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      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
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      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
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      • KARL KORSCH
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      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
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STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA

26/2/2019
di Salvatore Cavaleri

Venerdì 1 marzo alle ore 21.00, Totò Cavaleri insieme a Militant A presenterà il libro Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo a Palermo, al PunkFunk di via Napoli 10.
Dopo la presentazione seguirà uno showcase live. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con Booq e Arci Porco Rosso. 


“Ogni persona è una storia, è la sua storia, nelle mille storie umane che amo”, così cantava Militant A nel nel disco d’esordio degli Assalti Frontali, uscito ormai 25 anni fa. Disco che, a sua volta, faceva seguito a Batti il tuo tempo dell’Onda Rossa Posse, vero capostipite della stagione delle Posse, nella quale ricerca musicale, attivismo politico e sperimentazione linguistica si sarebbero fusi in modo dirompente, trovando nella nascita a macchia d’olio di una nuova generazione di centri sociali la propria casa naturale.

Quell’Ep rappresentò un vero e proprio spartiacque tra ’80 e ’90. In quel momento non solo nasceva il rap in italiano, ma buona parte della musica indipendente nostrana ne sarebbe uscita stravolta. Per dare conto dell’importanza che rappresentò quella sperimentazione anche dal punto di vista del linguaggio, basti dire che alcuni gruppi storici già attivi negli anni ’80, che fino ad allora avevano pubblicato dischi in inglese (Gang, Casino Royale, Afterhours, Africa Unite), da lì in poi iniziarono a cantare in italiano.

Adesso sono passati quasi trent’anni, gli Assalti hanno pubblicato otto dischi, fatto migliaia di concerti, probabilmente raccolto meno di quanto seminato, ma la loro è una di quelle storie che non si misura in termini di mercato, ma attraverso la ricchezza condivisa con le mille storie umane incontrate.

Questa ricchezza fatta di relazioni solidali e felicità condivisa, tesori da custodire ed alimentare, si ritrova in Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo (goodfellas, 2018),nuovo libro di Militant A, che degli Assalti Frontali rappresenta cuore, mente e voce. 
Questo nuovo libro continua il discorso interrotto nel precedente Soli contro tutto, più incentrato sulla scuola e la lotta contro il ddl Gelmini, ma fa i conti anche con il primo libro di Militant A, quel gioiellino che èStorie di assalti frontali. Conflitti che producono banditi, uscito nel 1997, in cui si raccontava la storia, al tempo stesso individuale e collettiva, della colonna sonora di una generazione in perenne movimento. 
Tutti insieme questi libri vanno a comporre delle mappe della libertàin cui si connettono mille luoghi di quotidiana resistenza. Ogni storia raccontata è un nuovo tassello in un mosaico composto da persone che spendono la loro vita quotidiana per alimentare solidarietà e rispetto, coniugare lotta politica e ricerca del senso da dare alle proprie esistenze precarie.

Non a caso il tono con cui Militant A racconta in prima persona le vicende in cui si trova immerso, resta sospeso a metà strada tra l’epico e l’intimo. Tanto che si tratti di raccontare grandi movimenti politici, come quando al centro del discorso ci sono esperienze di vita quotidiana, si tratta sempre di fare i conti con tutti i dolori e le batoste che la vita comporta (c’è sempre un motivo per andare in paranoia), ma anche con una felicità sempre da strappare.

Di questo immaginario la storia di Assalti Frontali è piena, già dalle copertine dei loro dischi: un ragazzo che cammina di notte da solo avvolto dal colore arancione (Terra di nessuno), oppure in equilibrio sul cornicione di un palazzo (Conflitto), Militant A che, citando una celebre foto di Malcolm X, impugna un microfono al posto del mitragliatore (Mi sa che sta notte). E poi le copertine (ben tre: Banditi, Profondo Rosso e Mille gruppi avanzano) nelle quali compare un lupo solitario, pronto a colpire in agguato, un lupo che ha imparato ad essere disciplinato.

In questo nuovo libro, che già dal titolo sottolinea l’importanza che ogni lotta politica parta da ciò che ha di più vicino, c’è il racconto dei laboratori tenuti nelle scuole, nei quali condividere, con ragazzi di ogni età, l’amore per il rap, poesia della strada. Le pagine sono piene delle rime uscite fuori in quelle occasioni, in cui Militant A rivendica costantemente che quel linguaggio, sin dalle sue origini, serve a portare un messaggio di amore, giustizia, fratellanza e pace. 
Quei laboratori, infatti, lo porteranno, insieme ai compagni di strada fidati (mai soli per il mondo), fino in Libano, con il progetto Rap 4 peace, per portare quel messaggio proprio in quei luoghi che da sempre sono simbolo della guerra. Per scoprire che perfino a Sabra e Shatila una scuola può tutto.
Il libro continua raccontando storie che erano già finite dentro i suoi dischi: la fratellanza con la comunità rom, le lotte contro l’amianto, e poi la scoperta del Lago che combatte, storia dal sapore magico di un bacino d’acqua naturale nato dietro il centro sociale ex Snia a Roma in un’area strappata alla speculazione edilizia.

Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo è un libro che fa bene, che aiuta a riconnettersi con la propria storia, che spinge ad interrogarsi sul cosa farsene di quel tesoro che si continua a portare dentro. Il libro di Militant A ci dice che è sempre possibile fare qualcosa, anche quando sembra proprio che non ci sia più niente da fare.

Chi ha vissuto la storia dei centri sociali italiani, chi è cresciuto dentro i movimenti, chi a Genova ha sperimentato la propria perdita dell’innocenza, sa che immenso patrimonio di vissuti, saperi, relazioni e pratiche ha condiviso e accumulato (troppo da difendere). Ma sa anche come è difficile restare sempre all’altezza. Conosce quanta fatica comporta continuare ad avere nuove storie da scrivere.
All’improvviso ci si ritrova ad essere genitori, e non più figli, e si inizia a fare parte di una nuova comunità, con persone che vengono da storie diverse e con le quali istintivamente viene voglia di entrare in connessione.
Il problema è allora come tenere fede alla propria storia, senza restare imprigionati dalla maschera che ci si è costruiti. Fare a meno della nostalgia ed essere pronti a rigiocare i propri miti, andare sempre a liberare il bue che gira intorno al suo solco, ma in un terreno nuovo, privo di steccati. Capire come continuare ad usare quel microfono che ci si ritrova ancora tra le mani, magari sollevando il cappuccio della felpa e iniziando a respirare una nuova aria, facendo a meno del senso di colpa universale, ma continuando a sentire una sana responsabilità verso le generazioni a venire.
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VIANDANTI NEL NULLA

19/2/2019
Sul libro di Stefano G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia? [Mimesis, Milano-Udine, 2018]

di Marco Paciotti 

Nell’attuale dibattito politico capita sovente di imbattersi nell’etichetta di “rossobrunismo”, per la quale si intende, tra chi vi aderisce entusiasticamente e chi invece vi si richiama con intenti più polemici (talvolta con toni crassamente scandalistici), un’alleanza transpolitica – oltre destra e sinistra – tra marxisti e nazionalisti contro il nemico comune costituito dal capitalismo globale transnazionale, stigmatizzato variamente quale “apolide”, “turbomondialista”, “sradicante”, “cosmopolita” etc., nel nome della difesa della “sovranità” e delle piccole patrie.

 
In un testo pubblicato lo scorso autunno presso Mimesis Stefano Azzarà, con scrupolo critico, polemizza con tale posizione, mostrandone l’inconsistenza sul piano storico-filosofico a partire dall’analisi del dibattito avvenuto nell’estate del 1923 tra alcuni esponenti della Kommunistische Partei Deutschland (tra cui spiccano le figure di Karl Radek e Paul Fröhlich) e i teorici del movimento völkisch Arthur Moeller van der Bruck[1] e Ernst Reventlow. Lo scambio, descritto dall’autore come un “dialogo tra sordi”, viene presentato in una nuova traduzione di Azzarà nella seconda parte del libro.
 
Esso ha origine in un intervento tenuto da Karl Radek alla seduta dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca il 20 giugno del 1923, durante il quale il dirigente comunista evocava la figura di Leo Schlageter, “coraggioso soldato della controrivoluzione” e “martire del nazionalismo tedesco”, processato e assassinato per aver compiuto azioni di sabotaggio nella Ruhr occupata dalle truppe francesi in virtù del trattato di Versailles. Schlageter era descritto come un sincero patriota che aveva pagato con la vita per le sue idee: ma egli era un “viandante nel nulla”[2], dal momento in cui aveva aderito a un movimento egemonizzato dal capitale tedesco, il quale da un lato soffiava sulle aspirazioni indipendentiste di vasti strati delle classi popolari tedesche mentre, al contempo, non disdegnava di stringere accordi affaristici con i potentati economici francesi interessati alle materie prime dei territori occupati. L’intento dichiarato da Radek, ben lungi dal costituire un ammiccamento verso i movimenti revanscisti, era quello di contrastarne l’ascesa egemonica presso le classi intellettuali e piccolo-borghesi in via di proletarizzazione, mostrando esse come il riscatto della nazione sconfitta e umiliata a Versailles non potesse prescindere dal riscatto sociale delle classi popolari, ovvero della maggioranza del popolo tedesco. Tale tentativo strategico costituiva la conseguenza logica della “analisi concreta della situazione concreta” relativamente al fascismo, portata avanti – in particolare all’interno del partito comunista tedesco – da Clara Zetkin[3], volta a rinnovare le precedenti interpretazioni meccanicistiche ed economiciste del fenomeno prevalenti tra i marxisti, focalizzandosi su un’interpretazione del fascismo come movimento di massa volto alla conquista degli strati medi-inferiori della società e non più inteso come mero strumento di battaglia passivamente nelle mani delle classi possidenti per contrastare con il ricorso alla violenza il movimento operaio in ascesa. Era giunto il momento della “scoperta dell’egemonia”, categoria che doveva comportare un notevole arricchimento del paradigma marxista e la sua superiore maturazione epistemologica. Corollario di tale scoperta era l’estensione della nozione di classe operaia anche ai lavoratori intellettuali, superando le ristrettezze economicistiche di quanti tendevano a identificare l’Arbeiteresclusivamente con l’operaio di fabbrica. In sintesi, distinguendo tra la base sociale di massa, le cui istanze i comunisti si proponevano di comprendere e di difendere, e la dirigenza del movimento nazionalista, si gettavano le basi per una guerra d’egemonia contro quest’ultimo volta a minarne il consenso popolare.
 
Il significato battagliero dell’iniziativa di Radek era prontamente colto da Moeller van den Bruck. L’intellettuale di punta del giornale Gewissen aveva sin da subito compreso che la posta in gioco non era l’alleanza degli estremi contro le forze politiche espressione delle classi dominanti. Egli ricordava, non a caso, l’implacabile lotta interna condotta da Radek contro la tendenza nazional-bolscevica di Laufenberg, prontamente estirpata dalla dirigenza comunista. Van den Bruck passava così al contrattacco ravvisando nell’intervento di Radek l’esigenza di una svolta tattica che era conseguenza della situazione particolarmente sfavorevole per il movimento operaio europeo nei rapporti di forza interni ed internazionali, dovuta alle sconfitte della rivoluzione in occidente, sul cui esito positivo invece l’Internazionale aveva contato come requisito fondamentale per il rafforzamento stesso del nuovo assetto politico stabilito nella Russia sovietica. Inoltre, la critica principale che i völkisch muovevano ai comunisti tedeschi era l’eterodirezione del movimento operaio che aveva il suo centro nevralgico a Mosca e non a Berlino, fatto da cui derivava – secondo Moeller van den Bruck – l’appiattimento dei vari particolarismi nazionali in un’unica grande strategia di carattere internazionale, fondata sull’analisi delle condizioni socio-economiche della Russia e non della Germania. L’internazionalismo marxista era accusato, dunque, di una sostanziale affinità con l’universalismo astratto del capitalismo finanziario. Il principio dell’uguaglianza dei popoli incontrava così il netto rifiuto dei nazionalisti. Ma anche sul piano economico Moeller van den Bruck esplicitava la distanza abissale tra il suo movimento e la KPD. L’intellettuale di Gewissen additava per la Germania una forma di sviluppo alternativa, una sorta di “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo socialista, che doveva poggiarsi sul legame organico tra le varie componenti, proprietarie e non, della nazione tedesca. Tale modello interclassista si poneva in palese contrasto con la teoria della lotta di classe, punto nodale della concezione materialistica della storia, cui i nazionalisti contrapponevano il principio della comune appartenenza alla Volksgemeinschaft[4].
 
A chiarire ulteriormente i termini non proprio idilliaci del dibattito interveniva il conte Ernst Reventlow. Egli ribadiva l’equazione tra il globalismo capitalista e l’internazionalismo comunista e l’ostilità dei völkisch a tutte le concezioni politiche universalistiche. L’ideale organicista e naturalista della comunità nazionale era e doveva continuare a essere la pietra angolare della teoria politica nazionalista, che non poteva concedere spazio alle contraddizioni di classe. A ben vedere, e solo in apparenza paradossalmente, la concezione monolitica della nazione poteva aprire uno spiraglio a un’alleanza, sia pure solo su un piano tattico e non strategico, con i comunisti, se solo essi avessero rinunciato alle “etichette di partito”[5] riconoscendo il proprio legame naturale e comunitario con tutti i connazionali, ivi comprese le classi imprenditoriali. In qualche modo, l’astrattezza rintracciata dai nazionalisti nei principi universali tacciati di schiacciare sotto il loro peso le differenze nazionali, una volta cacciata dalla porta veniva fatta rientrare dalla finestra sia pur in una diversa veste particolarista e identitaria, dal momento in cui all’interno dei confini nazionali si predicava la cessazione degli antagonismi di classe. Tale incoerenza risultava amplificata dal fatto che, come notavano Radek e Fröhlich, i nazionalisti da un lato strizzavano l’occhio alle classi possidenti, talvolta incassando il sostegno diretto di imprenditori cointeressati con le stesse aziende francesi dei territori occupati, mentre dall’altro lato indirizzavano la violenza delle proprie organizzazioni squadriste esclusivamente verso le organizzazioni di classe della classe lavoratrice. Del resto, Reventlow – contro il materialismo storico ma anche contro l’utilitarismo liberale, intesi come le diverse facce di un’unica medaglia costituita da interessi banausici e grettamente economici – proponeva una lettura “spiritualista” del capitalismo, che andava combattuto non con la lotta di classe bensì con un’energica azione dello stato, concepito neutralmente al di sopra di tutti i ceti, al fine di “domare” l’economia[6]. A Karl Radek non rimaneva che tirare le somme di tale disputa e, inasprendo ulteriormente i toni, denunciava il “tradimento nazionale del movimento völkisch, il quale era oggettivamente “al servizio di persone che con la crisi della Ruhr guadagnano miliardi”[7].
 
Dalle questioni sollevate dal dibattito qui sintetizzato, emerge quindi in primis, sul piano storico, l’inesistenza di fatto di un’alleanza tra nazionalisti e bolscevichi. È, semmai, nei referenti politici degli analisti da cui ha origine la denuncia della presunta convergenza tra opposti estremismi, ovvero nella destra liberale e nella socialdemocrazia, che va rintracciata una certa accondiscendenza – quantomeno in una fase iniziale – verso i movimenti fascisti. Dunque, sentiamo di poter affermare che qualunque richiamo ad un fantomatico fronte fascio-comunista nasca dalla confusione dei reali termini dello scontro egemonico in atto nella Germania dei primi anni ’20, e finisca per ricadere – sia pure a partire da opposte intenzioni – nello schematismo “moderato” della coincidentia oppositorum di cui si è fatto pocanzi menzione.
 
In secondo luogo, come sottolinea correttamente Azzarà, a una seria analisi risulta patente l’incompatibilità sul piano filosofico tra il rifiuto tout court dell’universalismo e il conseguente rifugio nel particolarismo tipico delle destre nazionaliste e, all’opposto, la critica dialettica dell’universalismo immediato e astratto – ovvero volto a schiacciare sotto di sé le peculiarità nazionali – nel nome del perseguimento di un universalismo concreto che, al contrario, abbraccia le istanze particolari rapportandovisi con sforzo di mediazione. Sforzo che, sebbene fosse senz’altro immane e problematico, i comunisti tedeschi non si sono illusi di poter aggirare, innestandosi così nella migliore eredità teorica hegelo-marxiana. Lo stesso non può dirsi, purtroppo, di tanti gruppi e gruppuscoli che un tempo si collocavano nel campo della sinistra ma che oggi, in nome della critica delle tecnocrazie dell’Unione Europea, individuata come il nemico principale[8], dalla sinistra sono fuoriusciti per avvicinarsi alle forze di governo, finendo per condividerne la retorica patriottarda, xenofoba e reazionaria. Gruppi che, a differenza di Radek, vorrebbero unire tutte le forze antisistema – compresi i fascisti – in un fantomatico fronte del popolo, e che, dunque, non solo tradiscono la vera questione nazionale italiana, ma non hanno più nulla di “rosso” e andrebbero definiti semplicemente socialsciovinisti.
 
 
[1] Per un approfondimento sulla figura di van den Bruck e sul movimento della Rivoluzione conservatrice si vedano: S.G.Azzarà: Pensare la rivoluzione conservatrice. Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar, La città del sole, Napoli, 2006; Id.:L'imperialismo dei diritti universali. Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell'Europa, La città del sole, Napoli, 2011; Id.: Friedrich Nietzsche. Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice. Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck, Castelvecchi, Roma, 2014; A. Moeller van den Bruck: Tramonto dell'Occidente? Spengler contro Spengler, a cura di S.G.Azzarà, Oaks, Sesto san Giovanni (MI), 2017.

[2] K. Radek: Leo Schlageter, il viandante nel nulla, in S.G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp.149-153.
 
[3] Azzarà [2018], pp. 19-28.

[4] Ivi, pp. 61-76.

[5] Ivi, p.94.

[6] Ivi, pp. 98-99.

[7] Ivi, p.110.

[8] Per una critica più approfondita di tali posizioni, senza scadere in un’acritica esaltazione eurofila, si veda: E. Alessandroni, [2018],Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea, in “Marxismo Oggi”, http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea. 
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RITORNARE A MARX (seconda parte)

12/2/2019
Collettivo di fabbricato

3. 
Come si definisce allora in Marx un metodo che sia 
scientificamente corretto senza configurarsi come filosofia della storia? Nell’Introduzione del ’57 ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Marx teorizza una teoria della conoscenza che si articola attraverso la dialettica concreto-astratto-concreto che supera l’idealismo speculativo da un lato e l’empirismo (materialismo volgare) dall’altro, dando luogo ad un circolo di rimandi reciproci che definiscono la tendenza. Scrive Marx: “Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso. (…) Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando più da vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. (…) Quest’ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, la rappresentazione concreta si è volatilizzata in una astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. È per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero, che si riassume e si approfondisce in se stesso, e si muove spontaneamente, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo, per il pensiero, di appropriarsi il concreto, di riprodurlo come qualcosa di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso.”[14] Per la coscienza il movimento delle categorie si presenta come l’effettivo atto di produzione il cui risultato è il mondo nel senso che la totalità concreta è un prodotto del pensare. “Ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione. La totalità come essa si presenta nella mente quale totalità del pensiero, è un prodotto della mente che pensa, la quale si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile (…). Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua autonomia fuori della mente; fino a che, almeno, la mente si comporta solo speculativamente, solo teoricamente. Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto.”[15] Emerge dalla lettura di questi passi l’antidogmatismo presente in questo metodo: quali sono dunque i presupposti teorici con cui concepiamo la conoscenza? Che tipo di effetti ha la definizione di questi presupposti sulla pratica sociale? E come questi effetti sulla pratica sociale retroagiscono sulla costruzione di una teoria della società? Il metodo della conoscenza esposto da Marx, che sembra contenere un’implicita idea della relazione soggetto conoscente-oggetto conosciuto, istituisce una clamorosa discontinuità con l’idea per la quale la conoscenza in quanto tale sia la conoscenza dell’oggetto reale. Entra in discussione l’idea che la conoscenza possa essere intesa come rispecchiamento fotografico dell’idea adeguata all’oggetto reale in cui quest’ultimo e l’oggetto della conoscenza coincidono. Marx non disconosce il fatto che fra il mondo della conoscenza ed il mondo dei fenomeni devono essere evidenziate differenze di tipo logico. Questo non vuol dire cadere in una qualche forma di psicologismo della coscienza o in una sorta di idealismo soggettivistico in base al quale il pensierosi configurerebbe come la facoltà di un soggetto trascendente contrapposto al mondo materiale della realtà. Al contrario, riconoscendo la differenza che si insedia fra l’oggettorealee l’oggetto della conoscenza, riconoscendo dunque la differenza fra la realtàed il concetto, si tratterà di pensare, nell’approssimazione dell’astrattezza, l’adeguatezza all’oggetto. 

Ma non basta. In Marx il modo di produzione della conoscenza è sempre calato all’interno del divenire storico, esso si configura proprio come un apparato di pensiero collocato all’interno di un sistema storicamente definito e costituito da determinate e specifiche condizioni reali. Il sistema, costituito dall’apparato teorico, presenta la coesistenza di differenti livelli, da quello economico a quello politico a quello ideologico ed ognuno di questi sistemi, pur mantenendo una relativa autonomia, si articola in una più ampia connessione con la totalità dell’apparato teorico stesso. In questo senso, l’autonomia di ciascun livello si dispiega all’interno di un più vasto contesto di dipendenza relativa col quale si presenta l’insieme delle strutture. Questo vuol dire che non c’è uno spazio unidimensionale in cui, per esempio, i rapporti fra struttura economica e sovrastruttura politica si determinano secondo la linea causa-effetto, in conseguente successione temporale. Viceversa, a partire da un determinato apparato di pensiero prodotto attraverso l’astrazione, si tratterà di pensare la totalità storica e sociale nell’articolazione reciproca di tutte le sue componenti. Il metodo marxista farà di questa totalità l’oggetto della propria teoria della storia, connetterà questa teoria alla teoria economica, infine provvederà a verificare l’adeguatezza di tale apparato di pensiero attraverso il confronto con le tendenze e le dinamiche innescate dai soggetti reali.


4. Che in una tale teoria non vada disconosciuta l’importanza dei soggetti realiè dimostrato dal fatto che calare, come fa Marx, gli individui nella storia vuol dire calarli all’interno di quel processo reale che fonda l’estraneazione e il suo superamento, i bisogni ed il loro soddisfacimento. Ne La sacra famiglia Marx dice che “l’idea ha sempre fatto brutta figura quando si è distinta dall’interesse ”e ne L’ideologia tedesca aggiunge che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. Come non riconoscere il sospetto, terribile, nei confronti della parzialità di coloro che, cantori dell’economia politica classica, contrariamente a quanto praticano, spacciano per oggettivo il proprio sapere. La verità, dunque, non esiste per se stessa, bensì, innanzitutto come critica dell’ideologia, di quell’apparato di potere e di sapere che produce contesti di accecamento mistificando la natura dello sfruttamento che presiede al rapporto capitale-lavoro. 

Dall’altro lato, nel momento stesso in cui la teoria marxiana si configura come adeguata strategia del sospetto in grado di operare una corrosiva critica del dominio, essa proietta se stessa entro l’orizzonte dell’emancipazione e della riappropriazione dell’essenza dell’uomo, il cui scopo e il cui senso sono individuati nella trasformazione. Nelle Tesi su Feuerbach Marx scrive che l’uomo di Feuerbach è l’uomo-genere-astratto, che risiede nell’intimo dell’individuo singolo, svincolato dalla società e dalla storia reale. Nella VI tesi, Marx ricorda, invece, che “l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali”. Se è vero che l’uomo è il risultato dei rapporti economici e sociali che determina e da cui è contemporaneamente determinato, diventa necessario guardare ai processi che stanno alla base della sua estraneazione. Ciò va considerato sapendo che in Marx la premessa è “l’interesse della classe proletaria” nella sua partiticità,[16] l’interesse per gli ultimi della terra, i poveri, gli sfruttati, i diseredati. Non si comprende Marx se non si capisce che la rivendicazione della propria parzialità si configura come uninteresseconfessato per la parte dei vinti, interesse confessato che poi, proprio per queste ragioni, in sede teorica, si assume la responsabilità di definirsi come un sapere che riflette sui propri pregiudizi. Qui non si tratta di una relativizzazione della teoria marxiana a mera ideologia della classe operaia e dei suoi egoistici interessi, ma della convinzione che, senza disconoscere la possibilità della coesistenza culturale, gli interessi della classe operaia possano essere universalizzabili. Infatti, secondo Marx, l’interesse della classe consisterebbe nell’individuare chiaramente la sua situazione e nell’abolirla, abolendo così non solo la propria estraniazione ma l’estraneazione di tutti gli uomini. È per questo che la teoria e la prassi non tendono soltanto alla trasformazione ma anche al miglioramento del mondo. La famosissima parola d’ordine della tesi XI recita: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo.” Cosa vuol dire questo se non il fatto che l’autentica prassi deve procedere soltanto in complementarità con la teoria? La trasformazione non può che attuarsi con un’incessante conoscenza dei contesti che si misura con la situazione analizzata, che si realizza a partire dalla comprensione della tendenza dialettica, delle leggi oggettive, della possibilità reale. 


5. Scrive Marx: “Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di fantasmi che hanno prodotto le robinsonate del XVIII sec., le quali non esprimono affatto, come presumono gli storici delle civiltà, semplicemente una reazione alle eccessive raffinatezze e un ritorno a una malintesa vita naturale (…). Questa non è che l’apparenza, e precisamente l’apparenza estetica delle piccole e grandi robinsonate. In realtà si tratta piuttosto dell’anticipazione della «società civile», che si preparava dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante verso la sua maturità. In questa società della libera concorrenza l’individuo si presenta sciolto da quei vincoli naturali ecc., che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui un elemento accessorio di un determinato circoscritto conglomerato umano.”[17]
L’economia politica classica intende recingere lo spazio inaccessibile proprio dell’io, dell’individualismo possessivo. Deve operare le enclosures dell’anima e del sé. Costruire il sé a partire da ciò che lo lega a sé in modo orizzontale e circolare. Circondare, recingere, chiudere e isolare, creare una ipseità. “Agli occhi dei profeti del XVIII secolo, sulle cui spalle poggiano ancora interamente Smith e Ricardo, questo individuo del XVIII secolo – che è il prodotto, da un lato, della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall’altro dalle nuove forze produttive sviluppatesi a partire dal XVI secolo – è presente come un ideale la cui esistenza sarebbe appartenuta al passato. Non come un risultato storico, ma come il punto di partenza della storia. Giacché come individuo conforme a natura, o meglio conforme all’idea che essi si fanno della natura umana, esso non è originato storicamente, ma è posto dalla natura stessa. Questa illusione è stata finora propria di ogni epoca nuova.”[18]

Marx ritorna laddove ha visto che l’ipseità si determina soltanto co-determinandosi. Divenir sé, ipse, solo con la pluralità degli ipse che sono tutti condotti, o ex-sistiti, tratti fuori da un’origine illusoria, un’origine che non c’è se non in un orizzonte plurale. L’economia politica classica gioca sulla progressiva instaurazione di un sé limite, di un sé che entra in una relazione diretta con la natura per trasformarla. Marx disinnesca questa illusione del soggetto individuale e della sua robinsoniana capacità di trasformazione-appropriazione della natura. “L’uomo è nel senso più letterale un Ζωον πολιτικον, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi.”[19] E ancora viene ribadito nel Capitale: “Questo deriva dal fatto che l’uomo è per natura un animale, se non politico, come pensa Aristotele, certo sociale.”[20]
Già nei Manoscritti parigini del 1844, Marx aveva propugnato l’idea di un’antropologia per la quale l’uomo può essere compreso solo a partire dal suo essere in relazione con altri uomini in una società, un’antropologia imperniata sull’uomo come essere sociale. In questa antropologia Marx innesta il suo concetto di lavoro carico di connotazioni normative. In questi scritti, infatti, si delinea una concezione della costituzione della soggettività e del riconoscimento intersoggettivo imperniato sulla mediazione del lavoro e dei bisogni.
Nel prodotto del lavoro, l’uomo può vedersi come individuo al quale si attribuiscono certe capacità ma che è in grado di provvedere ai bisogni concreti di un altro nell’interazione. A questo si affianca l’idea che l’individuazione proceda a partire dal pre-individuale nella specie e che si realizzi nell’interazione. Nel contesto di un corpo a corpo serrato con il dispositivo della produzione, e quindi negli anni che seguono questa impostazione antropologica, Marx, mantenendo l’idea della centralità dell’essere sociale, studia concretamente le relazioni economiche. Egli riconosce quel meccanismo del capitale che, con la separazione dei mezzi di produzione, distrugge le relazioni di riconoscimento degli individui, negando ad essi la possibilità di un controllo delle proprie attività, presupposto per una libera cooperazione. Inoltre, per questa via, il dispositivo capitalistico sussume sotto di sé la cooperazione sociale impedendo, pertanto, le libere dinamiche di riconoscimento.

Nell’analisi della divisione del lavoro e della manifattura, ad esempio, Marx porta avanti un’analisi della costituzione della soggettività nel modo di produzione, come modo di produzione dell’assoggettamento: “Come persone indipendenti gli operai sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale ma non in rapporto reciproco fra loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi (…). Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri d’un organismo operante essi stessi sono un modo particolare d’esistenza del capitale.”[21]
Marx ha visto nel processo di valorizzazione del capitale una de-propriazione, nella perdita di saperi artigianali, nella creazione di un esercito industriale di riserva i momenti della separazione, della privazione, della riduzione a semplice forza lavoro. “Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in un motore automatico d’un lavoro parziale.”[22] E poco più avanti: “Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro (…). Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice (...), si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale.”[23]
C’è un doppio movimento, la visione di un dispositivo, di un modo di produzione, che da un lato concentra le forze nella cooperazione, dall’altro impoverisce ed isola. L’istanza di valorizzazione del capitale tende a spezzare e a impoverire la possibilità di una appropriazione di sapere, spezzando la cooperazione stessa. “La subordinazione tecnica dell’operaio all’andamento uniforme del mezzo di lavoro e la peculiare composizione del corpo lavorativo, fatto di individui d’ambo i sessi e di diversissimi gradi d’età, creano una disciplina da caserma che si perfeziona e diviene un regime di fabbrica completo.”[24] Il modello teorico marxiano viene a configurare una situazione nella quale la mediazione del lavoro non rappresenta più un’autorealizzazione individuale e l’apertura al riconoscimento di altri soggetti, ma la manifestazione di un conflitto e di un’alienazione, dovuto alla sussunzione, dentro alle dinamiche dello sfruttamento, delle istanze di riconoscimento intersoggettivo.


6. La riflessione di Marx ha, dunque, nell’essere sociale, ossia nell’individuo in relazione, il presupposto della propria riflessione. Come abbiamo visto, ogni definizione teorica che pensa l’individuo come atomo irrelato che agisce isolatamente, si configura, dice Marx, come mera robinsonata; [25] viceversa, occorre pensare l’uomo come la risultante “del sistema dei rapporti sociali.” Posta questa precondizione, in base alla quale le circostanze determinano l’uomo al pari del fatto che l’uomo determina le circostanze, ed in base alla quale i rapporti sociali sono in perenne trasformazione, quale può essere, dunque, il ruolo delle soggettività che si situano criticamente nei confronti del dominio capitalistico? Provare ad abbandonare ogni punto di vista metastorico, trascendente o aprioristico, può voler dire riconoscere il fatto che il soggetto, configurantesi come il movimento che abbatte lo stato di cose presenti (Marx, L’ideologia tedesca), muta di continuo caratteristiche politiche ed antropologiche, a seconda delle condizioni storiche, delle invarianti sociali, dei contesti culturali, delle determinazioni economiche. Esso non può possedere alcun contenuto positivo che sia fisso, invariabile e sintetizzabile in una sola formula. E tuttavia, delineare financo i termini della transizione dalla sfera della necessità alla sfera della libertà resta un compito improbo. 
Eppure, se pensiamo la collettività come punto di incontro delle singolarità, dobbiamo necessariamente dedurre che la riappropriazione e la liberazione dell’individuo non può che avvenire sul terreno del comune. Solo entro questo sfondo comune, e perciò politico, si pone il problema della necessità della transizione da una forma dell’organizzazione produttiva e sociale inconsapevole (in cui vige l’antagonismo fra individualismo e socializzazione) ad una forma consapevole in cui questa contrapposizione viene superata. D’altra parte, un tale antagonismo non è una astrazione metafisica ma una realtà storica che si disloca nelle forme più diversificate a seconda dei mutamenti del contesto storico stesso. 

Il delicato tema della liberazione assume, dunque, connotati sui quali vale la pena di indugiare. All’individualismo possessivo ed egoistico, in cui la dimensione della cooperazione è funzione del dominio dispotico del capitalista ed in cui la mediazione avviene tramite il valore di scambio e non tramite il legame sociale, occorre sostituire una nozione di libertà adeguata all’antropologia relazionale di Marx. La liberazione cui pensa Marx è sì liberazione che si emancipa dai vincoli personali e dall’arbitrarietà politica. Essa è però, nello stesso tempo, anche liberazione positiva, che si traduce nella capacità collettiva di procedere all’autodeterminazione, alla costruzione ed alla trasformazione degli stili di vita, delle modalità esistenziali e degli orizzonti di senso. Scrive Bellofiore che “l’idea di Marx (…) è che il capitalismo, per la prima volta nella storia, renda possibile un essere umano autenticamente sociale. L’individuo ‘autonomo’ non (è) più concepibile, al suo posto subentra l’individuo costruito dalla reciproca relazione, dove l’interazione non è vista come un limite ma come una risorsa: risorsa, esattamente, per il perseguimento della libertà positiva, rispetto alla quale il superamento della divisione in classi e dell’eterodirezione nel lavoro sono premesse necessarie, perché, come scrivono Marx ed Engels nel Manifesto, la libertà ‘positiva’ degli altri è condizione della mia.”[26] Certo, lungo e tormentoso è il processo che dall’estraneazione conduce alla liberazione. Tuttavia, un’operazione di questo tipo è possibile non per una sorta di volontarismo utopistico ed arbitrario ma proprio perché, come abbiamo visto, in Marx l’enorme potenziale critico della teoria, indissolubilmente connesso alla mutazione pratica, si traduce in quello sviluppo storico in cui l’essere umano, entro vincoli e possibilità, pensa e realizza pienamente la trasformazione di sé e delle relazioni in cui è immerso. 

Marco Assennato
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Giovanni Di Benedetto
Sandro Gulì
Marcella Maisano

14.K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol.I, La Nuova Italia Firenze, pp.26-27. In Marx, “il pensiero non mira affatto ad un cattivo universale, all’astratto; al contrario, rende accessibile precisamente il mediato, il nesso essenziale del fenomeno, che è ancora inaccessibile alla mera sensibilità di fronte al fenomeno. Avviene così che il pensiero, estrapolato da Feuerbach come astratto, è in quanto mediato, concreto, mentre al contrario il sensibile privo di pensiero è astratto. È pur vero che il pensiero deve ricondursi di nuovo all’intuizione, per far prova di sé in essa (…). Solo attraverso la mediatezza dell’intuizione, attraverso l’elaborazione teoretica della realtà sensibile che diventa così cosa per noi, quella del pensare diventa “un’attività, critica, stringente, esplicativa.” (E. Bloch, Le undici tesi di Marx su Feuerbach, in Karl Marx, Il Mulino Bologna, 1972, p.109).
15.K. Marx, Ibidem,p.28.
16.Ernst Bloch, Il concetto di scienza nel marxismo, in Karl Marx, op.cit., p.177.
17.K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, op.cit. pp3-4.
18.K. Marx, Ibidem, pp. 4-5.
19.K. Marx, Ibidem, p. 5.
20.K. Marx, Il Capitale libro I, op. cit., p. 367. 
21.K. Marx, Ibidem, p. 374.
22.K. Marx, Ibidem, p. 404.
23.K. Marx, Ibidem, pp. 404 – 405.
24.K. Marx, Ibidem, p. 468.
25.K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, op. cit., p.4.
26.R. Bellofiore, Le condizioni della libertà. Dinamica capitalistica e questione del soggetto nell’epoca della «globalizzazione», in (a cura) R. Rossanda,Il Manifesto del Partito Comunista 150 anni dopo, Manifestolibri Roma 2000, p.273.
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RITORNARE A MARX (prima parte)

5/2/2019
Collettivo di fabbricato

​Lo scritto che pubblichiamo qui di seguito è intitolato 
Ritornare a Marx. È stato recuperato scartabellando tra documenti, carte e libri conservati alla rinfusa e di cui avevamo quasi perso traccia. Strano destino quello di questo testo, destinato più volte all’oblio, e che invece continua periodicamente a circolare. Vale la pena allora ripercorrerne la genesi, visto che esso è il frutto singolare di un’elaborazione collettiva che, pur risalendo oramai a più di quindici anni fa, mantiene intatta una certa originalità e una significativa attualità.


Tra il 2001 e il 2003 un piccolo gruppo di attivisti e attiviste decide a Palermo di dedicarsi alla lettura e allo studio del primo libro de Il Capitale. Si dà pure un nome, Collettivo di fabbricato, evocando ironicamente la pellicola di Wolfgang Becker Good Bye Lenin: forse perché in quel gruppo c’era qualcuno particolarmente affezionato alla Berlino dei tempi andati, o forse perché già allora la vittoria del capitalismo suscitava quel sentimento, un misto di rabbia e rassegnazione che, dopo l’annessione della DDR, l’Anschluss, è stato definito  Ostalgie.

Il Collettivo di fabbricato si proponeva di affiancare lo studio e l’elaborazione teorica all’impegno militante, coniugando, per così dire, teoria e prassi. Al contempo costituiva uno spazio di elaborazione teorica al di fuori dei tradizionali circuiti culturali accademici e dell’establishment, anche quello di sinistra.Anzi, la sua stessa esistenza si configurava implicitamente come una critica, radicale e spietata, a quei luoghi dell’elaborazione del sapere, in primis l’università, che già allora manifestavano quei segni di imbalsamata sclerosi e mummificata inutilità e immobilismo oggigiorno diventati scandalosamente evidenti.

Il collettivo si riuniva ogni due settimane nelle case dei vari componenti, si discuteva un capitolo alla volta, periodicamente ci si dedicava alla lettura di testi critici, e di volta in volta si decideva come proseguire. Quella dei seminari autogestiti era una pratica che era già stata abbondantemente sperimentata negli anni ’90 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, a partire dal movimento della Pantera. Per anni vennero strutturati cicli di seminari, che talvolta riportavano lo stesso nome delle materie ufficiali, che spesso erano più frequentati dei corsi universitari stessi e il più delle volte anche più interessanti. Si trattava di sperimentare forme di produzione e circolazione del sapere nuove, che mettessero in discussione l’autorità dell'istituzione universitaria e dessero vita a pratiche dialogiche. In quegli anni i testi dell’ecologia della mente, la filosofia poststrutturalista, il pensiero della differenza e l’epistemologia critica, tenuti rigidamente a distanza dai programmi universitari, divennero patrimonio comune di diverse generazioni di studenti e attivisti.

Il Collettivo di fabbricato utilizzò quella metodologia con un testo che sentivamo essere assolutamente vivo. Il Capitale, in quegli anni più che mai, era avvolto, però, da una doppia aurea di ereticità e sacralità. Era necessario, allora, sottrarre quel testo alla doppia morsa che vedeva da un lato i teorici della fine della storia ansiosi di metterlo al bando, dall’altro i nostalgici dell’esperienza sovietica proporne una lettura dogmatica e reducista. Questo testo rappresenta un tentativo di ritornare a Marx, per comprendere le linee di fuga possibili da un presente letto nella sua determinazione storica, per comprendere cioè la natura conflittuale anche del nostro sistema sociale, tutt’altro che pacificato.

La natura corsara di quell’esperienza non impedì, tuttavia, agli estensori del piccolo saggio che pubblichiamo in due puntate, di essere invitati a un convegno di studi che si tenne alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo il 19 e il 20 Maggio del 2003, intitolato “Marx e la filosofia: rivisitazioni e prospettive”. Questo testo fu scritto in occasione di quel convegno. Vale la pena ricordare che quella partecipazione fu oggetto in qualche modo di scandalo e ampie controversie tra gli organizzatori. La partecipazione non comparve in nessun documento o locandina, i relatori non furono invitati al pranzo ufficiale e, addirittura, furono fatti dei tentativi per non fare leggere la relazione che, ovviamente, non fu inclusa nella pubblicazione che ne seguì. Poco male, il Collettivo di fabbricato pubblicò in 10 copie un opuscoletto autoprodotto, certi che la diffusione non si sarebbe fermata. Nella quarta di copertina era riportata la foto del gruppo (dalla quale era stato cancellato con photoshop l’organizzatore del convegno) e in esergo si riportavano queste righe:

Questo testo è un fantasma.
La sua apparizione è 
dovuta alla sua scomparsa.
Queste pagine erano state scritte 
come una cosa triviale, ovvia.
Ma la loro pubblicazione è risultata
una cosa imbrogliatissima,
piena di sottigliezza metafisica
e di capricci teologici.
Ma nel suo oblio questo testo 
continua a disseminare effetti ottici.
Ogni nuova apparizione comporta
una scomparsa inedita.
Eguale ed opposta.

Ci piace ricordare, in ordine rigorosamente alfabetico, oramai a più di quindici anni di distanza dalla conclusione di quell’esperienza, coloro che vi presero parte e l’immutato legame di amicizia e di affetto reciproco che ancora li lega: Marco Assennato, Loriana Cavaleri, Totò Cavaleri, Giovanni Di Benedetto, Sandro Gulì, Marcella Maisano. (T .C., G. D. B.) 


RITORNARE A MARX

1. Ritornare in francese si dice revenir, revenant è il fantasma. Marx è il fantasma. Nel Mariageforcé di Moliére, il filosofo Pancrazio è il personaggio contrario al matrimonio, che viene escluso, ricacciato in un angolo. Ma egli ritorna sempre, egli è il revenant che continua ad opporsi, a dire no, fino a quando non appare, nella scena finale, come un fantasma. Leggere Marx significa leggere i testi di un fantasma, l’espressione di un pensiero dopo la fine, la fine del suo esser stato pensato, agito, esperito.
Non si può recidere il nesso inestricabile di teoria e effetti della teoria che ormai sono diventati storia effettiva (Wirkungen effetti che si sono fatti Wirklichkeit realtà). E tuttavia, è una realtà, combattuta, rimossa, forse sconfitta e in alcuni casi tramontata. Che cosa allora possiamo leggere? Possiamo andare alla cosa stessa, al testo. Quel che noi leggiamo è il testo e quasi non possiamo esimerci dal confronto, perché noi siamo quel testo e noi ne siamo una parte di senso. 
Il testo di Marx potrebbe essere, in questo senso, un superstite. In latino ci sono due modi di dire testimone: uno è testis, da terstis, colui che è terzo in una lite tra contendenti e l’altro è superstes, colui che ha vissuto qualcosa, ha visto e può rendere testimonianza. In questo senso il testo di Marx è oggi un superstite.

È possibile, allora, provocare il testo di Marx, oggi? Chiamarlo in causa, come superstes, testimone di un processo che molti vorrebbero chiuso ma che è ancora in corso? Si può leggerlo, mettendolo in discussione?
Probabilmente non è più possibile, né tanto meno utile, leggere il testo di Marx continuando a rivestirlo dell’aura rivelatrice e didascalica da cui spesso è stato avvolto. Possiamo ipotizzare, però, che insieme alle radicali trasformazioni che hanno attraversato la nostra società nell’ultimo secolo, sia mutato contemporaneamente anche il ruolo che lo stesso testo di Marx può trovarsi a rivestire. Forse si tratta di smettere di interrogare Marx per iniziare a farci interrogare da lui. Non possiamo aspettarci, quindi, che Marx direttamente ci indichi e ci descriva gli odierni conflitti ed i soggetti che li compongono, d’altro canto però proprio la lettura della sua opera risulta un invito fondamentale ad interrogarci noi stessi sui conflitti, i soggetti e le categorie attraverso cui interpretarli.
L’invito da raccogliere è allora quello di continuare ad investigare sulle forme e sul ruolo che assumono nel nostro contesto l’economia, la produzione, il lavoro ed il conflitto. Questo invito è tanto più pressante poiché da più parti sentiamo oggi parlare di fine del lavoro, uscita dalla società del lavoro, fine dell’economia politica, metamorfosi del lavoro [1], ecc. Ma proprio questa necessità diffusa di abbandonare o superare determinate categorie ci fa pensare che la critica dell’economia politica sia ancora un ambito di ricerca dal quale non è possibile prescindere. Anzi, proprio perché nella nostra società la sfera dell’economico è in continua trasformazione, riteniamo importante ritornare allo studioso che più di ogni altro ne ha disvelato l’importanza e descritto il mutamento.

Questo invito, del resto, lo fa esplicitamente lo stesso Marx, in un celebre passo dell’Introduzione del ’57 dei Grundrisse, in cui ci esorta, nelle nostre analisi, a tenere in considerazione i contesti più generali e ci invita a riconsiderare il ruolo stesso della struttura economica nel suo divenire storico: “Le questioni sollevate sopra si riducono tutte in ultima istanza al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla produzione e al rapporto che questa ha con il movimento storico in genere. La questione rientra evidentemente nella discussione e nell’analisi della produzione stessa.”[2] Questo passo risulta ancora più importante se si va a leggere poco più avanti: “Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di un’unità. La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti.”[3]
Marx ci dice che è necessario analizzare gli elementi di un sistema come parti di un tutto, leggere la loro dipendenza reciproca analizzando i rapporti di egemonia, inquadrare il tutto nel contesto storico più generale. Ed è proprio questo che noi dobbiamo ascoltare: riteniamo, infatti, che per comprendere le trasformazioni dell’economia non possiamo esimerci dall’analizzare il rapporto in continuo divenire che passa tra produzione, distribuzione, scambio, consumo e tutti gli altri elementi che caratterizzano il contesto generale. Ed ecco, allora, che si tratta di insistere, di allargare, di riconoscere la connessione, di andare oltre ogni fenomeno considerato in maniera singolare; si tratta di spostare, mutare fino a spezzare le catene dell’isolamento e raggiungere un’immagine esplicativa.

Marx non descrive il rapporto tra struttura economica ed organizzazione sociale semplicisticamente in termini di dipendenza lineare, quanto piuttosto mira a vedere come elementi economici fondino direttamente il sociale, ovvero in che modo i rapporti sociali sono mediati da essi. Per questo la merce, il denaro ed il lavoro sono sempre astratti dal loro valore d’uso e analizzati come forme, forme del rapporto sociale. Nella provocatoria visione del Capitale, ad esempio, tutto comincia con la merce, con un piccolo e oscuro oggetto triviale, il quale però, nella sua apparente semplicità, cela addirittura una connessione di elementi e di rapporti. 
Marx analizza il carattere di «feticcio» della merce, vale a dire il fatto che la dimensione sociale, che è propria del lavoro umano, appare solamente come dimensione della merce: le merci diventano tali perché sono prodotti del lavoro, l’insieme dei lavori costituisce il lavoro sociale complessivo, i produttori, però, entrano in contatto sociale, solamente mediante lo scambio di prodotti. Quindi, le relazioni private di questi lavori appaiono non come rapporti immediatamente sociali fra persone, ma come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. (…) Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. (…) L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose.”[4]

Tener dentro l’idea di considerare oggi il pensiero di un fantasma è anche accostarsi problematicamente all’intreccio di visibilità e di invisibilità, di apparenza e di manifestazione, di cose e fenomeni che il testo ci ha offerto. Ancora nel Capitale, nel capitolo dedicato a La cosiddetta accumulazione originaria, Marx afferma: “Il lino ha sempre l’aspetto di prima. Non ne è cambiata nessuna fibra, ma gli è entrata in corpo una nuova anima sociale.”[5]
La fruttuosa visione gioca sull’apparente nascosto, laddove Marx allarga il semplice, lo mette in relazione, affinché l’oggetto scelto si componga in una visione nuova. La conoscenza materialistica è conoscenza che fa prender corpo e anima agli oggetti. Questa è la contraddizione operante nel testo. Marx insiste sull’oggetto, lo agguanta, lo spinge al di là della sua stessa vita fino a quando esso non trova la sua disposizione. Uno dei fini di questa insistenza è la dissoluzione dei contesti di accecamento, la possibilità di disvelare i nessi, insistere per far ex-sistere, portare a esistenza, dar corpo e voce all’implicito, al singolare, all’apparente in quiete, negare la possibilità di uno stato di quiete originario e naturale per marcare la relazione, la negazione.
Si tratti di dimostrare l’enigma del feticcio della merce, si tratti di smascherare il meccanismo della riproduzione semplice, dal momento che è divenuto invisibile, Marx tenta, energicamente, di ricostruire il visibile o l’evidente contro l’abbagliamento che rende ciechi. Si tratta di vedere là dove non si vede, di guardare con un colpo d’occhio là dove l’occhio è cieco. “Quindi l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio.”[6] Se non ci si rende conto di questo, allora la merce-tavolo resta quel che non è, una semplice cosa. La merce è triviale,essa fa capricci teologici e sottigliezze metafisiche. La merce, il lino, diventano sovrasensibili e per comprenderli ci vuole una visione-costruzione. “Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo del nervo ottico stesso ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio.”[7] La contraddizione, questo scarto intangibile fra visibile e sovrasensibile, diventa importante per suscitare, per allargare, in funzione di una superiore visione dei nessi. C’è lo specchio che è la forma merce ma d’un tratto non rinvia più l’immagine propria e quelli che la cercano non la trovano più. Non si troverà, quindi, una realtà vera, una pre-visione, una verità disvelata, ma il dispositivo della produzione di una logica e la possibile costruzione di una conoscenza trasformatrice. Lo speculare diventa il limite visibile di questa falsa naturalizzazione ma, anche, l’immanente necessità di svelare rende visibile il carattere coattivo della de-naturalizzazione. 


2. Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels scrivono: “Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.”[8]Da quanto letto sembrerebbe emergere un punto di vista evoluzionista e deterministico: la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e l’assetto dei rapporti di produzione, secondo questa prospettiva, includerebbe necessariamente l’idea teleologica della naturale, diremmo quasi scontata, transizione dal capitalismo al comunismo. Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx scrive che “a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”[9] Come se la teoria marxista, facendo propria la categoria di scopo finale, introducesse profeticamente la virtuale possibilità di pensare non solo il divenire della storia ma anche il suo compimento. Una considerazione analoga potrebbe emergere dall’analisi del capitolo XXIV del primo libro del Capitale dove il comunismo sembra configurarsi come la forma immanente dell’alternativa al capitalismo ed al suo paradigma dello sviluppo della produttività sociale. Il capitolo dedicato alla cosiddetta accumulazione originaria, in cui Marx ci offre un meraviglioso affresco del punto di partenza del modo di produzione capitalistico, fondato sulla conquista, il soggiogamento, l’assassinio e la rapina, e della derivazione di questo dalla società feudale, si chiude con il paragrafo intitolatoTendenza storica dell’accumulazione capitalistica. Scrive Marx in questa sezione: “Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.”[10] E ancora, qualche rigo più sotto: “la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione.”[11] Sulla base di quanto è stato appena scritto, e procedendo ad una lettura superficiale della teoria marxista, il capitalismo si configurerebbe come una condizione necessaria che presuppone il proprio completo dispiegarsi prima di essere a sua volta superato. In base a questa filosofia della storia, tutti i popoli, indipendentemente dalla situazione concreta nella quale si trovano, sarebbero destinanti a ripercorrere tutte le tappe evolutive che portano da un modo di produzione più arretrato ad un altro più sviluppato, con la necessità, però, di attraversarli tutti. Il comunismo sarebbe la risoluzione della contraddittorietà insita al capitale che da un lato produce la socializzazione delle forze produttive e dall’altro le assoggetta alle istanze della valorizzazione del capitale. Dentro questo contesto teorico, il lavoratore è oggetto di questa dinamica ma anche soggetto nella misura in cui è in grado di pervenire ad un livello di socializzazione prefigurante un più elevato modo di vita in comune. 

​Posto tutto questo, non è un caso però che Marx intitoli il paragrafo facendo riferimento ad una tendenza storica. Risulta infatti abbastanza agevole constatare come tutta l’opera di analisi dello studioso di Treviri non faccia che lavorare sulle tendenze contraddittorie di un processo storico, senza volerne necessariamente prefigurare lo sbocco finale. Non si tratta dunque di dare un contenuto positivo al futuro, né di pensare ad una forma determinata in cui si dà e si fa realtà una società liberata. Pensare in questi termini significherebbe presupporre che Marx, dotato di una particolare capacità visionaria, abbia potuto non solo pensare problemi che non appartenevano al suo tempo storico, ma che abbia anche avuto la capacità di anticiparne arbitrariamente la soluzione. Ma porre in questo modo i termini del problema, non significa forse chiedere a Marx l’impossibile? Eppure non si può negare che, ponendo la questione dell’interpretazione di Marx in questo senso, si sia riusciti non solo a mistificarne e demonizzarne il contenuto, ma anche a disinnescarne tutto il potenziale teorico di fecondità analitica ed euristica. Per andare al di là di un approccio che fa della teoria marxista una filosofia della storia, occorre dunque pensarla, per dirla con Althusser, come una teoria finita, ossia limitata all’analisi del modo di produzione capitalistico ed alle sue tendenze contraddittorie. Scrive Althusser: “l’idea che la teoria marxista è «finita» esclude totalmente l’idea che sia una teoria «chiusa». Chiusa è la filosofia della storia, giacché racchiude in sé e in anticipo tutto il corso della storia. Solo una teoria «finita» può essere realmente «aperta» alle tendenze contraddittorie che scopre nella società capitalistica, ed aperta al loro avvenire aleatorio, aperta alle imprevedibili sorprese che non hanno cessato di segnare la storia del movimento operaio.”[12] La ragione profonda per la quale nella teoria di Marx non c’è nessuna filosofia della storia che pretenda, attraverso il pensiero, di inglobare il fine e la fine del processo storico nel quale è situata l’umanità intera, risiede, probabilmente, nel modo stesso con cui Marx definisce il proprio metodo teorico. Il merito del metodo marxiano, infatti, consiste proprio nel riuscire a pensare in modo non lineare ma contraddittorio lo sviluppo economico e sociale della società, sviluppo che produce emancipazione dai vecchi vincoli da un lato e, nello stesso tempo, nuove forme di assoggettamento e di relazioni di potere.[13]

Marco Assennato
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Giovanni Di Benedetto
Sandro Gulì
Marcella Maisano


1. Queste espressioni si riferiscono rispettivamente a Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Baldini&Castoldi Milano, 1995, Pietro Barcellona, Il Capitale come puro spirito, Editori Riuniti, 1990, Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli Milano, 1979, Andrè Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri Torino, 1992.
2. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia Firenze, 1978, p.23.
3. K. Marx, Ibidem,p.25.
4. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, pp.103-104.
5. K. Marx, Ibidem, p.809.
6. K. Marx, Ibidem, p.125.
7. K. Marx, Ibidem,p.104.
8. K. Marx , F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Mursia Milano, 1987, p.69.
9. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti Roma, 1974, p.5.
10. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, p.826. 
11. K. Marx, Ibidem,p.826.
12. L. Althusser, Il marxismo come teoria «finita», in Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, De Donato Bari, 1978, pp.8-9.
13. “La dimensione teoretica del suo approccio – il suo essere una teoria piuttosto che una filosofia della storia – ci suggerisce viceversa un altro modo di procedere, basato da un lato sulla costruzione di modelli formali in cui l’insieme viene analizzato solo come totalità sistemica autoriproducentesi e ogni soggettività «critica» viene eliminata, e dall’altro sulla costante verifica della capacità di tali modelli di «spiegare» eventi storici, dove al contrario entrano in gioco soggetti  reali, potenzialmente dotati di consapevolezza e volontà idonee ad alterare le strutture entro cui la loro azione si sviluppa.” (A. Burgio, L. Cavallaro, Attualità di un Discorso in K. Marx, Discorso sul libero scambio, DeriveApprodi Roma, 2002, p.16).

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