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LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE - La storia della Rivoluzione di Febbraio 

31/3/2017
di Kevin Murphy

​Proseguiamo nella pubblicazione in traduzione italiana della serie sul 1917 della 
rivista newyorchese Jacobin, in collaborazione con il blog Assalto al cielo.

I lavoratori russi scesero in sciopero durante la Giornata Internazionale della Donna del 1917. Finirono per rovesciare lo zarismo


​Che lo sciopero più importante della storia del mondo abbia avuto inizio a partire dalle lavoratrici tessili di Pietrogrado in occasione della Giornata internazionale della Donna del 1917 (23 febbraio del vecchio calendario giuliano) non fu una coincidenza. Lavorando fino a tredici ore al giorno mentre i loro mariti e figli erano al fronte, su queste donne, che attendevano in fila per ore e al gelo nella speranza di avere un po’ di pane, ricadeva interamente il peso del sostegno delle loro famiglie. Come riferisce Tsuyoshi Hasegawa nel suo decisivo studio sulla rivoluzione di febbraio, «non fu necessaria nessuna propaganda per incitare queste donne all’azione».
La profonda crisi sociale russa affondava le proprie radici nella totale incapacità del regime zarista di realizzare qualsiasi riforma significativa, e nell’abissale divario economico tra i ricchi e il resto della società russa. La Russia era governata da un autocrate, lo zar Nicola II, che più volte aveva sciolto la Duma, un organo elettivo senza reale potere che era legalmente dominato da membri delle classi possidenti.
Alla vigilia della guerra, gli scioperi giunsero ai livelli toccati nella rivoluzione del 1905 e i lavoratori innalzarono barricate nelle strade della capitale. La guerra diede allo zarismo un temporaneo sollievo, ma le ripetute sconfitte militari e circa sette milioni di morti risvegliarono inedite accuse di corruzione del regime da parte di praticamente tutti i settori della società. Era tanto profondo il marciume che il futuro primo ministro, il principe Lvov, organizzò una cospirazione – pur non intervenendovi personalmente – per deportare lo Zar e rinchiudere la zarina in un monastero. Rasputin, un monaco ciarlatano che aveva guadagnato un’enorme influenza alla corte dello zar, venne ucciso, non da anarchici, ma da monarchici, nel dicembre del 1916.
A sinistra, i bolscevichi erano la forza dominante in un più ampio settore di rivoluzionari che avevano diretto la più grande ondata di scioperi della storia mondiale (i settori dei socialisti moderati favorevoli alla guerra frequentemente evitavano gli scioperi).
Per anni avevano combattuto lo zarismo. Trenta scioperi politici furono proclamati in cinque anni dalla strage delle miniere d’oro del fiume Lena nel 1912, in cui morirono 270 lavoratori. I rivoluzionari avevano sfidato una dopo l’altra le ondate di arresti da parte della polizia segreta dello zar (l’Okhrana). Il numero dei rivoluzionari arrestati nel 1915 e nel 1916 mostra la forza relativa dei diversi raggruppamenti di sinistra a Pietrogrado: 743 bolscevichi, 553 senza partito, 98 socialisti rivoluzionari (SR), 79 menscevichi, 51 mežrajonstsy[1], 39 anarchici. Circa seicento bolscevichi presenti nelle fabbriche metallurgiche, metalmeccaniche e tessili, facevano del distretto di Vyborg di gran lunga il più militante durante la guerra.
Il 9 gennaio 1917, il dodicesimo anniversario del massacro della Domenica di sangue che diede inizio alla rivoluzione del 1905, 142.000 lavoratori scesero in sciopero. Quando la Duma aprì i suoi lavori il 14 febbraio, altri 84.000 lavoratori scesero in piazza organizzati dai menscevichi favorevoli alla guerra.
La crescente scarsità di cibo indusse il governo a requisire il grano nelle campagne. Mentre i panifici di Pietrogrado restavano chiusi e le forniture erano ormai ridotte a livello di riserve per alcune settimane, le autorità zariste esacerbarono la crisi sostenendo che non vi era alcuna penuria. L’Okhrana riferì di numerosi scontri tra polizia e lavoratori in fila per il pane a Pietrogrado. Le madri, «che vedono i loro bambini affamati e malati sono molto più prossime alla rivoluzione che i signori Miliukov, Rodichev e compagnia, e, naturalmente, sono molto più pericolose».
Il 22 febbraio, il bolscevico Kaiurov si rivolse a un’assemblea di donne di Vyborg, esortandole a non scioperare in occasione della Giornata internazionale della Donna e a seguire «le istruzioni del partito». Con suo sommo rincrescimento – in seguito avrebbe scritto che era “indignato” perché le donne bolsceviche avevano ignorato le direttive del partito – cinque fabbriche tessili si fermarono il giorno dopo.
Le operaie che dirigevano lo sciopero nelle officine tessili Neva gridarono: «In strada! Scioperate! Ne abbiamo abbastanza!». Aprirono le porte e guidarono centinaia di donne verso le vicine fabbriche metallurgiche. Lanciando palle di neve contro le finestre della fabbrica metallurgica Nobel, la folla di donne convinse i lavoratori a unirsi a loro, agitando le braccia e gridando: «Fuori! Smettete di lavorare!». Le donne marciarono anche verso la fabbrica Erikson, dove Kaiurov e altri bolscevichi si riunirono brevemente con i socialisti rivoluzionari e i menscevichi della fabbrica e unanimemente decisero di persuadere gli altri lavoratori a unirsi a loro.
La polizia riferì di folle di donne e giovani lavoratori che reclamavano “pane” e intonavano inni rivoluzionari. Durante il corteo, le donne presero le bandiere rosse dalle mani degli uomini, dicendo: «È la nostra giornata. Porteremo noi le bandiere». Sul ponte Liteinyi, nonostante le ripetute cariche dei manifestanti, la polizia riuscì a impedire che raggiungessero il centro della città. Nel tardo pomeriggio, centinaia di lavoratori che avevano attraversato il ghiaccio furono attaccati dalla polizia. Nel centro, «un migliaio di persone, prevalentemente donne e giovani» raggiunsero la Prospettiva Nevsky, ma vennero dispersi. L’Okhrana informò che le manifestazioni erano così accese che era «necessario rafforzare i distaccamenti di polizia dappertutto».
Sessantamila dei 78.000 scioperanti erano dal distretto di Vyborg. Benché intonassero slogan contro la guerra e lo zarismo, la rivendicazione principale era per il pane. Senza dubbio, le autorità zariste ritenevano trattarsi solo di un’altra rivolta per il cibo, ma erano allarmate dalle oscillazioni delle loro fedeli truppe cosacche nell’attaccare i manifestanti. Quella notte, i bolscevichi di Vyborg si riunirono e decisero di organizzare uno sciopero generale di tre giorni con cortei verso la Prospettiva Nevsky.
Il giorno dopo, il movimento degli scioperanti raddoppiò fino a raggiungere i 158.000 partecipanti, diventando il più grande sciopero politico della guerra. Settantacinquemila lavoratori di Vyborg incrociarono le braccia, così come fecero circa ventimila in ciascuno dei distretti di Pietrogrado, Vassilevski e Mosca, e più di novemila nel distretto di Narva. I giovani operai diressero la lotta per le strade, combattendo contro la polizia e le truppe sui ponti e lottando per il controllo della Prospettiva Nevskij nel centro della città.
Nella fabbrica Aviaz, gli oratori menscevichi e socialisti rivoluzionari fecero appello affinché  venisse rovesciato il governo, sollecitarono i lavoratori a non partecipare ad atti irresponsabili e li esortarono a dirigersi verso il Palazzo di Tauride, dove i membri della Duma disperatamente cercavano di convincere lo zar a fare concessioni. I bolscevichi della fabbrica Erikson chiesero agli operai di marciare verso la piazza Kazan armati di coltelli, attrezzi metallici e ghiaccio per l’imminente scontro con la polizia.
Una folla di 40.000 manifestanti si scontrò con polizia e soldati sul ponte Liteinyi, ma venne ancora respinta. Duemilacinquecento operai della fabbrica Erikson furono affrontati da cosacchi sulla via Sampsonievsky. Gli ufficiali caricarono la folla, ma i cosacchi proseguivano con cautela attraverso il corridoio aperto dagli ufficiali. «Alcuni di loro sorridevano – ricorda Kaiurov – e uno fece l’occhiolino ai lavoratori». In molti luoghi le donne presero l’iniziativa: «Abbiamo mariti, padri e fratelli al fronte … anche voi avete madri, mogli, sorelle, figli. Noi chiediamo il pane e la fine della guerra».
I manifestanti non tentarono minimamente di fraternizzare con l’odiata polizia. I giovani fermarono i tram intonando inni rivoluzionari e scagliando blocchi di ghiaccio e bulloni contro la polizia. Dopo che diverse migliaia di lavoratori ebbero attraversato il ghiaccio, furiosi combattimenti scoppiarono tra manifestanti e polizia per il controllo della Prospettiva Nevsky. Nel frattempo, i lavoratori riuscirono ad organizzare riunioni nei tradizionali siti rivoluzionari di piazza Kazan e presso la famosa statua “dell’ippopotamo” di Alessandro III a piazza Znamenskaya. Le rivendicazioni divennero più politiche dato che gli oratori non chiedevano solo pane, ma denunciavano anche la guerra e l’autocrazia.
Il giorno 25, lo sciopero divenne generale, con più di 240.000 operai ai quali si aggiunsero impiegati, insegnanti, camerieri e cameriere, studenti universitari e persino studenti delle scuole superiori. I tassisti giurarono che avrebbero trasportato solo i “dirigenti” della rivolta.
Ancora una volta, i lavoratori cominciarono a tenere assemblee nelle loro fabbriche. In una rumorosa riunione nella fabbrica Parvianen di Vyborg, oratori bolscevichi, menscevichi e socialisti rivoluzionari esortarono i lavoratori a marciare alla volta della Prospettiva Nevsky. Un oratore concluse il proprio intervento con la frase rivoluzionaria: «Via, mondo obsoleto, marcio da cima a fondo. La giovane Russia sta arrivando!».
I manifestanti furono protagonisti di diciassette violenti scontri con la polizia, mentre soldati e operai riuscirono a liberare i compagni arrestati dalla polizia. I ribelli riuscirono a prevalere, sconfiggendo le forze zariste su molti ponti o attraversando il ghiaccio verso il centro. Prendendo il controllo della Prospettiva Nevskij, i manifestanti si riunirono di nuovo in piazza Znamenskaya. La polizia e i cosacchi menavano colpi sulla folla, ma quando il capo della polizia caricò i manifestanti fu ucciso: da una sciabola cosacca. Le lavoratrici ebbero ancora una volta un ruolo cruciale: «Abbassate i fucili», chiedevano alle truppe. «Unitevi a noi».
In serata, il lato di Vyborg era controllato dai ribelli. I manifestanti avevano assaltato la stazione di polizia, impossessandosi di pistole e sciabole delle guardie zariste e costringendo la polizia e i gendarmi alla fuga.
La ribellione spinse lo zar Nicola II a decisioni estreme. «Ordino di liquidare per domattina i disordini nella capitale», proclamò, e ordinò al comandante Khabalov della guarnigione di Pietrogrado di disperdere la folla con armi da fuoco. Khabalov era scettico («Come poteva essere fermata la protesta il giorno dopo?»), ma accettò l’ordine. Nel municipio, il ministro degli interni Protopopov, incitò i difensori dell’autocrazia a porre fine ai disordini: «Pregate e sperate nella vittoria», disse. Il giorno successivo, di buon ora, erano stati affissi proclami di divieto delle manifestazioni e di avviso che l’editto sarebbe stato fatto rispettare con le armi.
Alle prime ore di domenica 26, la polizia arrestò il nucleo del Comitato bolscevico di Pietrogrado e altri socialisti. Le fabbriche vennero chiuse, i ponti sollevati e il centro della città si trasformò in una piazza d’armi. Khabalov telegrafò alla guarnigione: «Tutto è tranquillo in città fin dal mattino». Subito dopo questo rapporto, migliaia di lavoratori attraversarono il ghiaccio e apparvero sulla Prospettiva Nevsky cantando inni rivoluzionari e intonando slogan, ma i soldati aprirono il fuoco su di loro in modo sistematico.
Unità del reggimento Volynsky furono incaricate di fare incursioni preventive in piazza Znamenskaya. Pattuglie a cavallo menavano colpi sulla folla, ma non riuscivano a disperderla. Allora, il comandante ordinò alle truppe di aprire il fuoco. Benché alcuni soldati avessero sparato in aria, cinquanta manifestanti rimasero uccisi in piazza Znamenskaya e nei dintorni, mentre i lavoratori si sparpagliarono per nascondersi nelle case e nei caffè. Gran parte della carneficina fu portata a termine dalle truppe d’élite utilizzate per formare sottufficiali.
Tuttavia, l’eccidio non schiacciò la ribellione.
Un rapporto della polizia descrive il sorprendente livello di resistenza e di sacrificio dei ribelli:
 
«Nel corso dei disordini è stato osservato come un fenomeno generale che la folla ribelle ha adottato un atteggiamento di estrema sfida verso le pattuglie militari, nei cui confronti, quando fu intimato l’ordine di disperdersi, vennero lanciate pietre e blocchi di ghiaccio prelevati dalla strada. Agli spari d’avvertimento in aria la folla non solo non si disperse ma rispose alle scariche con risate di scherno. Solo quando i colpi sono stati sparati in mezzo alla folla è stato possibile disperderla. I partecipanti … si nascondevano nei cortili delle case vicine e, non appena il fuoco cessava, uscivano di nuovo per strada».
 
Gli operai chiesero ai soldati di deporre le armi, cercando di intavolare conversazioni con loro per convincerli conquistandone i cuori. Come ebbe a osservare Trotsky[2], nei contatti «degli operai e delle operaie con i soldati, sotto il crepitio costante di fucili e mitragliatrici, si decideva la sorte del potere, della guerra e del Paese».
La sera del 26, i dirigenti bolscevichi di Vyborg si incontrarono in un orto alla periferia della città. Molti suggerirono che era il momento di recedere dalla rivolta, ma la proposta venne respinta. Il sostenitore più accanito della continuazione della battaglia fu in seguito smascherato come agente dell’Okhrana. Dal punto di vista militare, la rivoluzione avrebbe dovuto fermarsi dopo il 26. Ma la polizia non sarebbe riuscita a schiacciare la rivolta senza il supporto di migliaia di soldati.
Il pomeriggio precedente, i lavoratori si era avvicinati alla caserma Pavlovsky: «Dite ai vostri commilitoni che anche il reggimento Pavlovsky sta sparando contro di noi – abbiamo visto i soldati con la vostra uniforme lungo la Prospettiva Nevsky». I soldati «sembravano angosciati e pallidi». Appelli simili si ascoltavano nelle caserme di altri reggimenti. Quel pomeriggio, i soldati del reggimento Pavlovsky furono i primi a unirsi ai ribelli (tuttavia, rendendosi conto che erano rimasti isolati, tornarono alle loro caserme e trentanove leader dell’ammutinamento vennero immediatamente arrestati).
Alle prime ore del 27, la rivolta aveva raggiunto il reggimento Volynsky, i cui reparti addestrati avevano sparato sui manifestanti in piazza Znamenskaya. Quattrocento ammutinati dissero al tenente: «Non spareremo più e non vogliamo versare il sangue dei nostri fratelli invano». Quando l’ufficiale rispose leggendo l’ordine dello zar di sopprimere la rivolta, venne sommariamente fucilato. Altri soldati del reggimento Volynsky si unirono ai ribelli e poi avanzarono fino alla vicina caserma del Reggimento Preobraženskij e del Reggimento dei Lituani, che anch’essi si ammutinarono.
In seguito, uno dei partecipanti descrisse la scena: «Un camion carico di soldati con i fucili in mano si fece strada tra la folla per la Via Sampsonievsky. Bandiere rosse garrivano dalle baionette dei fucili, una cosa mai vista prima … le notizie portate dal camion – che le truppe si erano ammutinate – si diffusero a macchia d’olio». Mentre un reparto addetto alla repressione comandato dal generale Kutepov marciava senza controllo per ore, sparando sui manifestanti e i camion carichi di lavoratori, in serata Kutepov scrisse: «Una gran parte delle mie truppe si è mescolata nella folla».
Quella mattina, il generale Khabalov andava spavaldo nelle caserme della città, minacciando con la pena di morte i soldati che si fossero ribellati. Alla sera, il generale Ivanov, le cui truppe erano in marcia per sostenere i reparti fedeli allo zar, telegrafò a Khabalov per valutare la situazione.
 
Ivanov: In quali parti della città state mantenendo l’ordine?
Khabalov: Tutta la città è nelle mani dei rivoluzionari.
Ivanov: Tutti i ministeri funzionano correttamente?
Khabalov: I ministeri sono stati occupati dai rivoluzionari.
Ivanov: Quali forze di polizia sono a vostra disposizione in questo momento?
Khabalov: Assolutamente nessuna.
Ivanov: Quali istituzioni tecniche e di approvvigionamento del Ministero della Guerra sono ora sotto il vostro controllo?
Khabalov: Nessuna.
 
Informato della situazione, il generale Ivanov decise di ritirarsi. La fase militare della rivoluzione era finita.
Il paradosso della rivoluzione di febbraio è stato che, quantunque avesse rovesciato lo zarismo, lo abbia poi sostituito con un governo di liberali non eletti che erano terrorizzati dalla stessa rivoluzione che li innalzò al potere. Il giorno 27, un deputato liberale della Duma scrisse: «… Si udivano sospiri … degli “eccoci qua” oppure chiare espressioni di timore per le loro vite», interrotte dal sollievo per notizie, rivelatesi inesatte, secondo cui «i disordini sarebbero presto stati soffocati». Un altro osservatore riferì che «erano terrorizzati, tremavano, si sentivano prigionieri nelle mani di elementi ostili che li trascinavano su un sentiero sconosciuto».
Durante la rivoluzione, «la posizione della borghesia era abbastanza chiara: da un lato, mantenersi a distanza dalla rivoluzione e consegnarla allo zarismo, e dall’altro sfruttarla per i propri scopi». Questa era la valutazione di Sukhanov, un dirigente del Soviet di Pietrogrado, che simpatizzava con i menscevichi e avrebbe svolto un ruolo cruciale nel consegnare il potere ai liberali.
Sukhanov ottenne parecchi aiuti da molti socialisti moderati. Il leader menscevico Skobelev avvicinò Rodzianko, presidente della Quarta Duma, per ottenere uno spazio nel Palazzo di Tauride. Il suo scopo era quello di organizzare un Soviet dei deputati degli operai per mantenere l’ordine. Kerensky dissipò i timori di Rodzianko che il Soviet sarebbe potuto diventare pericoloso, dicendogli: «Qualcuno deve prendere il controllo dei lavoratori».
A differenza del soviet degli operai del 1905, sorto come strumento di lotta di classe, il soviet formatosi il 27 febbraio venne creato dopo la rivolta e i dirigenti del suo comitato esecutivo erano quasi tutti intellettuali che non avevano attivamente partecipato alla rivoluzione.
C’erano anche altre carenze: i rappresentanti dei 150.000 soldati di stanza a Pietrogrado avevano un peso esageratamente sproporzionato in questo soviet degli operai e dei soldati. Era a schiacciante maggioranza maschile: c’era solo una manciata di donne delegate tra i 1.200 delegati (fino quasi a 3.000), sicché le lavoratrici erano deplorevolmente sottorappresentate. Il soviet neanche discusse la manifestazione del 19 marzo per il suffragio femminile, in cui vi furono 25.000 partecipanti, tra cui migliaia di donne della classe operaia.
Certo, il Soviet di Pietrogrado approvò il famoso Ordine numero 1 – che invitava i soldati ad eleggere i propri comitati per organizzare le loro unità e obbedire ai loro ufficiali e al governo provvisorio solo se gli ordini non fossero stati in contraddizione con quelli del Soviet – ma quel decreto venne approvato solo per iniziativa stessa dei soldati radicali.
Eppure, la formazione del Soviet indusse i liberali e l’alleato socialista rivoluzionario, Kerensky, ad agire. Rodzianko sostenne che «se non prendiamo il potere, saranno altri a farlo», perché già avevano «scelto alcune canaglie nelle fabbriche». «Se non avessimo formato immediatamente un governo provvisorio – scrisse Kerensky – il soviet si sarebbe autoproclamato l’autorità suprema della rivoluzione». Secondo questo piano, un gruppo autonominato, definitosi Comitato provvisorio, avrebbe agito come un contrappeso del soviet. Ma i cospiratori non riponevano molta fiducia nel proprio piano; lasciarono i dirigenti menscevichi e socialisti rivoluzionari nei soviet a fare il loro sporco lavoro.
La meccanica menscevica della rivoluzione indicava che «il governo che prenderà il posto degli zar dovrà essere esclusivamente borghese». Sukhanov scrisse: «Tutta la macchina statale … può obbedire solo a Miliukov».
I negoziati tra l’esecutivo del Soviet e i dirigenti liberali non eletti si svolsero il primo di marzo. «Miliukov aveva pienamente compreso che il Comitato Esecutivo era in una posizione perfetta per dare il potere al governo borghese oppure no», scrisse Sukhanov, aggiungendo: «Il potere destinato a sostituire lo zarismo deve essere solo un potere borghese … Dobbiamo conformarci a questo principio. In caso contrario, la rivolta non avrà successo e la rivoluzione fallirà».
I dirigenti del Soviet erano persino disposti a lasciar cadere il programma minimo dei “tre capisaldi” su cui tutti i gruppi rivoluzionari erano d’accordo (la giornata di otto ore, la confisca dei latifondi e la repubblica democratica), se solo i liberali avessero voluto prendere il potere. Spaventato dalla prospettiva di dover governare, Miliukov testardamente insisté per fare un ultimo disperato tentativo di salvare la monarchia.
Incredibilmente, i socialisti acconsentirono e permisero che il fratello dello zar, Michele, decidesse da sé solo se governare. Non avendo ottenuto alcuna garanzia sulla propria sicurezza personale, il Granduca rifiutò cortesemente. Tutti questi negoziati dietro le quinte vennero, naturalmente, svolti senza che gli lavoratori e i soldati ne fossero a conoscenza.
Il sistema di doppio potere che emerse da tali discussioni – il Soviet da un lato e il governo provvisorio non eletto dall’altro – sarebbe durato otto mesi.
Ziva Galili ha descritto questi negoziati come «il momento migliore dei menscevichi». Trotsky li ha paragonati a una commedia di vaudeville[3] divisa in due parti: «In una, i rivoluzionari chiedevano ai liberali di salvare la rivoluzione; nell’altra, i liberali imploravano la monarchia di salvare il liberalismo».
Perché gli operai e i soldati, che avevano combattuto così valorosamente per rovesciare lo zarismo, permisero al Soviet di consegnare il potere a un nuovo governo che rappresentava le classi possidenti? Innanzitutto, perché la maggior parte dei lavoratori non aveva ancora scelto tra le politiche dei vari partiti socialisti. Poi, gli stessi bolscevichi non avevano molto chiaro ciò per cui combattevano, in parte perché conservavano una comprensione (rapidamente superata) della rivoluzione come democratico‑borghese, in cui avrebbe governato un governo rivoluzionario provvisorio. Ciò che questo significasse in pratica, soprattutto dopo la formazione del governo provvisorio, era lasciato alla libera interpretazione.
Benché i militanti bolscevichi abbiano svolto un ruolo chiave nelle giornate rivoluzionarie, spesso lo hanno fatto a dispetto dei loro dirigenti. Le operaie tessili scioperarono a febbraio nonostante le obiezioni da parte dei dirigenti di partito, che consideravano “non ancora maturi” i tempi per l’azione militante.
L’ufficio politico del partito bolscevico a Pietrogrado (Shliapnikov, Molotov e Zalutsky) era anche inadeguato. Persino dopo lo sciopero del 23 febbraio, Shliapnikov sostenne che era prematuro convocare uno sciopero generale. E l’organismo neppure fu in grado di stampare un volantino da distribuire alle truppe e respinse le richieste di armamento dei lavoratori in vista degli scontri imminenti.
Gran parte dell’iniziativa partì, o dal comitato distrettuale di Vyborg, che assunse un ruolo dirigente di fatto nell’organizzazione del partito in città, oppure dai militanti di base, soprattutto il primo giorno in cui le donne ignorarono i dirigenti del partito ed ebbero un ruolo decisivo nella propagazione del movimento di sciopero.
Per tutto il mese di marzo, i bolscevichi furono in preda alla confusione e divisi. Quando il Soviet di Pietrogrado consegnò il potere alla borghesia il 1° marzo, non uno degli undici bolscevichi nel comitato esecutivo del soviet si oppose. Quando i bolscevichi di sinistra delegati nel Soviet presentarono una mozione perché il Soviet stesso formasse un governo, solo in diciannove votarono a favore, mentre molti altri bolscevichi votarono contro. Il 5 marzo, il Comitato bolscevico di Pietroburgo sostenne l’appello lanciato dal Soviet agli operai perché ritornassero al lavoro, anche se la giornata lavorativa di otto ore – una delle principali richieste del movimento rivoluzionario – non era ancora stata istituita.
L’Ufficio politico del partito sotto Shliapnikov si avvicinò ai radicali di Vyborg, che chiedevano al Soviet di assumere il governo. Ma quando Kamenev, Stalin e Muranov tornarono dall’esilio della Siberia e presero il controllo dell’Ufficio politico il 12 marzo, la politica del partito virò bruscamente a destra, per la gioia dei dirigenti menscevichi e socialisti rivoluzionari e scatenando la rabbia di molti militanti del partito nelle fabbriche, alcuni dei quali chiesero l’espulsione del nuovo triumvirato.
Lenin era tra i più arrabbiati. Il 7 marzo, scrisse dalla Svizzera: «Questo nuovo governo è già legato mani e piedi al capitale imperialista, alla politica imperialista di guerra e di rapina»[4]. Kamenev, al contrario, sulla Pravda del 15 marzo sostenne che il «popolo libero» sarebbe «rimasto saldamente al suo posto, risponderà colpo su colpo, proiettile su proiettile». E, alla fine di marzo, Stalin si espresse a favore dell’unificazione con i menscevichi e sostenne che il governo provvisorio aveva «assunto il ruolo di garantire le conquiste della rivoluzione».
Lenin era così preoccupato della svolta a destra della direzione bolscevica che il 30 marzo scrisse di preferire «l’immediata scissione con qualcuno del nostro partito, chiunque sia, anziché fare concessioni al socialpatriottismo di Kerensky e C.»[5]. Non c’era bisogno del notaio per interpretare correttamente le parole di Lenin o capire a chi stesse riferendo: «Kamenev deve rendersi conto che porta una responsabilità storica mondiale».
L’essenza del leninismo,  a partire dal 1905, fu la sua enfasi sulla diffidenza completa nei confronti del liberalismo, ritenuto una forza controrivoluzionaria, e una critica tagliente verso quei socialisti impegnati nella ricerca di una conciliazione con i liberali. Eppure, la stessa formulazione di Lenin nel 1905, che invocava la creazione di un governo rivoluzionario provvisorio per realizzare una rivoluzione borghese, contrastava con quelle che lui definiva le «idee assurde e semianarchiche» di Trotsky, che rivendicava invece una «rivoluzione socialista». Lo stesso Lenin effettuava ora una svolta verso questa “assurda” idea di socialismo, mentre i vecchi e conservatori bolscevichi comprensibilmente lo accusavano di “trotskismo”.
Sotto molti aspetti, il colpo di stato dei primi di marzo ha seguito il modello tipico di eventi simili verificatisi durante l’ultimo secolo – una piccola cricca non eletta da nessuno che usurpa il potere per i suoi interessi di casse a spese di un movimento che l’ha portata al potere. C’erano due grandi differenze, però. Innanzitutto, che c’era un partito delle masse lavoratrici che avrebbe lottato instancabilmente per i loro obiettivi. E, in secondo luogo, che c’erano i soviet.
La rivoluzione russa era appena iniziata.
 
Kevin Murphy insegna Storia Russa nell’University of Massachusetts di Boston. Il suo libro Revolution and Counterrevolution: Class Struggle in a Moscow Metal Factory ha vinto nel 2005 il Deutscher Memorial Prize.
 
[traduzione di Isa Pepe e Valerio Torre]


[1] Internazionalisti dell’organizzazione Interdistrettuale. V., in proposito, V.I. Nevskij, Storia del partito bolscevico dalle origini al 1917, Edizioni Pantarei, p. 432 (Ndt).

[2] L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, vol. I, Newton Compton editori, p. 100 [Ndt].

[3] L. Trotsky, op. cit., p. 139 [Ndt].

[4] V.I. Lenin, “Lettere da lontano: la prima fase della prima rivoluzione”, in Opere, Edizioni Lotta comunista, vol. XXIII, p. 307 [Ndt].

[5] V.I. Lenin, “Carteggio 1917. A Ganetski”, in Opere, cit., [Ndt].


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DIVERSE VELOCITÀ​ MA NESSUNA RETROMARCIA

28/3/2017
di Giovanni Di Benedetto

Avanti a ritmi e intensità diversi, si legge nella Dichiarazione dei 27 capi di Stato e di governo al vertice commemorativo dei 60 anni dei Trattati di Roma: “Agiremo congiuntamente a ritmo e con intensità diversi, se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente” (Corriere della Sera, 26.03.17). Un linguaggio ambiguo e incline a prestarsi a eterogenee interpretazioni, quello con cui è stata redatta la Dichiarazione, che indica una direzione di marcia che nel breve periodo non produrrà sostanziali cambiamenti, in attesa delle elezioni francesi e tedesche. Al di là dei proclami propagandistici e dei propositi retorici, pare che la vicenda europea non si distanzierà più di tanto dall’ossessivo mantra della disciplina di bilancio europeo e delle regole rispettose dell’ortodossia rigorista teutonica, per l’appunto con il vincolo del pareggio di bilancio in testa alla lista.


Un articolo di Repubblica di qualche settimana fa, intitolato “Lite sull’Europa a due velocità” (11.03.17), chiudeva considerando che anche “se a Roma si cercherà di rilanciare l’Europa per i prossimi 10 anni, la frattura (all’interno dell’Unione, ndr) è sempre più visibile”. Il fatto è che l’Unione monetaria e l’integrazione sono sempre più traballanti. Quella dell’Europa a più velocità sembra essere l’ultima trovata delle oligarchie finanziarie europee, l’ennesima carta da giocare da parte di élites dirigenti che ormai non sanno più che pesci pigliare. Una carta improbabile a dire il vero, se non fosse per il fatto che dietro illogici specchietti per le allodole si nasconde un disegno preciso e plausibile, in base al quale continuare a reiterare dinamiche asimmetriche e divaricatrici. In un clima dimesso e tutt’altro che brioso il summit ha dovuto peraltro prendere atto che la spirale recessiva, considerata la condizione di precarietà dell’Unione, sta costringendo Bruxelles e i tecnocrati della Commissione Europea a fare i conti con ulteriori tentativi di rinegoziazione delle clausole pro austerity. 

A commento delle celebrazioni per il 60° anniversario del Trattato di Roma, in un articolo intitolato Salviamo la UE dagli europeisti, Luigi Zingales sul Sole 24 ore ha sostenuto che “i veri nemici dell’Europa non sono i movimenti populisti, ma i cosiddetti europeisti che occupano le stanze del potere europeo. Sono loro che non riconoscono quello che gli stessi padri fondatori dell’euro hanno ammesso: che la moneta unica è stata concepita senza le istituzioni necessarie per farla funzionare.” (Sole 24 ore, 26.03.17). Ci manca poco e sentiremo il quotidiano di Confindustria predicare che in Europa l’euro è lo strumento della ristrutturazione capitalistica a partire dal quale vengono declinati i processi di concentrazione e di centralizzazione dei capitali e le tanto decantate riforme di struttura: precarizzazione del mercato del lavoro, distruzione del welfare e riduzione del debito pubblico. Ora, nessuno può pretendere che i cantori e gli apologeti del capitale si spingano a tanto ma se anche il quotidiano di Confindustria, il Sole 24 ore, continua a ribadire la illogicità del dispositivo eurista, dipingendo a ogni piè sospinto scenari catastrofici che potrebbero realizzarsi da un momento all’altro, c’è poco da stare allegri. 

​Non è un caso che a parlare di Europa a diverse velocità sia stata proprio la leader degli intransigenti dell’Unione, Angela Merkel, al vertice di Malta dei primi di febbraio scorso. La Merkel aveva parlato di un’Europa a differenti velocità, nella quale non tutti parteciperebbero allo stesso titolo ai differenti livelli di integrazione europea. Potrebbe essere una risposta alla Brexit e al crescente malcontento del popolo europeo, il cui disagio e malessere sociale cresce a vista d’occhio. Gli smottamenti dell’opinione pubblica rischiano infatti di tradursi in una slavina già a cominciare dalle prossime elezioni presidenziali in Francia e poi con le elezioni di settembre in Germania. Ecco allora che, come il coniglio dal cilindro, i vertici dell’Unione escogitano l’idea dell’Europa “a ritmo e con intensità diversi, se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione”. Un’idea, dal loro punto di vista, perseguibile, a condizione che vengano mantenuti i soliti vincoli intrascendibili. Innanzitutto, il mantenimento di un quadro monetario incentrato sui cambi fissi, con il correlato della stabilità dei prezzi e della moderazione salariale. Il capitale continuerebbe a profittare del significativo contenimento dei salari di cui ha finora goduto sostituendo la conseguente diminuzione del mercato interno con la ricerca di un aumento delle esportazioni estere. È anche la strategia avocata a sé dal capitalismo nostrano, che continua, con il pretesto del debito pubblico stratosferico, a praticare, per continuare a registrare i significativi surplus commerciali degli ultimi anni, politiche di bassi salari. In effetti, la deflazione salariale, come dimostra il grafico dell’Istat riportato più sotto e relativo alle retribuzioni contrattuali orarie per il 2016, permette di mantenere alti profitti e, contemporaneamente, di vendere all’estero favorendo le esportazioni. Tutto questo senza ovviamente provare a invertire la tendenza apparentemente ineluttabile del processo di deindustrializzazione dell’Italia che va avanti da quasi due decenni. 
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​A noi pare che dietro la retorica di un’Europa a diversi livelli di integrazione si voglia celare il dato reale che il combinato disposto di uno sviluppo diseguale, all’interno di una logica coordinata, continua a essere, come peraltro è sempre stato, al vertice dei rapporti tra centro e periferia. E non solo tra i paesi dell’Occidente capitalistico e i paesi in via di sviluppo. È, per così dire, dai tempi della rivoluzione agraria prima e industriale poi che in Europa è possibile registrare la presenza di aree con un più alto livello di sviluppo e aree meno ricche. L’Unione Europea e l’Unione monetaria non sono sorte con l’obiettivo di perseguire politiche economiche, fiscali e monetarie di riequilibrio, aventi il fine di riposizionare i paesi e le aree svantaggiate entro margini di riduzione delle asimmetrie e tendenti al livellamento. L’Unione Europea, al contrario, si fonda sull’imperativo della competitività tra le regioni e i distretti che si trovano al suo interno. Il dogma della competizione tra capitali dell’area dell’Unione monetaria ha peraltro accresciuto i disavanzi commerciali e finanziari dei paesi più deboli dell’Unione nei confronti dei paesi più forti, aggravandone la posizione debitoria. I Trattati servono proprio a ristrutturare e definire i rapporti gerarchici tra un centro dell’accumulazione e la periferia che in parte, ma solo in parte, coincide con il mezzogiorno d’Europa. La funzione dell’unificazione valutaria e dell’euro è peraltro quella di alimentare una condizione di squilibrio che, in assenza di un’entità statuale, non può essere riequilibrata attraverso trasferimenti fiscali. 

Sembra che dal vertice commemorativo di Roma sia arrivata l’ennesima conferma relativa al mantenimento di un assetto economico e produttivo continentale nel quale la divisione del lavoro su scala europea continuerà a ribadire la centralità egemonica dell’area tedesca al prezzo di una crescente subalternità produttiva e di un crescente sfruttamento del lavoro delle aree periferiche, a cominciare da quella italiana. Già Joseph Halevi, sulle pagine di questo sito, ricordava come è probabile che a causa dell’Unione monetaria e delle sue regole di non trasferimento fiscale, all’interno dell’Eurozona si concentri un blocco centrale esportatore netto costituito da Germania, Olanda, Belgio e Austria. A questo blocco centrale, secondo una configurazione che ricorda quella dei cerchi concentrici, si relazionerebbero innanzitutto i paesi dell’Europa dell’Est e, soltanto in posizione subordinata, il Nordest italiano. Nonostante l’Italia rimanga il secondo paese manifatturiero d’Europa, il suo declino economico sembra oramai segnato. In questo quadro economico e politico, nella nostra penisola, alla risposta alle istanze sociali e all’integrazione di quelle salariali, le classi dirigenti italiane hanno preferito, in omaggio al diktat del risanamento dei conti pubblici e utilizzando il pretesto del rientro del debito pubblico, praticare una brutale politica di deflazione salariale che ha drammaticamente peggiorato le condizioni retributive dei lavoratori e la possibilità di accedere a un decoroso salario accessorio attraverso il welfare. 

​La direzione di marcia dei grandi leader riunitisi a Roma sembra, dunque, non essere in discussione. Tuttavia vale la pena osservare che le stesse classi dirigenti europee, di fronte alla marea montante, sebbene non organizzata e non orientata a sinistra, di protesta e opposizione sociale, non sono più sicure dell’intrascendibilità dell’euro e sono disposte a ricalibrare i loro progetti, anche cedendo apparentemente, sull’architettura istituzionale e economica dell’Unione. Il problema continua a essere, a questo punto, quello di avere un progetto credibile e una proposta alternativa alle strategie antipopolari e demagogiche dei grandi che si sono riuniti a Roma per continuare a consumare, con la scusa di ipocrite celebrazioni, ulteriori scempi sulle spalle del mondo del lavoro e dei semplici cittadini.
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PRIMA DEL FEBBRAIO - La Rivoluzione di Febbraio scoppiò cento anni fa e spazzò via una ​monarchia sanguinaria

24/3/2017
di Todd Chretien

Il quindicinale newyorchese di orientamento socialista Jacobin – cui collaborano tra gli altri Yanis Varoufakis e Jeremy Corbyn – pubblica in occasione del centenario una serie sulla Rivoluzione Russa, scritta a più “voci”.
La traduzione italiana della serie sarà pubblicata in co-produzione da PalermoGrad  e dal blog Assalto al cielo(assaltoalcieloblog.wordpress.com).
Ecco a voi la prima puntata – scritta da Todd Chretien – nella traduzione di Valerio Torre.



«Noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione», avvertiva Lenin in un rapporto scritto per un gruppo di giovani svizzeri in occasione del dodicesimo anniversario della rivoluzione – sconfitta – del 1905. La giustapposizione delle sue osservazioni e della caduta, solo sei settimane dopo, dello Zar Nicola II, creò i presupposti per una classica battuta del movimento marxista: “Non far tardi alla manifestazione, perché la rivoluzione può iniziare!”.
È tuttavia chiaro dal suo operato che Lenin era consapevole di come la situazione politica nella sua madrepatria potesse esplodere in qualsiasi momento. Per trecento anni, la dinastia dei Romanov aveva governato la Russia – a quell’epoca un impero gigantesco in cui i russofoni erano una minoranza – con il pugno di ferro.

Lungi dal vivacchiare nell’isolamento, gli zar posero il proprio sigillo reazionario sull’Europa occidentale, fornendo grandi eserciti contadini per sostenere la monarchia e la reazione contro i movimenti democratici e nazionalisti, dalla Rivoluzione Francese del 1789 in poi. I Romanov riuscirono persino a guadagnare il primo posto nella lista dei nemici mortali nell’incipit del Manifesto Comunista. Eppure, agli albori del XX secolo quell’impero venne scosso alle fondamenta.
Nella sua Storia della Rivoluzione russa, León Trotsky spiega l’instabilità della società russa, sottolineando che lo sviluppo economico globale si svolge necessariamente ad un ritmo diseguale. Il trono di Nicola II poggiava su una miriade di territori e popoli; un piccolo esempio di ciò lo ritroviamo nel suo titolo ufficiale: “Imperatore e autocrate di tutte le Russie, Mosca, Kiev, Vladimir, Novgorod, zar di Kazan, zar di Astrakan, zar di Polonia, zar della Siberia … e granduca di Smolensk, Lituania … e via dicendo”.
In primo luogo, lo zar era il più grande proprietario terriero all’interno della classe dei baroni della terra sopravvissuti ai loro omologhi feudali dell’Europa occidentale per un secolo o più: la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861. Questa classe di trentamila aristocratici possedeva circa 765 milioni di chilometri quadrati (le proprietà avevano una dimensione media di 21,85 chilometri quadrati), cioè una quantità di terra maggiore di quella che potevano avere, tutti insieme, cinquanta milioni di contadini poveri o medi.

Già questi dati costituivano di per sé un focolaio per la rivolta agraria, ma anche la dimostrazione del crescente divario tra la capacità produttiva dell’Europa occidentale in via di industrializzazione e quella della Russia agraria. Preoccupato che l’arretratezza tecnologica potesse porre fine alla sua potenza militare, lo zar ottenne dalle banche francesi e britanniche il sostegno per finanziare un esercito moderno e altamente centralizzato e un’industria metallurgica centrata in San Pietroburgo e molti altri luoghi. Alcune delle più grandi fabbriche nel mondo sorsero su suolo russo e concentrarono al loro interno una nuova classe fatta di persone che non avevano nulla da vendere se non la propria forzalavoro. Nel suo scritto datato 1899, Sviluppo del capitalismo in Russia, Lenin stimava che già nel 1890 vi fossero dieci milioni di lavoratori salariati.
Lo zar cercò di consolidare questa “amalgama” con la frusta. Le bande antisemite conosciute col nome di Centurie Nere si aggiravano nelle campagne terrorizzando gli ebrei, il nazionalismo grande russo impediva l’uso delle lingue locali nell’insegnamento e gli scioperi venivano repressi con la forza militare. E nella speranza di guadagnare uno sbocco sul mare a occidente soffiando sul fuoco del patriottismo, nel 1904 la corona dichiarò guerra al Giappone, col risultato però di risvegliare ben presto l’impeto dell’opposizione interna, vista la superiorità dell’equipaggiamento e della strategia militare giapponesi.
Il 9 gennaio 1905 centinaia di migliaia di lavoratori, studenti e poveri marciarono dietro un prete, padre Gapon, implorando lo zar di alleggerire il loro fardello. Vennero accolti da baionette e proiettili, e il sangue delle centinaia di morti scorse per le strade.

La “Prova Generale” del 1905 provocò una vasta deflagrazione sociale: contadini contro proprietari terrieri, lavoratori contro padroni, e praticamente tutto il Paese (compresi alcuni settori della classe media, e perfino qualche capitalista) contro la monarchia.
La situazione si era appena placata quando i marinai della corazzata Potemkin si ammutinarono, i contadini diedero fuoco ai palazzi nobiliari in un settimo delle province e una nuova espressione si fece strada nella coscienza della sinistra internazionale: secondo la definizione di Lenin “si è formata una organizzazione di massa peculiare, il famoso Soviet dei deputati operai, che riunisce i delegati di tutte le fabbriche”.
Rosa Luxemburg – lei stessa tra i fondatori della socialdemocrazia del Regno di Polonia e Lituania – teorizzava una generalizzazione al di là della situazione russa, facendosi araldo dello «sciopero generale [come] la prima, impulsiva, forma di ogni grande lotta rivoluzionaria del proletariato».
Nel bel mezzo della rivoluzione, sbocciò la sinistra socialista. Negli anni che precedettero il famoso congresso del 1903 del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (Posdr), in cui bolscevichi e menscevichi, dapprima uniti, si separarono – oltre a complicati negoziati con significative organizzazioni di ebrei, polacchi, finlandesi e di altri raggruppamenti socialisti su basi nazionali – si contavano forse circa diecimila affiliati sostenitori delle varie fazioni. Al cosiddetto Congresso dell’Unità, nella primavera del 1906, aderirono decine di migliaia di persone, e al Congresso del Posdr (comprese le sue sezioni nazionali) del 1907, nonostante la brutale repressione i membri salirono a quasi 150.000.

Lo zar era così terrorizzato da risolversi a fare una concessione alla rivoluzione: una sorta di parlamento fantoccio chiamato Duma. In un primo momento, ai lavoratori urbani non era neanche riconosciuto il diritto di voto, anche se il corpo elettorale venne in seguito modificato nel senso che era eletto un delegato per ogni duemila proprietari terrieri, mentre per i lavoratori la proporzione era di uno a novantamila. Queste briciole erano allo stesso tempo più di quanto Nicola II volesse concedere e meno di quanto servisse per sedare la rivoluzione, sicché lo Stato trasformò la Russia in un cimitero: in quindicimila furono giustiziati, con ventimila feriti e quarantacinquemila esuli. Il sangue spense il fuoco per qualche tempo.
Nei primi mesi del 1912, gli scioperi aumentarono di nuovo fino a quando il tappo saltò in una città di miniere d’oro siberiana chiamata Lena, dove le truppe zariste abbatterono centinaia di scioperanti. La classe operaia risorse come una fenice dalle ceneri, i partiti socialisti tornarono a crescere e gli scioperi proliferarono. Nel 1914, il giornale socialista Pravda aveva una tiratura di 30-40.000 copie al giorno in un paese composto in maggioranza da analfabeti.
L’estate del 1914 fu la testimonianza di una Russia tesa allo spasimo, fino al punto di rottura: lo status quo era diventato insostenibile. Nicola II dichiarò guerra alla Germania il 19 luglio 1914. Solo che questa volta, invece di un conflitto limitato con il Giappone sul suo confine orientale, la guerra con la Germania e l’impero austroungarico portò la fame e la pestilenza alle porte della monarchia.

Tuttavia, nei primi giorni di guerra, un’ondata di entusiasmo patriottico venne in sostegno della politica dello zar. Centinaia di migliaia di ragazzi e giovani contadini si precipitarono ad arruolarsi nell’esercito e i gruppi nazionalisti imperversavano nelle piazze di città e paesi.
Ma tutti i conflitti che avevano portato al 1905 ben presto tornarono a ribollire. La Grande Guerra restituì alle masse russe cumuli di cadaveri in quantità pressoché impossibile da immaginare. La prima guerra mondiale presentò lo spettacolo del sistema sociale più arretrato e sottosviluppato a livello continentale immerso fino al collo in una lotta mortale contro l’economia industriale più avanzata del mondo. I risultati furono terrificanti.
Tre milioni di soldati dell’esercito imperiale zarista morirono, altri quattro milioni rimasero feriti e circa tre milioni di civili perirono per cause legate alla guerra su una popolazione di 175 milioni di abitanti. Di fronte alla tecnologia militare tedesca, lo zar schierò centinaia di migliaia di soldati precariamente armati e male attrezzati inviandoli a morte certa. Durante gli inverni del 1915, 1916 e 1917, decine di migliaia di soldati morirono nelle loro trincee per congelamento.
Nel frattempo, la corte reale sprofondava in nuovi meandri di dissolutezza. Un prete mistico chiamato Grigori Rasputin era riuscito ad assumere una tale influenza sulla zarina Alexandra da chiedere che il marito punisse tutti i minimi segnali di slealtà, come aveva fatto Ivan il Terribile. La sua influenza era divenuta tale che gli aristocratici russi lo uccisero, nella speranza di riguadagnare le simpatie di Nicola II e riprendere il controllo della sua politica di guerra. Dopo essersi abbeverati per un paio di secoli alla fonte reale, i baroni ora temevano che sarebbero stati tutti avvelenati dal suo cadavere politico in decomposizione. Come riporta Tsuyoshi Hasegawa, la coppia reale «rifiutava di comprendere il mondo esterno».
Come nel 1905, le rivolte contadine aumentarono man mano che la guerra si trascinava, ma questa volta si presentavano in una nuova forma: quella, cioè, del conflitto tra gli ufficiali aristocratici e i soldati contadini in trincea. Ogni volta che un ufficiale ordinava un assalto suicida contro il fuoco tedesco ciò che era in gioco non erano solo le vite di questi soldati delle campagne, ma anche il futuro delle famiglie che dipendeva dal ritorno a casa di quei figli perché provvedessero all’assistenza e al lavoro. Inoltre, per alimentare l’esercito veniva sottratto il sostentamento alle famiglie contadine e le sementi per le colture dell’anno seguente.

Forse Nicola II, o per lo meno la monarchia, sarebbero sopravvissuti alla crescente rabbia dei contadini, alle disastrose perdite militari e al malcontento all’interno della loro stessa classe. Ma un nemico ancora più potente stava nascendo. Poiché, come la guerra riempiva le trincee di sangue, così riempiva San Pietroburgo di operai. La stessa classe operaia che aveva lottato contro il regime fino all’impasse del 1905 e che ne aveva terribilmente patito le conseguenze, ora veniva chiamata a produrre e distribuire ogni fucile, ogni proiettile, ogni granata, ogni vagone ferroviario da cui dipendeva la guerra dello zar. Peggio ancora, Nicola II non aveva altra scelta se non rafforzare questo avversario.
Hasegawa riferisce che tra il 1914 e il 1917 il numero di lavoratori salariati a San Pietroburgo crebbe da 242.600 a 392.000 – qualcosa come il 62% – con le donne che rappresentavano un quarto di tutti i lavoratori. Gli scioperi erano diminuiti nei primi giorni di patriottismo bellico: ad esempio, prima della guerra, nel 1914, circa 110.000 lavoratori avevano scioperato per commemorare la Domenica di Sangue, mentre invece il 9 gennaio 1915 solo 2.600 si fermarono. Ma non appena lo sforzo bellico crollò, gli scioperi proliferarono. Nei sei mesi tra il settembre 1916 e il febbraio 1917, circa 589.351 lavoratori incrociarono le braccia e circa l’80% di loro partecipò a scioperi politici.
Inoltre, nel pieno di questo movimento di massa, le organizzazioni socialiste svilupparono tenacemente una lunga battaglia per radicarsi tra i lavoratori. Migliaia di rivoluzionari avevano perso la vita nel 1905, o in seguito alla repressione, e altre migliaia erano stati reclutati e mandati al fronte nel tentativo di eliminare dal movimento operaio quegli agguerriti organizzatori. La polizia zarista, infatti, fu pericolosamente prossima a sradicare la sinistra socialista organizzata in diversi momenti; tuttavia i semi di più di una dozzina di anni di combattimenti – l’organizzazione di partiti clandestini e l’educazione socialista – avevano messo radici.

Mentre in Germania e Francia i dirigenti delle più importanti organizzazioni socialiste avevano appoggiato le proprie classi dirigenti nella prima guerra mondiale, la maggior parte del movimento socialista russo adottò invece principi internazionalisti contrari alla guerra. Nel complesso, San Pietroburgo brulicava di socialisti rivoluzionari organizzati in gruppi di partito – bolscevichi, menscevichi, i cosiddetti mezhraiontsy, i socialisti rivoluzionari e persino gli anarchici – che operavano in competizione e cooperazione tra loro.
Ovviamente, tra di loro c’erano anche alcuni famosi socialpatrioti, in particolare il leader dei menscevichi di destra, Georgi Plekhanov, il “padre della marxismo russo”, che sia Lenin che il menscevico internazionalista Julius Martov avevano un tempo considerato la loro guida politica.
In buona sostanza, le prime settimane del 1917 furono prossime a soddisfare quelle che Lenin considerava essere le premesse della “legge fondamentale della rivoluzione”, cioè:

Solo quando gli “strati inferiori” non vogliono più e gli “strati superiori” non possono più vivere come in passato la rivoluzione può trionfare.

La classe operaia nell’impero russo non era la sola a resistere alle condizioni derivanti dalla guerra. Karl Liebknecht rompeva con la direzione filobellica del partito socialdemocratico tedesco votando in parlamento contro i crediti di guerra; in carcere, Rosa Luxemburg scriveva il pacifista opuscolo di “Junius”; soldati francesi e tedeschi dichiaravano una tregua unilaterale per Natale, e la sinistra del partito socialista americano insieme ai lavoratori del sindacato Industrial Workers of the World si opponevano con forza alla campagna bellica di Woodrow Wilson.

​Ma la profondità della crisi sociale, economica e militare in Russia, sommata alla coscienza politica e all’organizzazione della classe operaia (in concomitanza con la crescente rivolta tra i soldati, contadini, studenti, e le nazionalità oppresse), correva molto più rapidamente che in qualsiasi altro posto del mondo nell’inverno del 1916-1917.
Soprattutto, una bella illusione (se non universalmente condivisa, almeno abbastanza comune) teneva insieme il vasto movimento anti-zarista. Cioè che, decapitata la monarchia, la pace, la democrazia e la prosperità sarebbero potute affermarsi in Russia.
Non ci volle molto perché il movimento rivoluzionario russo potesse mettere alla prova questa tesi. Febbraio fu solo l’inizio.


[traduzione di Valerio Torre]
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2001: PALERMO ANNO ZETA - Intervista a Salvatore Cavaleri, a cura del Centro Studi Zabùt 

24/3/2017
16 anni fa, il 20 marzo del 2001, veniva occupato il Laboratorio Zeta, centro sociale che avrebbe attraversato e segnato una lunga stagione politica della città di Palermo fino all’1 novembre del 2013, giorno del suo scioglimento. Cogliamo l’occasione di questo anniversario per pubblicare una lunga intervista [realizzata nella primavera del 2014] dal Centro Studi Zabùt a Salvatore Cavaleri – protagonista di quell’esperienza, attivista e collaboratore di PalermoGrad – che, ripercorrendone le vicende, offre un racconto politico di un decennio della città. Ne approfittiamo per segnalare, inoltre, la futura pubblicazione del volume Palermo e i suoi spazi sociali: appunti per una storia bandita a cura del Centro Studi Zabùt (I quaderni di Zabùt vol. 2. Edizioni Zabùt), all’interno del quale trova spazio questa intervista.


Zabùt: Racconta gli albori, come inizia la storia del Laboratorio Zeta?

Salvatore Cavaleri: Premetto che racconto la storia dal mio personale punto di vista, mettendo in conto che ci possano essere vissuti molto distanti dal mio. Sta nella natura stessa di storie come questa quella di essere il frutto di mille incroci diversi, con tutte le energie che si sprigionano, ma inevitabilmente anche con i mille scazzi che ne derivano.
Per cui preferisco mettere in conto che questa è una storia nella quale ho personalmente investito e dalla quale sono stato molto segnato. Questo è il mio racconto, non la versione ufficiale.
Parto dunque facendo alcune premesse che permettono di inquadrare meglio il contesto in cui ci troviamo.
Il Laboratorio Zeta nasce il 20 marzo 2001. Il primo gruppo di occupanti è abbastanza ridotto numericamente, anche se, come dire, faceva parte di un giro molto più largo, tanto che il nucleo degli occupanti si duplicherà già il pomeriggio stesso dell’occupazione.
Questo gruppo veniva in buona parte, seppur non del tutto, dai collettivi che avevano animato la facoltà di Lettere e Filosofia negli anni precedenti.
Una delle radici da cui proviene lo Zeta è sicuramente l’occupazione di Lettere del ’97: in quell’occasione fummo tra le pochissime Università in Italia ad occupare contro la riforma Berlinguer. Un movimento universitario, quello del ’97, che ebbe pochissimo clamore e risonanza proprio perché si contrapponeva ad un governo di centrosinistra. Anche se probabilmente quella è stata la riforma che ha dato il via alla definitiva aziendalizzazione delle Università.  
Quello è l’antecedente forte che, pur con mille differenze, unisce questo gruppo di persone, che da quel momento in poi continua la sua attività politica all’interno dell’Università. Anche perché con quella occupazione ottenemmo 5 box autogestiti, a partire dai quali abbiamo iniziato a vivere la facoltà quotidianamente, quasi fosse uno squat, con attività serali quali feste, concerti, cineforum, proiezioni o altro.
L’urgenza di trovare un altro luogo che fosse punto di riferimento per queste attività, in quel momento, non esisteva affatto. D’altronde all’epoca per noi era anche comodo ricevere tutti gli onori di quest’attività senza avere quegli oneri propri dell’occupazione.
Alla lunga però questo impegno quotidiano dentro le mura della facoltà di Lettere iniziò a starci stretto: avendo tutti tra i 25 e i 27 anni, abbondantemente fuori corso, eravamo abbastanza esausti della vita da studenti universitari.
Ecco perché, quando ormai eravamo quasi tutti laureati, iniziammo a chiederci come non disperdere quella energia politica una volta usciti dalla dimensione, ormai totalizzante, che era diventata per noi la Facoltà. Nei nostri ragionamenti ci rendevamo conto che la nostra azione politica aveva grande riconoscimento, ma solo dentro quelle mura, poiché toccava solo temi di e per studenti universitari. È a quel punto che nasce l’esigenza di buttarci dentro la città.
La seconda grande premessa riguarda la fase che in quel momento si attraversava: era il momento dei governi Prodi e D’Alema e, a livello locale, la fine dell’onda lunga dei dieci anni della primavera palermitana, ovvero il momento in cui la seconda candidatura del sindaco Leoluca Orlando era già in fase calante. Tutto l’entusiasmo che aveva caratterizzato i primi anni ’90, “gli anni della partecipazione”, stava affondando in un sentimento quasi di sudditanza verso il sovrano su cui si accentrava tutta la gestione della città.  
Nel momento in cui prendiamo la decisione di uscire dall’ambito universitario, ci ritroviamo catapultati in un contesto nazionale e cittadino che fa i conti con la guerra dei Balcani degli anni 1998-1999 e con i bombardamenti italiani ad opera dello stesso governo di centrosinistra che stava privatizzando l’Università. Così nascono i coordinamenti contro la guerra dispiegati sul territorio. Questo è il momento esatto in cui inizieremo delle esperienze e conosceremo dei personaggi che segneranno il nostro decennio successivo. Nasce cioè un nuovo spazio pubblico d’azione in città.
Ricordo ancora quelle riunioni del coordinamento contro la guerra. Si tenevano il lunedì nell’atrio della cattedrale. Lì si ritrovava a discutere tantissima gente: gruppi della sinistra extraparlamentare, cattolici del dissenso, associazioni, sindacati di base, singoli, tutti uniti dalla necessità di trovare nuove forme immediate per creare uno spazio di opposizione alla guerra.


All’inizio dicevi che vivevate l’università come spazio politico; sembra però di capire che questo spazio politico lo trovate in effetti fuori, nella città, dove comunque arrivate come un soggetto sociale definito, come un soggetto complessivo.

La dimensione da cui venivamo non era una dimensione forte, ed era anche una dimensione da cui volevamo uscire perché ci stava stretta. In questo nuovo contesto eravamo invece spinti da un forte entusiasmo, perché lì si sentiva che stava nascendo qualcosa di nuovo. Da quel coordinamento contro la guerra, infatti, un anno e mezzo dopo, sarebbe nato il Coordinamento contro il Global Crime, un movimento che nacque sull’onda lunga del paradigma della lotta alla “globalizzazione”, parola a noi fino a quel momento sconosciuta, ma che iniziavamo a capire che da lì in poi sarebbe diventata fondamentale.
Nei giorni di Seattle, organizzammo il primo convegno sulla globalizzazione presso la facoltà di Lettere e Filosofia a Palermo, proprio perché capimmo che si stava aprendo una stagione in cui l’opposizione ai grandi vertici sarebbe diventata una pratica costituente.
Qualche mese dopo, poi, proprio a Palermo, ci sarebbe stato il Global Crime, una conferenza internazionale sul crimine globale, fortemente voluta dall’Onu e dal sindaco Orlando, che la vedeva come momento conclusivo della sua candidatura, assumendo così la dimensione internazionale a cui teneva e tiene molto.
Il movimento contro il Global Crime del 2000 raccolse l’eredità del Coordinamento contro la guerra e, organizzando un controvertice, in qualche modo ci traghettò verso la stagione che ci avrebbe portato a Genova 2001.
Il passaggio successivo fu infatti la costituzione del Forum Sociale Siciliano che avrebbe accompagnato quell’aggregato fino alle giornate di Genova.
Un altro passaggio centrale da citare per completare il contesto in cui nasce il Laboratorio Zeta riguarda le manifestazioni contro i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati, creati sempre dai governi di centro sinistra. La questione dell’immigrazione era un altro macrotema verso il quale tutti noi eravamo in qualche modo analfabeti. Quella che vivevamo era la prima fase di immigrazione massiccia a Palermo, che toccava numeri e picchi senza precedenti.
Infine, accade che in quel contesto un collettivo più giovane, della generazione successiva alla nostra, occupò l’attuale Hotel de France, ovvero il Goliardo. Fummo contentissimi, ma anche un po’ spiazzati. Noi perdevamo un sacco di tempo a discutere e questi avevano già occupato. Quindi per forza di cose fummo spinti a darci una mossa. Considera che quella del Goliardo fu la prima occupazione dopo anni e anni di vuoto in città. Non c’era stato più uno spazio occupato dopo la chiusura del Montevergini prima e del Da Hausa dopo.


Cosa intendi quando parli di approcci diversi tra i collettivi in questione?
 
La differenza immediata era di età. Noi prossimi ai trenta, mentre loro erano appena usciti dalle superiori. Poi c’era anche una differenza di approccio: il loro era un gruppo molto omogeneo, noi rivendicavamo l’eterogeneità come valore. Loro erano molto rigorosi ed organizzati, noi in qualche modo eravamo meno rigidi, anche più svaccati in qualche modo.
Quando questo collettivo abbandonò il Goliardo, e occupò il Centro Sociale Exkarcere, il 13 marzo del 2001, esattamente una settimana dopo, il 20 marzo del 2001, noi occupammo il Laboratorio Zeta.
Insomma, sempre massimo rispetto tra le due esperienze, ma era abbastanza evidente che erano due storie diverse.
Il gruppo iniziale che diede vita allo Zeta era molto eterogeneo: tutti più o meno gravitanti nella sinistra extraparlamentare, qualcuno dal movimento non violento, appassionati di cinema, una buona componente anarchica, studenti universitari e qualcuno più o meno situazionista, anche se il termine si presta molto alla confusione.
Io personalmente negli anni ’90 mi ero occupato di movimenti ecologisti, differenze sessuali, cyberpunk e soprattutto avevo vissuto l’esplosione dei centri sociali post Pantera.
Tutte queste cose, per quanto diverse, in quegli anni sembravano comporre un nuovo paradigma che le teneva insieme in modo complesso.


In riferimento a questo termine che spesso utilizzi, questo nuovo paradigma, voi come vi ponevate? È chiaro che voi nascete da un’esigenza di costruire uno spazio autogestito rivendicando la vostra capacità di autonomia rispetto alle altre aree che intanto si andavano costruendo, ma comunque sembra che foste in cerca di un’identità…

Al netto del fatto che la parola “identità” la uso con molta prudenza, diciamo che nel primo periodo non c’era molta preoccupazione di capire a quale area appartenere. Piuttosto rivendicavamo come valore l’essere uno spazio di contaminazione. Abbiamo sempre provato ad evitare le etichette. Non volevamo essere il centro sociale anarchico, autonomo, o di qualsiasi altra area politica, anche se molti di noi facevano riferimento a determinati orientamenti. Questo non è necessariamente un pregio, anzi probabilmente porta con sé grossi limiti. Ma ci sembrava più importante portare avanti una storia nuova ed inclusiva, piuttosto che capire come definirla.  


Per quanto riguarda i riferimenti teorici però avete costruito un’unanimità all’interno del percorso che ha poi attraversato il Laboratorio Zeta negli anni?

Soprattutto all’inizio, lo ripeto, l’unanimità c’era pressoché su nulla. È chiaro che col passare degli anni invece si è creata molta più condivisione tra chi aveva condiviso tante esperienze.
Il 2001 era comunque una fase in cui si ripartiva da zero. Molti concetti teorici li abbiamo attraversati proprio nella fase della loro elaborazione. Faccio riferimento all’uscita di Impero di Hardt e Negri proprio in quegli anni, o di Oltre il Novecento di Revelli, ma anche No Logo di Naomi Klein o Appunti di fine secolo di Rossana Rossanda e Pietro Ingrao. 
Quella che stavamo vivendo era la prima ondata di movimenti globali nati dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Facevamo tesoro di tutta un’elaborazione della sinistra che non nasceva dal sovietismo, ma dalla sua critica, per così dire, da sinistra. 
Noi non piangevamo la caduta dell’Urss, ma neanche ci rassegnavamo alla vulgata secondo cui il capitalismo aveva definitivamente vinto. Noi eravamo interessati a tutto ciò che ci aiutava ad elaborare un’idea di comunismo nuovo e diverso. 
C’era anche una certa felicità nell’essere orfani di tutta una serie di coreografie, pesantezze e bagagli importati in Italia dalla tradizione del PCI, verso il quale d’altronde non avevamo mai subito molta fascinazione.
In quel periodo iniziammo a studiare il poststrutturalismo francese o l’operaismo italiano, proprio per ripartire da ciò che di “minore” o “eretico” ci fosse da recuperare.


Riprendiamo un po’ le fila della storia del Laboratorio Zeta. Una volta trasferiti dall’Università alla città, il passaggio dalla città al Centro Sociale come è avvenuto? Che rapporti avete instaurato con lo spazio cittadino circostante, sia che si tratti del quartiere in cui vi siete insediati, sia che si tratti degli altri movimenti presenti nel tessuto palermitano?

L’occupazione venne decisa durante una riunione domenicale presso il parchetto della Facoltà di Lettere. Si discuteva ancora di come e perché, fino a quando Piero parlò di uno spazio abbandonato in via Arrigo Boito, un ex asilo. Così il martedì dopo occupammo. La struttura era un vecchio asilo di proprietà dello IACP, un corpo basso degli anni ’70. Quando nel 1985 venne chiuso, nella stessa zona furono aperte quattro scuole private nel giro di pochissimo tempo.
Il posto era in condizioni devastanti, per cui i primi tempi furono dedicati a ripristinare l’agibilità.
Via Boito è una via di confine tra via Notarbartolo e via Malaspina. Praticamente tra via Libertà e la Noce. Una zona quindi di confine, prevalentemente abitata da anziani e famiglie. 
Negli anni abbiamo avuto rapporti variegati con il quartiere. Con alcuni abbiamo costruito un rapporto molto intimo, con tanti cordiale, con altri di aperta avversione e con la stragrande maggioranza di indifferenza.
Ma noi non ci siamo mai pensati come un posto del quartiere, ma come un luogo della città. Un luogo di attraversamento.


Quali erano le attività del Laboratorio Zeta?

Lo Zeta ha attraversato nella sua storia, per semplificare, quattro grandi fasi. I primi anni, quelli più acerbi, un po’ ingenui ma molto divertenti, diciamo quelli in cui si facevano le cose tipiche da centro sociale classico: cineforum (il primo film in assoluto è stato Animal House), assemblee,  manifestazioni, mercatino equosolidale, feste col Diana Rouge. 
La seconda fase inizia con l’arrivo del primo gruppo di sudanesi, nel marzo 2003, e vedrà nella questione migrante la sua parte fondamentale. Sono gli anni in cui parte del centro si trasforma in una struttura di accoglienza autorganizzata, ma anche gli anni della Rete Antirazzista Siciliana, con cui organizziamo la mobilitazione per la Cap Anamur nel 2003, il campeggio antirazzista di Licata del 2004 e un’importante manifestazione a Lampedusa nel 2005. 
Una terza fase è legata all’esperienza del web magazine Kom-pa e all’attività culturale, diciamo a partire dal 2007. In questo periodo iniziano a girare attorno allo Zeta alcune delle migliori menti che questa città offriva. Qui lo Zeta si afferma sempre più come punto di riferimento per il dibattito e l’elaborazione politica in città.
La quarta ed ultima fase è quella che prende il via attorno alla straordinaria aggregazione che si venne a creare dopo lo sgombero del 2010 ed arriva alle mobilitazioni per la riapertura dei Cantieri della Zisa.
 

​Rispetto ai movimenti di lotta invece, ad esempio il movimento di lotta per la casa o per le rivendicazioni sociali a Palermo, partecipavate direttamente o no?

Il movimento per il diritto alla casa lo abbiamo sempre seguito, a partire dall’occupazione della Cattedrale del 2001. All’inizio come sostegno o appoggio esterno, per poi nel corso degli anni parteciparvi più internamente. Ovviamente facendo anche i conti con le altre mille cose che seguivamo. Va sottolineato che nel 2003 avviene un fattore di svolta nella storia dello Zeta. Il 3 marzo del 2003, mentre al centro sociale si svolgeva uno spettacolo teatrale, uno di noi ricevette una chiamata in cui lo si avvisava che un gruppo di rifugiati politici si era accampato davanti la prefettura in segno di protesta. Così ci precipitammo immediatamente sul posto per capirne di più: si trattava di un gruppo di 53 rifugiati politici del Sudan buttati fuori, per futili motivi, dalla struttura di Biagio Conte. In realtà ne erano stati buttati fuori soltanto tre, che furono seguiti per solidarietà da tutto il resto della comunità.  
Qualche giorno dopo, durante un’assemblea con i rifugiati che si teneva a S. Chiara, mentre si discuteva dell’appuntamento in prefettura fissato per il mercoledì successivo, si pose il problema di dove potessero dormire queste 53 persone per quei tre giorni. A quel punto io dissi che, con tutti i limiti del caso, per tre giorni la disponibilità di un tetto allo Zeta ci poteva essere. Quei tre giorni sono poi diventati dieci anni e, che io sappia, continuano tutt’ora.
Capimmo subito allora che si trattava di un’occasione di lotta per noi molto importante, poiché toccava un nervo scoperto di Comune e Prefettura, cioè quello delle politiche di accoglienza. Il gruppo di rifugiati in questione tra l’altro era un gruppo fortemente politicizzato, con una propria strutturazione interna, delle leadership e dei trascorsi di attivismo anche in Sudan. 
Iniziò allora una vertenza con le istituzioni per la creazione di un centro di accoglienza pubblico e laico per rifugiati a Palermo.


Come è cambiata l’attività del Centro sociale a causa o forse è meglio dire grazie a questo percorso con gli immigrati?

Durante questa vertenza avviata con il Comune discutevamo sul da farsi attraverso riunioni che duravano a volte notti intere, alle quali partecipavamo noi dello Zeta, i 53 sudanesi ed un interprete in mezzo.
Non solo la storia, ma la conformazione stessa dello spazio in quel periodo cambiò radicalmente. Ogni giorno era attraversato da tantissime persone 24 ore su 24.
Non solo i “compagni”, ma gente con nessuna esperienza politica che si avvicinava per solidarietà, semplicemente per dare una mano. Noi stessi siamo cambiati profondamente. 
La vertenza durò 5 mesi e si concluse senza risposte dalle istituzioni.
Durante l’estate, a bocce ferme, mentre tutti i sudanesi andarono a lavorare nelle campagne, noi iniziammo a ragionare sul futuro del centro sociale.
Decidemmo allora di continuare questo esperimento di cogestione dello spazio tra rifugiati sudanesi e attivisti italiani.


Quindi il vostro ruolo di spazio di ospitalità per rifugiati venne riconosciuto direttamente dalla prefettura e il comune fu obbligato a ritirare l’intimazione allo sgombero?

Non proprio. Le istituzioni erano ben contente che noi facessimo quello che dovevano fare loro, ma ovviamente senza riconoscerlo o aiutarci in qualche modo. Anzi, al rientro dall’estate occupammo il Consiglio Comunale per fare delle richieste.
La prima fu quella di attaccarci l’acqua per evitare questioni di emergenza igienico-sanitaria: ci fu accordata, anche se in realtà poi il Comune le bollette non le ha mai pagate. Comunque venne attaccata l’acqua nel posto occupato.
La seconda richiesta fu il contratto con il banco alimentare per provvedere al cibo della gente ospitata allo Zeta, e anche questa ci venne concessa.
La terza richiesta, mai accordata, fu che i rifugiati potessero eleggere via Arrigo Boito n. 7 come proprio domicilio. 
Va aggiunto che dopo la prima fase di accoglienza per i 53 sudanesi, la questione immigrazione diventa per noi terreno di lotta politica anche fuori dal centro sociale.
Per noi dividere lo spazio con dei rifugiati e lottare contro i Cpt erano due facce della stessa lotta.
È in questo periodo che si forma la Rete Antirazzista Siciliana. Era l’estate del 2004, i primi anni dell’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, quando l’Ong Cap Anamur decise di vigilare sul Mediterraneo per salvare persone a rischio naufragio. Così portò in salvo 41 ragazzi trovati su una barca in avaria. 
Questo diventò una caso nazionale e ne iniziarono a parlare tutti i giornali. Così, quando venimmo a sapere che la nave stava per attraccare a Porto Empedocle ci siamo catapultati lì. Aspettando tutta la notte l’arrivo della nave, assistendo alla passerella politica di personaggi come Cuffaro venuti lì a rassicurare le telecamere su quanto la Sicilia fosse terra d’accoglienza. Poi, quando la nave attraccò all’alba del giorno seguente, il capitano e i membri dell’Ong vennero subito arrestati, i 41 ragazzi portati direttamente al Cpt di Caltanissetta, e noi fummo caricati a freddo dalla polizia. 
In quell’occasione la Boldrini, allora portavoce dell’Unhcr, con un tempismo eccezionale, ringraziò le forze dell'ordine e lo Stato per la gestione della situazione.

Tutti i 41 immigrati furono espulsi, eccezion fatta per uno soltanto, Benjamin, un nigeriano che tre settimane dopo, non si sa come, arrivò allo Zeta. 
Racconto queste storie perché davvero aiutano a capire l’aria che si respirava al Centro Sociale in quegli anni: Benjamin il nigeriano passava le sue giornate con Liubo l’ucraino ubriacone che voleva tornare a casa ma non sapeva come, i 50 sudanesi musulmani ed astemi che volevano il permesso di soggiorno per restare in Italia e Pascal scultore peruviano arrivato in Italia in bicicletta.
Per aiutare l’ucraino barbone alcuni di noi andarono fino al consolato ucraino a Roma. Poi rintracciammo la famiglia, gli trovammo un passaggio con un camionista diretto ad est e così riuscì a tornare da sua figlia. Appena arrivato, dopo settimane di peripezie in Europa ci chiamò per salutarci e farci ringraziare dalla figlia.
Un’altra storia folle è quella di Fatah, un ragazzo etiope molto in gamba che prese il diploma grazie alla nostra scuola di italiano per stranieri. Poi ha iniziato a fare il mediatore culturale ed oggi è responsabile dell’ambulatorio palermitano di Emergency. Anni dopo una di noi, Alessandra, si trovò a fare un viaggio in Etiopia. Allora decise di raggiungere il villaggio sperduto di Fatah per portare alcune foto alla famiglia e prendere alcune cose per lui. 
Sono storie attraverso le quali si può comprendere da cosa era investito il Laboratorio Zeta in quegli anni. Veramente c’era la sensazione che in ogni momento stesse accadendo qualcosa di incredibile. Di questi aneddoti ne potrei raccontare a centinaia. 
Nei suoi dieci anni di storia, lo Zeta avrà ospitato almeno 600 persone tra sudanesi, nigeriani, etiopi, bulgari, ucraini ma anche portoghesi e persino neozelandesi: alcuni per dieci giorni, altri per dieci anni.


L’impegno sul piano dell’accoglienza e dell’immigrazione quindi vi impegnava moltissimo. Riuscivate a continuare le altre attività del Centro Sociale?

Quando abbiamo dato avvio alla fase abitativa, gran parte degli spazi del Centro sono stati ripensati e in base a questa sistemati. All’inizio anche qualcuno di noi viveva allo Zeta, ma poi abbiamo deciso di lasciare tutto lo spazio abitativo possibile agli immigrati. L’unico italiano che abitava allo Zeta era Riccardo, un ragazzo toscano che dopo aver fatto la raccolta delle mele in Trentino era venuto in Sicilia per fare la raccolta delle arance, poi però decise di fermarsi allo Zeta per circa due anni, occupandosi in toto dell’accoglienza, aiutando i nuovi arrivati a sistemarsi o accompagnandoli a sbrigare i documenti o alle visite al Policlinico. 
Nel mentre continuavano le attività di sempre: proiezioni, concerti, feste, assemblee, spettacoli teatrali, ma anche i corsi di informatica, la scuola di italiano per stranieri e l’ambulatorio per immigrati gestito da alcuni medici di Emergency che poi avrebbero aperto l’ambulatorio che oggi è una struttura di eccellenza.


Come facevate a finanziare tutto questo?

Con la Forst a un euro! Sembra uno scherzo, ma è per far capire che tutto era autofinanziato e che nessuno c’ha mai guadagnato una lira, anzi si metteva sempre mano al portafogli perché motivi per iniziare una colletta ce n’erano uno a settimana. L’unica volta in cui beccammo un finanziamento fu quando l’associazione per cui lavoravo mi disse che c’era la proposta di un progetto di sostegno alle scuole di italiano per stranieri; la nostra scuola era convenzionata con la scuola media “Antonio Ugo”, e Luciana, una docente di quella scuola, veniva a fare lezioni anche da noi in modo che a fine anno le persone potessero anche prendere la licenza media. Utilizzammo quei fondi per comprare una stampante e materiale didattico vario. Tra l’altro facendoci un sacco di pippe sull’opportunità etica di accettare quei soldi. Sembra assurdo ma quelle poche centinaia di euro sono state l’unico finanziamento esterno che ci è arrivato in tredici anni.


Come funzionava il gruppo di gestione dello spazio?

Tutto, più o meno, passava dall’assemblea di gestione. Io la chiamavo “la Messa”, perché la facevamo sempre di domenica. Va detto che, se nel primo periodo si trattava di un collettivo molto eterogeneo, con il passare degli anni, con la condivisione delle esperienze il gruppo si trasforma in un collettivo che condivide molte più cose. 
Inoltre, se all’inizio dell’occupazione “la Messa” discuteva ore e ore su come gestire i cani dei punk o sul colore con cui dipingere le pareti, l’arrivo dei sudanesi ha fatto mutare la forma della nostra attività politica e con essa la sostanza.
Le assemblee comunque sono rimaste nel tempo sempre aperte a chiunque volesse parteciparvi e la divisione organizzativa veniva scelta in quella sede in modo collettivo. Per tutta la loro durata, comunque, le assemblee, com’è naturale che fosse, hanno sempre mantenuto un loro lato delirante.


Quale era la composizione sociale del gruppo?

Anche questa assolutamente eterogenea. La gente che veniva allo Zeta, in termini semplicistici, veniva tanto da famiglie molto povere quanto da famiglie molte ricche. Detto questo, stiamo parlando di tutte persone che hanno poi vissuto la precarietà lavorativa ed esistenziale sulla propria pelle.  


E per quanto riguarda il vostro rapporto con le istituzioni?

Nei suoi dieci anni di storia il Laboratorio Zeta ha attraversato entrambe le amministrazioni Cammarata e poi i primi anni del ritorno di Orlando. E tra i due, non possiamo nasconderlo, ci sono state enormi differenze.
Quando noi nasciamo, nel 2001, non è soltanto l’anno del fermento politico per Genova, ma anche l’anno del 61 a 0, quello in cui Cuffaro diventa presidente della regione Sicilia e Cammarata sindaco di Palermo.
Ci siamo sempre chiesti come fosse stata possibile la grande vittoria alle elezioni amministrative di Cammarata dopo dieci anni di Primavera siciliana, e questo forse dovremmo continuare a chiedercelo. Ad ogni modo, l’anno in cui occupammo, ci trovammo nuovamente in una Palermo Anno Zero che faceva i conti con lo scemare dell’entusiasmo per la partecipazione politica.
Gli anni vissuti sotto l’amministrazione Cammarata sono dunque gli anni in cui noi e il gruppo degli autonomi eravamo, più o meno, gli unici soggetti culturali e politici esistenti nel deserto della città. Se si pensa anche solo ai concerti, in quegli anni i centri propulsori eravamo noi e l’Exkarcere. L’attivismo politico lo si trovava in ambienti affini a noi o al Centro Sociale Exkarcere, oppure non c’era.
Il primo approccio che questa amministrazione ha avuto con i centri sociali in città è stato un tentativo di sgombero congiunto, già nel 2001. Pochi giorni dopo lo sgombero rientrammo nello spazio.
Poi nel 2010 lo sgombero arrivò davvero. Quello fu forse il momento in cui lo Zeta sentì maggiormente il peso della sua storia. Contro quello sgombero si mobilitò una quantità di gente pazzesca, sia numericamente ma ancor di più dal punto di vista della sua composizione. Alla manifestazione c’erano tutti, dai punk alle suore, e per tutti era naturale stare insieme per difendere lo Zeta. 
Dico, noi ci siamo sempre mossi sui paradossi. Una manifestazione solo di punk ci avrebbe annoiato, non parliamo di una manifestazione solo di suore. Ma quei mix assurdi che si creano in certi momenti, quelli sì sono davvero destabilizzanti. L’importante era proprio che a difendere l’esperienza dell’occupazione non ci fossero soltanto i “compagni”, ma gente che non l’avresti mai detto, ma era lì in prima fila. 
I mesi successivi lo Zeta diventò un punto di riferimento in città a 360 gradi. Lo ricordo come uno di quei periodi in cui si rinasce, in cui conosci una marea di persone nuove che immediatamente percepisci come compagni di strada.

Quella fase coincide con la fine dei dieci anni dell’amministrazione Cammarata e si sentiva un clima di rottura degli argini.
Da lì a poco nasceranno esperienze come il Teatro Garibaldi Aperto o quella del movimento de I Cantieri che Vogliamo, che per l’appunto non erano portate avanti soltanto da attivisti abituali, ma, anzi, soprattutto da persone che non avevano mai fatto militanza in vita loro. 
Buona parte di quelle energie rimase stritolata durante la campagna elettorale delle amministrative successive, quando tutto il dibattito politico si ridusse a un tifo per Orlando o per Ferrandelli.
Dicotomia che divenne, ahinoi, alquanto invasiva. Motivo per cui noi come Zeta sentimmo l’esigenza di esprimerci al riguardo: scrivemmo un documento in cui sottolineammo come la questione centrale non fosse per chi tifare, ma la possibilità di partecipazione politica. Sottolineammo, cioè, il nostro disinteresse per un dibattito che era diventato vuoto. Riconoscevamo a Ferrandelli la sua presenza negli anni bui di Cammarata, ma certo non ci piacevano le alleanze politiche che si era scelto. Allo stesso tempo sapevamo che Orlando era stato il Sindaco di un decennio “felice” (tra mille virgolette) di Palermo, ma sapevamo anche il vuoto che quel decennio aveva lasciato. Del resto, il tema dei semi sterili dell’“orlandismo” sembra essere sempre attuale.
In questo gioco al massacro ci vedevamo qualcosa di edipico, così ne siamo stati fuori, nonostante ci fossero arrivati tanti “corteggiamenti”.


Ma perché vi siete sentiti chiamati in causa ad esprimervi al riguardo?
Sembra di capire che se si fosse costruito un quadro politico differente per le amministrative del 2012, cioè se Ferrandelli magari non avesse costruito un’alleanza politica con il vecchio gruppo dirigente del partito, sarebbe potuto essere per voi un soggetto di riferimento, a patto che aprisse processi partecipativi.

Per noi non era importante il nome del leader. Non eravamo dei sostenitori di Ferrandelli, né di Orlando. 
Guarda, rischiando di sembrare presuntuosi, al massimo entrambi, in momenti diversi, erano stati dei sostenitori dello Zeta. 
Comunque, se ci fosse stato in quel momento il contesto politico per continuare anche in ambito istituzionale una serie di lotte che ci avevano visti protagonisti, noi ci saremmo stati dentro. Ma il contesto che si era venuto a determinare non era tale. Evidentemente, anche per limiti nostri.


Torniamo allo spazio. Come si conclude l’esperienza del Laboratorio Zeta?

Nel novembre del 2013 decidiamo di concludere la nostra esperienza.
La scelta è stata dettata da varie ragioni, ma in realtà il motivo principale è stato quello di non riuscire più a coniugare l’attività politica con l’esperienza di cogestione con la comunità sudanese.
A lungo andare l’impegno che richiedeva l’attività di accoglienza era diventato sempre più pressante ed il legame di fiducia necessario si era a dir poco incrinato.
Evidentemente noi non siamo stati in grado di determinare un’evoluzione di quella dimensione che la rendesse sostenibile.
Nel tempo, infatti, le distanze tra le diverse esigenze di chi viveva il posto sono diventate sempre più marcate e sempre più difficili da coniugare. Una roba come quella, senza un enorme spirito di collaborazione, era evidentemente impossibile da continuare. 
Dopo quasi due anni di discussioni logoranti, ed una serie di avvenimenti molto gravi, con il gruppo di migranti residenti si era arrivati ad un vicolo cieco di incomunicabilità. Decidemmo, allora, con grande sofferenza e travaglio interno, che piuttosto che continuare l’escalation conflittuale con chi per anni avevamo considerato nostro fratello, preferivamo lasciare loro le mura ed il tetto.
C’è da dire che anche dall’amministrazione Orlando, più volte da noi sollecitata per trovare una soluzione di accoglienza pubblica e dignitosa, alternativa allo Zeta, non arrivarono risposte adeguate.
Così, assolutamente logorati dal fatto che l’esperienza che per anni ci aveva regalato enorme felicità era diventata ormai fonte unicamente di stress, preso atto della consapevolezza dei nostri limiti, seppur senza una decisione unanime, nel novembre del 2013 lasciammo il posto, pubblicando un comunicato in cui annunciavamo la conclusione del soggetto multiforme fino a quel momento conosciuto come Laboratorio Zeta. ​
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MEZZOGIORNO GLOBALE - Neoliberismo, Europa e meridioni.

17/3/2017
di PalermoGrad 
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Intervento di Joseph Halevi presso l'istituto Gramsci Siciliano di Palermo dello scorso 28 settembre. 
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ATTACCO SU TRE FRONTI: ​LA NUOVA RECINZIONE

10/3/2017
di Richard Brodie 

Dopo il referendum costituzionale il governo italiano, sostenuto dalla vecchia leadership del PD, si è ricompattato decisamente a destra. Per affrontare la sfida vuoi di Salvini vuoi di Grillo, entrambi rafforzati dalla crescita mondiale delle forze della supremazia bianca (il cosiddetto ‘populismo’ che alla fine si rivolge contro lo stesso popolo), buona parte del mondo politico si ri-orienta verso una politica dal sapore razzista: una politica che identifica nella forza-lavoro degli africani e asiatici presenti sul territorio un capro espiratorio da offrire a una classe operaia bianca delusa dalle promesse disattese dallo stesso ceto politico, che mai più riuscirà a garantire la crescita economica.

 
L’attacco del governo Gentiloni è stato sferrato su tre fronti, rispettivamente dal Ministero degli Affari Esteri di Alfano, dal Ministero dell’Interno di Minniti, e dal Ministero di Grazia e Giustizia di Orlando: tutti alleati in una santa battuta di caccia contro i migranti, soprattutto quelli che arrivano a bordo dei gommoni.[1]
 
Il piano Minniti: lavori forzati?
 
Nell’ultimo giorno dell’anno passato si sono già avuti alcuni segnali della nuova politica, allorché Minniti ha annunciato l’intento di aprire nuovi Centri di Identificazione e Espulsione in tutta Italia, e allo stesso tempo ha fatto circolare una nota presso le questure, sollecitando le procedure di espulsione e respingimento. In seguito Minniti si è recato di persona in Libia per trattare con il governo. Due settimane dopo, è uscita la notizia di un progetto per fare lavorare i nuovi richiedenti asilo che intendano ricevere un permesso di soggiorno in Italia.[2] Ma è in questi ultimi giorni che il piano si è rivelato più nitidamente. Il 9 febbraio Minniti ha dichiarato che ci saranno nuovi “centri permanenti per il rimpatrio” (se ne prevede uno per regione), protagonisti di un nuovo capitolo di carcerazioni ed espulsioni.[3] Il nuovo provvedimento potrebbe prevedere che anche cittadini stranieri regolari accettino il processo di foto-segnalazione e il rilevamento delle impronte digitali, oppure corrano il rischio di essere incarcerati nei nuovi centri. I centri saranno finanziati con 19,125 milioni di euro tramite il fondo europeo.
In più il ministero ha confermato il progetto relativo alle attività lavorative dei richiedenti asilo. Stiamo parlando di una sorta di lavori forzati, dato che i Comuni che prendessero in carico i richiedenti asilo acquisirebbero per l’appunto il diritto di farli lavorare. Il fatto che questo lavoro sarebbe non-remunerato viene sottolineato con chiarezza; che cosa poi voglia dire “su base volontaria” in un simile contesto risulta meno chiaro. Rispetto a questo argomento si aspetta per l’estate la formulazione di un progetto complessivo, il “piano nazionale di integrazione”.[4]
 
Forse possiamo farci un’idea più precisa partendo dall’esperienza del Comune di Corleone, commissariato dall’agosto 2016 in seguito allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.[5] A Corleone si è realizzato quello che potrebbe essere un prototipo del piano Minniti, in cui i richiedenti asilo inseriti nel locale centro di accoglienza hanno l’opportunità di pulire le strade della città, 20 ore a settimana per 4 mesi, senza pagamento ma in cambio di un foglio ufficiale che attesta la loro disponibilità e ottimo carattere.[6] Un foglio del quale, senza dubbio, le commissioni territoriali (prefetture) e la magistratura terranno conto al momento di decidere sull’esito di un eventuale ricorso contro il diniego alla richiesta di protezione internazionale. Insomma il migrante che lavorasse regolarmente ma in cambio di nulla finirebbe con l’avere maggiori probabilità di ottenere il permesso di soggiorno rispetto a chi lavorasse in nero ma pagato. Legalizzazione per chi accetta i lavori forzati, clandestinità per la classe operaia vera e propria.
 
Il piano Alfano: ritorno alle coste di Barberia? 
 
Il compito del Ministero degli Esteri è più semplice: dar seguito alla strategia di tentare un accordo con un governo libico (dico “un governo”, dato che la guerra civile c’è ancora) allo scopo di bloccare il flusso migratorio. A livello europeo il progetto è già portato avanti da mesi, non da ultimo tramite l’addestramento svolto dalla guardia costiera libica insieme all’agenzia navale dell’UE. Come dice un giovane interprete palermitano che è stato licenziato dall’operazione:
 
“Gran parte dei libici erano ragazzi nati nel ’92-’93, mi è sembrata più un’armata Brancaleone, inviati in fretta e furia, motivati sicuramente dalla volontà di migliorare la loro situazione economica, visto che dal governo libico non ricevevano stipendi da agosto. Poi c’erano anche alcuni veterani, colonnelli spinti da ben altre motivazioni: risolvere la situazione in Libia e avere una Guardia costiera efficiente”.[7]
 
Inoltre Alfano ha riaperto l’ambasciata italiana in Libia a gennaio, dando sostegno al governo di Serraj, che tuttavia non ha ancora la capacità di governare il paese.[8] In questi ultimi mesi il Ministero ha fatto rifermento all’accordo con la Turchia con parole di ammirazione, e infine a Malta lo stesso Gentiloni ha firmato con la Libia un accordo simile, che prevede una piena collaborazione con agenzie europee e guardia costiera libica allo scopo di rintracciare i migranti che partono dalle coste libiche e riportarli indietro.[9]
 
Ma parlare solo in termini di giurisprudenza e diritti umani riguardo a questo progetto significherebbe saltare una dimensione importante: quella della lotta. Questa collaborazione internazionale è il risultato della forte lotta condotta da una componente giovane della classe operaia africana per potere entrare in Europa, anche contro i trafficanti che la sfrutta. Qualora i migranti africani arrivassero tranquillamente in Sicilia, i trafficanti perderebbero il controllo sui loro pacchi umani. Ora, con l’aiuto del capitale fisso (anche se non-produttivo) dell’UE (navi, satelliti, elicotteri), la “guardia costiera libica” (una realtà che non corrisponde a molto più – stando alla descrizione vista sopra – che a una giovane milizia navale) ha la capacità di scacciare i migranti, che finirebbero di nuovo in mano ai trafficanti, subendo di conseguenza ulteriori maltrattamenti e ricatti. Dato che le milizie libiche usano strumenti “arretrati” di violenza bruta e di messa in prigionia, laddove l’Europa dispiega le forze ben più professionali e progredite di Frontex, nella collaborazione tra la Libia e l’UE potrebbe osservarsi un classico esempio di “sviluppo diseguale e combinato”.
 
L’unica prospettiva di resistenza a questo punto risiede nell’instabile situazione della stessa Libia, visto che il parlamento libico non ha ancora accettato l’accordo con l’Italia, che peraltro rimane uno dei pochi Stati a sostenere il governo Serraj, laddove la Francia ed altri Stati sostengono l’esercito di Haftar. Il conflitto libico rimane una opportunità non solo di riscoprire una presenza neo-colonialistica in Africa, ma anche di placare la destra parlamentare, imponendo un blocco al “flusso” migratorio. Una piccola indicazione: nel nuovo provvedimento c’è un incremento di 10 operatori “nella rete diplomatica e consolare nel continente africano.”[10]
 
 
Il piano Orlando: clandestinità più veloce? 
 
Il terzo aspetto della nuova politica migratoria è pertinenza del Ministero della Giustizia.[11] Tramite il decreto approvato il 10 febbraio, il Ministero introduce 14 sezioni specializzate nei tribunali (anche a Palermo, che prende in carico la Sicilia occidentale), con magistrati che si dedicano esclusivamente a ciò che riguarda l’immigrazione, alcuni dei quali valuteranno il ricorso contro un eventuale diniego alla richiesta di protezione. La richiesta stessa continuerebbe ad essere ascoltata in sede di Commissione Territoriale, ma adesso attraverso la videoregistrazione, che i giudici avranno la possibilità di utilizzare per valutare i singoli casi, senza la necessità di ascoltare nuovamente il richiedente. L’interrogatorio della polizia rimarrebbe così in molti casi l’unica base per illustrare la propria situazione e raccontare la propria storia.
 
In generale, il nuovo decreto-legge propone una velocizzazione del percorso giuridico per il permesso di soggiorno, date le tempistiche decisivamente lente che i migranti affrontano ogni giorno. La lotta per i propri documenti, e contro l’attesa senza fine che tocca a migliaia di giovani africani in Italia, ha ora ricevuto una risposta: le rapide negazioni di regolarità. Le proteste che si possono osservare ogni giorno nei centri di accoglienza hanno dunque avuto un esito, ma come sempre deformato. Invece di ottenere i documenti tramite una procedura rapida, otterranno più rapidamente le risposte negative, e in maniera più definitiva. Viste le grandi difficoltà del sistema di espulsione – che non è probabile i suddetti nuovi “centri permanenti per il rimpatrio” possano risolvere – il vero risultato di una velocizzazione dei dinieghi sarà il mantenimento della fabbrica sociale di “clandestinità”, e di conseguenza di una massa sempre più sfruttabile. Anzi: dato che si rafforza la minaccia di rimpatrio, una massa sempre più impaurita. Si diceva fosse “il cappio del boia” a far lavorare la classe operaia ottocentesca; oggi è il rimpatrio a spingere la massa a sudare nelle campagne.[12]
 
 
Supremazia bianca?
 
La politica che i ministeri propongono è tanto impraticabile quanto de facto suprematista. Non si può dimenticare che qui parliamo non di “soggetti” legali senza storie personali, identità e sogni, bensì di una massa di africani e asiatici, dagli Arabi ai Fanti, dai Tigrayani ai Bengali, oggi nuovamente parte della divisione del lavoro a livello mondiale: un sistema ‘razzializzato’ in cui gli italiani, con tutta la povertà che esiste e che ogni giorno constatiamo, siedono pur sempre dal lato dei bianchi. La politica del governo Gentiloni, come del governo Renzi in precedenza, finisce così di fatto con l’essere espressione di una “supremazia bianca” che siamo troppo abituati a identificare con gli Stati Uniti, senza mai riconoscerla in mezzo a noi.
 
Si tratta tuttavia di una politica impraticabile. Se si bloccasse una rotta, la classe operaia migratoria ne scoprirebbe un’altra, e continuerebbe a bussare alle porte d’Europa. La decrescita dell’economia europea ha bloccato i sogni di una generazione, cui il ceto politico racconta di una presunta colpevolezza di neri, musulmani e zingari.[13] Il flusso della classe operaia dall’Africa occidentale fin qui in Sicilia ha offerto a questi politici – sia del parlamento che della strada – lo spettacolo ideale per aggiungere la rabbia dei delusi ai guasti di un sistema di esclusione che, fra l’altro, contiene la potenzialità di abbassare il costo del lavoro.
 
Ma per bloccare questo movimento migratorio la classe dirigente dovrà convogliare l’ormai troppo limitato capitale a disposizione in direzione di tribunali, muri, navi, satelliti, prigioni, telecamere e droni. L’entità di questa spesa dipende in primo luogo dalla resistenza della classe operaia africana; il punto in cui questa spesa diventa troppo alta per risultare politicamente accettabile sarà determinato anche dalle forze progressiste e di solidarietà all’interno della società italiana e europea.
 
 
​

NOTE:

[1]I migranti giunti in Italia a bordo di gommoni rappresentano peraltro una minoranza del popolo non-Italiano sul territorio. L’anno scorso 180.000 persone sono arrivate sulle coste Italiane, di cui 150.000 hanno fatto richiesta di protezione internazionale; ma ci sono 5 milioni cittadini stranieri sul territorio, al 90% arrivati con l’aereo oppure nati in Italia. Insomma, i migranti che arrivano con i gommoni sono davvero i capri espiatori della situazione.

[2]Il progetto di lavoro volontario: htpp/www.ilgiornale.it/news/politica/nuove-regole-i-migranti-chi-chiede-asilo-dovr-lavorare-1351911.html

[3]I Cie nuovi: http://www.lastampa.it/2016/12/31/italia/cronache/controlli-nuovi-cie-e-rimpatri-stretta-sui-migranti-irregolari-pQdIHYk8Ivu50Iq2iXPcwM/pagina.html. Il cambiamento del nome a “CPR”: http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2017/01/13/migranti-cie-cambieranno-nome_151e79d6-e087-4144-9f71-baf9623697e9.html,

[4]http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-02-22/migranti-minniti-entro-giugno-piano-nazionale-l-integrazione-144805.shtml?uuid=AENVGHb&refresh_ce=1

[5]Corleone:http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/08/17/news/comune_di_corleone_sciolto_per_mafia_si_insedia_la_commissione_straordinaria-146147592/

[6]Ci sono altri esempi del genere: http://www.terrelibere.org/viaggio-nelle-citta-profughi-spazzano-le-strade-gratis/

[7]La testimonianza dell’interprete: http://meridionews.it/articolo/50508/rabia-interprete-nelladdestramento-dei-libici-licenziato-dalla-marina-per-ordini-dallalto/

[8]Riapertura dell’ambasciata: http://www.ansamed.info/ansamed/it/notizie/stati/libia/2017/01/09/libia-alfano-riapertura-ambasciata-segnale-fiducia_cb5d9e77-0bb1-4a1c-90a5-ab21aa640142.html

[9]     Per il patto libico:http://www.a-dif.org/2017/02/15/la-guerra-ai-migranti-diventa-guerra-totale-litalia-nel-pantano-libico/

[10]    Dallo schema di decreto legge, che si può scaricare qui: http://www.iussit.com/wp-content/uploads/2017/02/Schema-DL-Immigrazione.pdf

[11]“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Schema di decreto legge, come sopra. Un'analisi di una natura più giuridica è qui: http://www.a-dif.org/2017/02/14/piano-minniti-per-la-migrazione/e qui http://www.diritto.it/docs/5091506-minniti-ok-decreto-sicurezza-criticit-per-decreto-migranti-di-orlando?source=1&tipo=news

[12]Peter Linebaugh, The London Hanged, Verso Books 1991.

[13]Infatti, quattro donne Rom sono state portate al Cie a Roma: http://palermo.meridionews.it/articolo/52112/controlli-campo-rom-associazioni-denunciano-donne-deportate-separate-dalle-loro-famiglie/
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L’8 MARZO:24 ORE DI SCIOPERO,NONUNADIMENO - Le matriosche: soggettività molteplici,trasversali e complesse in Movimento

7/3/2017
di Roberta Di Bella

​Il 26 novembre 2016 a Roma c’è stata una grande manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne con la partecipazione di migliaia di donne, uomini, soggetti LGBTQI e femministe di differente provenienza. Il giorno dopo,il 27, ci si è incontrati ai tavoli tematici e ad un’assemblea plenaria. Il silenzio generale della stampa e dei mezzi di comunicazione, non volendo dare risalto alla “marea” (virgolette doppie SEMPRE) di soggetti in piazza, rendendoli “invisibili”, in realtà ha fatto esplodere l’energia di tutti quei corpi, il loro bisogno di esserci, ed ha aumentato in tutt* la voglia di rivedersi per continuare un percorso sempre più unitario e solidale per il riconoscimento dei diritti delle differenti femminilità che hanno partecipato.


A Palermo c’è stata una prima assemblea il 2 febbraio ed una seconda il 13 dello stesso mese, per discutere dell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo e delle differenti forme di protesta. Prossima tappa, l’assemblea di Non una di meno il 23 aprile a Roma.

La costruzione del movimento NonUnadiMeno, è scaturita dalle discussioni avvenute a Roma e dalle Assemblee in diverse città, e si è anche sviluppata ed è cresciuta grazie alla costituzione di differenti tavoli: Percorsi di fuoriuscita dalla violenza; Legislativo e Giuridico; Lavoro e Welfare; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Educazione e formazione; Femminismi e migrazioni; Narrazione della violenza attraverso i media; Sessismo nei movimenti.

Tutte le matriosche (simbolo del movimento) coinvolte dai temi trattati ai tavoli si sono poste l’obiettivo di un documento nazionale, una piattaforma comune contro la violenza sulle donne. Ci si è lasciate alla plenaria anche con la proposta delle donne Argentine di organizzare uno sciopero in ogni città o paese contro la violenza maschile sulle donne, ad oggi i paesi aderenti sono 40.

Si è deciso uno sciopero nazionale perché con lo sciopero si vuole una sospensione dal lavoro produttivo e riproduttivo per fare emergere l’importanza e lo sfruttamento dei lavori di cura, interni alla famiglia ma anche agiti nel lavoro “formale-produttivo”. Si è voluto evidenziare come ciò che per il profitto era improduttivo, tutte le attività nella formazione, attività relazionali, consumo, riproduzione sociale, grazie alle trasformazioni del mercato, sono diventate produttive, funzionali al mercato. Per attività riproduttive il Movimento considera non solo quelle connesse alla biologia, ma tutte quelle capacità organizzative, relazionali che noi donne abbiamo sviluppato non per vocazione naturale ma per costruzione socio-culturale e che, nel sistema socio-produttivo in cui viviamo, vengono sfruttate e assimilate in forme lavorative ipocritamente proposte per venire incontro ai bisogni delle lavoratrici, in realtà finalizzate allo sfruttamento di un sapere di saperi e capacità femminili.

Nell’assemblea del 4-5 a Bologna: si è continuato il lavoro dei tavoli tematici di Roma, approfondendo i temi trattati e proponendo modalità di fuoriuscita dalla violenza, violenza psicologica, fisica, potenziale, attraverso il riconoscimento dei diritti, di un reddito di autodeterminazione, di una formazione alle differenze, di una comunicazione priva di stereotipi, di uno sguardo a tutte quelle forme di potere che si annidano anche nei movimenti, che sono presenti anche nelle relazioni instaurate tra donne e finanche inconsapevolmente in noi stesse, quando non siamo in grado di riconoscerci un valore, riconoscerlo ad altr*, riproducendo relazioni asimmetriche con il mondo.

Punto fondamentale delle assemblee: coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità, non promuovere una generica politica delle pari opportunità, ma praticare modalità di stare al mondo fuori da certe relazioni/forme di potere che esistono tra i generi, all’interno dello stesso genere femminile e che riguardano anche le costruzioni sociali e culturali di cosa si intende e rappresenta il femminile e il maschile.

I principi fissati dal movimento Nonunadimeno sono sintetizzati nel seguente pensiero: “la nostra autodeterminazione sessuale e riproduttiva non si tocca. Sul nostro piacere, sulla nostra salute, sulle nostre scelte e sui nostri corpi decidiamo noi; siamo orgogliosamente anomale, sproporzionate, poco produttive e disfunzionali, vogliamo sottrarci alla violenza medica e ostetrica, il diritto all’aborto libero e perché nessuna sia obbligata alla maternità”.

Riguardo la 194, ci si è concentrate sulla regolamentazione dell’obiezione di coscienza dei medici. L’abolizione dell’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici con la proposta di fermare l’avanzata illegittima dell’obiezione nelle farmacie e nei consultori. Si sono ripensati i consultori come luoghi di aggregazione e centri culturali per rispondere alle esigenze e ai desideri delle donne e delle soggettività lgbtqi. Luoghi in grado di promuovere e tutelare il diritto alla salute delle persone trasgender, lesbiche, queer, gay, bisex, e intersex. Leitmotiv degli incontri è stato quello di considerare le differenze di cui sono portatori i corpi, non qualcosa da standardizzare.

Un partire da sé, riconoscersi come soggetti situati, porsi l’obiettivo dell’autodeterminazione e il riconoscimento di diritti fondamentali per una accettazione diffusa e unitaria della cittadinanza delle donne e di quelle soggettività respinte dalla stessa visione che genera esclusioni e costruisce modelli fondanti ed unici, opporsi pensando pluralità di punti di vista, di modelli, esistenze differenti.

Altri punti affrontati: assicurare il recepimento della direttiva europea sul risarcimento del danno per le vittime di violenza (condanna dell’Italia alla Corte di Strasburgo);  riconoscere il diritto dei centri antiviolenza e delle case rifugio già operanti sul territorio nazionale ad ottenere la diretta attribuzione dei fondi per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità in caso di mancato utilizzo da parte delle regioni delle risorse assegnate; netto rifiuto del regime dei confini e sottolineata l’urgenza di una complessiva critica del sistema dell’accoglienza e dell’accesso alla cittadinanza. Si è considerato il peso della dipendenza economica e della precarietà come causa della maggiore vulnerabilità ed esposizione delle donne alla violenza. Si è prospettata la necessità di esenzioni fiscali per il lavoro di cura ed un discorso specifico per le lavoratrici autonome, che sono tendenzialmente prive di qualsiasi forma di tutela, mentre alcune hanno indicato l’urgenza di estendere le tutele anche alle lavoratrici del sesso e alle madri surrogate.

Dalla posizione di subordinazione a cui le donne sono obbligate, sia dal doppio carico di lavoro, sia da una generale penalizzazione della maternità, reale o potenziale, si è discussa la necessità di un salario minimo per riuscire a contrastare i bassi salari, il gender pay gap e i dispositivi di dumping salariale. Da una prospettiva femminista sull’organizzazione del lavoro produttivo e di quello riproduttivo si è discusso della necessità di considerare il problema della maternità e della riproduzione come questione non femminile ma sociale. Così come il binarismo di genere uomo-donna e la norma eterosessuale, a più voci messe in risalto, sono state considerate fondamentali per la riproduzione di soggettività “redditizie”, realizzabili grazie all’esistenza di una governance neoliberale che ha fatto in modo, attraverso ideologie e repressione, che si affermasse il binarismo di genere, e dunque l’eteronormatività.

Si sono riconosciute tutte le forme di violenza maschile contro le donne compresa quella psicologica, economica ed assistita agita nei confronti dei figli/e minorenni nonché le molestie sessuali sui luoghi di lavoro, sul web e attraverso i social media.

Si è accentuata l’importanza di garantire protezione e accesso alla giustizia alle donne straniere vittime di violenza, sfruttamento sessuale e lavorativo, tratta e traffico di esseri umani, indipendentemente dalla loro posizione giuridica sul territorio italiano e dalla denuncia, garantendo loro un permesso di soggiorno permanente svincolato dal loro aggressore, assicurando l’accesso ai servizi di protezione e supporto quali consulenze legali, sostegno psicologico.

Per tutte le ragioni sopra elencate, intorno alle quali è solo iniziato un ampio dibattito, è importante essere presenti l’8 in piazza, come cittadin* e con le istituzioni che vogliono aderire. Perché una ‘marea’ si sta diffondendo carsicamente e visibilmente, sviluppando un movimento plurale femminista che grazie a reti nazionali e transnazionali che seguono un percorso democratico dal basso, si sta radicando in diversi paesi del mondo.
​
L’assemblea aderente a Non una di meno, Insieme contro la violenza maschile sulle donne, il nome con cui è nato l’incontro di differenti realtà femministe a Palermo, coordinerà le varie iniziative proposte da singole ed associazioni per la giornata dell’8 marzo; ci sarà un corteo, proiezioni, letture, testi recitati in piazza; ci sarà anche chi praticherà altre forme di astensione dal lavoro abituale sia nei posti di lavoro che a casa. È un percorso appena iniziato, che continuerà dopo l’8 marzo, e che spero possa sempre più crescere, senza scissioni e problemi al suo interno. A tal proposito, da tutte le assemblee ed incontri, quello che posso rimandare ed immaginare è l’avvio di un nuovo processo orizzontale e democratico di solidarietà, sorellanza, sostegno e alleanze trasversali, senza attaccamenti a gruppi o ideologie, qualcosa che sappia includere, ampliando la platea dei soggetti aventi riconoscimento dei loro diritti, differenti femminili, femminismi, soggettività queer e trans gender, migranti (di qualsiasi credo religioso), non normo-dotate-i, etc, Per sconfiggere tutti i Trump, il bigottismo e l’ipocrisia dei nostri politici e rompere quel sistema in cui siamo immers* che genera violenza, dobbiamo impegnarci a creare una società in cui tutte le donne – incluse le donne non bianche, le donne indigene, le donne in difficoltà economiche, le donne immigrate, le donne disabili, le donne musulmane, le donne lesbiche, le queer, le donne transgender – siano libere ed in grado di autodeterminarsi.
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COME SOLO UN AMANTE FA - Leopardi, gli antichi e la modernità

3/3/2017
di Giovanni Di Benedetto

​È davvero inusuale imbattersi in testi di critica letteraria capaci di coniugare acuta competenza specialistica e luminosa prospettiva di insieme. Ma, come si sa, l’eccezione conferma la regola. E eccezionale è lo studio di Salvatore Presti, Il salto di Leucade, aspetti e forme del pensiero antico in Giacomo Leopardi, Editore Sciascia, 2016. Un libro prezioso, a cui vogliamo tributare, nel nostro piccolo e con la modestia del nostro ruolo di semplici lettori, i riconoscimenti che merita; in cui la scrittura dell’autore, elegante e di una chiarezza cristallina, si coniuga con la profondità e lo spessore di un’ermeneutica che esprime una conoscenza profonda, e dunque nient’affatto vacuamente nozionistica, del poeta e filosofo recanatese.

Salvatore Presti indaga, lungo tutto lo svolgimento della produzione letteraria leopardiana, il complesso rapporto che lega la genesi della sua poetica e della sua filosofia al mondo degli antichi. In particolare, il riferimento è al mondo greco e al mondo latino, senza trascurare però la tradizione giudaica, soprattutto quella legata all’Antico Testamento, e quella cristiana a cui da giovane il nostro è stato avviato e su cui si è sostanzialmente formato. Il presupposto da cui parte l’autore è che la cifra dell’immane tentativo di Leopardi è, al tempo stesso, poetica e filosofica. Per meglio dire “non esiste filosofia dietro cui non ci sia una percezione poetica (…) del mondo, e non esiste poesia dietro cui non si sveli un pensiero, anche complesso” (249). L’idea che il pensiero di Leopardi, lo sosteneva Luporini in Filosofi vecchi e nuovi (un testo di più di mezzo secolo fa) si risolva nell’essere egli un grande “moralista” dalla “vita strozzata”, appare oramai superata. Da questo punto di vista, se divario risiede tra poesia e filosofia, questo è collocabile al livello formale della distinzione tra irrazionale e razionale, non certo al livello della sostanza dei contenuti.

Un Leopardi consapevolmente e pervicacemente materialista, quello che emerge dallo studio in questione, che attraversa, nella sua meditazione e nella sua produzione letteraria, il tema del dolore connesso alla naturale essenza egoistica del vivente e alla muta e impassibile necessità indifferente della natura. Fin da subito, l’autore rammenta che la noia, l’infelicità e la sofferenza del poeta sono congiunti a una meditazione sul senso dell’esistenza che rimanda, quale dispositivo esplicativo, al discorso sugli antichi. Certo, non manca il riferimento, quasi scontato, all’annosa questione relativa al mortifero stato di salute del Recanatese, come molla da cui scaturirebbe l’immagine di una sconfortata e terribile solitudine. Ma il negativo su cui Leopardi elabora la propria filosofia – nel libro tale convinzione emerge con un’evidenza e una trasparenza senza pari – non può ridursi all’inettitudine del corpo e alla sofferenza che da questo promana. Piuttosto, il poeta utilizza il dolore del proprio corpo-materia per farne una sorta di protesi speculativa, attraverso la quale guadagnare una prospettiva sulla realtà del mondo inedita e alquanto peculiare.

E di questa prospettiva, non si finirà mai di ripeterlo, autenticamente e radicalmente materialistica, Presti ci vuole parlare. A partire, per l’appunto, dall’analisi del mondo e della natura, all’interno dei quali si svolge l’esistenza del vivente, e della specie umana in particolare. Ha un che di perturbante la infinita vastità della natura, al cospetto della quale si staglia, con tutte le sue contraddizioni, la contingente particolarità dell’individuo, con il suo amor proprio, i suoi desideri inappagati, la sua essenza di materia pensante e di pensiero materiale. Emergono, soprattutto, le vanità, le menzogne, gli artifici con i quali l’umanità si sforza, inutilmente, di dare un senso al proprio nulla. Emerge la volontà, attraverso l’operare e l’artificio umani, di fare fronte, senza posa ma senza efficacia, all’eterno e capriccioso dileguare della natura che, come un fanciullo, di continuo distrugge e trasforma. L’ordine del mondo è nulla, per esso i viventi sono mezzi, non fini. “L’uomo è costretto a giocare il gioco cosmico di nascita, morte e distruzione opponendo ad esso, alla sua necessità assoluta e indifferente, la fragile idea di conservazione, il progresso, la sua equivoca libertà”(59). E tuttavia un tale sforzo risulta illusorio e ingannevole. Da qui l’ossessivo pensiero del suicidio, idea tragica sempre soffocata e sempre sotterraneamente presente. 

Ma cosa Leopardi, il non-contemporaneo e inattuale Leopardi, cerca e trova nell’antico? Si sarebbe potuto ipotizzare, in un giuoco di allusioni improbabili e vaneggiatrici, che il ricorso agli antichi potesse rimandare, in buona sostanza, a quella vitale identità di dimensione pubblica e sfera privata che Hegel definisce, nella Fenomenologia dello Spirito, “bella armonia”. Ma pur sperimentando, come il filosofo tedesco, la tragica e angosciosa lacerazione tra la condizione dell’uomo moderno ripiegato entro il proprio mondo interiore e l’anelito a volgersi verso l’alterità nel tentativo di superare il negativo dell’esistente, Leopardi non sembra conosca il lavoro del grande vecchio dell’idealismo. Ciò che gli preme, piuttosto, è segnalare come gli antichi siano ancora immuni dalla decadenza che si è prodotta tramite l’irruzione del progresso; in fondo è per questa ragione che agognano la vita, che aspirano all’azione, che bramano ad ogni istante, aristotelicamente, la traduzione della potenza in atto. Gli antichi godono della vita, realizzano l’amor proprio, svolgono, in modo energico e vitale, il desiderio quale essenza dell’essente. Si veda per esempio come, di fronte all’analisi sull’origine del sapere filosofico, il Recanatese, che ne aveva discusso nel suo saggio giovanile sulla Storia dell’Astronomia, sembra rammentarsi del noto passo, tratto dal primo libro della Metafisica di Aristotele, sul valore euristico della meraviglia. Lo sguardo degli antichi si volge verso la pienezza del cosmo e la bellezza degli astri con uno stupore, direbbe Elémire Zolla, infantile; si configura così, nell’esistenza degli antichi, uno sguardo compartecipativo, privo di mediazioni intellettualistiche, estraneo ad ogni tentazione oggettualizzante e reificante e perciò saturo di naturalezza e spontaneità.  

L’arte di inventare miti, il senso del meraviglioso, l’immaginazione, rimandano immediatamente alla giovinezza come al tempo antico, a quell’età della vita del mondo che in Leopardi diventa sinonimo di istintiva, mobile e fluida irrequietezza. È l’irrazionale che, quale pienezza primitiva, spontanea e inconscia della vita, conclude in una visione d’insieme del mondo che è possesso, ancora possibile, della natura. “La passione dei popoli antichi presenta tale pienezza istintiva, il gusto dell’essere nel mistero dell’essere. La giovinezza non si confronta con Dio, infatti, ma con le Muse. Mito è anche questo, un fatto estetico con cui possediamo il mondo, l’errore che non ha il compito di convincere ma quello di incantare”(142). E ancora: “Leopardi glorifica l’antico e lo traveste come solo un amante fa, svolge l’idea greca di consolazione del dolore nell’eroismo della vita, idealizza fin quasi a travisarla la sofferenza e i suoi modi, ma ne ammette la consistenza, ne parla come di presenza costitutiva anche di quelle società”(145).

Una differente risposta al dolore, è questo ciò che ricerca il poeta nell’accostare l’antico e il moderno. C’è una dissonanza nel tempo presente che acuisce la scissione tra io e natura, consapevolezza e istinto, finito e infinito, che è causata da un uso della ragione improprio e riduzionistico. Secondo Leopardi il pensiero moderno, con il suo ideale di matematizzazione del mondo e di conseguente padronanza di una presunta verità oggettivante, si caratterizza per un’operazione di assimilazione della natura al proprio fine quantificatore e misuratore. Ma l’età della tecnica, sembra sostenere il Recanatese, dimentica che ciò di cui la modernità si serve è esclusivamente un sistema interpretativo scientifico-raziocinante che si limita a escludere l’irrazionalità e la casualità e che, per tale ragione, non può pervenire a una autentica e profonda comprensione della natura. Per rendersene conto è sufficiente fare riferimento al bellissimo passo dello Zibaldone nel quale Leopardi scrive che “risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando […]; aspettando di fare effettivamente, e p. conseg. di vivere, quando saremo morti.” Il punto è che tale pretesa di una arida matematizzazione del mondo si impone come una dittatura della ragione sulle cose che, dimenticando la facoltà immaginativa, per sua natura poetica, prelude al naufragio esistenziale del tempo presente.

Sulla scorta di queste preziosissime considerazioni Presti introduce un ulteriore ambito di ricerca, quello attinente allo statuto ontologico, scrive proprio così l’autore, della parola, e dunque della ricerca filologica. Come se, attraverso l’attenta analisi filologica delle lingue antiche e di quelle moderne, si aprisse la possibilità di pensare la cosa, di dirne le proprietà e i caratteri, restituendoci, nella rete dei significati del linguaggio il dato di fatto per cui si comprende sempre in un certo modo. La parola non è un mero indicatore, scrive l’autore, che pensa “di poter ritenere che per Leopardi le parole siano significanti che sostengono l’espressione stessa delle rappresentazioni mentali consentendo di dire oltre e di acquisire conoscenze più vaste delle cose.” Nello Zibaldone il 27 luglio 1822 Leopardi scrive che “nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi si incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo”.  Non si pensa se non parlando, continua il poeta, a voler dire che la varietà della lingua stimola e arricchisce il pensare, l’armonia stilistica rafforza l’argomentare, la pluralità dei nomi apre alla molteplicità degli orizzonti concettuali.

Infine, un ultimo punto, anch’esso di estrema rilevanza. È quello più immediatamente politico, o forse sarebbe il caso di dire etico-politico. L’orizzonte di senso nel quale viene collocata la riflessione etico-politica è dato dal materialismo, derivante sì dall’influsso degli intellettuali illuministi, ma scaturente soprattutto dall’insegnamento dei pensatori antichi: Teofrasto, Lucrezio, Democrito e gli atomisti. Scrive Presti che “il pessimismo dialettico leopardiano, con l’occhio agli esiti moderni più pienamente nichilistici e il cuore al pessimismo antico, approda a un materialismo sensista che manca di fede, che non crede nell’esistenza di un Dio ma che, modernamente, discute sul significato, cerca il senso delle cose, della vita, della realtà” (193). È all’interno di questo orizzonte di senso, o di non-senso se così si può dire, che emerge la trattazione della dialettica che mette in gioco il rapporto tra l’individuo e le masse. Il discorso leopardiano aspira illuministicamente all’uguaglianza e alla libertà. Ma come sorreggere, nel quadro di un nichilismo centrato sul sentimento del nulla, la tensione individuale e la possibilità della differenza etica? Saranno proprio le illusioni e l’immaginazione, frutto dell’irrazionale, ad aprire spazi di conoscenza e pratica alternativi. Nella società di massa è il dominio del gregge, dell’indistinto, dell’omologazione. Solo l’irruzione del poetico nel politico, ossia della capacità di illudersi attraverso un voluto errore prospettico, potrà determinare la salvezza per l’individuo. Una tale capacità si serve, anche in questo caso, del linguaggio e della parola, della loro capacità di coniare costumi, usanze, abiti civici, ethos e, per questo tramite, di avviare l’umanità verso la dimensione della mutua e condivisa solidarietà. È un’illusione civica, sorretta comunque dal caso, e che consente alla società di non essere schiacciata sotto il peso della ferinità e della sopraffazione del più forte nei confronti del più debole.  

Certo, occorre rammentare che la modernità si nutre della potenza del negativo espressa dalla ragione, la quale condensa in sé un dispositivo ambivalente. Da un lato, infatti, essa ha favorito l’avanzare del progresso, ma dall’altro lato il progresso stesso si è rivelato causa di scissione, oltre ad avere allontanato l’umanità dal suo vero stato originario e naturale. Il compito dell’illusione e dell’immaginazione, e di tutta la sfera che fa affidamento all’irrazionale, consiste proprio nel preservare l’individuo e l’umanità tutta dal riconoscimento brutale che il vero è il nulla. Ne La Ginestra la dicotomia si esprimerà nella consapevolezza della social catena in contrasto alla consapevolezza dell’inutilità e dell’infelicità del tutto, della fragile esibizione umana di fronte alla fatale e insensata veemenza degli accadimenti. Mai dimenticando, come giustamente ricordava Edoardo Sanguineti, che Leopardi non era altro che un edonista disperato alla ricerca del diletto e alla caccia del piacere, ossessionato dal primato del fluire dinamico di tutte le cose e della vitalità primigenia che solo l’incivilimento avrebbe ostacolato e illanguidito. 
​

Al termine di questo commento non ci resta che manifestare una ingenua e schietta perplessità: ci riesce stupefacente constatare come lavori quale quello di Salvatore Presti, di una tale importante levatura, restino, per lo più, inascoltati e relegati ai margini della produzione editoriale. Insomma, non si farà torto a nessuno se si raccomanderà la lettura di questo studio che, per la serietà dell’approccio e per l’originale penetrazione del lavoro leopardiano, merita ben più alta considerazione di quella che queste modeste parole hanno potuto risvegliare.
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