risoluzione negoziata, con le quali una terza parte può aiutare a superare dinamiche distruttive, in grado di garantire il rispetto delle prerogative di tutti i contendenti coinvolti. Da qui la seconda considerazione che riguarda la politicità di un’impostazione di questo tipo. È l’idea che la politica possa essere, in primo luogo, il tentativo costante di assicurare concordia e reciprocità. Un’idea a tutt’oggi niente affatto scontata, che prefigura la necessità di prendere in considerazione un capovolgimento complessivo del modo in cui è, al tempo presente, strutturata la nostra società. Solo una riconsiderazione sistemica, radicale quindi, dell’organizzazione sociale nella quale viviamo può permettere il conseguimento di un’autentica condizione di pace e di assenza di violenza. L’attenzione che l’Autore rivolge ai momenti della storia antica, scarsamente considerati dalla storiografia (più o meno ufficiale, compresi Detienne, Vernant e Loraux), in cui si ricerca una mediazione costruttiva dei conflitti, può essere d’insegnamento per la costruzione, qui ed ora, di una società più giusta e conviviale Ovviamente, secondo questa concezione dell’agire pratico, non si vuol dire che non si debba stare dentro i conflitti prendendovi parte (ossia parteggiando ). Vi è l’idea, storicamente accertata da Cozzo, che sia possibile risolvere le controversie non solo senza che sia praticata la violenza ma anche senza che la terzietà possa essere scambiata per inattiva e passiva neutralità. Da qui, come dicevo più sopra, la consapevolezza sottostante di una narrazione storica differente (e oserei dire contrapposta) a quella che si limita a ricordare eventi bellici e militari. Si potrebbe parlare forse di contro storia, senza che questa vada intesa come il semplice capovolgimento di quella ufficiale, in cui i buoni diventano i cattivi e viceversa. No, qui la destrutturazione e la successiva ristrutturazione dell’ordine del discorso pare più seria e complessa. Proprio perché viene evidenziata la vicinanza relazionale e la componente affettiva messa in gioco da parte di chi esercita un ruolo costruttivo nel dirimere contenziosi e nel pacificare situazioni di violenza che cambiano (o dovrebbero cambiare) la fisionomia della relazione e, dunque, entrambe le parti in causa. Sono la familiarità, la benevolenza e l’amicizia, intese come fattori decisivi nella costruzione di un clima non violento, che caratterizzano le pratiche di terzietà. Ecco perché l’autore scrive che “la consapevolezza della profonda differenza tra una giustizia che, operando con la rigidità della conta dei voti, decide sui contendenti ed una conciliazione che, invece, li riunisce, è chiara. La stretta giustizia non è una soluzione, perché non è la dissoluzione dell’inimicizia ma, tutt’al più, solo un termine della lite nella sua forma visibile e formale.” È inoltre interessante l’individuazione, addirittura, di una struttura operativa comune alla dimensione dell’azione di mediazione che adopera innanzitutto il riferimento a capacità di conciliazione fondate sull’emotività, l’affettività e la dolcezza. Così come lo stratagemma retorico della critica rivolta a tutte le parti in conflitto, che sposta l’attenzione e il fuoco del discorso dalle presunte responsabilità dei contendenti alla necessità di non provocare danni e guasti ancora più irreparabili evidenziando una memoria storica di benevolenza e pace. O ancora il ricorso al modulo della domanda, che diversamente dalla forma assertiva, non si presenta come aggressiva o costrittiva. Il riferimento di Cozzo all’idea di medietà, nelle sue diverse declinazioni, presente in Aristotele ma anche nella dimensione più specificatamente pratica della vita nella società greca, può portare a riflettere sull’eventualità che l’uomo di mezzo teorizzato da Aristotele possa essere inteso come la maggior parte della popolazione in grado di spingere verso la conquista di obiettivi progressivi. Come se potesse essere possibile pensare a forme di azione popolare e di intervento di massa volte a inventare nuove forme di protagonismo civile. Si può intendere in questo senso quanto viene detto a proposito del fatto che “è il popolo o la massa dell’esercito stesso a intervenire facendo pressione in questa direzione su due individui detentori di un ampio potere militare. Naturalmente il contesto più adeguato per l’intervento in questi casi non è più quello privato ma quello pubblico.” Per l’appunto è la sfera del pubblico ad essere chiamata in causa nel momento in cui sopravviene il coinvolgimento di ampi settori della formazione sociale. In tempi di crisi della politica, come quelli che stiamo attraversando, suggerire un ritorno alla partecipazione collettiva non è poca cosa. Questo aspetto avrebbe pesanti ricadute anche su un altro livello dell’analisi dell’Autore, quello del piano comunicativo tra le parti e di fronte all’opinione pubblica. Anche in questo senso l’equivicinanza, così come la compartecipazione, giocano un ruolo fondamentale. Un’ultima questione riguarda il tema del potere. Nell’analisi della storia greca e romana si prendono ad esempio casi di belligeranza fra le parti dove entra in gioco la questione del potere. L’Autore scrive che “ci sono casi in cui chi è al potere non si fa scrupolo a prevaricare i cittadini, ma non sempre quelli che non sono diretto oggetto degli abusi sono disposti a stare a guardare. E non necessariamente il loro rifiuto di essere passivi spettatori si trasforma in una resistenza armata”. O si pensi, inoltre, agli esempi riportati di schiavi che salvano il loro padrone. Come se si volessero mettere in rilievo le possibilità di difesa nonviolenta nella forma della non collaborazione e della disubbidienza civile. E tuttavia “tutti i casi fin qui riportati sono leggibili (..) in riferimento ad un’ideologia che considera positivamente il rischio o addirittura il sacrificio di figure subalterne (schiavi, liberti, donne, figli, che non a caso, diversamente da quelli che devono loro la salvezza, restano quasi sempre eroi senza nome) a favore di quelle superiori ad esse complementari (padroni, patroni, mariti, padri).” Insomma, a volte può essere legittimo chiedersi, leggendo alcune pagine del libro, se tutta la riflessione sulla mediazione e la terzietà non si muova dentro una cornice che non mette in discussione i rapporti di potere. Tuttavia, ci sono anche casi che, mi sembra, vanno in una direzione che può richiamare l’istanza dell’uguaglianza: dall’esperienza di Solone al caso di Demonatte che mise in comune per il popolo tutto ciò che prima avevano i re. Molto bella, infine, la trattazione del ruolo del genere femminile nella riappacificazione e nella mediazione delle controversie nei diversi ambiti. Per concludere, un lavoro importante e ricco di insegnamenti. Certo, un testo che forse può risultare un po’ faticoso per la densità dei contenuti che, tuttavia, non inficia l’elemento della scorrevolezza. In fondo, è la stessa copiosa quantità di informazioni ad essere indispensabile, perché esprime manifestamente quale straordinaria architettura concettuale e competenza abbiano avuto gli antichi nel trasformare costruttivamente i conflitti nei quali si sono trovati imbrigliati e coinvolti. |
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Marzo 2021
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