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CARO YANIS, TI SCRIVO.. - Lettera aperta a Varoufakis dopo il lancio di DiEM 25

31/3/2016
“Democratizzazione o Barbarie” è l’alternativa posta in questo incisivo intervento, che appare in inglese su LeftEast. George Souvlis studia per il PhD in Storia presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze e scrive per varie testate di sinistra (Jacobin, ROAR, Enthemata Avgis); Samuele Mazzolini (MA in Latin American Studies ad Oxford)  ha lavorato come consulente per il governo dell’Ecuador, scrive tuttora per il quotidiano di quel paese  El Telégrafo e studia Ideology and Discourse Analysis presso la University of Essex.
 
 
Caro Yanis,
 
abbiamo deciso di scriverti  dopo aver seguito attentamente il lancio di DiEM 25 a Roma, il 23 marzo. Questa nostra lettera si propone di discutere una serie di aspetti della tua iniziativa che abbiamo trovato poco convincenti, facendone una critica costruttiva. Chiariamo subito perciò che il nostro obiettivo non è né di bocciare a priori il progetto né di fare i saputelli che sanno meglio di chiunque altro com’è che vanno fatte le cose (atteggiamento non del tutto sconosciuto all'universo della sinistra). Desideriamo piuttosto formulare pubblicamente alcune domande che - sospettiamo – sono già venute in mente a molti e intorno alle quali si è già discusso in modo informale: domande che possano fungere da scintille per una correzione in meglio dell'iniziativa in oggetto.
 
Cominciamo dall'identità del DiEM 25. Hai ripetuto più volte che DiEM 25 è un 'movimento' che lotta per la democratizzazione dell'Europa tentando di modificare il contenuto delle strutture esistenti dell'Unione Europea. Ci sfugge tuttavia “chi” sia esattamente DiEM 25, e chi  il suo 'nemico'. Più precisamente, contro che cosa stai combattendo? Il tuo nemico sono le strutture dell'Unione Europea? Oppure le élite economiche? O soltanto i burocrati di Bruxelles? E DiEM stesso, è costituito da individui, ovvero da gruppi preesistenti, oppure si tratta fondamentalmente di una storia che riguarda Yanis Varoufakis?
 
Può anche essere troppo presto per trovare risposte definitive entro questa problematica - dopo tutto certe cose diventano più chiare solo attraverso i loro sviluppi - ma ci sembra di osservare un’incertezza di fondo nello stesso atto fondativo del movimento sociale che stai tentando così alacremente di costruire. Ogni movimento sociale degli ultimi dieci anni o giù di lì si è definito rispetto alla questione del 'chi' – rispetto tanto al ‘chi siamo noi' quanto al ‘chi sono loro’ - anche nei casi in cui il movimento è emerso come risultato di processi molto complessi e contraddittori. Ad esempio, il movimento anti-globalizzazione ha concentrato le proprie critiche e il proprio attivismo contro le multinazionali responsabili di sottrarre potere politico agli Stati attraverso accordi commerciali e mercati finanziari deregolamentati. La questione dell'identità è in effetti cruciale non solo per astratte ragioni di natura psicoanalitica, ma proprio da un punto di vista strategico.
 
La dimensione strategica è fondamentale, e riveste ulteriore importanza se si considera un altro aspetto della tua iniziativa. La fisionomia ambigua del DiEM 25 è ulteriormente accentuata dal considerare l'affiliazione politica delle persone che si uniranno ai tuoi sforzi un criterio irrilevante; come  letteralmente affermi: "Non siamo una coalizione di partiti politici. L'idea è che chiunque può unirsi a noi indipendentemente dall’appartenenza politica o ideologica, perché la democrazia può essere un tema unificante".
 
Ci rendiamo conto che DiEM vuole andare al di là della ristretta cerchia dei ‘convertiti’; ma va osservato che avrebbe poco senso aderire ad un partito conservatore (o anche socialdemocratico, se è per questo) e nel contempo al DiEM. In questo modo DiEM 25 corre il rischio dell’ ‘apoliticismo’, in quanto si trascura il fatto che le differenze tra le varie tradizioni politiche non si limitano ad un astratto e innocuo piano ideale, ma investono il significato e la nozione del processo democratico in quanto tale. Non dimentichiamo, ad esempio, che nella maggior parte delle nazioni europee all’inizio del XX secolo l’idea liberale e quella aristocratica della liberal-democrazia non prevedevano la partecipazione delle classi subalterne: il loro coinvolgimento politico è stata ottenuto solo attraverso strenui processi di lotta. In altre parole, il contenuto sostanziale della democrazia non era qualcosa di dato, bensì una questione di lotta e di definizione.
 
Riteniamo ciò che sta accadendo oggi per molti aspetti simile: la destabilizzazione delle istituzioni rappresentative che si accompagna alla crisi economica e politica mette in discussione il significato stesso di democrazia. Mentre l'establishment politico considera lo stato di eccezione imposto ad un certo numero di paesi come democratico, i nuovi movimenti di protesta emersi nel corso del 2011 (Indignados in Spagna, Aganaktismeni in Grecia, Occupy Wall Street negli Stati Uniti) hanno rivendicato a loro volta  il concetto di democrazia. Si tratta forse della medesima cosa? Servono forse interessi simili, queste diverse idee di democrazia? Non si tratta per caso di interpretazioni contraddittorie di tale nozione?
 
Noi non contestiamo la necessità di svincolare le persone dalle loro precedenti identificazioni politiche, né che ciò richieda apertura nei confronti di coloro che provengono da percorsi differenti dal nostro. Ciò che va evitato, tuttavia, è una strategia frontista sotto mentite spoglie, che non riconosce come l’attuale deficit democratico sia il frutto della irresponsabilità di quelle stesse tradizioni politiche oggi acriticamente evocate. Passando al livello europeo e considerando che gli obiettivi della DiEM 25 si limitano alla ‘ri-democratizzazione’ delle strutture UE, ritieni davvero che persone con assai differenti concezioni della democrazia stessa possano agire di concerto? In proposito siamo molto dubbiosi.
 
Questo ci porta a un altro problema strategico: che cosa esattamente deve essere fatto? Sembra che DiEM scommetta esclusivamente sulla dimensione europea, bypassando del tutto quella nazionale. Si tratta di una mossa convincente? E fino a che punto essa può risultare efficace? E’ davvero necessario cancellare del tutto lo Stato dal novero dei luoghi di riforme democratiche e progressive, e considerarlo soltanto un'ossessione obsoleta e fuori moda? Noi crediamo di no! Consideriamo invece il radicale ristabilimento della democrazia all'interno dei vari Stati-nazione altrettanto importante dell'azione a livello europeo. Mantenere come orizzonte politico sia lo Stato-nazione che l'Europa non significa trincerarsi dietro una forma di nazionalismo passatista, come molti simpatizzanti di DiEM sostengono.
 
Da questo punto di vista è particolarmente grave che nell'argomentazione che hai svolto a Roma fossero totalmente ignorate altre esperienze di resistenza contro le politiche di austerità. Infatti, se in questi ultimi tempi s’è fatto qualche passo concreto verso lo smantellamento del neoliberismo, ciò è avvenuto esclusivamente in America Latina. Siamo perfettamente consapevoli che i recenti modelli politici latino-americani sono oggi in crisi, e siamo consapevoli del profondo sospetto nutrito nei loro confronti da diversi settori della sinistra europea. Ma questo non ci deve portare a buttar via il bambino con l'acqua sporca. La cecità di fronte alle tante conquiste registratesi in America Latina negli ultimi dieci anni o giù di lì sarebbe grossolano euro-centrismo.
 
In quelle esperienze ci sono al contrario parecchie lezioni da apprendere, cosa che – bisogna ammetterlo – ha saputo fare Podemos. Una di queste è il riconoscere il fatto che lo Stato-nazione è certamente in difficoltà, ma il suo certificato di morte non è stato ancora rilasciato. La neutralizzazione del ‘Washington Consensus’ e dei suoi pacchetti di stabilizzazione è stata infatti raggiunta attraverso una riattivazione dello Stato-nazione, su due diversi livelli.
 
Ad un primo livello, lo Stato-nazione è servito da luogo di identificazione. Nonostante il suo forte internazionalismo regionale, la ‘marea rosa’ latino-americana è stata innanzitutto un insieme di fenomeni nazionali. Il Venezuela di Chávez ha funzionato da potente fonte di ispirazione, ma ciascuna esperienza ha manifestato in pieno le proprie distinte peculiarità, che hanno portato ad un accesso al potere caso per caso, seguito da una convergenza inter-statuale in una fase successiva (ALBA, UNASUR , CELAC). In altre parole, i progetti politici progressisti latinoamericani hanno dimostrato l'importanza di parlare la ‘lingua’ della data nazione e della sua gente: una lingua, beninteso, espunta di qualsiasi connotazione sciovinista o razzista. Anche se lo spirito bolivariano ha pervaso in misura diversa tutti quanti questi processi, è stato il riferimento ai problemi materiali concreti e alle questioni relative a ciascun paese che ha reso Chávez, Morales, Correa e i Kirchner popolari ed elettoralmente egemoni.
 
DiEM, al contrario, sembra porre troppa fiducia su uno spirito cosmopolita europeo, in un continente dove le differenze culturali e linguistiche sono cento volte più pronunciate che in America Latina. Si tratta di un linguaggio politico che corre il rischio di rimanere inascoltato proprio dalle persone che pagano maggiormente il deficit democratico, e alle quali la tua  iniziativa dovrebbe invece essere in grado di rivolgersi.
 
In secondo luogo, in America Latina lo Stato è stato utilizzato in funzione del raggiungimento di obiettivi democratici. Un compito non facile, in un contesto nel quale molte delle funzioni amministrative dello Stato erano stato smantellate in nome degli equilibri di mercato, e la burocrazia era ormai fortemente impregnata di un ethos neoliberista. Ciononostante, e pur trovandosi ‘alla periferia del mondo’, lo Stato così ‘ri-orientato’ è stato spesso in grado di lanciare al capitale globale sfide che venivano date per inconcepibili e irrealistiche dal mantra neoliberista.
 
Con ciò non intendiamo negare che il capitale finanziario globalizzato eserciti pressioni difficili da fronteggiare a livello nazionale e che molti dei dilemmi che l'Europa si trova ad affrontare richiedano sforzi su vasta scala, come ad esempio nel caso della crisi dei profughi. Tuttavia escludere ogni possibilità di azione a livello statuale è una semplificazione eccessiva, soprattutto se la Grecia è presa come unico esempio (altri paesi, la Spagna in primis, avrebbero ben altro potere contrattuale nei confronti del creditori). Ciò significa inoltre che è solo indirizzando i nostri sforzi dove ci sono possibilità realistiche di risultati tangibili che qualche passo verso la democratizzazione dell'Europa può esser compiuto.
 
La sensibilizzazione a livello continentale è di fondamentale importanza. Ma lasciata a se stessa giunge prima o poi ad un suo esaurimento. Se non è accompagnata dal tentativo di trasformare le istituzioni europee, la mera richiesta di democratizzazione delle istituzioni stesse è improbabile che possa metter capo ad un reale cambiamento. E tale trasformazione può passare solo attraverso lo Stato-nazione, dacché un terreno politico europeo in senso pieno, ove si possano interpellare tutti quanti i cittadini, non esiste ancora; e date le asimmetrie demografiche e di potere, c’è da chiedersi fino a che punto la sua formazione sia attualmente auspicabile.
 
Da ultima - ma non per importanza, Yanis! –  vi è la questione della democrazia all'interno di DiEM 25.
 
Siamo rimasti negativamente colpiti dal fatto che nessuno, a parte te, abbia parlato in nome di questo progetto politico, e che la questione delle strutture di rappresentanza all'interno di DiEM 25 sia rimasta mal-definita.  E’ mai possibile, Yanis, cercare di democratizzare qualcosa della portata dell'Unione Europea, senza avere alle spalle solide strutture democratiche all'interno del tuo stesso progetto trasformativo? Non è forse tale lacuna in contrasto con i tuoi stessi obiettivi? Pensiamo che a questo proposito tu abbia del tutto obliterato la recentissima esperienza di Syriza.
 
A nostro modo di vedere, il tentativo di Syriza è fallito miseramente non solo perché la leadership del partito ha scelto la strategia sbagliata nei suoi negoziati con le istituzioni, ma anche perché ha abolito anche le forme più elementari di funzionamento democratico all'interno del partito prima e durante il periodo dei negoziati. Le strutture di partito sono stati messe in condizione di non nuocere ed una piccola minoranza – il ‘gruppo Tsipras’- ha dominato l’intero processo decisionale. Questa burocratizzazione del partito ha promosso una versione assai distorta della lotta politica, ritenendo che le persone e i movimenti sociali non dovessero avere voce in capitolo, e che la conduzione del partito spettasse esclusivamente ad un’élite. Sappiamo bene come è andata a finire. Temiamo davvero che Diem 25 possa fare la stessa fine, se seguitasse ad essere uno one-man show.
 
Consideriamo la formazione di strutture realmente democratiche entro questa tua iniziativa politica come una necessità imprescindibile, se si intende evitare un'involuzione simile a quella di Syriza. Inutile dire che questo processo dovrebbe anche avere un equilibrio di genere e che chi vi partecipa dovrebbe provenire da differenti background sociali e culturali. L'esperienza e il know-how dei vari movimenti sociali dovrebbero essere componenti fondamentali nel rendere DiEM una struttura più solida e democratica. Questo è l'unico modo attraverso il quale DiEM può radicarsi nella società e allontanarsi dall’elitarismo e dal leaderismo.
 
Tale processo potrebbe garantire la trasparenza democratica di DiEM, nonché la marginalizzazione degli opportunisti che tenteranno di utilizzarlo quale veicolo dei propri interessi. Riassumendo, crediamo che DiEM 25 abbia di fronte lo stesso dilemma dell'UE:  Democratizzazione o Barbarie!
 
Cordiali saluti,
 
George Souvlis e Samuele Mazzolini 



(traduzione di Pavlov Dogg)
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CHI PARTE DA SE' FA PER TRE.L'inutile fatica di essere se stessi nel capitalismo contemporaneo

24/3/2016
di Giovanni Di Benedetto 24 marzo 2016

Nell’Ottobre del 2014 si svolse ai Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, un seminario di studi che provava a mettere a fuoco la connessione sempre più stringente fra sofferenza psichica, disagio sociale e totalitarismo dell’universale capitalistico. Da quell’incontro seminale, col quale anche la redazione di Palermograd ha provato a confrontarsi (si vedano gli interventi di Calogero Lo Piccolo qui e Salvatore Cavaleri qui), è nato adesso un volume che raccoglie i contributi, rielaborati, dei relatori di quell’incontro. L’inutile fatica: soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, è questo il titolo del libro pubblicato da Mimesis Edizioni (2016) e curato da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo, un testo che prova a impiantare, riuscendoci brillantemente, un dialogo transdisciplinare tra attivisti sociali, psicoterapeuti, filosofi e psicologi.

Il punto di partenza della riflessione è dato dalla constatazione di quanto sia stata devastante l’incidenza della crisi economica, e dei dispositivi di potere del capitalismo che l’ha generata, sulla precarizzazione esistenziale delle soggettività. La nostra è l’epoca dell’ideologia competitiva e concorrenziale del mercato. Da qui scaturiscono vissuti esistenziali catturati in una rovinosa spirale depressiva imposta dalla pretesa sempre più saturante all’autosufficienza. Nella società della competizione narcisistica il desiderio, trasfigurato in incessante istanza di godimento, viene reificato e oggettivato. Tuttavia, un modello quale quello del capitalismo, che impone la reificazione del desiderio in godimento, rendendolo incompatibile con il legame sociale, tracima in un mondo senza limite e senza futuro. Il luogo della funzione del limite è stato chiamato da Jacques Lacan nome del padre. È il nome del padre che funziona come principio regolatore, che permette l’accesso al desiderio, al campo del fallico, ossia ad un godimento possibile e temperato. Al contrario, il godimento che si sostanzia nell’eccesso (Lacan parla dell’evaporazione del padre, ossia della dissoluzione di ogni limite identificato nella figura paterna), determina l’impossibilità di fare spazio al desiderio. La logica di funzionamento dell’ipermodernità disdegna soggetti desideranti centrati all’interno di un mondo che produce contenimento, il suo programmatico imperativo a fare a meno di limiti produce estinzione del desiderio e apatia in soggetti fragili e consumati.

Secondo Franco Berardi (Bifo) deriva da questo approccio la riflessione, come lui la definisce, neopaternalista, che insiste sulla necessità di ripristinare un limite al desiderio. Se è vero che la contemporaneità vede nel diritto al godimento individuale qualcosa che non può essere messo più in discussione, la caduta dell’orizzonte del grande Altro si presenta come quell’evento che abbandona il soggetto ad un campo di forze che non sono più in grado di rappresentare dei riferimenti che possano avere la funzione del limite. Come se non ci fossero più le condizioni per interiorizzare, assicurando benessere mentale e sanità relazionale, il differimento del godimento. Tuttavia, come sostiene Calogero Lo Piccolo, il limite al desiderio non può essere proiettato su una norma esterna e sociale ma ”resta pur sempre una funzione regolativa inconscia”. Che si tratti, nel caso di posizioni come quella di Massimo Recalcati, di un fraintendimento pericoloso, è dimostrato dal fatto che una tale impostazione del problema potrebbe facilitare la recrudescenza di derive autoritarie e apertamente reazionarie. Ecco allora che occorre riflettere sulla natura del funzionamento psichico per evitare il fardello di possibili svolte liberticide.

Il testo acquisisce ulteriore spessore politico a partire da uno spunto offerto dal lacerante romanzo di Luca Rastello intitolato I Buoni. Il romanzo di Rastello, scrittore recentemente scomparso di straordinaria crudezza e ingegnosità, è un libro sulla società della competizione narcisistica e sulle patologie del desiderio che si articolano secondo modalità distruttive implicanti relazioni di esteriorità, di consumo e di asservimento dell’altro. Sembrerà paradossale ma il libro di Rastello racconta una verità scomoda e tuttavia sotto gli occhi di tutti: non c’è sfera più intossicata dalla retorica dell’altro di quella del mondo dell’impresa sociale, del volontariato e del terzo settore. Come se, nella sfera del cosiddetto sociale, attraverso la continua evocazione dell’altro si volesse esorcizzare la sua reale assenza che, nel quotidiano, si manifesta come un deficit, oramai conclamato, di relazioni e di legami collettivi. Il punto è che oggi, come scrive Salvatore Cavaleri, l’impresa sociale ha sempre più il gusto dell’impresa e sempre meno un’attitudine sociale.

Di fronte alla torsione di senso prodottasi proprio nell’ambito di una sfera quale quella del sociale, assediata e soffocata sempre di più da logiche mercatistiche e privatistiche, la dimensione politica dell’intervento pubblico si riduce ad una residualità insignificante. Viviamo, scrive Cavaleri, il feticismo del sociale oramai ridotto a sfera asettica, neutra e separata, in cui il lavoratore, prendendo in carico i bisogni dell’altro, dimentica di essere un attore sociale portatore di interessi propri. Al venir meno, nel campo della salute e dell’istruzione, della previdenza e della maternità, di una grammatica dei diritti che, a partire dal secondo dopoguerra, era stata garantita dal Welfare State, si sostituisce l’imperativo del fare da sé, la legge della giungla che decreta, in una sorta di rinnovata riesumazione del darwinismo sociale di fine ‘800, il successo del più forte, di chi è capace di reperire da sé le fonti del proprio sostentamento e pronto a diventare imprenditore di se stesso.

D’altra parte la modernità si è data e si è logorata proprio attraverso lo sviluppo di soggettività autonome e qualificate. Si veda cosa scrive Marx in Per la critica dell’economia politica, a proposito dell’individuo nella società borghese, ossia di quell’individuo che può essere autonomo e isolato proprio nell’epoca dei rapporti sociali finora più sviluppati. Ma il problema è che ogni individuo, pur nella sua autonomia, è sempre segnato dal bisogno e dalla finitudine. E non basta avere oggetti e possedere merci per raggiungere il fine dell’autorealizzazione. Non a caso nella catalogazione sperimentale delle patologie del desiderio la clinica non fa più registrare un rimosso del desiderio ma un’apatia del desiderio entro i confini illimitati di una cultura che non fa che promuovere l’eccesso della trappola narcisistica. È ciò che Ehremberg ha definito la fatica di essere se stessi, quel circolo vizioso, che ha fatto presa su una società fondata sulla prestazione individuale, tra l’ingiunzione all’efficienza imposta dalle attese sociali e l’impossibilità di reggere il peso di tali aspettative.

Ma allora, come rispondere a questa condizione di paralisi esistenziale, cosa è possibile fare? Alla depressione quale affetto principale della ipermodernità si può replicare, suggeriscono gli autori dei vari saggi del volume, abbandonando quella prospettiva che, centrata sull’idea di un individuo che si sforza di essere se stesso, presenta i sintomi del disagio come se fossero mere disfunzionalità, non interrogando il soggetto e, di conseguenza, facendo così astrazione dell’inconscio. Cavaleri, per esempio, rammenta ai lettori, direi spinozianamente, che “non esiste libertà fuori dal conflitto, proprio perché la pacificazione non è una forma di guarigione. Non esiste libertà a prescindere dalla consapevolezza delle connessioni di cui si è parte, delle contraddizioni di cui si è portatori e delle dispute di cui si è partecipi.”

Da questa premessa deriva inevitabilmente la necessità di fare i conti con le proprie retoriche, esautorando quello spazio postideologico che, fintamente neutro, pretende di metter al bando la soggettività e quindi il conflitto. Non ci sono e mai ci saranno luoghi terzi e neutri. Ecco perché occorre sottrarsi all’imperativo che sommerge la nostra epoca e che costringe l’individuo a essere liberamente se stesso per prediligere la fatica, altrettanto onerosa, di partire da sé. “Nella distanza tra l’essere se stessi ed il partire da sé si gioca ben più di un artificio linguistico: è in ballo il modo di concepire il soggetto, le sue patologie e le conflittualità di cui è portatore. Partire da sé, in termini tanto terapeutici quanto politici, vuol dire acquisire consapevolezza del proprio posizionamento, del proprio essere situati. Parliamo di un sé non rinchiuso dentro la gabbia ideologica dell’identità, non l’individuo metafisico dell’egoismo capitalistico, ma di una soggettività fatta di relazioni e di contaminazioni, di conflitti. Partire da sé, dunque, vuol dire capire cosa ci lega agli altri, cosa abbiamo in comune”.    

L’inutile fatica è un libro che, come si è cercato di dimostrare, ha tanti pregi. Tra i più importanti mi pare possa essere annoverato quello di invitare a prendere in considerazione l’esigenza di aprire una nuova stagione di critica, proprio oggi in cui viviamo un tempo in cui stabilire clinicamente ciò che pertiene alla dimensione psicologica e ciò che pertiene alla dimensione esistenziale è meno chiaro che mai. Narciso si innamora della propria immagine e il suo dramma è che questa immagine è irraggiungibile. In un mondo di soggettività che si presumono libere e tutte prese dalla trappola narcisistica, l’invito a recuperare il senso del limite e a riconsiderare la difficoltà estrema dell’impegno insieme all’altro, rappresenta il più grande e oneroso impegno politico che ciascuno di noi possa intestarsi.
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SCUOLA E GENERE. Un dibattito a Palermo

14/3/2016
di Giovanni Di Benedetto

La scuola di Renzi è in grado di offrire un punto di vista di genere sul mondo? A giudicare dalle riflessioni maturate nel corso di un incontro dibattito tenutosi a Palermo lo scorso 2 Marzo e organizzato dal Cesp, il Centro studi per la scuola pubblica che affianca il lavoro politico e sindacale dei Cobas della scuola, sembrerebbe proprio di no. “Soggettività, differenza e genere. Appunti per una didattica delle differenze”: questo il titolo del Convegno, tenutosi presso il liceo Scientifico Galileo Galilei, e che è stato seguito da circa 150 partecipanti. Un vero e proprio successo, considerati i numeri, non proprio significativi, che caratterizzano in questa fase storica iniziative di chi propone un punto di vista critico e fortemente conflittuale rispetto alle derive privatistiche e aziendalistiche della cosiddetta buona scuola di Renzi.

Interessantissimi gli interventi delle tre relatrici e del relatore che hanno aperto il dibattito, a cominciare dalle riflessioni della Prof.ssa Elena Di Liberto sul pensiero femminista e gli stereotipi di genere. La crisi epocale nella quale viviamo ha, tra le altre cose, messo definitivamente in discussione ruoli e identità socialmente riconosciuti. La percezione che ne è derivata comporta un inedito senso di vertigine ogni qualvolta acquisiamo consapevolezza di vivere in un mondo in cui sempre di più si incontrano identità plurali, indefinite e non riconducibili ad un unico modello. Un mondo in cui strutture socio-simboliche quali la famiglia e l’autorità maschile sono precipitate entro un campo di iscrizione in vorticosa ridefinizione.

Di esperienza e cultura delle donne nel processo educativo ha parlato Mariella Pasinati della Biblioteca delle donne. L’essere uomo e l’essere donna non sono portatori di un significato determinato situato fuori dal tempo e dallo spazio. In questo senso, porre la donna come soggetto implica il significare in direzione sessuata la propria posizione di insegnante, svelando la falsa neutralità dei processi di apprendimento-formazione che si svolgono a scuola. Ecco perché le pratiche pedagogiche della differenza sessuale si pongono come obiettivo quello di definire un nuovo percorso formativo che non sia previsto nell’ordine educativo esistente. Il che rimanda alla necessità di sperimentare modelli pedagogici segnati dal posizionamento femminile. Da questa prospettiva, quali sarebbero le strade da percorrere? Si tratta di mettere in campo un doppio movimento: del ritrarsi, rispetto ad una cultura segnata esclusivamente dal maschile da un lato; dell’esporsi in un universo simbolico nel quale emergano genealogie di donne mostrando la loro relazione valorizzatrice, dall’altro. Il che significa, all’interno della scuola, esplicitare l’assunto che il riferimento all’altro/a si configura sempre come condizione fondamentale.

Il percorso di formazione del sé è sempre complesso. La mediazione della consapevolezza del genere comporta la possibilità di interpretare liberamente l’esistenza femminile e maschile affrancandosi dagli stereotipi che veicolano interpretazioni non libere di cosa significa essere uomini e essere donne. Anche lo stereotipo è il prodotto di una cultura maschile e il suo superamento non può essere inteso nell’ottica di una pretesa parità dei sessi. Da qui l’esigenza di utilizzare il linguaggio sessuato: si tratta di esprimersi creativamente sapendo che ciò che si vuol comunicare ad allievi ed allieve è soprattutto il fatto che intendiamo creare la lingua per dire la verità della nostra esperienza e, cioè, che l’esperienza di tutti è che il mondo è abitato da esseri umani sessuati. Nella pratica didattica la consapevolezza della differenza di genere deve significare, dunque, la definizione di nuovi contenuti per fare emergere la presenza delle donne nella cultura e, contemporaneamente, la decostruzione dell’ordine simbolico e del discorso culturale maschili. Infine, a coronamento di questo percorso, è indispensabile cercare nuove forme di interpretazione e di ermeneutica non fintamente neutrali.

Come ha sottolineato Stella Bertuglia, docente dell’Istituto Tecnico Industriale Volta, il tema, ovviamente, non è quello delle pari opportunità ma quello dell’educazione alla differenza di genere nelle scuole. E qui si deve lavorare non soltanto sul genere femminile ma anche sul genere maschile. La scuola, infatti, è luogo della riproduzione di relazioni tra le persone e in quanto tale è lo spazio nel quale si formano soggetti. Purtroppo, la scuola valorizza poco le differenze di genere e in questo rispecchia un po’ un contesto economico e sociale, quale quello italiano, in cui le donne laureate sono più numerose degli uomini e tuttavia occupano un numero minore di posti di comando e responsabilità. Senza, per questo, voler avvalorare le contraddizioni, anche dolorose, di quella falsa emancipazione della quale le portabandiera sono, a mio avviso, le donne in carriera e le donne nell’esercito, cioè l’espressione più turpe di quel modello che riproduce alcuni dei valori tipici del peggior capitalismo fondato sul denaro e sulla violenza.

Nella relazione di Giuseppe Burgio, Che genere di scuola, il riferirsi a modelli di mascolinità e femminilità rigidi e anacronistici continua ad essere un problema perché è alla base di questi modelli che vengono strutturati i riferimenti per formare le identità di genere e le relazioni interindividuali. Occorre agire la differenza, ossia agire i valori legati alla soggettività femminile e maschile. Da questo punto di vista bisogna lavorare molto sull’identità maschile perché tra i giovani sussiste un forte disorientamento. Il problema è come le società agiscono sulla costruzione culturale dell’essere maschio visto che tutti noi uomini abbiamo imparato ad essere tali attraverso l’educazione. A scuola siamo educati ad essere maschi o femmine nel gruppo dei pari. Da qui, per esempio, emerge un’ideologia sessuale del maschio che si identifica nei seguenti caratteri: bianco, eterosessuale, competitivo e vincente. La stessa pratica del bullismo, a scuola sempre più diffusa, è agita dai giovani maschi come logica della violenza e della prevaricazione che si configura come una vera e propria performance della reputazione che deve vigere all’interno delle gerarchie tra coetanei. La scuola diventa così un dispositivo di genere che insegna saperi maschili, non neutri, e riconducibili al potere patriarcale. Tutto questo non può non avere un effetto sulla costruzione delle differenze.

Il cambiamento, di conseguenza, deve avvenire pensando a una scuola autenticamente femminilizzata, aperta alla nonviolenza e al rispetto delle differenze. Si pone una questione: se la scuola fa già differenza di genere riproducendola nella modalità degli stereotipi e dei pregiudizi vigenti del maschile e del femminile, occorre proporre alternative a queste costruzioni del genere. I ragazzi sono vittime di un problema perché sono costretti ad un mondo che li costringe a conformarsi a un modello maschile difficile da perseguire. La sfida consiste nell’educare al senso libero di essere uomini e al senso libero di essere donne. Il patriarcato è in crisi e gli episodi di bullismo e violenza non sono altro che il sintomo di questa crisi.

Il bilancio del convegno è assolutamente positivo e riflette un’accresciuta sensibilità della nostra società e del mondo della scuola su questi temi. Tuttavia, se proprio si dovesse svolgere un piccolo appunto, si potrebbe dire che se è vero che l’immaginario da combattere e destrutturare è quello fondato su una logica simmetrica che presuppone l’esistenza di tutto un insieme di categorie nelle quali l’altro è inteso come immagine svalorizzata della norma, a scuola un’operazione di questo genere non è più sufficiente. L’immaginario del nostro mondo, tecnologicamente sviluppato, ha messo in discussione la logica binaria delle identità fisse e delle appartenenze di sesso/genere. I giovani studenti e le giovani studentesse che incontriamo quotidianamente nelle aule delle nostre scuole vivono immersi e immerse in un ambiente in cui la tecnologia ha dissolto tutte le divisioni dicotomiche tradizionali. Da questo punto di vista, la messa in discussione della divisione patriarcale di genere è necessaria ma non più sufficiente. In un mondo come quello giovanile (e non solo quello) in cui le identità sono sempre più frammentate, precarizzate  e sempre di più in costante evoluzione non basta la denuncia dei capisaldi patriarcali sulla base dei quali il femminile si è dato attraverso la relazione di subordinazione rispetto al maschile. Certo, come non riconoscere che in questa denuncia dimora l’imprescindibile crisi del sé maschile, una soggettività che storicamente si è costituita attraverso la relazione di dominazione dell’alterità femminile? Tuttavia, oggi, a fronte di teorie che rischiano di ricadere su fondamenti le cui matrici sarebbero di carattere naturale, la disordinata polifonia dei nostri tempi ci costringe a fare i conti con nuovi regimi iconico-politici in cui vige il dominio del potere tele-visuale e di codici culturali e simbolici strettamente connessi alla tecnologia. I nostri ragazzi e le nostre ragazze sanno bene di cosa parliamo. Il loro vissuto è permanentemente connesso all’infosfera, ossia allo spazio semiotico dell’informazione digitale e delle tecnologie più o meno virtuali. Il compito del pensiero critico dovrebbe essere, allora, quello di ripensare le modalità plurali e complesse con cui il potere costruisce soggettività, a partire dalla produzione di discorsi riconosciuti come socialmente veri e strettamente connessi con un uso quanto mai mutevole e spiazzante della tecnologia. La costruzione di una consapevolezza critica di questo tenore è qualcosa di molto complesso e, d‘altra parte, non si può elaborare entro lo spazio necessariamente limitato di un convegno. Quel che è certo, però, è che essa non ha nulla a che fare con la banale e becera implementazione, propagandata dal governo di Renzi e dai suoi corifei, dell’uso a scuola di tablet, computer e lavagne interattive.
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CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'. Spazi, mezzi e avversari del pensiero d'opposizione, oggi. 

4/3/2016
di Roberto Salerno

L'intervista pubblicata su PalermoGrad a Marcello Benfante http://www.palermo-grad.com/un-cecchino-disarmato.html tra gli altri meriti ha quello di aver dato vita ad un rapido botta e risposta su FB tra  redattori, collaboratori e lettori della rivista. Il fatto che sia nato su FB, e non - ad esempio - a margine dell'articolo, che pure è aperto ai commenti, è cosa da meritare riflessione, ma non me ne occuperò. Non qui almeno, segniamolo per un'altra volta. Vorrei tornare al tema del botta e risposta, che cerco di riassumere nella speranza di non far torto alle posizione dei miei due  più immediati  interlocutori.
 
Tutto nasce da un intervento di Francesco d'Aquila che ricopio:
"Bellissima intervista! Peccato che sia troppo breve. Finisce sul più bello, quando si parla della funzione, estinta, della critica letteraria. Aspettiamo un lungo seguito."
 
A questo risponde Angelo Foscari di PalermoGrad, non brevemente:
"a mio avviso [la critica letteraria] non si è estinta affatto, ma giocoforza ha cambiato pelle e ha cambiato luoghi: Internet (e addirittura FaceBook) l'hanno 'democratizzata' (e, all'obiezione di Eco sulla parola agli imbecilli , rispondo con Marco Pomar: ‘adesso è molto più facile riconoscerli’) e l'hanno sparpagliata, diffusa. Tra l'altro, obiettivamente parlando, questa critica popolarizzata NON è che reagisca contro Croce e De Sanctis, sia ben chiaro: reagisce bensì all'avvento e poi al dominio della "Critica Commerciale" (ricordo di avere sentito questa espressione adoperata a mo' di amara constatazione di un fatto già nel 1990). Perciò non facciamo finta che "il Web" abbia spalancato i cancelli ai Barbari mentre qui eravamo tutti a fare il close reading del Sannazzaro e a confrontare la traduzione di Luciano del Settembrini con quella dell'altro tizio. Peraltro anche - e soprattutto - nella nuova 'affollata' situazione i critici di classe tipo Benfante continuano e continueranno a spiccare e ad essere letti. In Italia tutti giocano a pallone e più di tutti fanno il Commissario Tecnico, ma alla fine Roberto Baggio e simili sono chiaramente più bravi degli altri, e Ancelotti continua a capirne parecchio e a lavorare. Casomai possiamo rammaricarci, come mi pare faccia Marcello nell’intervista, di uno strapotere degli editori rispetto a quella che prima era la 'vigilanza' esercitata dal critico. Una situazione che, tuttavia, non è mai esistita alla stato puro (gli editori hanno SEMPRE pesato e "imposto" scelte, nel male ma anche nel bene, basti pensare al catalogo Einaudi, per dire) ; e anche adesso c'è chi riesce (tipo D'Orrico, al di là delle sue specifiche preferenze) a crearsi un suo seguito e a ‘pesare’."

 
Questo lungo intervento a me pare un po' contraddittorio. Su FB, si scrive di getto, d'impeto, e lì finisce col prevalere la parte ludica. Ma prendendoci tempo possiamo vedere meglio le varie cose che dice Angelo. [Ovviamente senza "impiccarlo" alle sue dichiarazioni: le cose scritte di getto ci appartengono fino ad un certo punto e anche lui rileggendosi magari alcune cose le avrebbe dette diversamente onon dette del tutto]:
 
1. Non è vero che la critica letteraria non esiste più;
2. La critica  oggi è "popolarizzata"  e [deduzione] non in mano a Croce e de Sanctis
3. Croce e de Sanctis comunque non ci sono più, c'è da tempo la critica commerciale
 
Poi però parte una specie, a mio modo di vedere, di corto circuito:
 
4. Benfante [un critico di spessore e senza peli sulla lingua] purtuttavia spicca e viene letto
5. Ancelotti è bravo e lavora
 
Per chiudersi con una concessione:
 
6. Strapotere degli editori (sì, ma forse no, visto che  "gli editori hanno sempre pesato e "imposto" scelte")
 
Confesso che non sono sicuro di non aver frainteso lo spirito con il quale Angelo legge l'intervista. Ho creduto che lui fosse d'accordo (in sintonia, non in disaccordo) con quanto espresso da Benfante, ma in effetti mi accorgo che forse questa  è una deduzione indebita.
 
Gli interventi successivi nel dibattito hanno implicitamente "chiarito": il discorso di Angelo, secondo me, ha una sua coerenza fino al punto 3,  per entrare poi in contraddizione con il punto 4, ovvero il permanere di un ruolo e di un pubblico per la critica più avvertita e non commercializzata (vedi Benfante) e - più nettamente - con l’accenno “meritocratico” al punto 5 (simboleggiato da Ancelotti).
 
Ma il successivo intervento di Francesco ha un po' rimescolato le carte. Correttamente, secondo me, Francesco segnala "luoghi", che adesso non esistono più, dal quale la critica è stata espulsa; e trova che questo sia un segnale, appunto, dell'estinzione (vogliamo dire arretramento?) della critica. Sperando di non aver mal interpretato, Francesco dice una cosa del tipo "ma sì parliamo pure su FB, tanto che conta? È sui giornali e sulle televisioni che siamo spariti, che non ci sono più Pasolini e Fortini ma Gramellini e Battista". Anzi (forse sovrainterpreto) se non ci sono più è anche per via della popolarizzazione. Tutti parlano e quindi su stampa e televisione tutti vanno. Annacquando Pasolini e Fortini o, peggio, escludendoli, perché tanto sono come gli altri.
 
L'ulteriore replica di Angelo io la condivido in toto, tanto nella prima parte: "Inutile coltivare nostalgie degli spazi che l'industria culturale aveva concesso - in tutt'altra fase storica, con altri rapporti di forza tra le classi - ai ‘rappresentanti’ (spesso un po' autonominati) dei gruppi sociali subalterni" che nella seconda e più brusca versione: "Quegli spazi erano anche e soprattutto poltrone, cadreghini, a volte proprio ‘diritto di tribuna’; servivano ANCHE a stemperare le lotte nelle parole."
 
Ma a questo punto quello che mi pare interessante è risalire alla fonte. Cosa ha detto nell’intervista Benfante? Intanto preciso subito due cose. Per quello che vale, non posso che manifestare stima e apprezzamento per intellettuali che hanno attraversato un quarantennio rimanendo in qualche modo coerenti a quella che Piero Violante ha chiamato "classe dirigente d'opposizione". Non solo per le loro posizioni, che immagino siano costate anche in termini personali, ma soprattutto per la loro produzione (letteraria in questo caso) che è stata parte non secondaria della formazione di noi ex giovani e della mia in particolare. Però. Però questi "bilanci" di una generazione convincono fino ad un certo punto. Portano (inevitabilmente, credo, vi saprò dire tra 25 anni) una forma di deprecatio temporum che lasciava perplessi da ragazzino e  a maggior ragione lascia perplessi adesso. Forse (forse) si può intravedere anche una tendenza – per l’appunto - generazionale (legittima ma chissà quanto produttiva) all'autoassoluzione. Nel caso dell'intervista di Benfante, come nel caso del bellissimo libro di Violante Swinging Palermo, per fare un altro esempio.
Che dice dunque Benfante? (naturalmente inutile, in questa sede, soffermarsi sulle cose che si condividono e che sono  la maggior parte):
 
"Mi mancano anche spazi sul tipo di Kaleghè o di Margini. Ce ne sono, adesso? Non mi pare. A parte Segno, ovviamente, rimasto pressoché l’unico testimone dell’epoca o dell’epica delle riviste."

 
Ora, chi ha vissuto a Palermo questa storia di "Segno ultima rivista" l'ha sentita chissà quante volte. Io avevo appena occupato la Facoltà nel 1989, e già circolava. Si fa un po' di fatica però a credere che le cose stiano davvero così. Come non segnalare innanzitutto il paradosso che questa affermazione ("Non ci sono più riviste, luoghi")  venga fatta proprio all'interno di uno di questi luoghi, per giunta nuovo?
Ma, a parte PalermoGrad, nonostante io non viva a Palermo da non so quanto tempo a me pare – da lontano ma ero lontano anche negli anni '90 o, viceversa, la verità è che non me ne sono mai andato - che a Palermo non si sia ristretto nessuno spazio. Le riviste non sono più cartacee e si sono trasferite su Web, ma non passa giorno che non veniamo "rimandati" ad un imperdibile articolo - che spessissimo è effettivamente di qualità - scritto dallo sconosciuto amico nella sconosciuta rivista telematica. Quando invecchieranno, e magari non si scriverà più, ma si manderanno gli ologrammi, cosa faranno questi amici: ricorderanno con mestizia quando a "Palermo c'era PalermoGrad, oggi cosa rimane oltre a Segno?”
Benfante chiude con la frase che ha scatenato tutto:
 
"Oggi il critico è divenuto una figura pleonastica e ininfluente".

 
Su questo punto – che Benfante contraddice proprio con la sua attività ! - ho i miei dubbi, che ho appena cercato di argomentare.
 
C'è però una cosa che a me pare diversa, che mi pare – questa sì - cambiata: gli avversari. O, forse meglio, i rapporti di forza. I critici di 40 anni fa vivevano in uno spazio che, per quanto minoritario, non era "isolato". Avevano una prospettiva, dei riferimenti, ma soprattutto delle risorse. Mal che vada facevano gli insegnanti. Gli intellettuali che sono venuti dopo si sono trovati di fronte al primum vivere e si sono dispersi tra funzionariati regionali e statali, precariati, emigrazione e call center. E chi è riuscito ad arrivare all'università – fatte salve le dovute eccezioni - lo ha fatto alla maniera di Ancelotti (che è bravo, eh?). Tempo, spazio, o - mi permetto una deriva tecnica - "struttura delle opportunità" sono ben diverse.
 
Eppure, se guardo oltre lo Stretto, ai risultati lasciati da certi giganti del pensiero critico in Italia, quelli sulle cui spalle dovremmo adesso star seduti, c'è solo da essere ottimisti: peggio non possiamo fare.
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