di Giovanni Di Benedetto
Ciò che Marx presuppone non è la fantasia bambinesca di una società capitalistica sull’isola di Robinson, che fiorisce nel chiuso, «isolata» da continenti con popoli non-capitalistici, di una società in cui lo sviluppo capitalistico ha raggiunto il più alto grado immaginabile (…) e che non conosce né artigianato né contadiname e non ha rapporti col mondo circostante non-capitalistico. Il presupposto di Marx non è un assurdo della fantasia, ma un’astrazione scientifica. Marx anticipa la tendenza realedello sviluppo capitalistico; ammette come già raggiunto quello stato di dominio generale assoluto del capitalismo su tutto il mondo, quell’estrema dilatazione del mercato mondiale e dell’economia mondiale, verso cui il capitale e l’intero suo sviluppo economico e politico odierno realmente tende. (Rosa Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica) Quando, all’inizio del proprio discorso, nel mese di Gennaio del 1919, alcuni giorni dopo l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Grigorii Zinoviev, presidente del Soviet di Pietrogrado, li commemorò, ebbe a dire, pressappoco, che la Luxemburg era appartenuta a quella rara schiera di affiliati al movimento dei lavoratori che aveva avuto non solo il merito di divulgare le idee di Marx ma anche di contribuire, con la propria parola e il proprio pensiero, all’arricchimento della stessa teoria marxiana della critica dell’economia politica. Allo scoccare del secolo dal terribile eccidio del 15 Gennaio 1919, ordinato dal socialdemocratico Gustav Noske ed eseguito dai Freikorps, questo lapidario e solenne giudizio non sembra, col passare del tempo, aver perso di vitale veridicità. Tutt’altro, considerato che, a partire dalla metà degli anni ’20 del secolo scorso, l’ortodossia stalinista aveva condannato all’oblio e a una sostanziale rimozione, l’eredità luxemburghiana. Eppure, oggi, l’opera intellettuale di Rosa Luxemburg dimostra una forza e una lucidità non comuni e, forse, una produttività, agli occhi di molti, inaspettata. All’interno di quella grande esperienza pratico-teorica che fu l’intera esistenza della Luxemburg, il libro del 1913 L’accumulazione del capitale[1] appare, al lettore contemporaneo privo dei pregiudizi della scolastica marxista-leninista che ammantavano e mistificavano lo scritto e che ne hanno a lungo condizionato la ricezione, un’opera feconda, in grado di esprimere chiavi di lettura ancora oggi capaci di decifrare, al di là di facili e superficiali schematizzazioni, la crisi della congiuntura presente e le sue drammatiche contraddizioni. A dire il vero, all’opera venne riservata, fin da subito, un’accoglienza e una ricezione a dir poco singolari, incontrando, sostiene Oskar Negt, “una quasi unanime disapprovazione da parte degli «esperti» dell’ortodossia marxista, con alla testa gli austromarxisti e Kautsky”[2]. La Luxemburg stessa, nella sua anticritica, confessò di essere rimasta vittima di un malinteso, sorpresa per il modo in cui il libro fu accolto da parte della stampa socialdemocratica che lo stroncò senza pietà ritenendolo sbagliato da cima a fondo. E dire che l’autrice era convinta di avere semplicemente sviluppato la teoria marxiana in modo coerente, adeguandola agli sviluppi storici sfociati nell’imperialismo. Nonostante il fatto che a lungo si sia quasi voluto attribuire al testo il carattere del romanzo storico-filosofico, contrassegnato storicisticamente dall’idea che il capitalismo fosse deterministicamente e irreversibilmente destinato al crollo, L’accumulazione del capitale esprime spunti interpretativi che possono gettare nuova luce sulle più importanti questioni del nostro tempo. Dall’analisi de L’accumulazione del capitale, infatti, emergono, sugli attuali indirizzi della corrente economia mondiale, suggestioni e riflessioni che, a parere di chi scrive, risultano essere, oggi, ancora più pressanti che non al tempo in cui operò l’agitatrice e lottatrice spartachista. RIPRODUZIONE SEMPLICE E RIPRODUZIONE ALLARGATA Presupposto dell’elaborazione della teoria di Rosa Luxemburg sull’accumulazione del capitale è l’analisi della circolazione del capitale e degli schemi di riproduzione formulati da Marx nel secondo libro del Capitale. Marx illustra nei suoi schemi sulla riproduzione il dato che, tenute ferme una serie di precondizioni, gli scambi di capitale con forza lavoro e merci (nella forma di mezzi di produzione e mezzi di consumo), devono avere luogo sulla base di precisi rapporti di equivalenza e proporzionalità. Posto che è possibile dividere tutte le merci in mezzi di produzione e beni di consumo, ne consegue che all’interno della sfera della produzione si possono schematicamente individuare due sezioni: la sezione I, che produce mezzi di produzione, e la sezione II, che produce beni di consumo. Perché il sistema proceda senza ostacoli, non è solo necessario che la domanda totale eguagli l’offerta totale, ma occorre anche che la domanda di prodotti di ogni sezione possa eguagliare l’insieme della produzione della sezione stessa. Là dove vengono a mancare tali equivalenze deve necessariamente subentrare uno squilibrio e dunque una crisi. Il processo della riproduzione (semplice e allargata) è un sistema complesso che non funziona come una linea retta ma, circolarmente, “consta di movimenti che agiscono l’uno sull’altro”[3], “si intrecciano reciprocamente”[4]. Il funzionamento del modo di produzione capitalistico è sistemico. È importante notare come si tratti di un meccanismo che gli economisti borghesi, scrive Marx, stentano a capire o capiscono poco[5]. In effetti il problema della crisi capitalistica rimanda all’eventualità, sempre incombente, che la rotazione del capitale venga interrotta. Vi sono, ovviamente, nella spiegazione delle cause dell’interruzione della rotazione molti fattori e, per così dire, molti livelli di criticità. In altri luoghi della sua ricerca teorica Marx insiste nel sottolineare che il problema della crisi è principalmente connesso al tema della valorizzazione del plusvalore nella sfera della produzione. È nella sfera del processo di produzione che bisogna individuare quegli elementi che costituiscono problema e da cui occorre partire per avere consapevolezza dello svolgimento sistemico del capitale inteso nella sua totalità. Tuttavia, nel secondo libro del Capitale, Marx considera processo di produzione e processo di circolazione come inseparabili, come costituenti un’unità nella quale ciascuno di questi due processi trova nell’altro le sue stesse condizioni di realizzazione e, insieme, un ostacolo. Se da una parte per il capitale lasciare il processo di valorizzazione significa perdere il legame vitale con lo sfruttamento della forza lavoro, dall’altra parte è nella sfera della circolazione che, attraverso lo scambio della vendita e della compera, è possibile realizzare il valore e il plusvalore prodotti nello stadio della produzione. In particolare, nei capitoli 20 e 21 del secondo libro del Capitale, Marx approfondisce l’esame delle relazioni tra le differenti branche della produzione. Lo studio della riproduzione semplice, a livello del quale il capitale si riproduce mantenendo un eguale ammontare complessivo, e della riproduzione allargata, al livello del quale, invece, si assiste a un aumento del capitale totale, deve illustrare le condizioni che devono essere rispettate affinché dal lato dell’offerta e dal lato della domanda si possano incontrare, a livello di mercato, da un lato i beni che sono richiesti e dall’altro quelli che sono prodotti. In tal senso, potenziali sproporzioni tra le differenti branche produttive possono inceppare il movimento della rotazione del capitale. A questa possibilità si deve associare anche lo studio dei fattori riguardanti il livello della domanda in rapporto alla capacità produttiva. Dunque, se il problema è che, affinché si possa conservare e riprodurre un equilibrio fra il settore relativo ai mezzi di produzione e quello relativo ai mezzi di consumo, devono essere mantenuti determinati livelli di reciproca proporzionalità, risulta vero, tuttavia, che, nella realtà, è molto difficile che tali condizioni di equilibrio rispettino i requisiti della massima esattezza e della massima precisione. I singoli attori della produzione si muovono unilateralmente perseguendo il proprio utile immediato, senza che l’intero sistema conosca la mediazione di un controllo e un governo consapevoli. Nel modo di produzione capitalistico non viene considerata l’estrema complessità della struttura della domanda e dell’offerta né, tanto meno, la necessità che sia raggiunto un equilibrio tra le differenti frazioni in cui si suddivide ciascuna branca produttiva. Da qui il rischio concreto di squilibri e sproporzioni difficilmente riconducibili entro l’alveo del regolare e circolare funzionamento della rotazione del capitale Le cose si complicano ancora di più se si passa al livello della riproduzione allargata, dove si deve dare la possibilità che, attraverso la vendita di un plusprodotto, si formi un capitale monetario potenziale addizionale. Entro il regime della riproduzione allargata solo una aliquota del plusvalore prodotto nelle due sezioni produttive può essere impiegato da parte dei capitalisti come reddito per rifornire i loro fondi di consumo individuale, mentre l’altra frazione può essere capitalizzata, ossia tramutata in capitale addizionale, investendola in nuovo capitale variabile e nuovo capitale costante, ossia nell’acquisto di nuova capacità lavorativa e di nuovi mezzi di produzione. Marx spiega che ci deve essere una sorta di dirottamento vero e proprio, almeno parziale, del capitale costante di I verso l’acquisto di mezzi di produzione (Ic) piuttosto che mezzi di consumo (IIc). A parere di Marx “all’interno della riproduzione semplice viene prodotto il substrato materiale della riproduzione allargata”[6]. Il prodotto della riproduzione materiale su scala allargata è dato dal fatto che gli elementi della riproduzione semplice assumono una connotazione qualitativa differente. La base materiale per conseguire una riproduzione allargata è data dalla presenza di un’eccedenza che possa essere convogliata come capitale monetario virtuale piuttosto che scambiata come reddito per il consumo di mezzi di consumo. Dunque, l’eccedenza qui viene dirottata verso capitale produttivo addizionale[7]. Va precisato, innanzitutto, che questo dirottamento significa anche una mutata funzione del denaro circolante che da mezzo di circolazione assume, attraverso un’azione di tesaurizzazione, la funzione di capitale monetario “virtualmente nuovo, in via di formazione”[8]. Esso, in quanto tale, è crisalide monetaria che si va formando a poco a poco e per questo, almeno inizialmente è “assolutamente improduttivo”[9]. Ma il processo di accumulazione di capitale in senso proprio si deve configurare come processo di riproduzione allargata, il che vuol dire che “l’ampliamento della produzione dipende dalla trasformazione di plusvalore in capitale addizionale, e quindi anche da un ampliamento della base di capitale della produzione”[10]. I nuovi lavoratori salariati reclutati tramite l’impiego di capitale variabile addizionale originano un ampliamento della domanda di beni di consumo. La creazione di un tale plusprodotto non è altro che il prodotto del pluslavoro degli operai. Dall’altra parte, tramite l’accrescimento del plusvalore i capitalisti avranno la possibilità di aumentare la domanda di beni di consumo senza compromettere l’origine dell’accumulazione. Il metodo adottato da Marx nei suoi esempi è estremamente complicato e svolto a un livello di astrazione molto elevato. Tuttavia, proprio l’alta improbabilità con cui dovrebbe essere soddisfatta una tale condizione di proporzionalità della circolazione del capitale rende aleatoria e fortuita la sua realizzazione. Da qui la crisi e, dunque, il fatto che la riproduzione del capitale sociale su scala allargata non può che realizzarsi in modo violento e caotico, attraverso mutamenti improvvisi e depressioni periodiche che ne possano ristabilire quelle condizioni di equilibrio che, nel frattempo, sono venute a mancare. È lo stesso Marx a ricavare, da una tale, complessa e articolata, illustrazione della forma della riproduzione, la possibilità che, in un sistema regolato esclusivamente dalla logica del libero scambio, scaturiscano e si sviluppino quelli che lui stesso definisce “motivi per uno svolgimento anormale”[11] e “possibilità di crisi”[12]. ALLA RICERCA DEL FUORI Secondo Sweezy, la logica fondamentale del processo di riproduzione allargata fu colta con esattezza da Rosa Luxemburg. Il problema, tuttavia, risiede nel fatto che ne L’accumulazione del capitale la Luxemburg “negò insistentemente che lo schema fosse una fedele rappresentazione della realtà capitalistica”[13], sostenendo che nell’esposizione degli schemi di riproduzione non si sarebbe tenuto in debito conto dell’esistenza di un fuori, ossia di un’inevitabile necessità del capitalismo di ricorrere a sistemi non capitalistici da sfruttare, espropriare, saccheggiare e rapinare. Secondo la Luxemburg, Marx non avrebbe avuto l’accortezza di considerare la differenza tra gli schemi della riproduzione allargata in grado di riflettere un ipotetico capitalismo teorico colto nella sua purezza, in quanto composto esclusivamente da capitalisti e operai, e le dinamiche storiche dell’accumulazione e dell’imperialismo. Ancora nell’anticritica, l’appendice rivolta agli epigoni della teoria marxista, la Luxemburg, a sottolineare che il processo di accumulazione del capitale richiede incessantemente un corrispondente allargamento di mercati di sbocco, scrive: “Gira e rigira, finché si rimane fissi all’ipotesi che nella società non esistano strati al di fuori dei capitalisti e dei lavoratori, riesce impossibile ai capitalisti come classe di smaltire le loro merci eccedenti per trasformare il plusvalore in denaro e così accumulare capitale. Ma l’ipotesi marxiana è solo un’astrazione teorica destinata a semplificare e facilitare l’indagine. In realtà, la produzione capitalistica, come tutti sanno e come lo stesso Marx mette in rilievo nel Capitale, non è affatto l’unica, né il suo dominio è esclusivo e totale. (…) Infine, accanto all’Europa e all’America del Nord capitalistiche, esistono giganteschi continenti nei quali la produzione capitalistica ha appena cominciato a metter radici in piccoli punti sparsi, mentre per il resto i loro popoli presentano tutte le forme economiche possibili, dalla comunistica primitiva alla feudale, contadina, artigiana. Tutte queste forme sociali e produttive vivono e sono vissute non soltanto in pacifica contiguità spaziale col capitalismo, ma fin dall’inizio dell’era capitalistica si è sviluppato fra loro e il capitale europeo un attivo e particolare ricambio organico”[14]. Da qui la considerazione che il modo di produzione capitalistico non avrebbe la forza di determinare una domanda aggiuntiva in grado di porre le condizioni per una riproduzione allargata e, dunque, per l’accumulazione. Di conseguenza, esso sarebbe portato a cercare uno sbocco attraverso il quale provvedere al collocamento del sovraprodotto. Se è vero che a questa osservazione si è risposto che il capitalismo, nella determinazione di una domanda in grado di indurre l’accumulazione, si serve sia della richiesta di un surplus di beni di consumo da parte dei salariati sia di un surplus di investimenti da parte dei capitalisti, potendo risolvere pertanto la questione senza la necessità di ricorrere per lo smercio futuro ad un fuori rispetto agli ambiti I e II, è pur vero che oggi sono a tutti chiari e evidenti processi di accumulazione capitalistica che sembrano fondarsi sulla penetrazione e incursione, si potrebbe dire sulla colonizzazione mercificante, di spazi geografici e ambiti della vita ancora non del tutto assoggettati al modo di produzione. “Ma che cosa e chi sono gli acquirenti del sovraprodotto di I e II? Anche solo per realizzare il plusvalore di I e II, è necessario, secondo quanto abbiamo detto, che sia già presente uno sbocco all’infuori di I e II. Ma quello che si sarebbe così ottenuto è soltanto la conversione del plusvalore in denaro. Perché il plusvalore realizzato possa esser fatto ulteriormente servire all’allargamento della produzione, all’accumulazione, è necessaria la prospettiva di uno smercio futuro ancor maggiore, pur esso all’infuori di I e II. Il collocamento del sovraprodotto deve dilatarsi anno per anno della frazione accumulata di plusvalore. O, viceversa, l’accumulazione può compiersi solo nella misura in cui lo smercio al di fuori di I e II si allarga”[15]. L’accumulazione del capitale è legata ad ambienti non-capitalistici, dice la Luxemburg. Per questa ragione, fin dalle origini del capitalismo si determinò, fra il modo di produzione e il fuori non-capitalistico, un rapporto di scambio che permise al capitale di realizzare il proprio plusvalore ai fini di un’ulteriore capitalizzazione in denaro, di approvvigionarsi delle merci indispensabili per l’allargamento della sua produzione e, infine, di integrare e assimilare nuova forza-lavoro ridotta a una condizione di proletarizzazione tramite la dissoluzione delle forme di produzione non-capitalistiche[16]. “Lo stesso schema della riproduzione allargata, a osservarlo più da presso, ci rinvia, in tutti i suoi rapporti, a condizioni che escono dal quadro della produzione e accumulazione capitalistiche. Abbiamo finora considerato la riproduzione allargata da un solo punto di vista, cioè dalla domanda: come si realizza il plusvalore? È di questa difficoltà che gli scettici si erano finora esclusivamente occupati. In realtà, la realizzazione del plusvalore è per l’accumulazione capitalistica problema di vita. (…) la realizzazione del plusvalore richiede come prima condizione un cerchio di acquirenti all’infuori della società capitalistica. (…) L’essenziale è che il plusvalore non può essere realizzato né da lavoratori né da capitalisti ma da strati sociali o da società che non producono capitalisticamente”[17]. Il problema, per Rosa Luxemburg, non si risolve contrapponendo soltanto all’analisi del processo di accumulazione in un sistema puro, chiuso, e astratto, una trattazione che tenga conto della configurazione storicamente determinata del capitalismo. Per pagine e pagine, nella terza parte del suo libro, la rivoluzionaria polacca si sofferma a analizzare il fatto che il capitalismo non solo si origina entro un ambiente o contorno non-capitalistico ma si sviluppa e si alimenta costantemente in esso, anche nell’epoca del capitalismo contemporaneo. Marx ha sapientemente illustrato, nel capitolo XXIV del primo libro del Capitale dedicato alla cosiddetta accumulazione originaria, la scaturigine del modo di produzione capitalistico come effetto della transizione dal modo di produzione feudale. La Luxemburg afferma che l’ambiente e il contorno non-capitalistici non si configurano come condizioni di possibilità riferibili storicamente alla sola fase iniziale del capitalismo ma rappresentano la condizione di esistenza e, ad un tempo, il limite da superare, in ogni fase di sviluppo del capitalismo. “Senonché, anche nella sua maturità piena, il capitalismo è legato in ogni suo rapporto all’esistenza contemporanea di strati e società non-capitalistici. Questo rapporto non è esaurito dalla semplice questione del mercato di sbocco per la «produzione eccedente», sollevata da Sismondi e dai successivi critici e scettici dell’accumulazione capitalistica. Il processo di accumulazione del capitale è legato alle forme di produzione non-capitalistica attraverso tutti i suoi rapporti materiali e di valore: capitale costante, capitale variabile, plusvalore; ed esse formano l’ambiente storico dato in cui quel processo si svolge. L’accumulazione non solo non può essere raffigurata nel presupposto del dominio esclusivo ed assoluto del modo di produzione capitalistico, ma è addirittura impensabile sotto ogni aspetto senza un ambiente non-capitalistico”[18]. A convalidare questa lettura della relazione di ricambio organico tra accumulazione del capitale e contesti, ambienti e forme non-capitalistiche come una relazione continua e incessante contribuiscono anche le seguenti osservazioni luxemburghiane: “Comunque sia, l’accumulazione del capitale come processo storico è di fatto orientata, in tutti i suoi rapporti, verso strati e forme sociali non-capitalistiche. (…) La soluzione sta, nel senso della dottrina marxiana, nella contraddizione dialettica per cui l’accumulazione capitalistica esige come ambiente per il suo sviluppo formazioni sociali non-capitalistiche, procede innanzi in un continuo ricambio organico con esse, può esistere solo finché trova intorno a sé quell’ambiente”[19]. Secondo Rosa Luxemburg, si è visto, l’accumulazione in un ambiente esclusivamente capitalistico risulta impossibile. Ora, non è forse questo il luogo per appurare se la critica svolta dalla rivoluzionaria polacca agli schemi di riproduzione del secondo libro del Capitale colga nel segno. In questa sede è sufficiente limitarsi al fatto che tra i meriti da ascrivere all’analisi marxiana del processo di riproduzione sociale vi è quello relativo alla critica della teoria di Adam Smith che, tra i fattori del processo di produzione sociale totale, contemplava esclusivamente il capitale variabile e il plusvalore ma non il capitale costante. Vale comunque la pena rammentare quali fossero le ragioni che spinsero Rosa Luxemburg a impegnarsi così a fondo nella sua formulazione della teoria dell’accumulazione del capitale. Piuttosto che concentrarsi su Marx, nei confronti del quale Rosa Luxemburg non può che avere parole di profonda ammirazione, la sua polemica, sempre leale e cristallina, si volge nei confronti di chi, all’interno della II Internazionale, ha ridotto l’apparato teorico e l’insegnamento marxiano a una vuota e ridondante giaculatoria avulsa dai problemi concreti della vita reale. Come se, lo ricorda Oskar Negt, si scontrassero, sotto questo rispetto, due prospettive incommensurabili, quella dell’analisi logico-sistematica dei filologi marxisti e quella storico-empirica della Luxemburg[20]. In realtà, la critica della Luxemburg era rivolta a quella autoproclamatasi ortodossia marxista che, imbevuta di idee positivistiche, avanzava la certezza che si sarebbe automaticamente transitati dal capitalismo al socialismo, per l’aggiunta in modo indolore e per via pacifica. E senza, peraltro, la necessità di un intervento soggettivo. Un orizzonte da traguardare che non poteva che risultare paradossale, se si pensa che una tale certezza sarebbe di lì a poco naufragata di fronte alla immane tragedia della Grande Guerra. Al cospetto dell’acquiescenza attendista e del tatticismo dal corto respiro della Socialdemocrazia tedesca, Rosa Luxemburg non solo esprimeva con forza la tesi che il fenomeno storico dell’imperialismo, stante la difficoltà di realizzazione del plusvalore, derivava dagli squilibri incontrati dall’accumulazione capitalistica. Ma, faccenda ancor più travolgente, denunciando l’atteggiamento passivo proprio del riformismo socialdemocratico, ispirava la concreta possibilità che il mondo del lavoro e degli sfruttati si facesse parte attiva nella lotta al capitalismo, individuando le condizioni di possibilità in grado di determinare per via rivoluzionaria un intervento soggettivo capace di porre rimedio a potenziali ed esiziali derive catastrofiche della civiltà occidentale e dell’intero pianeta. IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE NON CONOSCE LIMITI Rosa Luxemburg afferma che, in senso sociale, per ricchezza si intende la somma dei valori d’uso prodotti non soltanto dal lavoro ma anche dalla natura che fornisce al lavoro umano la materia su cui si esercita e lo alimenta con le sue forze[21]. Si tratta, per citare il Marx del libro I del Capitale, di un dono gratuito della natura costituito, ribadisce la rivoluzionaria polacca, “in primo luogo della terra, con tutte le ricchezze minerarie del sottosuolo, coi campi, le foreste e le acque in superficie, col patrimonio zootecnico dei primitivi popoli allevatori”[22]. L’attenzione per il mondo della natura, quale grande patrimonio da salvaguardare perché in stretta relazione con la sopravvivenza stessa della vita umana, è un tratto caratteristico presente in molti degli scritti della rivoluzionaria polacca. È possibile rintracciare questa spiccata e preoccupata consapevolezza ecologica per le conseguenze distruttive del modo di produzione capitalistico sulla natura anche in molti luoghi de L’accumulazione del capitale. Come se la presa in carico dei problemi relativi alle aspirazioni di emancipazione e liberazione degli oppressi e quelli relativi alla distruttività dell’ecosistema da parte dei meccanismi di riproduzione economica andassero di pari passo. “Il capitale non può fare a meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero globo; ha, per l’illimitato svolgimento del suo moto di accumulazione, bisogno delle ricchezze naturali e delle forze di lavoro di tutta la terra. (…) ne viene il poderoso impulso del capitale ad impossessarsi di tutte le terre e di tutte le società”[23]. Secondo Rosa Luxemburg, uno dei grandi meriti di Marx consiste nell’aver posto il problema della riproduzione del capitale sociale, ossia di avere di fatto approfondito l’indagine sulle modalità del rinnovarsi del dispositivo che ne costituisce il tratto distintivo, ossia quello della dinamica di consumo e produzione. In questa prospettiva un ruolo importante è assunto dal raggiungimento da parte della società di un certo grado di controllo sulla natura, controllo che viene realizzato in termini economici attraverso la produttività del lavoro. Marx ha rivelato come, per la produzione capitalistica, la produzione di merci, lungi dall’essere il fine, è il mezzo attraverso il quale si perviene all’appropriazione di plusvalore. “Scopo e motivo animatore della produzione capitalistica non è infatti il plusvalore come tale, (…) ma un plusvalore senza limiti, in progressione continua, in quantità sempre crescenti, e ciò si può ottenere soltanto con lo stesso mezzo magico: con la produzione capitalistica, cioè con l’appropriazione di lavoro salariato non pagato nel processo della produzione di merci e con la realizzazione delle merci così prodotte. La produzione sempre rinnovata, la riproduzione come fenomeno normale, trova dunque nella società capitalistica un motivo determinante del tutto nuovo, sconosciuto in qualunque altra forma di produzione”[24]. Infatti, se per tutte le altre formazioni sociali, che si sono date storicamente, l’elemento determinante la riproduzione economica è costituito dal soddisfacimento dei bisogni primari tramite un consumo mai interamente realizzato, nel caso della riproduzione capitalistica il fattore decisivo è dato dalla domanda solvibile come mezzo finalizzato alla realizzazione del plusvalore. Certo, nel modo di produzione capitalistico è comunque contemplata la produzione di merci di consumo in grado di soddisfare una domanda solvibile. Ciò malgrado, l’appropriazione di plusvalore è il motivo determinante che spinge a rinnovare lo svolgersi della circolazione e della riproduzione. “Questo processo di appropriazione può essere accelerato in un solo modo: allargando la produzione capitalistica, che appunto crea il plusvalore. (…) Ne risulta che il modo di produzione capitalistico genera non soltanto una continua spinta alla riproduzione, ma anche una spinta al continuo allargamento della riproduzione, alla ripresa della produzione su scala ogni volta maggiore”[25]. Ne L’accumulazione del capitale compare, per illustrare, in modo creativo e efficace a un tempo, il tema della riproduzione allargata, un’immagine suggestiva e perturbante, capace, se ci si pensa bene, di ingenerare un sentimento di tragica e soffocante ansietà. È l’immagine di una spirale in continuo sviluppo, che la Luxemburg mutua da Sismondi, a significare l’incessante, continuata e inarrestabile riproduzione del capitale totale sociale. “Se infatti la riproduzione semplice è paragonabile a un circolo percorso sempre sulla stessa traccia, la riproduzione allargata somiglia, per usare l’immagine di Sismondi, a una spirale in continuo sviluppo”[26]. L’accumulazione del capitale, una volta iniziata, si spinge meccanicamente innanzi, dice ancora la Luxemburg. L’ossessiva e martellante ricerca di un profitto sempre crescente, in grado di sopravanzare il capitale investito, costringe il capitalista a misurarsi con la perpetua necessità di allargare la produzione e, con essa, lo sfruttamento. La produzione capitalistica si estende sempre di più, assomigliando, quasi fosse regolamentata da una legge meccanica matematicamente misurabile, a una spirale in ininterrotta tensione verso l’alto: “Il cerchio si è trasformato in una spirale tesa sempre più verso l’alto, come sotto la pressione di una legge naturale matematicamente misurabile”[27]. Rosa Luxemburg non manca di precisare che anche la produzione capitalistica, come tutte le altre forme storiche di produzione, si pone l’esigenza di rispondere, attraverso l’offerta di merci, alla domanda espressa dai bisogni della società. Del resto questa è la condizione che permette alle merci stesse di subire quella metamorfosi che consente loro di trasformarsi in denaro e al capitalista di accumulare profitto in forma monetaria destinato alla capitalizzazione e all’accumulazione. Tuttavia, il processo di riproduzione allargata funziona rispondendo a altre finalità che non a quelle di soddisfare la domanda solvibile. Lo scopo principale resta infatti quello, in regime di riproduzione allargata, dell’allargamento della sfera dell’accumulazione. Assomiglia a una giostra inarrestabile, che gira ininterrottamente estendendosi sempre di più e sottoponendo all’espansione mondiale del capitale tutto ciò che ancora non risulta colonizzato dalla logica dell’accumulazione. In regime di riproduzione allargata è implicito uno sviluppo del capitale inarrestabile e indefinito, uno sviluppo rivolto non soltanto a un allargamento della dimensione spaziale né tantomeno a una estensione della dimensione demografica ma la cui cifra è quella relazione di dominio economico e sociale in grado di addentrarsi fino alla colonizzazione delle coscienze e arrivare fino all’omologazione del vissuto degli individui. Da qui lo sfruttamento perpetuo di tutte le risorse naturali, di tutte le ricchezze offerte gratuitamente dalla natura. L’intero orbe terracqueo, dice la Luxemburg, diventa un sostrato inerte di cui appropriarsi impunemente per disporre di un illimitato ventaglio di opzioni da individuare in funzione delle diversificate esigenze di sfruttamento delle forze produttive: “D’altra parte, il continuo aumento della produttività del lavoro come principale metodo di elevazione del saggio del plusvalore implica l’utilizzazione illimitata di tutte le materie e risorse messe a disposizione dalla natura e dalla terra, ed è legata ad essa. Sotto questo aspetto il capitale non tollera, per sua natura e modo di esistenza, limitazioni di sorta. (…) La produzione capitalistica si basa fin dalle sue origini, nelle sue forme e leggi di sviluppo, sull’intero orbe terracqueo come serbatoio delle forze produttive. Nella sua spinta all’appropriazione delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tutto il mondo, si procura mezzi di produzione da tutti gli angoli della terra, li conquista o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme sociali. (…) Per l’impiego produttivo del plusvalore realizzato è necessario che il capitale abbia sempre più a disposizione l’intero globo in modo da avere una possibilità quantitativamente e qualitativamente illimitata di scelta nei suoi mezzi di produzione”[28]. È il tema dell’assenza di limiti al processo di valorizzazione e accumulazione, che porta il capitale a saturare tutti gli ambiti e le sfere dell’esistenza e a coincidere tendenzialmente con l’intero pianeta. Si tratta di una tendenza che è immanente al modo di produzione capitalistico e che, potenzialmente, come individua per tempo la Luxemburg, è foriera di esiti catastrofici. Ma la previsione di una possibilità di esiti catastrofici non va scambiata con la convinzione che il capitalismo sia orientato irreversibilmente e deterministicamente alla rovina e al tracollo definitivi. Qui si corre il rischio, come supponevano, per citare ancora la Luxemburg, gli epigoni marxisti della II Internazionale, di intendere lo svolgimento storico come caratterizzato da un esito finalisticamente già predeterminato. Il fatto è che, piuttosto che significare necessariamente il crollo automatico e definitivo del sistema, la crisi coincide con la capacità del modo di produzione di superare gli squilibri e le sproporzioni per recuperare ad un livello differente, anche se spesso in maniera traumatica, una condizione di restaurato e implementato equilibrio complessivo. Che questo equilibrio complessivo venga raggiunto a spese della totalità naturale e a mezzo dello sfruttamento dell’intera umanità soggiogata e oppressa non rappresenta, dal punto di vista del capitale, una valida ragione perché esso debba arrestare la propria logica riproduttiva. Quel che è certo è che la crisi apre alla possibilità di un cambiamento radicale. Ma questa potenzialità di cambiamento, tuttavia, non può configurarsi come uno sbocco storico necessario e deterministicamente orientato. Essa si traduce in realtà sempre che emerga quella soggettività in grado di cogliere l’occasione per imprimere una svolta allo svolgimento degli eventi e fissare nella dimensione dell’alternativa storica, per dirla con Rosa Luxemburg, lo sbocco verso cui orientare l’urto decisivo e generale contro la dominazione capitalistica[29]. Note: [1] R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo. Appendice. Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, Pgreco Edizioni, Milano, 2012. [2] O. Negt, Rosa Luxemburg e il rinnovamento del marxismo, p.331 in AA.VV, Storia del marxismo, Vol. 2, Il marxismo nell’Età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino, 1979, pp.315-355. [3] K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro II, Editori Riuniti, Roma, 1989, p.511. [4] Ivi, p.516. [5] Ivi, p.518. [6] Ivi, p.517. [7] Ivi, pp.526-527. [8] Ivi, p.518. [9] Ibid. [10] Ivi, p.522. [11] Ivi, p.516. [12] Ivi, p.515. [13] P. M. Sweezy, Introduzione in L’accumulazione del capitale, cit., p.XVII. [14] R. Luxemburg, Una anticritica in L’accumulazione del capitale, cit., pp.487-488. [15] R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, cit., p.124. [16] Ivi, p.488. [17] Ivi, p.345. [18] Ivi, p.360. [19] Ivi, p.361. [20] O. Negt, Rosa Luxemburg e il rinnovamento del marxismo, cit., p.331. [21] R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, cit., pp168-169. [22] Ivi, p.365. [23] Ivi, p.360. [24] Ivi, pp.15-16. [25] Ivi, p.17. [26] Ivi, p.100. [27] Ivi, p.103. [28] Ivi, pp.351-352. [29] Ivi, p.586.
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22/3/2019
di Marco Palazzotto
Uscire o non uscire dall’Euro? Questo il dilemma. Per Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua la risposta non è né sì né no, ma “mu”: parola giapponese che rappresenta un terzo termine logico possibile il cui significato è “non fare la domanda”. Viene usato quando il contesto della domanda “diviene troppo angusto per la verità della risposta”. Così gli autori di Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea – edito da Rosenberg & Sellier (in distribuzione dallo scorso mese) – rispondono alla famosa domanda: usano le parole di Robert Pirsig in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, affermando che l’uscita dall’Euro è la risposta alla domanda sbagliata. Il libretto può sembrare l’ennesimo saggio sull’Euro, argomento ormai inflazionato e intorno al quale siamo abituati a leggere almeno dallo scoppio della crisi dei subprime. Invece, si tratta – a dispetto delle sole 159 pagine – di un testo ricco di spunti di ricerca poco esplorati dai maggiori commentatori europei. In particolare i bersagli critici sono rappresentati dai due filoni principali di interpretazione della crisi europea: quella dominante e quella cosiddetta eterodossa, ai quali viene dedicata la prima parte del volume. Entrambi i suddetti filoni mettono al centro dello studio, anche se in modo diverso, gli squilibri commerciali. Dalle istituzioni europee e monetarie, ma anche da numerosi studiosi, particolare attenzione, al fine di assicurare la stabilità europea, è stata data alla disciplina di bilancio, alla politica monetaria di bassa inflazione, all’integrazione e sviluppo dei mercati finanziari. Secondo le teorie neoclassiche gli squilibri commerciali nei paesi con redditi più bassi “sarebbero la conseguenza del processo di convergenza” (p. 27). Col tempo però anche nella narrazione ufficiale, gli squilibri commerciali hanno conquistato una posizione più importante assieme al debito pubblico: essi sono stati visti come il risultato della mancata applicazione di prezzi flessibili e di politiche fiscali non solide. Le analisi eterodosse ritengono “improbabile che integrazione monetaria e liberalizzazione del mercato dei capitali possano portare alla convergenza delle economie” (p. 32). Rispetto alla crisi dell’euro gli autori individuano due diversi filoni eterodossi. Secondo una prima visione l’architettura istituzionale della moneta unica ha contribuito ad aggravare le divergenze tra i paesi membri. Al momento della nascita dell’euro le valute dei paesi periferici sono state sopravvalutate nei confronti delle valute del centro Europa. Ciò ha comportato un processo asimmetrico di integrazione che ha influenzato la capacità della periferia di competere sui mercati finanziari, creando squilibri nelle partite correnti. Una delle critiche più dure proviene dalla scuola postkeynesiana che utilizza l’approccio dei saldi settoriali [1] (Wynne Godley). Un secondo filone eterodosso discute di crisi europea in un contesto in cui il capitalismo è dominato dalla finanza e i paesi periferici che non si integrano nella zona euro hanno dei problemi di bilancia dei pagamenti che aggravano anche i debiti sovrani. Gli autori del volume proseguono nell’analisi della crisi fornendo un punto di vista diverso rispetto agli approcci incentrati sugli squilibri commerciali appena discussi. La tesi principale riguarderebbe il ruolo della moneta e della finanza, affrontati solo parzialmente dalle scuole di cui abbiamo detto. La moneta viene così vista come categoria avente vita propria, determinando tutte “le caratteristiche essenziali del processo capitalistico” (p. 41). Quindi il ruolo della moneta non può essere ridotto a un velo o elemento distorsivo delle dinamiche attinenti il mondo dei beni. Viene in pratica sostenuta una teoria macro-monetaria della produzione capitalistica, in cui nel circuito produttivo la banca crea il credito endogenamente, pari al valore della produzione/spesa futura. Pertanto gli squilibri delle partite correnti vanno analizzati da un punto di vista innanzitutto monetario, attento alle sorgenti di finanziamento. Vale la famosa affermazione postkeynesiana, ripresa anche da Jan Toporowski, secondo cui sono gli impieghi bancari a creare i depositi, e non viceversa come sostenuto dalle teorie neoclassiche. Quando la moneta viene spesa, investimenti e produzione vengono messi in movimento. I relativi redditi prodotti alla fine del circuito possono essere così risparmiati. È così che si crea risparmio. Questa impostazione chiarisce che il finanziamento è indipendente rispetto ai saldi di conto corrente (saldo positivo = finanziamento, saldo negativo = indebitamento). Riguardo a queste riflessioni il pensiero di Augusto Graziani aiuta a chiarire. La liquidità che fa partire l’investimento non proviene dalla mera posta contabile che è il risparmio, ma da una decisione di finanziamento tramite il credito. I saldi di bilancia dei pagamenti quindi sono “l’esito a posteriori di decisioni ex ante” (p. 46). Ritorniamo alle due interpretazioni della crisi affrontate nei primi capitoli: il filone dominante vede il problema nella mancanza di risparmio nella periferia; il filone eterodosso nell’eccesso di risparmio nei paesi centrali. La coincidenza tra bilancia commerciale e bilancia dei capitali sembra quindi improbabile. Un’autentica analisi monetaria deve quindi vedere l’economia non solo come reddito, ma anche come un complesso sistema di stati patrimoniali, attraversato da flussi di portafoglio (punto colto da Hyman Minsky). Per capire la crisi gli autori scavano ancora più a fondo. I saldi settoriali ci allertano su quali settori sono in avanzo o disavanzo verso altri; invece il processo di cambiamento in Europa riguarda un rapporto più complesso, quello tra capitale e lavoro. Quello che è successo rappresenta la realizzazione della profezia di Kalecki, cioè l’attuazione di uno “sciopero del capitale per reagire alle contraddizioni originate da una temporanea politica di pieno impiego” (p. 53), come avvenne tra la fine degli anni ’60 e inizio anni ’70. Da fine anni ‘70 e continuando negli anni ’80, con un inasprimento durante gli anni della caduta del muro di Berlino, viviamo un continuo indebolimento della classe lavoratrice, rafforzato anche grazie alla creazione di nuove reti produttive dominate da imprese leader tedesche. Le due reti commerciali principali in Europa sono: Germania e Francia, Grecia, Italia, Spagna e Portogallo, da una parte. La seconda include tutti gli altri paesi della UE (Celi-Ginzburg-Guarascio-Simonazzi, 2017). L’Italia è quindi al centro di questo interscambio internazionale. Questa catena transnazionale del valore che vede la dominanza dell’industria tedesca, oggi è attraversata da un processo di innovazione tecnologica che l’UE sostiene (insieme a Cina e USA) attraverso il progetto Industria 4.0. L’obiettivo principale è la digitalizzazione della manifattura su scala globale. Il progetto è, prima di tutto, un progetto politico tedesco, che ha lo scopo di allargarlo a tutta l’Europa evitando però che gli altri paesi raggiungano la stessa capacità produttiva (p. 62). Queste dinamiche di centralizzazione senza concentrazione e di concorrenza neomercantilistica hanno causato un eccesso di capacità produttiva che si è palesata attraverso una crisi di sovrapproduzione, di eccesso di offerta in settori chiave (p. 66). La tanto discussa soluzione di obbligare il centro Europa ad una reflazione, cioè ad un aumento di domanda interna in Germania, proporzionando meglio redditi e produttività, non sarebbe una valida soluzione perché ogni aumento di domanda “verrebbe trasmesso in primo luogo al sistema tedesco di produzione transnazionale, alla sua catena del valore, mentre la sua capacità di tracimare verso aree meno centrali è tutta da dimostrare” (p. 72). Sia l’analisi dominante che quella eterodossa mettono al centro l’euro come fattore determinante per l’accumularsi degli squilibri commerciali. Gli eterodossi inoltre interpretano l’euro come il prodotto di un disegno di sfruttamento di paesi del centro verso la periferia. Gli autori sostengono che “centro” e “periferia” sono categorie fuorvianti, che nascono sulla base delle condizioni delle partite correnti. Inoltre, l’euro fa parte di una strategia più ampia di riorganizzazione dei singoli capitali con lo scopo di comprimere i diritti dei lavoratori attraverso “l’accelerazione della liberalizzazione finanziaria e la maggiore esposizione delle economie nazionali alla concorrenza internazionale” (p. 81). Proprio per questi mutamenti gli autori pensano che occorre abbandonare un’ottica strettamente nazionale. L’argomento-chiave del ragionamento sviluppato nel libro è il ruolo dei flussi finanziari negli squilibri. Mentre di solito i flussi finanziari vengono visti come amplificatori di difficoltà preesistenti, qui si afferma che rappresentano il fattore cruciale nel determinare le dinamiche squilibranti che conosciamo, anche nei saldi di bilancia dei pagamenti. Considerato che il processo di integrazione finanziaria che oggi conosciamo è cominciato già a partire dai primi anni ’90, le strategie di rottura dell’unione monetaria diventerebbero problematiche, soprattutto perché, in un momento di crisi dalla quale non siamo ancora usciti, porterebbero a piùe non a meno austerità. Come uscirne allora? Nella seconda parte del testo Bellofiore e Garibaldo auspicano un intervento sul lato dell’offerta e della struttura produttiva, magari attraverso uno stato imprenditore e innovatore, facendo proprio il ragionamento della Mazzucato [2]. Ciò di cui c’è bisogno è un nuovo New Deal, in cui il settore pubblico intervenga sul cosa, come e quanto produrre, facendosi occupatore diretto della forza lavoro. Occorre un piano del lavoro; una socializzazione dell’investimento, dell’occupazione e della finanza; promozione di disavanzi attivi di bilancio pubblico. Nella parte conclusiva del libro si propone di mettere in moto un processo che inverta la rotta dentro l’assetto attuale, “utilizzando politiche industriali, fiscali e redistributive che si rivelino via via possibili” (p. 112). Occorre però pensare anche in grande, verso una nuova fase costituente. Il vero assente è il processo che connetta resistenza sociale e alternativa economica e politica su scala europea. Bisogna rompere con il gioco delle identificazioni che si impantana nella discussione pro o contro euro, ovvero difendere l’attuale configurazione o tornare agli stati-nazione. Invece è utile guardare alle unificazioni delle classi subalterne grazie a lotte comuni, cercando di “europeizzare” il conflitto sociale. 1. I saldi, o bilanci, settoriali indicano le entrate e le perdite di un sistema economico statale a partire dai sottosistemi che lo compongono. Ogni economia può essere suddivisa in tre macrosettori, ossia quello governativo (pubblico), quello non governativo (privato) e quello estero. Il primo comprende lo stato centrale e le varie amministrazioni locali; il secondo si compone di individui, famiglie, imprese, assicurazioni e banche; mentre l’ultimo riguarda il rapporto economico con gli altri paesi. Ognuno di essi presenta dei flussi finanziari in entrata ed in uscita e per questo vanno visti come interconnessi. 2. Mariana Mazzucato è una economista con doppia cittadinanza italiana e statunitense. Insegna economia all’Institute for Innovation and Public Purpose (IIPP) alla University College London (UCL). Le sue intuizioni sui ruoli di imprenditore e innovatore delle istituzioni pubbliche si trovano anche nel suo libro edito in Italia Lo Stato innovatore, Laterza, 2014. CAPITALE DISUMANO E LAVORO SALARIATO
15/3/2019
di Tommaso Cumbo
[ Questo articolo è la rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione del seminario “Il Capitale disumano” tenutosi il 14 novembre 2018 presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma 3, dedicato a un confronto con Roberto Ciccarelli, autore del volume Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Manifesto Libri 2018. Alla discussione con l’autore hanno partecipato – oltre a Cumbo – Massimiliano Fiorucci, Edoardo Puglielli, Francesco Maria Pezzulli e Maurizia Russo Spena. ] L’alternanza disumana? Il testo di Ciccarelli coglie i tratti salienti, con dovizia di informazioni che derivano da testi di legge, documenti programmatici, letteratura specialistica, etc – dell'ideologia del capitale umano [1], un concetto che ha come correlato, nel campo dei servizi di supporto alla carriera dei giovani in uscita dai percorsi di studio post-secondari, quello di ‘employability’ [2]. L’employability può essere declinata come l’insieme delle competenze (con particolare importanza di quelle cosiddette trasversali) che un giovane deve possedere per affrontare con una solida corazza, in autonomia, le turbolenze del mercato dela lavoro contemporaneo. D’altra parte da alcuni decenni, con il tramonto dello Stato Sociale del dopoguerra, la disoccupazione e la ricerca di un lavoro sono sempre più diventati un problema individuale, tanto che possiamo parlare di un diritto del lavoro che nel nostro paese, come in altri paesi europei, ha subito una curvatura da diritto sociale a diritto di libertà [3]. Ossia da un diritto garantito in forma diretta o indiretta dallo Stato, si è passati a un diritto a cercare un lavoro e mantenerlo, con un supporto dello Stato che è circoscritto al campo delle cosiddette politiche attive con azioni di orientamento, formazione, supporto all’incontro domanda-offerta, etc. All’interno di questo contesto si inserisce l’Alternanza scuola lavoro, che come è noto si trova in una fase di sostanziale revisione legislativa dal nuovo governo, con l’abolizione dell’obbligatorietà, e che non va demonizzata come sfruttamento – nonostante le distorsioni alle quali abbiamo assistito. L’alternanza, a certe condizioni, può essere un’esperienza formativa (ricordiamo che può essere svolta anche in enti pubblici, del privato sociale, etc), che aiuta il giovane a entrare in contatto non solo con il mondo del lavoro, ma con esperienze concrete che possono agire positivamente sul percorso di crescita. Non è un caso che un attento e critico conoscitore del sistema scolastico, come il Maestro Franco Lorenzoni, abbia invitato a valutare l’Alternanza nei fatti, ritenendo che essa possa essere anche utile [4]. Per quanto riguarda il fatto che l’alternanza prepari anche al mondo del lavoro, senza che si trasformi già in lavoro naturalmente, non deve destare scandalo, visto che la condizione che i giovani si preparano ad affrontare è proprio quella di cercare – terminato il percorso di studi – un lavoro salariato, nella speranza di trovarlo! La scuola infatti propone un modello di acculturazione di base coerente con le forze dominanti (in questo caso il Capitale) che operano nella società. Il passaggio storico nel quale ci troviamo: la necessità di redistribuire il lavoro Questo è forse il punto problematico su cui l’interessante libro di Ciccarelli stimola una riflessione. L’autore correttamente indica negli anni ’70 il periodo di avvio di un mercato del lavoro sempre più precario; ma quel periodo segue proprio la fine dello ‘Stato Sociale Keynesiano’ del dopoguerra, che ad avviso di chi scrive era stata una prima risposta al problema della difficoltà crescente del sistema capitalistico a riprodurre il lavoro salariato [5] . Un passaggio che Ciccarelli non considera rilevante, tanto da ritenere che il fenomeno dell’innovazione tecnologica possa sfociare solo nell’effetto paradossale di generare più posti precari: “il lavoro è una produzione che cambia in base alla domanda: oggi è altissima e riguarda il lavoro a termine e occasionale”. Ma il lavoro diminuisce con l’innovazione tecnologica: la moltiplicazione dei lavoretti precari è lo specchio dell’incapacità/resistenza del sistema produttivo a impiegare in forme alternative la capacità produttiva generata dall’innovazione, a creare uno spazio sociale nel quale gli individui possano imparare a praticare forme di produzione emancipate dalla subordinazione al capitale e allo stato [6] D’altra parte, pur essendoci le condizioni per cominciare ad usare alternativamente al Capitale e al lavoro salariato tale capacità produttiva, non si vedono al momento un percorso politico e sociale e una forza soggettiva in capo agli individui in grado di esprimere una pratica produttiva differente. Ciò che per Ciccarelli è qualcosa già presente nella società tanto da poter essere sancito da un diritto a un reddito di esistenza per tutti e incondizionato [7], è qualcosa che piuttosto va considerato un obiettivo da raggiungere. Non siamo in una fase in cui sappiamo già produrre in modo alternativo al lavoro salariato. Dobbiamo conquistare collettivamente una capacità di realizzare tutto il lavoro necessario e scambiare i prodotti di questo lavoro (dal momento che è impensabile fare a meno di questo lavoro per riprodurre la società), per godere di un tempo liberato dalla necessità di dover vendere la nostra forza lavoro, “prendendo così le distanze” da quello che siamo adesso, secondo l’auspicio dell’Autore. [Tommaso Cumbo è un esperto di politiche e servizi della transizione tra istruzione e lavoro, membro dell'associazione Arela (Associazione per la redistribuzione del lavoro)] Note: 1. Secondo la definizione fornita dall’Ocse, il capitale umano è costituito dall’insieme delle conoscenze, delle abilità, delle competenze e delle altre caratteristiche individuali che facilitano la creazione del benessere personale, sociale ed economico. Per Ciccarelli tale definizione ideologica edulcora la realtà dell’imposizione di un modello di esistenza fondato sull’incessante autosfruttamento alla ricerca di un lavoro che spesso è precario. Il principale promotore della teoria del capitale umano è l’economista e premio nobel Gary Becker, il quale in occasione del Festival dell’economia di Trento del 2007 sottlineò che “Il successo e la crescita saranno in quei Paesi che sapranno investire nei propri cittadini. Perché il capitale umano è sempre più importante; perché non basta possedere petrolio e materie prime per prosperare; perché le persone e non le risorse o le macchine determinano già, ma lo faranno sempre di più, la nostra ricchezza. Questa è la mia visione dell’umanità: le persone sono importanti” http://www.economia.rai.it/articoli/il-capitale-umano-nella-teoria-del-nobel-gary-becker/24814/default.aspx 2. Vedi ad esempio Mantz Yorke: Employability in higher Education what it is what it is not, 2006 https://www.researchgate.net/publication/225083582_Employability_in_Higher_Education_What_It_Is_What_It_Is_Not 3. Su questo passaggio, suggerisco la lettura di “A che cosa serve l'articolo 18” di Luigi Cavallaro, Manifesto Libri, 2012. 4. https://www.giuntiscuola.it/sesamo/a-tu-per-tu-con-l-esperto/i-bambini-pensano-grande/quali-esperienze-per-un-alternanza-sensata/ 5. Chi scrive fa parte dell’Associazione per la redistribuzione del lavoro (Arela), fondata da Giovanni Mazzetti, il quale da più di 30 anni cerca di mostrare come il problema che abbiamo davanti sia proprio la difficoltà del sistema di riprodurre il lavoro salariato. Naturalmente qui è possibile fornire non più di qualche suggestione del percorso teorico dell’associazione. 6. Vedi almeno Giovanni Mazzetti “Quel Pane da spartire. Teoria della necessità di redistribuire il lavoro” Torino 1997, edito dalla Bollati Boringhieri. 7. “Il reddito non è un compenso, ma il riconoscimento di un’attività in ragione di un diritto fondamentale dell’essere umano” (p. 217, Il capitale disumano). di Marco Palazzotto
Una carrellata delle pubblicazioni, uscite nel duecentenario dalla nascita di Marx, che analizzano il pensiero maturo del filosofo tedesco e ridanno centralità alla sua critica dell’economia politica. Una versione leggermente diversa dell’articolo è apparsa su Jacobin Italia L’anno appena trascorso sarà ricordato per il bicentenario della nascita di Karl Marx. Sono stati pubblicati in tutto il mondo numerosi scritti per ricordare le idee e la vita di uno dei più importanti pensatori della storia dell’umanità. Si è provato a rendere omaggio al “Moro” trattando di alcune pubblicazioni italiane che sono sembrate tra le più interessanti. Considerata la varietà e quantità degli argomenti affrontati in questi testi, ci si è limitati a cercare un fil rouge che li accomunasse, affinché se ne potessero ricavare delle riflessioni utili per analizzare il presente. Tale filo comune riguarderà il pensiero maturo di Marx e pertanto l’urgenza di riprendere la critica marxiana dell’economia. Si sorvolerà, per ragioni di spazio e tempo, sulle pubblicazioni biografiche. Marx, come sappiamo, ha vissuto gli ultimi anni intento a scrivere e a studiare in vista dell’opera che considerava la più importante e più faticosa. Soltanto una minima parte del suo lavoro sarà completata, e ciò che restituirà ai posteri è il primo libro del Capitale. Secondo e terzo libro saranno pubblicati postumi (dopo un personale rimaneggiamento) dall’amico e compagno di una vita Friedrich Engels. Tale opera – con i suoi scritti preparatori (come i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, noti anche come Grundrisse, e Per la critica dell’economia politica) e i manoscritti successivi – rappresenta la testimonianza e l’eredità di un intellettuale che ha voluto disvelare le leggi che regolano il modo di produzione capitalistico. Diversamente dall’approccio di un marxismo storicista, umanistico e progressista, che mette al centro la “politica”, come quello che ha caratterizzato buona parte del pensiero novecentesco italiano, ritengo fondamentale agganciare l’analisi della società moderna ai rapporti di produzione. Lo sfruttamento capitalistico – e la conseguente estrazione del valore utile all’accumulazione – non risiede negli apparati politici e in genere “sovrastrutturali”, ma è connesso al comando del lavoro nei processi produttivi. Se vogliamo palesare questi rapporti di sfruttamento, per combatterli, occorre studiare e capire l’economia di mercato, riprendendo oggi la marxiana critica dell’economia politica e restaurando, di conseguenza, una scienza del nuovo capitale, senza d’altra parte cadere – come pure talvolta è successo – in interpretazioni prettamente economicistiche. Per scrivere la sua opera Marx si è servito di un metodo espositivo (quello dialettico hegeliano, come lo stesso dichiara nella Postfazione alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale)[1] onde costruire una teoria del valore che gli consentisse di criticare l’economia politica del suo tempo (economia politica come scienza, che per Marx è quella classica di Smith, Malthus, Say, Ricardo, eccetera e non quella ‘volgare’)[2]. Marx è stato definito spesso come filosofo o economista o sociologo. Ritengo piuttosto, con Lucio Colletti[3], che sia presente in Marx una doppia attitudine: quella di economista “che indaga i meccanismi di funzionamento della società, e quello di critico dell’economia politica, che ne disvela il carattere rovesciato”, come evidenzia Gianluca Pozzoni in Il mondo mistico del Capitale. Scienza, critica e rivoluzione in Colletti (pag. 450 , n. 5 di Consecutio rerum, curato da Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani). Questa duplice attitudine del Moro disvela il doppio volto della teoria del valore, che da un lato spiega il funzionamento del modo di produzione capitalistico, e dall’altro – ma si tratta sempre della stessa teoria – “spiega l’equilibrio del sistema capitalistico e la contraddizione fondamentale – l’alienazione e il feticismo – su cui tale equilibrio si regge fragilmente” (ivi, p. 451). Riccardo Bellofiore nel suo editoriale premesso al suddetto numero di Consecutio rerum, intitolato C’è vita su Marx? “Il Capitale” nel bicentenario, dedica un intero paragrafo al sottotitolo dell’opera principale di Marx, ovvero: “Critica dell’economia politica”. L’oggetto di indagine per Marx è l’economia politica considerata come scienza che studia “l’intima connessione del capitale, e si spinge al di là della circolazione, per raggiungere il terreno della produzione”. Si tratta però di una scienza incompiuta e, per sfruttare il proprio potenziale scientifico, l’economia politica deve mutarsi in economia politica critica. La differenza tra “economia politica critica” e “critica dell’economia politica” è per Bellofiore sottile ma irrinunciabile. La prima risponde alla domanda: “In che modo produce il capitale?”. La seconda, più fondamentale per Marx, risponde alla domanda: “In che modo il capitale viene prodotto?”. Si prosegue con una considerazione sul ragionamento sostanziale che fa Marx nel primo libro del Capitale sulla critica dell’economia politica, che ha come fulcro la duplicità del lavoro (concreto e astratto) corrispondente alla duplicità della merce (valore d’uso e valore di scambio). L’economia politica classica – e in particolare Ricardo (con il quale Marx si confronta maggiormente e con il quale si sente più in sintonia riguardo alla teoria del valore) – si limitava al concetto di sostanza del valore arrivando alla grandezza di valore, ma non era in grado di sviluppare una teoria della forma di valore. In tal modo Ricardo non riuscì ad arrivare a concetti teoricamente convincenti di lavoro e denaro e di conseguenza alla differenza tra forza-lavoro e lavoro vivo[4]. Questi aspetti sono fondamentali nella critica dell’economia politica, se si vuole giungere a una definizione di capitale come rapporto sociale. Anche Tommaso Redolfi Riva nel suo saggio A partire dal sottotitolo del Capitale: Critica e metodo della critica dell’economia politica (sempre nel n. 5 di Consecutio rerum) rileva questa differenza tra economia politica e critica dell’economia politica sul concetto di lavoro e quindi su una differente teoria del valore. Infatti per l’economia politica classica la sostanza di valore non è lavoro concreto erogato nella produzione, è invece lavoro astratto “cioè il lavoro che attraverso lo scambio con denaro si conferma come parte del lavoro sociale complessivo”. Decisiva all’interno della teoria del valore di Marx, per capire la critica dell’economia politica e quindi tutto il primo libro del Capitale, è altresì la distinzione tra feticismo e carattere di feticcio. Il capitale, come il valore e il denaro, è realmente dotato di poteri sociali. Tali poteri non sono irreali, “illusori”, bensì “apparenti”, nel senso che rappresentano manifestazioni fenomeniche delle “cose come sono” nella loro “determinatezza storica specificatamente capitalistica” e in questo senso si può dire che il capitale rivesta carattere di feticcio. L’illusione che determina invece il feticismo coincide con la “naturalizzazione di questi poteri sociali che pertengono alle cose in quanto cose”. Da queste considerazioni nasce la famosa affermazione per cui le relazioni tra persone appaiono come relazioni tra cose: che è proprio ciò che di fatto si verifica. In questo senso “la critica dell’economia politica è, da un lato, critica del feticismo, e dall’altro, deduzione di tale feticismo a partire dall’esposizione dell’oggetto a cui il sapere dell’economia si rivolge: il carattere di feticcio che assume la socializzazione del lavoro nel modo di produzione capitalistico, il suo carattere oggettuale, è l’origine del feticismo dell’economia politica.” Un’altra interessante pubblicazione del 2018, che, diversamente dalle precedenti, cerca di spiegare a un pubblico di non-iniziati il pensiero di Marx è il saggio di Bruno Morandi inserito nel libro curato da Paolo Ferrero: Marx – Oltre i luoghi comuni (DeriveApprodi, 2018). Per Morandi la critica dell’economia politica è l’insieme di attrezzi forniti da Marx alla classe operaia affinché questa acquisisca “autocoscienza”. La critica di Marx trasformerebbe il lavoratore da “povero” che cerca di migliorare la propria condizione economica e sociale, a creatore di ricchezza cui l’imprenditore sottrae ciò che gli appartiene. Questi strumenti forniti da Marx servono per identificare le componenti del valore e “ritrovare i rapporti sociali dietro al miscuglio tra uomini e cose che è il capitale che produce profitto”. E passiamo al libro curato da Stefano Petrucciani, una densa raccolta di saggi: Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia (Carocci, 2018), in cui si trovano scritti vuoi biografici vuoi teorici. Per seguire il filo conduttore di cui in premessa, ci siamo soffermati sullo scritto di Roberto Fineschi e Tommaso Redolfi Riva, intitolato La teoria del modo di produzione capitalistico. Qui gli autori affrontano il problema del metodo di costruzione dell’impianto teorico marxiano, oggetto di lungo dibattito. Marx nei lavori preparatori al Capitale e nella Prefazione alla seconda edizione tedesca, afferma – in maniera esplicita – che il metodo è quello dialettico hegeliano, ma non come “processo di creazione della realtà”, che per il Moro va indagato dal materialismo, di contro all’idealismo hegeliano. Il metodo dialettico consente a Marx di sviluppare la teoria del valore attorno ad un concetto considerato cruciale che è quello della merce ovvero, dialetticamente, risultato del processo di ricerca, ma anche punto di partenza di quello di esposizione. Su questo Marx non ha dubbi. “La dialettica di merce e denaro, la teoria della circolazione semplice, è il ‘presupposto che presuppone’ la teoria del modo di produzione capitalistico.” Su questo aspetto insistono i due filosofi evidenziando che il punto di partenza da utilizzare è la centralità della categoria “merce”. Molti economisti vedono solo il valore-lavoro. I loro oppositori guardano solo alla forma-valore. E invece “la sfida è tenere le due dimensioni insieme, appunto grazie alla merce, di cui tanto la sostanza/grandezza quanto la forma di valore sono determinazioni (…)”. Infine, ci sembra ricco di spunti di riflessione il saggio pubblicato da Riccardo Bellofiore intitolato Le avventure della socializzazione. Dalla teoria monetaria del valore alla teoria macro-monetaria della produzione capitalistica (Mimesis, 2018). Il saggio si concentra per una prima parte sulla cosiddetta Neue Marx-Lektüre, la quale mette al centro della sua analisi la riflessione secondo la quale un’adeguata comprensione della teoria marxiana passa per “l’esatta cognizione del modo con cui la forma-denaro viene derivata dialetticamente dalla forma-merce” (nel capitolo dedicato al pensiero di Helmut Reichelt). Marx infatti sviluppa la teoria del valore-lavoro di Ricardo, problematizzandola e chiedendosi perché il lavoro come sostanza del valore, tempo di lavoro come misura della grandezza di valore assuma la forma del denaro come equivalente universale (p. 36). Mentre con Reichelt la teoria del valore-lavoro include una teoria del denaro, per Backhaus la teoria del valore di Marx deve essere letta come teoria monetaria del valore. Torniamo così al discorso sopra accennato da Fineschi e Redolfi Riva sulla categoria della “merce” come sintesi delle determinazioni di sostanza, grandezza e forma di valore. Backhaus definisce di essenziale importanza la scoperta della connessione necessaria esistente tra forma di valore, grandezza e sostanza, che consente di “dimostrare che la forma di valore scaturisce dal concetto di valore” (p. 58). Sulla categoria di lavoro astratto Bellofiore mette in relazione il pensiero di Michael Heinrich con quello di Isaak Ilijč Rubin. L’economista russo arriva ad una conclusione più “forte” di quella presente nella teoria in Heinrich, ovvero che: “il lavoro astratto è già presente in forma latente, e così il valore esiste già in potenza, nella produzione immediata, anche se la riduzione dei lavori concreti a lavoro astratto è provvisoria e ideale e dovrà attualizzarsi sul mercato finale”. (p. 101). Ci si avvia verso la conclusione del saggio indicando la strada verso la teoria macro-monetaria della produzione capitalistica (che è parte del sottotitolo del saggio che stiamo descrivendo), grazie al contributo del pensiero dell’economista italiano Augusto Graziani. Le tesi qui sostenute ci appaiono importanti riguardo a dubbi rimasti irrisolti nella letteratura marxista novecentesca. Queste, affrontano la dimensione monetaria per capire i fenomeni di socializzazione del valore. Secondo l’autore sia Claudio Napoleoni che Rubin impostano il problema con difficoltà, e rimangono imbrigliati nell’impostazione tradizionale che prevede una dimensione monetaria che retroagisce dalla circolazione alla produzione attraverso la forma-valore quale equivalente universale. Il problema può risolversi considerando “un momento previo di ante-validazione monetaria che istituisca una sequenza che vada dal finanziamento monetario (…) al processo capitalistico di lavoro (…) alla circolazione finale (…)”. Il denaro quindi non riflette il valore ex post, ma “contribuisce a costituirlo ex ante” (p. 120). Il contributo di Augusto Graziani[5] in questa lettura che potremmo chiamare dell’“ante-validazione” riguarda il ruolo del denaro in due distinte connessioni sociali. Denaro come equivalente universale nello scambio di merci, e denaro come “comando monetario della classe dei capitalisti che sussume formalmente i lavoratori al capitale totale”. Qui il riferimento alla Teoria del Circuito Monetario di Graziani è chiaro. Come sappiamo è grazie all’incorporazione della forza-lavoro nel processo di produzione che si crea valore e quindi si può sviluppare l’accumulazione capitalistica. Ciò è possibile grazie all’atto monetario che apre il circuito del capitalismo (anticipazione salari per acquistare forza-lavoro). La conclusione teorica ha grande forza persuasiva entro il dibattito sulla teoria del valore degli ultimi decenni, contribuendo anche a superare il problema della trasformazione dei valori in prezzi. “Il finanziamento (bancario) alla produzione (…) si configura come l’imprescindibile ante-validazione monetaria dei lavori concreti che vengono spesi nei processi lavorativi capitalistici: si tratta di una ‘socializzazione a priori’, anticipata che le banche (…) garantiscono alle imprese (…) sulla base delle loro aspettative in merito al conflitto di classe e all’andamento della domanda effettiva (…)”. L’ante-validazione monetaria e il concetto di lavoro astratto, riferito al lavoro in divenire, rappresentano i due assi della teoria macro-monetaria della produzione capitalistica e “consentono di cogliere il molteplice senso della ‘socializzazione’ capitalistica (…)” che l’autore cerca di mettere in luce nella sua lettura di Marx. Note bibliografiche (in ordine di apparizione nell’articolo) Marx Inattuale, a cura di Riccardo Bellofiore e Carla Maria Fabiani. Consecutio rerum, Rivista critica della Postmodernità, anno 3, n. 5, novembre 2018 (qui si può scaricare gratuitamente); Marx – Oltre i luoghi comuni, di Paolo Ferrero e Bruno Morandi (Derive Approdi 2018). Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, a cura di Stefano Petrucciani (Carocci, 2018). Le avventure della socializzazione. Dalla teoria monetaria del valore alla teoria macro-monetaria della produzione capitalistica, di Riccardo Bellofiore (Mimesis 2018) Note [1] “È più facile trovare due orologi a pendolo che fanno la stessa ora che due interpreti di Marx che pensano la stessa cosa sul rapporto Marx-Hegel” (Angelo Foscari, 2019). Roberto Fineschi scrive: “si sono sviluppate posizioni antitetiche in cui il metodo marxiano è stato di volta in volta dialettico-hegeliano, dialettico-antihegeliano, antidialettico-antihegeliano-empirista e si potrebbe continuare” (Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, 2013). Il campo problematico complessivo può essere inquadrato in primissima battuta da una citazione di Norberto Bobbio, per cui esistono due accezioni di dialettica: “di fronte a due enti in contrasto, il metodo della compenetrazione degli opposti, o meglio dell’azione reciproca, conduce a mantenere entrambi i termini del contrasto e a considerarli come condizionantisi a vicenda; al contrario, il metodo della negazione della negazione conduce a considerare il primo eliminato in un primo tempo dal secondo, e il secondo eliminato in un secondo tempo da un terzo termine” (Bobbio, 1958 in Bruno Jossa: Il marxismo, la dialettica e l’ economia politica, 2013). [2] Per Marx l’economia politica, al suo tempo “classica”, forniva contributi reali allo studio scientifico del capitale. L’economia volgare, invece, si limitava per Marx alle apparenze e si concentrava sulla circolazione, evitando l’analisi della produzione. [3] Lucio Colletti (1924-2001) è stato un importante filosofo (marxista per una parte della sua vita) e politico italiano. Allievo di Galvano Della Volpe, rinnovò gli studi marxisti in occidente. Dopo il 1973 iniziò il suo processo di revisione ideologica fino ad approdare prima all’area craxiana e in seguito a Forza Italia. [4] La forza-lavoro è la merce di proprietà del lavoratore, che la vende sul mercato al capitalista per ottenere un salario che gli consenta di sopravvivere. Il lavoro vivo è invece il valore dell’attività lavorativa messa in atto durante la produzione attuale. Corrisponde alla somma del lavoro necessario e del plusvalore. Il valore delle merci è dato dalla somma di lavoro vivo e lavoro morto (quest’ultimo ha prodotto in precedenza i mezzi di produzione). [5] Augusto Graziani (1933-2014) è stato un economista e politico napoletano. È considerato uno dei più importanti economisti italiani “eterodossi” anche per aver elaborato la Teoria del Circuito Monetario. Graziani ha ripreso l’analisi degli antagonismi delle classi sociali, tipica del pensiero marxista, in relazione all’uso privilegiato della moneta per la distribuzione interclassista. Metodo di indagine che riprende anche dal Keynes del Trattato della moneta e altri scritti. LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
2/3/2019
di Vincenzo Scalia
Negli ultimi quattro anni la politica britannica ci ha abituati a un susseguirsi di colpi di scena. L’elezione di Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti, il referendum sulla Brexit, l’inaspettata vittoria dei leavers, le dimissioni di David Cameron, la bocciatura dell’accordo sulla Brexit stessa. Negli ultimi giorni le scissioni all’interno dei due maggiori partiti hanno conquistato la ribalta. Il quadro politico britannico, di solito indicato come l’esempio da seguire dagli alfieri della democrazia bipartisan, in quanto presunto fautore di alternanza, stabilità e legittimità di sistema, registra dei costanti sussulti. Da qualche mese si ventila addirittura l’esistenza di un patto tra i due ex primi ministri, il conservatore John Major e il laburista Tony Blair, per creare un terzo partito che possa condizionare l’agone politico nazionale fino a giungere ad un secondo referendum sulla Brexit. La recente instabilità politica, a nostro giudizio, ha radici lontane, che risalgono alla rivoluzione conservatrice portata avanti negli anni Ottanta da Margaret Thatcher, e che lo scenario socio-politico attuale ha acuito. I laburisti hanno reagito alle sconfitte operaie di quel decennio cercando di inseguire un elettorato di opinione e ridimensionando la propria impronta di classe. Tony Blair, in nome del ritorno al governo e della Terza Via, ha cancellato dallo statuto del partito la trasformazione socialista della società, ha isolato, se non addirittura espulso, le frange estreme, proseguendo l’opera intrapresa da Neil Kinnock. Ne è conseguita una trasformazione sostanziale della struttura e dell’elettorato laburista. Alla componente tradizionale della militanza operaia, convogliata attraverso le rappresentanze sindacali, si sono sovrapposte quella dell’elettorato di opinione e il segmento della classe media formatasi tra le pieghe della new economy, di impronta liberal. Le nuove componenti, forti delle tre vittorie elettorali consecutive del 1997, del 2001 e del 2005, nonché di un assetto economico sostanzialmente stabile fino al 2008, hanno potuto esprimere una nuova classe dirigente laburista, fatta di tecnocrati, lobbisti e spin-doctors, più attenti alle vittorie elettorali che al radicamento sociale e all’elaborazione di progetti a lungo termine. D’altra parte la sinistra radicale britannica non è riuscita a esprimere un’offerta politica nuova. Militant, SWP, Verdi, Socialist Party avevano provato, nel 2005, ad unirsi (quanto meno molti di loro) inRespect, una coalizione di sinistra che comprendeva anche parecchi attivisti delle comunità musulmane, e che aveva ben figurato nelle competizioni elettorali arrivando ad eleggere nel 2012 a Bradford West un deputato, George Galloway. Le speranze erano però presto naufragate tra leaderismi, frazionismi e accuse di fondamentalismo e sessismo, portando la sinistra radicale britannica a una marginalità perpetua, che nemmeno l’appoggio all’indipendentismo scozzese è riuscita a smuovere. Di conseguenza i laburisti hanno continuato ad essere il contenitore della sinistra britannica, ma senza una leadership omogenea e con una militanza che ha seguito i sussulti politici del momento. L’elezione di Jeremy Corbyn, seguita alla sconfitta elettorale del 2015, sembrava segnasse il ritorno del partito alla vecchia base e al vecchio apparato, suggellato dall’implementazione di una linea di sinistra. In realtà Corbyn aveva guadagnato la leadership grazie a un’imposizione fatta da UNITE, la confederazione sindacale che continua ad essere un attore centrale per gli equilibri del partito, ma la sua elezione non aveva coinciso con una ristrutturazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione. In primo luogo gli stessi sindacati, che pensavano all’inizio di poter controllare Corbyn in cambio della sua elezione, si sono trovati in seguito spiazzati da certe prese di posizione da parte di quest’ultimo. È emblematica la vicenda del Trident, il sommergibile nucleare alla cui realizzazione il Regno Unito sta partecipando attivamente. Corbyn si era opposto, salvo essere smentito immediatamente dai sindacati, che temevano di perdere i lavoratori impegnati nel progetto, sindacalizzati ed elettori laburisti. Come la leadership di Corbyn non “funziona” verso l’alto, così non funziona verso il basso, dove i nuovi militanti, che hanno aderito subito dopo la sua elezione, non dispongono di sufficiente esperienza politica, e in più sono dentro da troppo poco tempo per potere consolidare un indirizzo politico che si muova in sintonia rispetto alla linea promossa dal segretario. Infine, la frammentarietà dei laburisti si manifesta in tutta la sua gravità all’interno del gruppo parlamentare. Corbyn non disponeva dei voti necessari per candidarsi alla segreteria, dal momento che la classe dirigente blairiana controlla saldamente l’apparato, e dispone di quadri intermedi, finanziatori e militanti formatisi con l’idea che la guerra del Kosovo fosse giusta, che Saddam disponesse di armi di distruzione di massa, che l’Afghanistan andasse invaso, che la questione ebraica e l’appoggio allo Stato di Israele coincidessero in pieno. Le accuse di antisemitismo nei confronti di Corbyn e della sinistra laburista affondano le loro radici esattamente in questo contesto di divaricazione tra base sindacale e apparato blairiano, nonché nello scollamento tra un leader ancora oggi troppo solitario e i suoi grandi elettori, vale a dire i sindacati. La destra blairiana ne è consapevole, e gioca sulle contraddizioni interne per delegittimare Corbyn, il quale sconta anche degli errori di calcolo propri. Ad esempio, non ha saputo approfittare della crisi interna ai conservatori, affondando il colpo del voto di sfiducia troppo tardi, quando la compagine governativa si era già ricompattata. Inoltre, il segretario laburista non ha mai espresso una posizione chiara sulla Brexit, scontentando sia quegli elettori e militanti laburisti che si sono pronunciati a favore, sia i fautori del Remain.Trovatosi in mezzo al guado delle spaccature interne e di una situazione allarmante e imprevista come quella della Brexit, Corbyn si sta dimostrando privo della capacità di imprimere una leadership di ampio respiro, quale sarebbe necessaria a guidare un partito con ambizioni di trasformazioni radicali. Se Sparta piange, Atene non ride. Anche i conservatori si trovano in mezzo al guado. Da un lato, si accorgono che avere soffiato troppo sul fuoco della Brexit in funzione dei contrasti interni, rischia di travolgerli, evidenziando come il vuoto lasciato da Margaret Thatcher non è stato ancora coperto. Dall’altro lato, il baratro imminente li spinge a compattarsi per mere ragioni di sopravvivenza, senza produrre uno sbocco politico di cui il Regno Unito, in una fase di passaggi critici come quella odierna, avrebbe disperatamente bisogno. Il problema, per conto nostro, è che i laburisti si stanno mostrando inadeguati a produrre questo sbocco. Dall’altro lato la storia britannica recente dimostra che le scissioni, specie quelle che avvengono a sinistra, non fanno bene al Labour, né peraltro approdano alla creazione di soggetti politici duraturi. Fu così negli anni Ottanta, quando la scissione della ‘Gang of Four’ di Owen, Jenkins, Williams e Rodgers, salutata all’epoca come Segno dei Tempi, approdò ad una confluenza nel partito liberale di cui si sono perse le tracce. Rischia di essere lo stesso con l’Independent Group creato adesso da Umunna, Berger e soci. Anche se stavolta magari si fonda un partito insieme ad un pugno di ex conservatori. Soprattutto, lasciare il campo ai reduci della Terza Via, ultimo baluardo di una proposta politica che in Europa soccombe al populismo, rischia di produrre anche nel Regno Unito scenari simili a quelli continentali. Che Blair e Major spianino la strada all’UKIP e ai neofascisti? Preferiremmo di no. Soprattutto, preferiremmo Corbyn. |
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