• HOME
  • RUBRICHE
    • CHE COS’È QUESTA CRISI? >
      • LE TESSERE IDEOLOGICHE DEL DOMIN(I)O
      • SINDACATI MODERNI?
      • DOVE VA L'EUROPA? INTERVISTA A FRANCESCO SARACENO
      • NISIDA E’ UN’ISOLA, MA NON SOLO
      • EMERGENZA, PROCESSO ‘DA REMOTO’ E CONVULSIONI DEL SISTEMA PENALE
      • VIRUS DIETRO LE SBARRE
      • ITALIA VS. RESTO DEL MONDO
      • CONTRIBUTO DEMOCRAZIA E LAVORO PALERMO
      • BISOGNA CHE TUTTO CAMBI…?
      • UOMINI ADULTI E RAGAZZINI
      • NON ESISTONO PASTI GRATIS
      • COMUNICATO SUI MILITANTI CASA DEL POPOLO PALERMO
      • OLTRE IL "BREVEPERIODISMO". INTERVISTA A GUGLIELMO FORGES DAVANZATI
      • CONTE 2: IL TRIONFO DI KING KONG
      • CAROLA È ANTIGONE?
      • DALLA QUESTIONE MERIDIONALE ALL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
      • LUNGA E IMPERVIA È LA STRADA
      • CHI LAVORA E' SOTTO ATTACCO
      • SE IL FUOCO DELLA RIVOLUZIONE
      • CONGRESSI CGIL: OLTRE IL PENSIERO CONVENZIONALE
      • DOPO IL CONSENSO: L'EUROPA TERRENO DI SCONTRO FRA PARADIGMI
      • INDIETRO NON SI TORNA… PURTROPPO
      • SOVRANISMO, MALATTIA INFANTILE DELLA NUOVA SINISTRA?
      • DISAGIO SCOLASTICO
      • DISOCCUPATI D’ITALIA
      • LA CRISI DELLE BANCHE E' FINITA?
      • UN'EUROPA DA CONQUISTARE
      • ROUSSEAU, IL CONFLITTO E LA POLITICA
      • FARE LA SARTINA: UN MESTIERE PERICOLOSO
      • DOPO MACERATA
      • UNA BUONA SCUSA PER VOTARE
      • 41bis OLTRE I DOGMI
      • UN MONDO CAPOVOLTO: IN CRESCITA LE DISUGUAGLIANZE
      • PERCHÈ DOBBIAMO PRENDERE QUEI PICCIONI
      • CONTRO LE ELEZIONI
      • NON È FLESSIBILITÀ, È CONFLITTO
      • UN ESEMPIO DI BUONE PRATICHE
      • TALLONARE IL DENARO
      • 50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
      • DALLA DELEGA ALLA CONTESA
      • SCUSI, DOV’È L’USCITA?
      • IL 25 APRILE A VENIRE
      • IL FUTURO DEL PASSATO
      • ANTI EURO: LI CHIAMAVANO TRINITA'
      • COSA SUCCEDE A PALERMO?
      • HOTSPOT A PALERMO
      • DIVERSE VELOCITÀ MA NESSUNA RETROMARCIA
      • L’8 MARZO: 24 ORE DI SCIOPERO, NONUNADIMENO
      • TEMPESTA PERFETTA. LA CAMPAGNA NOI RESTIAMO PUBBLICA UN VOLUME SULLA CRISI
      • IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
      • ASPETTI POLITICI DELLA PRECARIZZAZIONE
      • ECONOMIA MALATA, TEORIA CONVALESCENTE
      • MA GLI OPERAI VOTANO?
      • SI PUO' FARE: LA VITTORIA DEL NO
      • UN NO NON BASTA
      • LE (VERE) RAGIONI DEL SI
      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • IL VIRUS DEL SOVRANISMO
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
      • DALLA SCOZIA CON FURORE
      • NIENTE TAGLI, SIAMO INGLESI
      • CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • RITUALI DI PASSAGGIO E PROCESSI SOCIALI
      • UNA PISTOLA E UNA GUERRA
      • PER UNA NUOVA LETTERATURA
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
      • RIBELLE, MANCINO, ERETICO
      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
      • UNO DI NOI?
      • NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
      • SPECCHIO AMBIGUO
      • IL GESTO E IL SISTEMA
      • CONTRO LA MACCHINA DELLA NARRAZIONE
      • NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
      • E INFINE USCIMMO A RIVEDERCI FUORI FACEBOOK
      • TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
      • DIO NON RISPONDE, E NEMMENO LA STORIA CI SENTE TROPPO BENE
      • STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA
      • IN RICORDO DI SARA DI PASQUALE
      • PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
      • LIBRI DELL'ANNO 2018
      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
      • DAGHELA INDIETRO UN PASSO
      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
      • IL BUON PADRE DI FAMIGLIA
      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • I "DEVOTI" E GLI "SFOLLATI": UNA STORIA INTERNAZIONALE DELLE BRIGATE INTERNAZIONALI
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
      • VIOLENTI DESIDERI
      • LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
      • L'INFIDA CARTAGO E LA PERFIDA ALBIONE
      • PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA
      • PORTELLA DELLA GINESTRA TRA STORIA E MEMORIA.
      • LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI
      • PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO
      • 2001: PALERMO ANNO ZETA
      • TOGLIATTI E IL COMUNISMO DEL ’900
      • MALCOM X DALL'ISLAM ALL'ANTICAPITALISMO
      • INGRAO PRIMA DI TANGENTOPOLI
    • IL ROSSO E IL VERDE >
      • MANGIARE CARNE: A QUALE PREZZO?
      • SALVIAMO L’AMBIENTE DALL’ECOCAPITALISMO
      • L’EDUCAZIONE IN GIARDINO
      • CAMMINANDO CON TULIME
    • FEMMINILEOLTRE - IL LAVORO >
      • QUANDO IL LAVORO È VIOLENZA
    • COMINCIO DA 3 >
      • GIORGIO GATTEI: CHE COS'E' IL VALORE?
      • VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
    • IL 1917 DI JACOBIN >
      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
      • 4. DALLA STAZIONE DI FINLANDIA
      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
      • 2. LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE
      • 1. PRIMA DEL FEBBRAIO
    • BLOG
  • SEMINARI
    • 2020 >
      • RADIO COMUNITARIA 24 APRILE 2020
      • RADIO COMUNITARIA 30 MARZO 2020
    • PROGRAMMAZIONE 2017/2018 >
      • HEVALEN: INCONTRO CON DAVIDE GRASSO
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • AUTOMAZIONE E DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
      • BANCHE TRA NORMATIVA EUROPEA E DIGITALIZZAZIONE
      • SFUMATURE DI ROSSO
      • NON E' LAVORO, E' SFRUTTAMENTO
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE?
    • PROGRAMMAZIONE 2016/2017 >
      • 2017 FUGA DALL'EUROPA
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE
      • TEMPESTA PERFETTA
      • LA STRAGE RIMOSSA
      • MEZZOGIORNO GLOBALE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE >
        • MA COS'E' QUESTA GLOBALIZZAZIONE
        • MIGRAZIONE: UNA LOTTA DI CLASSE PLANETARIA?
    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
    • CICLO SEMINARI 2014/2015 >
      • Storia del valore-lavoro - prima parte
      • Storia del valore-lavoro - seconda parte
      • Il Minotauro Globale
      • Produzione di Crisi a mezzo di Crisi
      • Fenomenologia e logica del capitale
      • Oltre il capitalismo
      • L'accumulazione del capitale - prima parte
      • L'accumulazione del capitale - seconda parte
      • Lavoro salariato e capitale - Salario, prezzo e profitto
      • Economisti di classe: Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
    • ALTRI EVENTI >
      • ROSA LUXEMBURG CRISI DEL CAPITALE E POLITICHE DELLA LIBERAZIONE
      • EURO AL CAPOLINEA?
      • ROSA LUXEMBURG E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUINTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUARTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: TERZO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: PRIMO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: SECONDO INCONTRO
  • AUTORI
  • CONTATTI
PALERMOGRAD
  • HOME
  • RUBRICHE
    • CHE COS’È QUESTA CRISI? >
      • LE TESSERE IDEOLOGICHE DEL DOMIN(I)O
      • SINDACATI MODERNI?
      • DOVE VA L'EUROPA? INTERVISTA A FRANCESCO SARACENO
      • NISIDA E’ UN’ISOLA, MA NON SOLO
      • EMERGENZA, PROCESSO ‘DA REMOTO’ E CONVULSIONI DEL SISTEMA PENALE
      • VIRUS DIETRO LE SBARRE
      • ITALIA VS. RESTO DEL MONDO
      • CONTRIBUTO DEMOCRAZIA E LAVORO PALERMO
      • BISOGNA CHE TUTTO CAMBI…?
      • UOMINI ADULTI E RAGAZZINI
      • NON ESISTONO PASTI GRATIS
      • COMUNICATO SUI MILITANTI CASA DEL POPOLO PALERMO
      • OLTRE IL "BREVEPERIODISMO". INTERVISTA A GUGLIELMO FORGES DAVANZATI
      • CONTE 2: IL TRIONFO DI KING KONG
      • CAROLA È ANTIGONE?
      • DALLA QUESTIONE MERIDIONALE ALL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA
      • LUNGA E IMPERVIA È LA STRADA
      • CHI LAVORA E' SOTTO ATTACCO
      • SE IL FUOCO DELLA RIVOLUZIONE
      • CONGRESSI CGIL: OLTRE IL PENSIERO CONVENZIONALE
      • DOPO IL CONSENSO: L'EUROPA TERRENO DI SCONTRO FRA PARADIGMI
      • INDIETRO NON SI TORNA… PURTROPPO
      • SOVRANISMO, MALATTIA INFANTILE DELLA NUOVA SINISTRA?
      • DISAGIO SCOLASTICO
      • DISOCCUPATI D’ITALIA
      • LA CRISI DELLE BANCHE E' FINITA?
      • UN'EUROPA DA CONQUISTARE
      • ROUSSEAU, IL CONFLITTO E LA POLITICA
      • FARE LA SARTINA: UN MESTIERE PERICOLOSO
      • DOPO MACERATA
      • UNA BUONA SCUSA PER VOTARE
      • 41bis OLTRE I DOGMI
      • UN MONDO CAPOVOLTO: IN CRESCITA LE DISUGUAGLIANZE
      • PERCHÈ DOBBIAMO PRENDERE QUEI PICCIONI
      • CONTRO LE ELEZIONI
      • NON È FLESSIBILITÀ, È CONFLITTO
      • UN ESEMPIO DI BUONE PRATICHE
      • TALLONARE IL DENARO
      • 50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
      • DALLA DELEGA ALLA CONTESA
      • SCUSI, DOV’È L’USCITA?
      • IL 25 APRILE A VENIRE
      • IL FUTURO DEL PASSATO
      • ANTI EURO: LI CHIAMAVANO TRINITA'
      • COSA SUCCEDE A PALERMO?
      • HOTSPOT A PALERMO
      • DIVERSE VELOCITÀ MA NESSUNA RETROMARCIA
      • L’8 MARZO: 24 ORE DI SCIOPERO, NONUNADIMENO
      • TEMPESTA PERFETTA. LA CAMPAGNA NOI RESTIAMO PUBBLICA UN VOLUME SULLA CRISI
      • IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
      • ASPETTI POLITICI DELLA PRECARIZZAZIONE
      • ECONOMIA MALATA, TEORIA CONVALESCENTE
      • MA GLI OPERAI VOTANO?
      • SI PUO' FARE: LA VITTORIA DEL NO
      • UN NO NON BASTA
      • LE (VERE) RAGIONI DEL SI
      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
      • SVENDESI INDUSTRIA ITALIA
      • LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DI MATTEO RENZI
      • NASCE PALERMOGRAD! LUNGA VITA A PALERMOGRAD! >
        • DONAZIONI
    • LONTANI E VICINI >
      • IL VIRUS DEL SOVRANISMO
      • DOPO LE LACRIME. MARADONA E LE FEMMINE
      • LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
      • DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO
      • DEATH RACE
      • ADDIO A MANOLIS GLEZOS, 1922–2020
      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
      • MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
      • LO STRANO CASO DI MR BREXIT E DR REMAIN
      • LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
      • IL DECRETO SALVINI E LA LOTTA DI CLASSE
      • ADDAVENÌ JEREMY CORBYN
      • LONTANO DA DIO, VICINO AL FMI
      • LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
      • DOCCIA SCOZZESE PER I TORY?
      • L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL LABOUR
      • ATTACCO SU TRE FRONTI: LA NUOVA RECINZIONE
      • MAROCCHINI ALLA STAZIONE
      • THE MEANING OF THERESA MAY
      • BERLINO 2016: ANOTHER BRICK IN THE WALL?
      • BREXIT: USCITA OBBLIGATORIA A DESTRA?
      • NO GRAZIE, IL BREXIT MI RENDE NERVOSO
      • BREXITHEART - CUORE IMPAVIDO
      • UN BLUESMAN DELL’INTELLETTO
      • UNA VITTORIA INUTILE?
      • CARO YANIS, TI SCRIVO..
      • ESULI A PALERMO
      • ARALDI CON LE FORBICI
      • TU CHIAMALE SE VUOI, ILLUSIONI
      • GRECIA: LA LOTTA CONTINUA SE C'E' IL PIANO B
      • GRECIA: LA LOTTA DEVE CONTINUARE
      • DALLA SCOZIA CON FURORE
      • NIENTE TAGLI, SIAMO INGLESI
      • CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
      • SO' BONI, SO' GRECI. LA VITTORIA DI SYRIZA E DEL SUO LEADER
    • IN TEORIA >
      • RITORNARE A MARX parte II
      • RITORNARE A MARX
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE (parte 2^)
      • LA GRANDE INVERSIONE: DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
      • CONFLITTO CRISI INCERTEZZA
      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • A PARTIRE DA SIMONE WEIL
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE / 2
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • UNA CRISI, TANTE TEORIE
      • MA IL SUO LAVORO È VIVO
      • POSSO ENTRARE?
      • A VOLTE RITORNA. Il dibattito su reddito di cittadinanza e simili, prima della crisi.
      • L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO ?
      • IL SEME DEL DUBBIO
      • RICOMINCIARE DA KEYNES?
      • DE-ROMANTICIZZARE IL LAVORO (DOMESTICO E NON)
      • CAPITALISMO CONCRETO, FEMONAZIONALISMO, FEMOCRAZIA
      • DAL FEMMINISMO DELL’ÉLITE ALLE LOTTE DI CLASSE NELLA RIPRODUZIONE
      • KARL KORSCH
      • INTRODUZIONE AL «CAPITALE»
      • REDDITO CONTRO LAVORO? NO, GRAZIE
      • PRIMA DI ANDARE OLTRE, LEGGIAMOLO
      • COM’È BORGHESE, QUESTA RIVOLUZIONE…
      • COME L’OCCIDENTE È ANDATO A COMANDARE
      • LO STRANO CASO DEL DOTT ADAM E DI MR. SMITH
      • L'ULTIMO MARX E NOI
      • IL CASO E LA FILOSOFIA
      • DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO
      • STREGHE, CASALINGHE E CAPITALE
      • 2016: ODISSEA SULLA TERRA
      • DOPO IL SOCIAL-LIBERISMO
      • QUANTO È LUNGO UN SECOLO?
      • BYE-BYE LENIN
      • L'OMBRA LUNGA DEL MILITARISMO
      • NON ESISTONO MEZZOGIORNIFICAZIONI
      • EUROPA E "MEZZOGIORNI". Un intervento di Joseph Halevi
      • PIANIFICARE NON BASTA?
      • IL PRANZO AL SACCO DI MARIO MINEO
      • MARIO MINEO E IL MODO DI PRODUZIONE STATUALE
      • LEGGERE BETTELHEIM NEL 2015
      • CHARLES BETTELHEIM: L'URSS ERA SOCIALISTA?
      • E LA CLASSE RESTO' A GUARDARE
      • LEI NON SA CHI SIAMO NOI
      • RISCOPRIRE IL VALORE-LAVORO
      • FUNERALE GLOBALE
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Prima Parte
      • CLAUDIO NAPOLEONI: SMITH, RICARDO, MARX - Seconda Parte
      • SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
    • IL FRONTE CULTURALE >
      • RITUALI DI PASSAGGIO E PROCESSI SOCIALI
      • UNA PISTOLA E UNA GUERRA
      • PER UNA NUOVA LETTERATURA
      • NON NASCONDERSI, NON PROTEGGERSI
      • RIBELLE, MANCINO, ERETICO
      • LIBRI DELL'ANNO 2019
      • DESTINAZIONE APOCALISSE
      • UNO DI NOI?
      • NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
      • SPECCHIO AMBIGUO
      • IL GESTO E IL SISTEMA
      • CONTRO LA MACCHINA DELLA NARRAZIONE
      • NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
      • E INFINE USCIMMO A RIVEDERCI FUORI FACEBOOK
      • TUTTO QUANTO FA (ANTI)ROMANZO
      • DIO NON RISPONDE, E NEMMENO LA STORIA CI SENTE TROPPO BENE
      • STORIE DI LOTTA QUOTIDIANA
      • IN RICORDO DI SARA DI PASQUALE
      • PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
      • LIBRI DELL'ANNO 2018
      • ROBESPIERRE CONTRO L'ANGLOFILO
      • DAGHELA INDIETRO UN PASSO
      • L’AFRICA DI MANGANELLI
      • UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?
      • IL BUON PADRE DI FAMIGLIA
      • L’ARTE DELLA MATEMATICA
      • PUNK A PALERMO
      • SGUARDI SULLA MORTE E SULLA VITA
      • MA NON SAPPIAMO QUANDO
      • COSE TROPPO VICINE PER ESSERE VISTE
      • IL RACCONTO CHE VISSE DUE VOLTE
      • UN INCUBO ASSURDO E INESORABILE
      • ETICA E/È LETTERATURA
      • ADOLESCENZE FRAGILI NELL’EPOCA DELLA BUONA SCUOLA
      • ABBASTANZA NON E' PIU' ABBASTANZA
      • ÉLITE IN RIVOLTA
      • CHI DI MOSTRA FERISCE
      • LIBRI DELL'ANNO 2017
      • PRO O CONTRO LA SCUOLA PER TUTTI
      • "NON INCOLPATE NESSUNO", MA I REGISTI SI
      • STENDHAL RAZZISTA AL CONTRARIO
      • IL TEMPO INSEGUE LE SUE VIOLE
      • L’UTOPIA DI SCHULZ
      • ADOLESCENZE FRAGILI
      • IL MARCHESE DI VENEZIA
      • “ANNORBÒ TOTÒ”
      • INVISIBILI MA NON TROPPO
      • UOMINI E LUPI
      • “MARIELLA SE N’È DOVUTA SCAPPARE”
      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
      • SENZA RUOLI, SENZA DESTINI
      • REQUIEM PER IL TEMPO LIBERO
      • DICE CH'ERA UN BELL'UOMO
      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
      • LA FATICA DI ESSERE BUONI
      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
      • SPIE, BUROCRATI ED EZISTENZIALISTI
      • DOPO L'UOMO OMBRA
      • NON HO L'ETA'
      • UN SACCO DI ASTRONAVI IN QUESTA LIBRERIA
      • VIENE AVANTI IL CRETINO
      • IL CAPPELLO NOIR
      • NON CAPISCO PERCHÉ TUTTI QUANTI…
      • UNA VITA MERAVIGLIOSA
      • MA UN GIORNO, CARA STELLA
      • LA LEZIONE È FINITA
      • MARY PER SEMPRE
      • SOLO PER I TUOI OCCHI
      • PERICOLO GIALLO
    • SEMBRA UN SECOLO >
      • I "DEVOTI" E GLI "SFOLLATI": UNA STORIA INTERNAZIONALE DELLE BRIGATE INTERNAZIONALI
      • GIUSEPPE, ANITA E I COLORADOS
      • QUESTA STORIA NON PUO' FINIRE
      • ACCOGLIENZA DI IERI
      • VIANDANTI NEL NULLA
      • UNO STATO CHE NON ERA UN MOLOCH
      • VIOLENTI DESIDERI
      • LA RIVOLUZIONE RUSSA IN ITALIA
      • L'INFIDA CARTAGO E LA PERFIDA ALBIONE
      • PIÙ CHE UN ROMANZO LA VITA MIA
      • PORTELLA DELLA GINESTRA TRA STORIA E MEMORIA.
      • LA GUERRA CHE DURA SEI GIORNI E CINQUANT'ANNI
      • PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO
      • 2001: PALERMO ANNO ZETA
      • TOGLIATTI E IL COMUNISMO DEL ’900
      • MALCOM X DALL'ISLAM ALL'ANTICAPITALISMO
      • INGRAO PRIMA DI TANGENTOPOLI
    • IL ROSSO E IL VERDE >
      • MANGIARE CARNE: A QUALE PREZZO?
      • SALVIAMO L’AMBIENTE DALL’ECOCAPITALISMO
      • L’EDUCAZIONE IN GIARDINO
      • CAMMINANDO CON TULIME
    • FEMMINILEOLTRE - IL LAVORO >
      • QUANDO IL LAVORO È VIOLENZA
    • COMINCIO DA 3 >
      • GIORGIO GATTEI: CHE COS'E' IL VALORE?
      • VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
    • IL 1917 DI JACOBIN >
      • 14. COME HANNO VINTO I BOLSCEVICHI
      • 13. LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
      • 12. IN CAMPAGNA È UN’ALTRA COSA…
      • 11. I DUE GOLPE DI KORNILOV
      • 10. ​COME FARE LA RIVOLUZIONE SENZA PRENDERE IL POTERE...A LUGLIO
      • 9. VIOLENTA, NON TROPPO
      • 8. I BOLSCEVICHI E L’ANTISEMITISMO
      • 7. LE DONNE DEL 1917
      • 6. L’ECCEZIONE ESEMPLARE
      • 5. PRIMA DI OTTOBRE, VIENE FEBBRAIO
      • 4. DALLA STAZIONE DI FINLANDIA
      • 3. LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)
      • 2. LE DONNE LANCIANO PALLE DI NEVE
      • 1. PRIMA DEL FEBBRAIO
    • BLOG
  • SEMINARI
    • 2020 >
      • RADIO COMUNITARIA 24 APRILE 2020
      • RADIO COMUNITARIA 30 MARZO 2020
    • PROGRAMMAZIONE 2017/2018 >
      • HEVALEN: INCONTRO CON DAVIDE GRASSO
      • IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE
      • AUTOMAZIONE E DISOCCUPAZIONE TECNOLOGICA
      • BANCHE TRA NORMATIVA EUROPEA E DIGITALIZZAZIONE
      • SFUMATURE DI ROSSO
      • NON E' LAVORO, E' SFRUTTAMENTO
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE?
    • PROGRAMMAZIONE 2016/2017 >
      • 2017 FUGA DALL'EUROPA
      • IL CAPITALE DI MARX 150 ANNI DOPO E' ANCORA ATTUALE
      • TEMPESTA PERFETTA
      • LA STRAGE RIMOSSA
      • MEZZOGIORNO GLOBALE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE >
        • MA COS'E' QUESTA GLOBALIZZAZIONE
        • MIGRAZIONE: UNA LOTTA DI CLASSE PLANETARIA?
    • PROGRAMMAZIONE 2015/2016 >
      • 1° INCONTRO. Sistemi di pianificazione a confronto
      • 2° INCONTRO. Calcolo economico e forme di proprietà
      • 3° INCONTRO. Scritti Teorici - Mario Mineo
      • 4° INCONTRO. Aufheben: What was the USSR ?
      • 5° INCONTRO. Luigi Cortesi: Storia del Comunismo
      • 6° INCONTRO. Storia dell'Unione Sovietica
      • LE FILIERE MAFIOSE. Presentazione libro di V. Scalia
    • PROGRAMMAZIONE 2014/2015
    • CICLO SEMINARI 2014/2015 >
      • Storia del valore-lavoro - prima parte
      • Storia del valore-lavoro - seconda parte
      • Il Minotauro Globale
      • Produzione di Crisi a mezzo di Crisi
      • Fenomenologia e logica del capitale
      • Oltre il capitalismo
      • L'accumulazione del capitale - prima parte
      • L'accumulazione del capitale - seconda parte
      • Lavoro salariato e capitale - Salario, prezzo e profitto
      • Economisti di classe: Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
    • ALTRI EVENTI >
      • ROSA LUXEMBURG CRISI DEL CAPITALE E POLITICHE DELLA LIBERAZIONE
      • EURO AL CAPOLINEA?
      • ROSA LUXEMBURG E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUINTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: QUARTO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: TERZO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: PRIMO INCONTRO
      • SENTIERI GRAMSCIANI: SECONDO INCONTRO
  • AUTORI
  • CONTATTI
PALERMOGRAD

L’ ORIENTE È L’ORIENTE E L’OCCIDENTE È L’OCCIDENTE, E GIAMMAI I DUE SI INCONTRERANNO?

23/2/2018
di David Broder

Il sottotitolo del libro di Losurdo promette un’indagine su “come il marxismo occidentale nacque, come morì, come può rinascere”. Sfogliandone le pagine è tuttavia arduo trovarvi traccia di un qualche annunzio di una “rinascita” del marxismo occidentale. Losurdo preferisce assumere il ruolo del medico che, di fronte ad un paziente sofferente, dice ai parenti preoccupati che è venuto il momento di staccare la spina. Il tono combattivo del saggio non stupirà i lettori dei lavori di Losurdo finora disponibili in inglese. Questi vanno da 
Heidegger and the Ideology of War (2001) [l’originale italiano è La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Torino 1991 n.d.t.], passando per Hegel and the Freedom of the Moderns (2004) [Hegel e la libertà dei moderni, Roma 1992 e Napoli 2011 n.d.t.], fino a Liberalism: A Counter-History (2011) [Controstoria del liberalismo, Roma-Bari 2005 n.d.t.], War and Revolution: Rethinking the Twentieth Century (2014) [che mette insieme tre differenti testi di Losurdo, n.d.t.] e Non-Violence: A History Beyond the Myth (2017) [La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Roma-Bari 2010 n.d.t.], con Nietzsche: The Aristocratic Rebel [Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2002 n.d.t.] che dovrebbe uscire all’inizio del 2018. Questi titoli costituiscono soltanto una piccola parte della prodigiosa produzione di Losurdo nella sua lingua madre, che comprende qualcosa come trentacinque libri oltre che numerosi volumi in collaborazione e ne fa uno dei più prolifici pensatori italiani della sua generazione. Titolare di una cattedra di Storia della Filosofia a Urbino, ben pochi possono tenergli testa nel mettere insieme energia ed erudizione. Nato nel 1941 nei pressi di Bari, Losurdo appartiene alla generazione radicalizzatasi negli anni Sessanta, quando era un giovane militante in quella piccola frazione di sinistra del comunismo italiano allineata sulle posizioni cinesi nella disputa sino-sovietica e che inneggiava alla Rivoluzione Culturale, prima di dividersi in diversi gruppi che sparirono dopo la morte di Mao nel 1976. Negli anni Ottanta collaborò alle pagine dell’Unità, il quotidiano del PCI, e aderì al partito. Allorché quest’ultimo cambiò nome nel 1991, fu tra coloro che lo abbandonarono per creare Rifondazione Comunista, in seguito ridotta al lumicino dopo la sua partecipazione al governo Prodi del 2006-08. Dal 2016 si è impegnato nel tentativo di ricreare un secondo PCI, col vecchio nome, un’organizzazione che al momento dichiara circa 12.000 aderenti.

Il marxismo occidentale offre senz’altro un’impostazione originale del proprio argomento. La mossa chiave di Losurdo è contrapporre sistematicamente al marxismo “occidentale” un marxismo “orientale” presentato come la sua antitesi più producente. La variante occidentale – in ciò Losurdo è d’accordo con altre ricostruzioni – nacque da una reazione contro la carneficina della Prima Guerra Mondiale e dal magnetismo esercitato dalla Rivoluzione Russa. Tuttavia fin dall’inizio il punto di vista dei suoi primi pensatori – Bloch, Lukács, Benjamin – fu impregnato di una serie di tematiche che si ricollegavano all’anarchismo dell’epoca di Bakunin: segnatamente un’ostilità nei confronti della scienza, associata al capitalismo, e dello Stato in qualsiasi guisa, associato alla tirannia. Ad esse si aggiunse una componente di attesa escatologica, ereditata dal passato giudaico-cristiano, che agognava la salvezza dell’umanità nel comunismo, concepito come la venuta prossima di una società senza classi nella quale denaro e stato sarebbero scomparsi. Tali speranze utopiche riposte in una URSS sotto assedio erano destinate ad essere deluse. Il marxismo occidentale che generarono, incapace di venire a patti con la realtà della costruzione di uno stato in grado di fronteggiare le pressioni dell’imperialismo, fu condannato all’impotenza e all’involuzione. La conseguente cecità teorica e politica ebbe radice nella reazione originaria della generazione del 1914 nei confronti della catastrofe della Grande Guerra, che instillò in essa un odio verso il nazionalismo, ritenuto responsabile del massacro reciproco dei popoli dell’Europa, un’avversione nei confronti della tecnologia che aveva reso possibile l’uccisione su scala industriale, e una credenza semplicistica che il cammino verso il socialismo consistesse nella sola lotta di classe.

Il punto di vista di ciò che cristallizzò come marxismo orientale dopo la Rivoluzione d’Ottobre fu totalmente diverso. In Europa, la presa dello sciovinismo sulle masse, il tradimento da parte della socialdemocrazia nel 1914 e la scissione nella Seconda Internazionale portarono i marxisti occidentali a vedere la Rivoluzione Russa come l’antidoto a questo flagello e a sperare che il “socialpatriottismo” venisse ribaltato da una rapida diffusione di rivoluzioni proletarie nel continente. Anche quando ciò mancò di materializzarsi, la sinistra europea rimase pervasa da un forte disprezzo, antimilitarista e – con parola di Losurdo – “anarcoide”, nei confronti della Nazione. In Asia, invece, la Prima Guerra Mondiale non rappresentò lo stesso cataclisma irripetibile che in Europa. Per i rivoluzionari cinesi o vietnamiti, come puntualizzò Ho Chi Minh, lo spargimento di sangue coloniale precedette di molto il 1914; piuttosto, la Grande Guerra aveva allentato la presa degli imperi europei sui popoli dell’Asia. Per essi, il richiamo della Rivoluzione Russa non consistette nell’immagine di una rivolta “anti-guerra” o “anti-nazionale” ma, al contrario, nella sua ispirazione “nazionale” per una lotta anti-imperialista. Nel 1919-21, lo stato a guida bolscevica si era dimostrato in grado con le sue sole risorse di liberarsi dalle potenze imperialiste che tentavano di sottometterlo. Fu questo che permise all’Unione Sovietica e alla nuova Internazionale Comunista di ottenere non soltanto la fedeltà di Ho – il quale spiegava che “in principio a spingermi a credere in Lenin e nella Terza Internazionale era stato il patriottismo, non il comunismo” – ma anche il favore di militanti non marxisti e tuttavia anti-colonialisti come Sun Yat-sen. Quindi, inoltre, per il marxismo orientale era del tutto fuori discussione una ostilità nei confronti della scienza o dello stato. In Asia le lotte di liberazione nazionale avevano estremo bisogno di utilizzare la scienza, allo scopo di costruire tanto un’economia moderna in grado di sottrarre le masse alla miseria quanto uno stato forte capace di difendere l’indipendenza della nazione da attacchi stranieri. I marxisti orientali non si illudevano minimamente che una rivoluzione socialista potesse conseguire tutto ciò da un giorno all’altro. Erano morte molte più persone durante la Rivolta dei Taiping in Cina che su tutti i fronti della Grande Guerra in Europa, inoculando i rivoluzionari contro qualunque messianismo di sorta, e preparandoli in anticipo a decenni di durissime lotte anzitutto per conquistare il potere, e poi per consolidarlo con la creazione di uno stato potente in grado di prevenire la controrivoluzione imperialista.

In Russia i bolscevichi erano inizialmente infusi di aspettative politiche ancora più grandi, perché ritenevano di non star facendo altro che erigere una testa di ponte per la rivoluzione nelle società industriali avanzate dell’Europa; e nella fase del Comunismo di Guerra arrivarono anche a sperimentare brevemente un’economia di baratto. Ma presto prevalse un orientamento più sobrio, insieme al duro compito di edificare il socialismo in un solo paese, col massimo utilizzo di conoscenza scientifica e tecnologia moderna per sviluppare l’economia e armare lo stato contro l’invasione. Questa fu un’alterazione fondamentale. Ma se l’ago del compasso poté spostarsi di tanto, fu perché Lenin aveva ripetuto lungo tutta la sua carriera – e mai più insistentemente che durante la Prima Guerra Mondiale – che le rivoluzioni di liberazione nazionale nei paesi colonizzati erano inseparabili da quelle contro il capitale nei paesi colonialisti: già nel 1913, scriveva di “Europa arretrata e Asia avanzata”. Quando cominciò la Seconda Guerra Mondiale, e l’Operazione Barbarossa inaugurò lo strenuo tentativo da parte di Hitler di sottomettere i popoli dell’URSS, le battaglie per sconfiggere la Wehrmacht in Russia e l’Esercito imperiale in Cina si conclusero con la vittoria dell’Armata Rossa e dell’Esercito Popolare di Liberazione contro  le aggressioni coloniali di Germania e Giappone.

Con questo sviluppo epocale il Marxismo Occidentale, una corrente di pensiero nata dal mancato diffondersi della rivoluzione in Europa dopo il 1917, non venne mai a patti. Le sconfitte in Germania, Italia, Ungheria e Austria non scalfirono il “socialismo in un solo paese”, che continuò a rafforzarsi, bensì le correnti europee adesso staccatesi da qualunque processo reale. L’esperienza sovietica diede inizio ad una rivoluzione anticoloniale in tutto il mondo, mentre le tendenze eurocentriche divennero marginali. Mentre i marxisti dell’Est presero sul serio il problema di costruire stati socialisti e difenderli militarmente, le loro controparti in Occidente riuscirono al più ad apprezzare le esperienze rivoluzionarie con sentimento messianico, sostenendo le rivoluzioni d’Oriente nel loro momento iniziale di presa del potere, e poi trovando di cattivo gusto le decisioni indispensabili per proteggerle dalla sovversione interna e dall’attacco straniero. Giudicando le realizzazioni concrete dell’Unione Sovietica su un metro scorretto che andava oltre le possibilità materiali dell’epoca, mancarono allora di capire che, piuttosto che essere una materializzazione delle loro visioni di una grande risoluzione di tutte le differenze sociali, l’Unione Sovietica era tormentata dalla povertà, dal basso livello culturale delle “masse” e dal difficile compito di stabilizzarsi in presenza di un accerchiamento esterno.

Le speranze utopiche, che non si realizzarono da nessuna parte, presto si volsero in accuse di distopia e “totalitarismo” – testimonianza del divorzio dei marxisti occidentali dai processi storici in corso – e in un compiaciuto crogiolarsi all’idea della superiorità culturale delle società in cui vivevano. Quello che i marxisti occidentali non riuscirono mai a cogliere fu come gli sviluppi oggettivi della storia mondiale avessero giocoforza dato la priorità alle lotte anti-imperialiste rispetto a quelle anticapitaliste, alle contraddizioni nazionali rispetto a quelle di classe, anche se queste si fondevano insieme ovunque i partiti comunisti assumessero un ruolo-guida. In Europa, una sola figura straordinaria capì il significato delle rivoluzioni anticoloniali: Palmiro Togliatti in Italia. Al contrario, il registro del marxismo occidentale diventò quello di una continua ignoranza, indifferenza o rimozione nei confronti delle trasformazioni di gran momento del mondo extraeuropeo, e culminò nel ventunesimo secolo nell’approvazione incondizionata degli interventi imperialisti per riportare indietro l’orologio della storia nel Mediterraneo e in Medio Oriente.

In questa narrazione manichea, c’è un’ovvia debolezza iniziale della impostazione di Losurdo. Il divario tra aspirazione e realtà del quale incolpa il marxismo occidentale emanò direttamente dalle concezioni bolsceviche della Rivoluzione d’Ottobre. La loro presa del potere fu seguita da un profluvio di grandi progetti per una nuova società. I dirigenti bolscevichi fecero sposare l’immaginario razionalizzante alla Edward Bellamy con le più libertarie aspirazioni ad una rivoluzione democratica, culturale, sessuale. È significativo che Lenin vedesse i compiti del nuovo stato attraverso il prisma della Comune di Parigi, e che si affrettasse a promulgare una legislazione sociale progressista per segnare uno spartiacque anche se la rivoluzione avesse dovuto fallire nel giro di qualche mese. Tale impeto fu governato dalla prospettiva europea propria di Lenin: l’intenzione di provocare esplosioni rivoluzionarie in Occidente che avrebbero salvato la giovane repubblica sovietica dall’isolamento. Quando ciò non avvenne, le ambizioni bolsceviche vennero ridefinite. Ma se l’edificazione dello stato e lo sviluppo industriale diventarono la priorità, questo non significò affatto che la nazione venisse ora prima della classe, un’idea impensabile per Lenin. Laddove, dopo la sua morte, tale concezione arrivò a “passare”, condusse notoriamente al disastro allorché Stalin costrinse i comunisti cinesi a subordinarsi ai nazionalisti nel 1926-27, per venire distrutti nel massacro di Shangai, dopo il quale il PCC dovette essere ricostruito su nuove basi da Mao nello Jiangsi. Servendo essenzialmente come termine di paragone attraverso il quale condannare il marxismo occidentale, nell’impostazione di Losurdo il marxismo orientale diventa un blocco indifferenziato in cui tali contraddizioni perdono inevitabilmente ogni rilievo.

Ma quali che siano gli errori nell’impostazione di fondo, essi risultano trascurabili a confronto delle deficienze, per non dir peggio, della sostanza del libro: la sua stessa ricostruzione del marxismo occidentale. Dopo aver aperto con una descrizione di Il dibattito nel marxismo occidentale di Perry Anderson [tit. or. Considerations on Western Marxism, Londra 1976 n.d.t.] come di una celebrazione dell’eccellenza del proprio oggetto, che ad esso promette “una vita nuova e brillante”, Losurdo passa in rassegna Lukács, Bloch, Benjamin, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Sartre, Althusser, Della Volpe, Colletti, Badiou, Žižek e la coppia Hardt-Negri, nonché Foucault e Agamben. La mossa iniziale è un indice dell’accuratezza di ciò che segue. Il libro di Anderson consegnava un giudizio di ammirazione ma “limitativo” sul proprio soggetto, e concludeva che il marxismo occidentale fosse “meno” del marxismo, nella misura in cui era occidentale, ed invocava un suo superamento, con un recupero delle modalità e delle preoccupazioni di un marxismo di stampo più classico. A differenza del suo predecessore, il libro di Losurdo non esamina in dettaglio l’opera di nessuno dei pensatori di cui si occupa, né tenta di rintracciare le comunanze tematiche che li connettono in un canone. Procede invece attraverso l’uso breve e decontestualizzato di singole frasi o periodi, di poche righe al massimo, estratti per imbastire un’accusa generica di idealismo utopistico e di ignaro eurocentrismo. Il risultato è talmente vago che la sua argomentazione poggia, all’inizio dell’esposizione, su estratti da pensatori che non erano marxisti all’epoca in cui scrissero – Bloch e Lukács prima della Rivoluzione d’Ottobre – e, alla fine di essa, da pensatori che non si sono mai considerati marxisti – Arendt e Agamben – o che al marxismo erano perfino, come Foucault, veementemente ostili. Tutti a portare acqua allo stesso mulino. Nessuno di essi è chiamato in causa nella sua specificità, ma semplicemente come illustrazione della stiracchiata costruzione di Losurdo.

In ciò, è Bloch ad avere il posto d’onore, guadagnandosi più riferimenti di ogni altro autore. Ma poiché essi provengono in gran parte dalla prima edizione di Spirito dell’utopia, pubblicata nel 1918 prima della sua conversione al marxismo – citata tre volte di più che dalla seconda, che uscì successivamente ad essa nel 1923 – non sono particolarmente probanti rispetto all’argomentazione di Losurdo. Che Bloch si sia sempre considerato come un pensatore dell’utopia, sebbene successivamente anche un materialista, non è certo un segreto. Ma dopo il 1923 non fu affatto  antisovietico, in realtà tutto il contrario: talmente favorevole all’edificazione di uno stato socialista che negli anni Trenta difese i processi di Mosca e dopo il 1945 scelse la Germania dell’Est anziché quella Ovest per il suo ritorno dall’esilio. Lukács, del quale Losurdo seleziona un testo del 1914 per dimostrarne la credenza fichtiana di vivere nell’“epoca della compiuta peccaminosità” e un altro del 1915 per mostrare come ritenesse che ogni stato fosse una “tubercolosi organizzata”, diventò un rivoluzionario marxista talmente convinto che già nel 1924 – come Losurdo successivamente ammette a denti stretti – fu il primo al mondo a produrre una lucida sintesi del pensiero di Lenin – enfatizzando l’orientamento di tale pensiero sulle rivoluzioni anticoloniali in Asia – e per il resto della sua vita rimase un comunista leale, prima a Mosca e poi a Budapest. Benjamin, presentato troppo largamente attraverso frammenti del periodo premarxista, fu negli anni Venti un affascinato visitatore di Mosca, attratto dalla moderna sperimentazione urbano-industriale del primo decennio dopo la rivoluzione, e un interlocutore ed amico di Brecht, il quale come Bloch attribuiva un tale valore alla costruzione del socialismo da tornare nella Germania Est dopo la guerra. Un altro amico di Brecht negli anni Trenta, Karl Korsch – generalmente considerato una figura chiave nella formazione di un marxismo distintamente “occidentale” – corrisponde talmente poco all’identikit diramato da Losurdo da essere del tutto omesso dal libro.

La Scuola di Francoforte, priva di legami con il movimento comunista, offre materiale più promettente per la requisitoria di Losurdo. Horkheimer in particolare, tornando nella Germania Ovest dopo la guerra, espresse sovente disprezzo e paura nei confronti delle rivoluzioni anticoloniali, e un’avversione da Guerra Fredda nei confronti dell’Unione Sovietica, che Losurdo ascrive al marxismo occidentale nel suo complesso. Ma con mossa tipica, il nostro, ignorando la traiettoria temporale di tutti i pensatori dei quali tratta, mette assieme un testo di Horkheimer del 1942 che notava il fatto ovvio che in Russia lo stato non fosse scomparso con un altro del 1967 che lamentava come il marxismo venisse usato come ideologia nei paesi dell’Est per recuperare il vantaggio industriale dell’Occidente – trattando il primo come un’espressione di rammarico che “Hitler avrebbe a suo modo condiviso!”, e il secondo come complicità con una guerra in Vietnam che Horkheimer per poco non sostenne. Una decina d’anni prima, tuttavia, Horkheimer stava discutendo con Adorno la produzione di un testo che Adorno chiamava “un manifesto strettamente leninista”, che prospettava la possibilità che “sotto la bandiera del marxismo, l’Oriente potesse superare la civiltà occidentale”, segnando “un cambiamento totale nelle dinamiche della storia del mondo” e aggiungendo: “Non possiamo invocare la difesa dell’Occidente”. Quanto a Marcuse, lungi dal disprezzare il marxismo sovietico, ci scrisse sopra un libro rispettoso, e ancora più lontano dal sottovalutare le rivoluzioni anticoloniali, le celebrò, sostenendo in particolare la lotta dei vietnamiti contro l’aggressione imperialista americana. Losurdo è pertanto costretto a lamentarsi del fatto che Marcuse dubitasse se il tipo di società che i vietcong potevano costruire avrebbe offerto una alternativa plausibile a quella offerta dai paesi ricchi dell’Occidente; e che né Bloch né i francofortesi avessero condannato la guerra lampo israeliana del 1967; e a un certo punto mette sullo stesso piano la posizione di Adorno negli anni Cinquanta con quella di Anthony Eden in merito alla spedizione di Suez.

Deciso a trovare colpe anche quando i sospetti non corrispondono neppure col più grande sforzo dell’immaginazione alla sua descrizione del marxismo occidentale, come si comporta Losurdo con i due pensatori che condivisero il suo antico attaccamento alla Rivoluzione Cinese e al marxismo orientale di Mao Zedong? Althusser, concede Losurdo, può aver guardato alla Rivoluzione Culturale come ispirazione, ma criticando l’Umanesimo egli minò i valori di universalità dai quali dipendeva la rivolta dei popoli colonizzati contro l’oppressione e la discriminazione da parte dell’Occidente razzista. Anche Badiou, nonostante abbia correttamente denunciato gli eventi del 1989-91 come una Seconda Restaurazione, è caduto nell’errore di accettare una separazione tra il valore della libertà e quello della giustizia, e ha semplicemente invertito l’ordine attribuito loro da Isaiah Berlin. Timpanaro e Sartre potrebbero anche essere immuni dall’accusa di non aver sostenuto le rivoluzioni anticoloniali, ma il primo non ha minimamente capito la Nazione, né l’esigenza di aggiustamenti tattici nella costruzione di un’economia post-capitalista, mentre il secondo – nonostante la sua appassionata presentazione di Fanon – concepiva le lotte di liberazione nazionale in stile soggettivo-idealistico, soltanto in termini di azione politica, trascurando l’indispensabile azione economica per costruire uno stato indipendente – un compito che non poteva essere svolto dai “gruppi in fusione” insurrezionali della Critica della ragione dialettica. David Harvey, d’altro canto, nella prima metà del Novecento ha visto soltanto conflitti inter-imperialisti e una loro rinascita all’inizio del ventunesimo secolo, senza alcuna considerazione delle rivolte contro l’imperialismo che ne erano il contrassegno più significativo.

Non va meglio ai pensatori italiani. Della Volpe, e sulla sua scia il Colletti degli anni del PCI, hanno contrapposto erroneamente la libertas maior delle libertà socio-economiche portate dal socialismo alla libertas minor delle libertà civili proclamate dal liberalismo – come se queste ultime fossero veramente tali, piuttosto che inficiate da una lunga storia di schiavitù e oppressione coloniale (a proposito delle rivolte contro le quali nessuno dei due ha mai speso una parola), invece di insistere, come Togliatti, sul fatto che le libertà politiche formali, negate alla maggior parte dell’umanità da una barbara discriminazione, fossero parte integrante del socialismo stesso. Per quanto riguarda le tradizioni indigene dell’Operaismo, Tronti si vantava di essere vaccinato contro ogni terzomondismo ed esaltava la soppressione del lavoro, mentre Negri e il suo discepolo Hardt hanno condannato la formazione di qualsiasi stato-nazione indipendente come il frutto avvelenato della lotta anticoloniale, negato l’esistenza di qualunque imperialismo contemporaneo, e hanno presentato un’immagine talmente idilliaca della Rivoluzione Americana che perfino un Samuel Huntington risulterebbe più realistico in merito. Agli oppressi hanno prospettato, invece di una dura, sobria battaglia per l’emancipazione, una moderna apocatastasi nella forma di un mondo futuro di “amore e innocenza”. Non potrebbe darsi immagine più plastica della patologia della sinistra contemporanea, della sua incapacità di affrontare seriamente la questione del potere. Vedere il potere dappertutto à la Foucault, “trasformare il potere in amore” o “cambiare il mondo senza prendere il potere” (John Holloway) sarebbero formulazioni oziose: sintomi dell’escatologia del futuro  caratteristica del marxismo occidentale più che di un impegno nel presente.

Il saggio di Losurdo, che presenta il marxismo occidentale come un’abbuffata di utopismo a scapito degli sforzi costruttivi per edificare il socialismo, assembla un catalogo di arrogante, daltonico eurocentrismo incapace di riconoscere i risultati di portata storico-universale del marxismo orientale. Storicamente, poche o nessuna delle figure fermate e messe in fila per essere identificate – con la possibile eccezione dell’ultimo Negri – corrispondono all’identikit (anche se per altri versi un modaiolo come Foucault potrebbe meritare misure restrittive). Due degli esempi più notevoli del perché la retata non funziona hanno proprio a che vedere con le preoccupazioni che muovono Losurdo. Nella sinistra europea che si radicalizzò a causa di essa, la Prima Guerra Mondiale ispirò l’idea che non ci fossero più fasi intermedie nel percorso verso una nuova società che superasse il capitale, e anche Lenin riteneva che la guerra avesse segnato la fine dell’imperialismo come “fase suprema” del capitalismo. Tuttavia durante la guerra, influenzato non da ultimo dalla Rivolta di Pasqua in Irlanda, Lenin giunse a dare sempre più enfasi ai fronti specificamente anticoloniali della lotta mondiale contro la borghesia occidentale, polemizzando sulla possibilità di una “rivoluzione sociale pura” che opponesse l’una contro l’altra due rappresentazioni non mediate di rivoluzione e controrivoluzione. Qualsiasi rivoluzione reale sarebbe inevitabilmente stata più ibrida di così, nelle sue cause e componenti. Losurdo richiama correttamente l’attenzione su questo cambiamento di visione, che dopo l’Ottobre prese forma programmatica al Congresso dei popoli dell’Oriente, mentre “cominciava a farsi strada la consapevolezza che la lotta di classe non è solo quella dei proletari nella metropoli capitalista, ma anche quella condotta dai popoli oppressi nelle colonie e semicolonie”. Il motto “Proletari di tutti i paesi, e popoli oppressi del mondo intero, unitevi!” esprimeva il riconoscimento della questione coloniale da parte dello stato sovietico e le nuove alleanze che dovevano essere strette attorno ad essa. Ciò che Losurdo non prende in considerazione, tuttavia, è che fu uno dei suoi bersagli polemici a cogliere pienamente per primo l’effetto dell’intuizione di Lenin, e a renderla in un principio teorico di applicazione politica generale, a Est come a Ovest: Althusser nel famoso saggio sulla “Contraddizione e surdeterminazione”, che tra le altre cose prese le mosse anche dagli scritti di Mao.

Un caso egualmente se non maggiormente cospicuo è quello del pensatore del quale Althusser finì per rappresentare l’antitesi, Jean-Paul Sartre. Losurdo gli concede le credenziali di anticolonialista, ma le minimizza confinandole alla prefazione al libro di Fanon, e asserendo che Sartre era interessato soltanto al rovesciamento del governo coloniale, e non alla costruzione di un ordine postcoloniale. In realtà, il regesto di solidarietà teorica e pratica di Sartre con le lotte anti-imperialiste fu senza pari nelle file del marxismo occidentale – andando ben al di là della prefazione a Fanon – con testi sull’Indocina, l’Algeria, il Congo e Cuba, e non si limitò affatto al momento del rovesciamento, come dimostrerebbe un’occhiata a ciò che scrisse su Cuba. E la sua attenzione alla problematica che preme a Losurdo non fu nemmeno ristretta al Terzo Mondo. Dal saggio del 1956 su “Il fantasma di Stalin” al secondo volume della Critica della ragione dialettica, i compiti e le tensioni relativi alla costruzione del “socialismo in un solo paese” in un contesto di povertà furono una preoccupazione centrale del suo pensiero come marxista. Suggerire che Togliatti gli fu superiore nell’intuizione anticoloniale, o nella comprensione delle basi sociologiche del “culto della personalità”, è il massimo dell’assurdo. È sufficiente confrontare le bolse riflessioni di Togliatti su quest’ultimo tema nell’intervista del 1956 su Nuovi Argomenti con la diagnosi di Sartre dello stesso anno per vedere la differenza tra i due. Quanto all’anticolonialismo, la somma totale delle citazioni da Togliatti che Losurdo può vantare consiste in una singola frase in uno scambio con Bobbio del 1954, che è costretto a ripetere tre volte nel libro in mancanza di qualcosa di più significativo. Come accade, il registro di Togliatti in questo campo non era proprio immacolato. Nel 1935, sotto la sua leadership, il giornale del PCI in esilio aveva spiegato che la guerra di Mussolini in Abissinia era un errore perché i “legittimi interessi territoriali” dell’Italia risiedevano nei Balcani anziché in Africa. Il fatto che dopo il 1945 all’Italia furono tolte le colonie risparmiò al partito la stessa performance dei comunisti francesi. Ma sarebbe arduo sostenere che le lotte contro l’imperialismo nel Mediterraneo o da qualunque altra parte siano mai state tra le sue priorità. I dicta togliattiani non reggono il confronto con gli scritti di Sartre sull’argomento.

Il modo sprezzante con cui Losurdo maneggia gli scritti di così tanti esponenti del marxismo occidentale in merito alla rivolta delle colonie e alla costruzione dello stato postcoloniale ad Est costituisce la sua debolezza più visibile. Al di là di essa, tuttavia, ve n’è una più grande. Da nessuna parte nel libro si trova un riconoscimento di quanto il marxismo occidentale abbia costituito un tentativo di riflettere sulle mediazioni culturali e politiche proprie della democrazia borghese e su come confrontarsi con essa, il che continua ad essere di immediata rilevanza. Ma è evidente che l’idea che la strategia socialista nelle democrazie capitaliste dovesse assumere forme diverse da quelle che aveva preso in autocrazie feudali o in stati semicoloniali come la Russia nel 1917 o la Cina nel 1949 non implicava alcuna ripulsa della prassi politica. Salta dunque agli occhi l’assenza, dalle pagine de Il marxismo occidentale, di Gramsci, che cercò sistematicamente di riflettere su tali differenze, e la vicinanza dei cui assunti politici e intellettuali con Lukács e Korsch è ben attestata. L’ombra delle questioni sollevate dal comunista sardo si proietta tuttavia sul libro, ma in un modo che indica le contraddizioni entro la visione propria di Losurdo.

Costantemente posta in contrasto con il marxismo occidentale si trova la figura iconica di Togliatti, un dirigente comunista allo stesso tempo convintamente leale alla costruzione del socialismo in Unione Sovietica e stratega di una via nazionale al socialismo, del quale Losurdo implica trattarsi di un luminare del marxismo orientale all’interno dello stesso capitalismo avanzato. La pietra angolare di tale costruzione è la “Svolta di Salerno” del marzo-aprile 1944. Nell’ordinare a Togliatti di far entrare il PCI nel governo Badoglio, formatosi dopo la fuga da Roma del re e dei ministri per rifugiarsi presso le forze angloamericane nel Mezzogiorno, Stalin sottolineò l’intenzione anti-imperialista dietro tale mossa: col paese che stava cadendo nella sfera d’influenza occidentale, una “Italia forte con un forte esercito” sarebbe stata una spina nel fianco degli americani. All’interno del partito la mossa fu in parte giustificata in questo modo. L’unità degli italiani non era una concessione alla destra, e nemmeno soltanto una mossa per rafforzare la lotta contro la Germania nazista: era anche un tentativo di sottrarre l’Italia al blocco occidentale che si stava formando.

Tale strategia calza a pennello con l’impostazione di Losurdo, data l’accezione estremamente ampia che il nostro dà alla parola “colonialismo”. Riferendosi a un’osservazione di Lenin del 1916 per cui la Grande Guerra poteva concludersi con una “sottomissione in stile napoleonico” dell’Europa da parte della Germania, Losurdo argomenta che anche i paesi più industrializzati avrebbero potuto diventare delle (semi) colonie, e che ciò fu in effetti quanto accadde alla Francia nel 1940 e all’Italia dopo il 1943: nazioni nelle quali le lezioni della lotta anticoloniale d’Oriente potevano ora essere applicate. La Germania nazista aveva attinto alla lunga storia europea di colonizzazione e l’aveva portata sul continente stesso; i movimenti di Resistenza in quei paesi erano dunque, a modo loro, parte di quella lotta anticoloniale tanto importante per qualunque comprensione del ventesimo secolo. Dopo l’espulsione degli occupanti tedeschi dal centro-nord d’Italia, il compito del PCI era di tenere a bada il predominio anglo-americano. Questo modo di vedere fa assurgere a principio-guida del PCI una centralità del confronto dei blocchi poco sottolineata dalla tradizione apologetica del partito. Non c’è dubbio, tuttavia, che la Svolta di Salerno fu in buona parte governata dall’imminente divisione della Guerra Fredda dell’Europa, e che tale considerazione rese più semplice la sua accettazione nelle file del PCI.

Più che semplicemente “compatibile” con la politica estera sovietica, la strategia di Togliatti fu dunque pesantemente subordinata ad essa. Sempre considerando l’URSS e in seguito le democrazie popolari come società socialiste, dalla adesione alla linea “classe contro classe” del Terzo Periodo dell’Internazionale fino al frontismo popolare della Svolta di Salerno, Togliatti non si oppose mai a Stalin finché questi fu in vita, né sviluppò la sua “via italiana al socialismo” in contrapposizione frontale al “modello sovietico”, o come una critica approfondita dello stesso. Epperò il suo approccio politico portò chiaramente in sé una certa concezione critica dell’esperienza sovietica e della sua non applicabilità in Italia. La svolta iniziale può essere stata diretta da Stalin, ma la politica “nazionale” del PCI si espanse anche in una concezione ben più ampia di come un socialismo italiano potesse realizzarsi. Fu questo il contributo specifico di Togliatti al marxismo, e il centro della sua prassi politica. Egli insistette affinché il partito italiano non seguisse il modello del 1917, proponendo invece un graduale avanzamento di “democrazia progressiva”, affidandosi ad ampie alleanze con altre classi sociali, e – nella misura in cui ciò fosse anche stato possibile – un indebolimento delle dinamiche della Guerra Fredda in Italia.

Nell’impianto de Il marxismo occidentale, tale elemento del pensiero togliattiano non è preso in considerazione. Benché Losurdo attribuisca a Togliatti il merito di aver posto attenzione alla libertas minor in generale, la venerazione che nel complesso gli tributa riposa sull’enfatizzazione da parte di Togliatti della questione nazionale, staccata da qualsiasi approfondimento sulla democrazia o sulla “diversità” italiana. Come si spiega tale discrepanza? Con ogni probabilità la risposta sta nella difficoltà che l’eredità togliattiana pone a Losurdo e a quanti gli stanno intorno. Che cosa fu del PCI e della sua strategia negli anni successivi alla sua morte? Sotto la guida di Berlinguer il partito si allineò alla NATO – mentre Togliatti si era battuto perché l’Italia se ne tenesse fuori – asserendo di sentirsi più sicuro all’interno di essa, e dichiarò esaurita l’eredità della Rivoluzione d’Ottobre, per rimpiazzarla con i più freschi principi dell’Eurocomunismo. Come tratta di ciò Losurdo? Comincia il suo quarto capitolo su ‘Trionfo e morte del marxismo occidentale’ presentando l’Eurocomunismo come il suo punto di arrivo, la “maturazione” di un lungo processo che era iniziato con la ripulsa della Rivoluzione Russa da parte di riformisti come Turati. Culmine del marxismo occidentale, l’Eurocomunismo fu una pura affermazione della “religione dell’Occidente: Ex Occidente lux et salus!” Dopo questa liquidazione sommaria, un verdetto che apparentemente segna il coup de grâce per l’intero canone del marxismo occidentale, Losurdo improvvisamente cambia discorso. Notando brevemente che una lunga storia di costituzionalismo distingueva i paesi dell’Europa occidentale dalla Russia zarista o dalle semi-colonie in Asia, passa rapidamente ad altre accuse di orientalismo nei confronti di Horkheimer, Kautsky, Žižek e altri, senza un solo riferimento ulteriore all’Eurocomunismo nel resto del libro.

Tale silenzio è segno di un imbarazzo comprensibile, perché l’odierno “secondo” PCI al quale Losurdo appartiene si richiama esplicitamente sia a Togliatti sia a Berlinguer, lamentando la dissoluzione del partito comunista del primo in un’organizzazione spudoratamente neoliberista di entusiasti degli Stati Uniti, epperò incapace di ripudiare il secondo, visto come l’ultimo grande segretario del partito, nonostante i suoi sforzi per allontanarlo dall’URSS spingessero il PCI verso il definitivo collasso. Per Losurdo, L’Eurocomunismo è l’epitome dell’eurocentrismo. Ma come separarlo chiaramente dalla “via italiana al socialismo” di Togliatti, che i suoi esponenti di regola invocavano come proprio antecedente? Del resto, il Compromesso Storico di Berlinguer non era forse coerente con la consacrazione da parte di Togliatti dei Patti Lateranensi? E, per citare un casus ancor più rilevante, come considerare l’aspra polemica dei cinesi con Togliatti, messo alla gogna per aver sostituito “la lotta di classe con la collaborazione di classe” nella lettera aperta del PCC del 1963: la voce autorevole del marxismo orientale che lo trattava non meglio di come Losurdo tratta il marxismo occidentale? Domande imbarazzanti sulle quali è meglio sorvolare rapidamente.

Nello scansare le questioni poste ai marxisti dall’esigenza di una strategia in occidente, per rimproverarli invece di indifferenza verso i problemi dell’Est, Losurdo evita anche la domanda su come avrebbero dovuto comportarsi i partiti comunisti dei paesi europei. Con le sue parole, la divisione fra il marxismo “occidentale” e quello “orientale” fu una lotta per il riconoscimento tra due soggetti che sfidavano entrambi il capitalismo-imperialismo: la classe operaia, o intere nazioni in guerra contro il colonialismo. La loro unità era possibile, ma non poteva mai essere data per scontata. Nel ventesimo secolo, come fu realizzata? Una cosa è suggerire che i suoi critici occidentali non avessero argomenti validi per disprezzare i grandi e difficili sforzi di trasformazione compiuti dal socialismo orientale. Ma se i marxisti in Europa o negli Stati Uniti avessero riconosciuto la rivolta anticoloniale come il più grande evento del ventesimo secolo, in che modo ciò avrebbe influenzato la loro concezione del socialismo? Quegli stati rappresentavano dei modelli per la loro attività? Oggi cubani e palestinesi non sono gli unici orfani dell’esperienza sovietica. Il tentativo di definire una politica comunista fu sempre più facile quando c’era l’Unione Sovietica: i marxisti potevano o identificarsi con essa, oppure definirsi per contrasto con il suo fallimento, o ancora riconoscerne i successi capendo al tempo stesso che non si trattava di un modello da riprodurre. Dopo il suo collasso, questa terza opzione sembra quella più verosimilmente adatta per imparare qualche cosa dalla storia. Questo fu ciò che Togliatti quantomeno tentò di fare, comunque si giudichi il risultato della sua attività.

Che a questi temi Losurdo sia più sensibile di quanto non faccia pensare una lettura de Il marxismo occidentale, lo si può vedere dall’intero corpus dei suoi scritti. Spiccano due testi notevoli degli anni Novanta, che rendono un quadro più efficace e plastico della sua visione di quell’epoca. All’inizio del 1992, dopo che il PCI si era sciolto e coloro che uscirono dalla sua sinistra avevano creato Rifondazione Comunista, Losurdo e due suoi colleghi a Urbino organizzarono un convegno su ‘Gramsci e l’Italia’. Lì il Nostro sostenne che Gramsci fu un dirigente e un pensatore la cui vita si svolse durante una tragica sconfitta del movimento operaio e che morì quando il fascismo ancora trionfava su di esso. Costretto ad abbandonare ogni speranza in una rapida palingenesi rivoluzionaria, in prigione si dedicò a una più profonda analisi storica delle trasformazioni sociali e politiche in corso dal punto di vista della longue durée. Benché condividesse la rivolta contro il positivismo che contrassegnò la generazione rivoluzionaria del 1914-18, fu libero da ogni traccia di ostilità verso la scienza e da ogni visione messianica, avendo introiettato molto meglio di Lukács, Bloch o chiunque altro della sua generazione il concetto dialettico marxiano di modernità: il capitalismo come, indivisibilmente, motore del progresso e dello sfruttamento, la borghesia ad un tempo portatrice di lumi e agente di distruzione. Dall’inizio, come Marx e Engels avevano capito, la modernità richiedeva dunque un equilibrio tra il riconoscimento della sua legittimità e la necessità di una sua critica. La Prima Guerra Mondiale aveva messo tale comprensione di fronte ad una verifica ben più crudele di qualsiasi cosa i fondatori del marxismo fossero stati testimoni. Reagendo contro di essa, la critica inorridita divenne prevalente in Lukács e Bloch, in una tendenza che contrassegnò soprattutto la Germania, dove la Grande Guerra assunse l’aspetto di una ripetizione della catastrofe della Guerra dei Trent’Anni. Per costoro, fu solo allorché giunse la salvezza con la Rivoluzione d’Ottobre che la modernità fu redenta. Vent’anni dopo, nella Dialettica dell’illuminismo di Hokheimer e Adorno, la modernità fu condannata più radicalmente: anche l’Unione Sovietica diventava una delle manifestazioni della catastrofe da essa portata, insieme alla ragione stessa. Né tale mancanza di equilibrio riguardò soltanto intellettuali occidentali come questi. Anche i bolscevichi soffrirono di tale malattia, trasmessa loro dal secondo Lukács. In essi prese la forma della convinzione che il capitalismo come sistema economico, insieme alla cultura borghese in generale, fosse giunto al punto d’arrivo nel 1918, quando Lenin lo dichiarò incapace di una ulteriore crescita nelle forze produttive. Questa concezione venne ripetuta da Stalin ancora negli anni Cinquanta, e scarsamente modificata dalla nozione di “tardo” capitalismo propagata nella DDR e altrove. Le due parole chiave di tale tradizione furono “decadenza” e “decadimento”: un sistema che marciva dal suo interno, la sua cultura in un declino irreversibile, che Lukács fa risalire direttamente al 1848.

Gramsci respinse tutto ciò. La sua situazione oggettiva era diversa, dacché l’Italia non si trovava al centro della Prima Guerra Mondiale quanto Germania e Russia, e a differenza di quelle il paese aveva una tradizione di pensiero liberale che si misurava attivamente con l’opera di Marx. Per lui la modernità era un risultato fondamentale del capitalismo, del quale il comunismo sarebbe stato non la liquidazione ma il compimento. La sua più alta espressione intellettuale era stata la filosofia di Hegel, che era compito del materialismo storico riformare e sviluppare. Ciò significava integrare e rimpiazzare, più che gettar via, le eredità più avanzate della borghesia, facendo diventare l’intero spettro dei diritti del liberalismo il programma minimo del socialismo. La Grande Guerra e la vittoria del fascismo erano dei terribili passi indietro per l’umanità. Ma non giustificavano conclusioni di alcuna irrimediabile decadenza o decadimento dell’ordine costituito. In Francia, il potere politico borghese era rimasto stabile per sessant’anni dopo la Comune; in America la dinamica economica e sociale del fordismo era lungi dall’esaurirsi; in Italia la filosofia di Croce era ben viva. I marxisti dovevano misurarsi con tutto ciò, non mettere la testa sotto la sabbia nella speranza che la Grande Depressione ponesse velocemente fine alla civiltà del capitale, il cui superamento poteva invece richiedere secoli. Come dice memorabilmente Losurdo, Gramsci rifiutò di “leggere la storia come un trattato di teratologia”: essa aveva creato dei mostri, ma non poteva essere ridotta ad essi. Il reale era razionale, come aveva sostenuto Hegel. Il compito di ‘ereditare’ restava tale. Ed era così che i marxisti – di fronte a una nuova e disastrosa sconfitta:  l’estinzione dell’URSS – dovevano per Losurdo guardare all’esperienza del “socialismo realmente esistente”, nonostante “gli errori, le colossali mistificazioni e gli orrori” che lo avevano attraversato. Gramsci aveva insistito sulla necessità di preservare e sviluppare i punti alti della Rivoluzione Francese. L’eredità della Rivoluzione d’Ottobre doveva essere recepita nello stesso spirito.
Alle soglie del nuovo secolo, Losurdo fece il suo bilancio di quello che si stava concludendo in un breve libro significativamente intitolato Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia (1999). All’epoca abiure stridenti erano comuni in Italia: ex dirigenti e intellettuali del PCI dichiaravano la più grande ammirazione per Clinton e tutto ciò che si faceva negli USA. Anche tra coloro che si definivano ancora comunisti, sia dentro sia al di fuori di Rifondazione, non pochi si stracciavano le vesti e ripudiavano interamente un passato del quale avevano fatto parte. “Al narcisismo trionfante dei vincitori” corrispondeva ora una “autoflagellazione dei vinti”. Ma l’odio di sé, che può condurre soltanto alla capitolazione su tutta la linea, era l’antitesi dell’autocritica, e la lotta contro di esso sarebbe stata tanto più efficace, quanto più fosse stato fatto in modo radicalmente e disinibitamente critico il bilancio dell’esperienza storica avviata dalla Rivoluzione d’Ottobre. Ciò non sarebbe risultato più semplice invocando, come sempre più spesso accadeva a sinistra, un “ritorno a Marx”, del quale Marx per primo si sarebbe fatto beffe, come aveva deriso quanti ai suoi tempi invocavano il ritorno a Kant o ad Aristotele. Per il materialismo storico, la teoria emerge dai processi materiali della storia. “Marx stesso non esitò a riconoscere il suo debito teorico con la breve esperienza della Comune di Parigi. Ma oggi, decennio dopo decennio di un periodo della storia straordinariamente intenso, che si estende dalla Rivoluzione Russa a quelle Cinese e Cubana, esse vengono dichiarate prive di significato o rilevanza a confronto con il ‘vero’ messaggio di salvezza stabilito una volta per tutte in testi sacri che hanno soltanto bisogno di essere riscoperti per una rimeditazione religiosa!” Nello stesso spirito, si tributava riverenza a Gramsci o Guevara, non come a combattenti e pensatori che mai s’erano fatto scrupolo di rovesciare certi assunti marxiani, ma come a vittime in un culto dei martiri.

La riflessione sull’esperienza dell’Unione Sovietica non doveva aver nulla a che fare con simili autoindulgenze. Il termine che veniva adesso usato convenzionalmente per spiegarne il crollo era il blando eufemismo “implosione”, che poneva tutte le cause di esso nella società creata dopo il 1917. Questo, ovviamente, era un mito: allo stesso modo si sarebbe potuto affermare che in Nicaragua i sandinisti fossero caduti per implosione interna, come se i Contras non fossero mai esistiti. Ma ciò non significava che il PCUS non portasse alcuna responsabilità del collasso dell’URSS. Al contrario, la causa principale del crollo era stata la teoria fantastica proclamata da Kruscev per cui il paese era prossimo a superare gli USA e a fare il proprio ingresso nel comunismo come Marx e Engels l’avevano concepito ne L’ideologia tedesca: una società in cui vi sarebbe stata tale abbondanza che lo stato si sarebbe estinto e la divisione del lavoro sarebbe venuta a cadere; un Valhalla che richiedeva uno sviluppo prodigioso delle forze produttive, dal quale l’URSS del dopoguerra era lontana anni luce. La reboante vuotezza di quella dichiarazione privò di ogni legittimità il “socialismo realmente esistente”, sotto una nomenklatura che divenne sempre più autocratica e corrotta, e il cui governo era spogliato di ogni sembiante di democrazia e sovranità popolare, la legittimità universale dell’epoca. Sotto di essa, il mondo dei campi di lavoro era diventato anche più intollerabile per una società civile che era maturata attraverso l’istruzione di massa, la diffusione della cultura e una sicurezza sociale garantita, mentre la razionalizzazione dell’economia per far risalire il tasso di crescita fu rifiutata come restaurazione del capitalismo. In assenza di qualunque teoria rivoluzionaria su come costruire una società socialista dopo l’abbattimento del capitalismo, l’esperienza sovietica era condannata a morte.

In Cina, Mao tentò di evitare l’impasse in cui era caduta l’URSS mobilitando le masse per strapparsi di dosso la camicia di forza del governo burocratico, prima con il Grande Balzo in Avanti e poi con la Rivoluzione Culturale. Entrambi furono dei fallimenti, che generarono regressione democratica, sciovinismo etnico e un ordine politico ridotto al rapporto tra un capo carismatico e delle masse fanatizzate. L’autosacrificio e l’entusiasmo permanenti erano impossibili, poiché non prendevano in considerazione l’inevitabilità della secolarizzazione popolare. Prima di morire, Mao probabilmente si rese conto che era necessario un cambiamento, e Deng lo avviò senza demonizzare il suo predecessore come aveva invece fatto Kruscev, ma situandolo nel processo storico che lo aveva prodotto e così preservando la legittimità del potere rivoluzionario, laddove Kruscev lo aveva invece minato. Ciò che l’Era delle Riforme da lui promossa sarebbe diventata fu una NEP gigantesca, senza precedenti: l’unica strada possibile, una volta che l’URSS era finita. La Repubblica Popolare doveva integrarsi nel mercato mondiale, se la Cina non voleva restare povera e debole. Ma si trattava di una NEP decisa a mantenere l’indipendenza politica e a conseguire l’autonomia tecnologica del paese, per permettere alla Cina di progredire verso una società socialista e alterare l’equilibrio del potere mondiale. Centinaia di milioni di persone erano state sottratte alla povertà da essa. Erano state create anche delle disuguaglianze, come nel caso della NEP sovietica, e queste richiedevano attenzione se non si voleva che portassero a polarizzazione sociale e instabilità politica. V’era anche l’esigenza di vigilare contro i tentativi dei nuovi ricchi di trasformare tali ricchezze in potere. Ma sul risultato complessivo non potevano esserci dubbi. Su scala planetaria, l’età inaugurata da Colombo nella quale l’Occidente ha imposto un dominio spietato sul resto del mondo, creando un enorme divario fra la propria prosperità e la miseria di quelli che ha soggiogato, era arrivata alla fine, come Adam Smith aveva previsto dovesse accadere. Questo era il fatto più importante dell’epoca, accanto al quale l’importanza di tutti gli altri sbiadiva.

Qui, esposta in modo più chiaro che in Il marxismo occidentale, c’è la visione complessiva di Losurdo: per un secolo la lotta fra le nazioni era stata, per dirla con le parole di Mao, la contraddizione principale del sistema capitalista globale; la lotta fra le classi una contraddizione secondaria. Si tratta di una posizione coerente, alla quale le ricerche sull’ineguaglianza globale di Goran Therborn e Branko Milanović forniscono prove statistiche: la diseguaglianza fra le nazioni è diminuita, con la Cina che in tale abbassamento fa la parte del leone, mentre la diseguaglianza all’interno delle nazioni è aumentata. Dal punto di vista della storia globale, Losurdo poggia su basi solide nell’insistere sull’importanza strutturale di tale cambiamento. Questa argomentazione non richiede caricature del marxismo occidentale che la danneggiano piuttosto che rafforzarla. Se fosse stato più attento, avrebbe potuto notare che c’erano importanti marxisti “occidentali”, secondo la sua stessa classificazione, che non solo condividevano la sua visione dell’epoca, ma che ne hanno presentato una versione empiricamente e teoricamente più sviluppata, primo fra tutti il suo connazionale Giovanni Arrighi, ignorato ne Il marxismo occidentale insieme ad altre confutazioni viventi della dicotomia proposta nel libro, quali Immanuel Wallerstein o Fredric Jameson. Anche nella sua parte più convincente, è chiaro, e senza i suoi innecessari ammennicoli, la posizione di Losurdo può essere messa in discussione. Fino a che punto può reggere un paragone fra l’Era delle Riforme di Deng e la NEP? Si possono immaginare sotto Lenin quegli sbalorditivi livelli di speculazione immobiliare finanziata dal debito, di accumulazione illegale di miliardi, di sfruttamento spietato del lavoro migrante? La corruzione a tutti i livelli dello stato e del partito non ha ormai superato quella del PCUS sotto Brezhnev, e se è così, che cosa potrebbe mai evitare un analogo dénouement?
​
Dietro tali questioni c’è quella più cruciale di tutte. Costante attraverso l’opera di Losurdo è il suo rifiuto di qualsiasi discorso sulla scomparsa dello stato, che si tratti della sua abolizione immediata come nella tradizione anarchica che discende da Bakunin, o della sua estinzione finale, come in Marx. Nella tradizione marxista, sostiene Losurdo nel modo più chiaro ed eloquente in Fuga dalla storia?, quest’idea ha portato a trascurare le norme legali essenziali per regolare gli inevitabili conflitti all’interno di qualunque società. In una società di classi, lo stato non è soltanto uno strumento per il dominio della classe dominante: è anche una forma di “garanzia reciproca” di trattamento corretto per gli individui all’interno della classe dominante. Perché allora, in una società in cui la lotta fra le classi fosse scomparsa, le garanzie reciproche fra gli individui di una comunità unificata dovrebbero diventare inutili? Le libertà formali, codificate giuridicamente, sono per Hegel le fondamenta dello stato moderno, da complementare ma non rimpiazzare con l’esigenza di libertà materiali rispetto alle quali Hegel era pure attento. L’argomentazione è condotta con chiarezza ed energia. Ma dove sono le libertà formali oggi nella Repubblica Popolare Cinese? Losurdo può soltanto fare un debole riferimento alle elezioni a livello locale, proprio come Hegel si accontentò del sistema rappresentativo prussiano. Se politicamente Losurdo è sempre stato un militante di sinistra senza compromessi, intellettualmente è un filosofo della destra hegeliana. Lo stato deve continuare a esistere, in quanto tegumento istituzionale della libertà umana, e il corso reale della storia, per quanto fra disastri e divagazioni apparenti, è razionale.
 
[traduzione di Gabriele Savoja]
La versione originale di questo articolo è uscita sulla New Left Review n.107, sept/oct 2017 
0 Commenti

SALVIAMO L’AMBIENTE DALL’ECOCAPITALISMO

15/2/2018
di Giovanni Di Benedetto

Come avviene la determinazione del valore in una società nella quale vige il modo di produzione capitalistico? In che modo si genera il valore di una merce e quale tipo di conseguenze economiche, sociali, ecologiche questo processo di produzione porta con sé? In particolare, come si ritiene possibile salvare l’ecosistema dal disastro ecologico senza tenere conto del problema della determinazione della struttura del valore? Si tratta di questioni che, nel drammatico crogiuolo della crisi economica, attraversano trasversalmente le dinamiche della ristrutturazione economica e quelle della crisi ambientale. Eppure, la quasi totalità delle analisi degli economisti di parte neoliberista che si confrontano col disastro ambientale eludono il problema relativo all’impossibilità di una razionalità economica che si faccia carico delle esternalità ambientali e, anzi, continuano a ritenere possibile non solo salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica, cosa di per sé auspicabile, ma, per di più, trarre nuove occasioni per un’ulteriore accumulazione di profitto, coniugandolo magari, che ingenui, con il bene sociale. 

Un approccio di questo tipo, per esempio, è rintracciabile in un recente contributo di Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, e direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, pubblicato su «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 gennaio 2018 e intitolato Salvare l’ambiente e salvare l’economia. Il problema principale è quello dei cambiamenti climatici e dei costi per la società generati da uragani sempre più violenti, aumento della temperatura dell’acqua nei Caraibi, innalzamento del livello del mare e aumento dei livelli di biossido di carbonio nell’aria. Il punto è che la devastazione ambientale, sostiene il nostro premio Nobel, non solo ha conseguenze disastrose per l’esistenza delle persone ma anche per i profitti delle imprese: “Pertanto, preservare il ‘capitale naturale’ aumenterebbe il tasso di rendimento del capitale nel settore imprenditoriale”. Un modo alquanto diplomatico per ribadire che il rapporto di capitale, ripercuotendosi distruttivamente sullo stato di salute dell’aria, dell’acqua e della terra, rischia di vedere limitate le possibilità di perpetuare la legge di accumulazione. La soluzione risiederebbe, pur nell’ambito di un variegato ventaglio di spunti e ipotesi di lavoro per arrestare il peggioramento dell’inquinamento, nella conferma, in sostanza, dell’attuale modello di sviluppo, considerato come la chiave di volta per garantire non solo gli attuali standard di benessere fondati sullo spreco e sul consumo ma soprattutto nuove occasioni di affari e profitti: “Ora che l’immaginazione e l’ingegnosità dei nostri esperti e ingegneri ci hanno aiutato a svoltare l’angolo” – ma di cosa sta parlando? quale sarebbe l’angolo che staremmo svoltando se è vero come è vero che ci troviamo tutti sull’orlo del precipizio? – , “sarà importante tornare al business: concepire nuovi prodotti e metodi di produzione, testarli sul mercato e impegnarsi per l’innovazione”. Il business sopra di tutto, il mercato come principio regolatore del funzionamento del sistema sociale. E per chiudere: “La preoccupazione – almeno la mia preoccupazione – è che le nostre economie nazionali, molte delle quali già altamente regolamentate in nome della stabilità, diventeranno molto più regolamentate in nome di un’economia verde. Certo, può esserci la necessità di molti regolamenti, ma dobbiamo stare attenti nei nostri sforzi per salvare il pianeta a non soffocare all’origine ciò che rende la vita degna di essere vissuta.” Un condensato di ragionamenti che, al di là della loro stupefacente banalità, rappresentano le linee guida verso il quale è orientato il potere del capitale nel XXI secolo. Trarre dal disastro ambientale ulteriori ragioni per alimentare la sete di guadagni, assecondando e fomentando il processo mortifero dell’accumulazione e della valorizzazione. Quel processo stesso che, a ben guardare, è alle radici della crisi sistemica nella quale siamo tutti impantanati. 
E che nessuno si sogni di regolamentare la sfera dell’economico, tantomeno di elaborare una cultura del limite che scaturisca da una rinnovata consapevolezza dell’intimo e indissolubile legame che lega i destini della specie umana alle sorti della natura. Come un novello apprendista stregone, il Nobel per l’economia Edmund S. Phelps ci propone quale medicina la causa stessa della malattia dimostrando di continuare a utilizzare un pensiero lontano mille miglia dalla consapevolezza della necessità di un radicale mutamento di paradigma che tenga conto, in maniera sistemica, la butto lì enumerando le prime cose che mi vengono in mente, di una rinnovata analisi degli assetti produttivi, dei rapporti sociali di produzione, delle problematiche connesse all’ecologia della mente, di rispetto per le diversità, di sviluppo equo e sostenibile e di redistribuzione democratica delle risorse. 

In verità, l’economia ortodossa manca di una teoria che sappia dare conto della questione ecologica, non è in grado di computare gli effetti di politiche dello sviluppo incardinate sulla centralità del mercato, è incapace di assegnare un valore ai costi sociali e ambientali, anche e soprattutto a quelli futuri. Il problema è che la scienza economica mainstream, compresa quella new keynesian, continua a configurarsi, anche quando dibatte della necessità di ricostruire la teoria macroeconomica, come una mera giustificazione ideologica del capitalismo. Si veda al riguardo l’ultimo numero dell’Oxford Review of Economic Policy (Volume 34, Issue 1-2, 5 January 2018), nel quale, sebbene si riconosca, sulla scia della crisi del 2008, la necessità di revisionare la teoria macroeconomica, si sostiene esplicitamente l’indisponibilità a un cambiamento di paradigma. Stiamo parlando di economisti del calibro di David Vines e Samuel Wills, Joseph E. Stiglitz, Olivier Blanchard e Paul Krugman. Come se l’assenza di attenzione nei confronti del fatto che la questione ambientale capovolge tutti i termini dell’indagine economica non rappresentasse un vuoto teorico da colmare. Anche se indirettamente, ci si rifiuta, in questo modo, di riconoscere l’urgenza di superare quel modello baconiano e cartesiano della ricerca scientifica che continua a essere il riferimento teorico di ogni riduzionismo astratto e economicista. Come se il ricorso a una epistemologia fondata sulla fisica meccanicistica newtoniana, e sulla correlata variabile della reversibilità, potesse trascendere il dato di realtà rappresentato dalla limitatezza e dall’esauribilità delle risorse naturali. Ma si sa, la scienza economica ama affidarsi all’astrattezza della modellistica matematica, avvitandosi su se stessa e perdendo di vista la concretezza della realtà.

D’altra parte è oramai chiaro che non si può continuare a dimenticare o tacere che il ricambio organico dell’uomo con la natura è minacciato pericolosamente dal modo di produzione. Marx, nel primo libro de Il Capitale, non solo si sofferma sulla suindicata relazione tra l’uomo e la natura ma chiarisce anche come sia il lavoro a configurarsi come condizione necessaria che media la relazione stessa: “In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere.” (Marx, Il Capitale, libro I, Roma, 1989, pp.211-212). Marx sembra fare riferimento, nel delineare i tratti astratti, e perciò stesso astorici, del processo lavorativo, al carattere tutt’altro che dualistico, bensì dialettico, del rapporto tra uomo e natura. Il ragionamento è, come sempre in Marx, molto più complesso di ciò che potrebbe apparire a prima vista, perché sembra che si fondi sulla capacità teorica di pensare l’innesco di una relazione ricorsiva che retroagisce sulle due polarità estreme. In buona sostanza, non si tratta qui di vedere, secondo una plausibile interpretazione umanistica, la presenza di due forze indipendenti, l’uomo da una parte, nel ruolo del soggiogatore, e la natura dall’altra. Il ricambio organico con la natura è mediato dal processo lavorativo che si appropria, rielabora e costruisce valori d’uso per garantire all’uomo la sopravvivenza e il soddisfacimento dei propri bisogni. Ma non si tratta di un rapporto unidirezionale, perché nell’interazione con la natura egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere. La trasformazione di ciò che ci circonda non può non avvenire senza trasformare noi stessi, e la trasformazione di noi stessi non può avere luogo senza trasformare ciò che ci circonda. Si tratta, dunque, di un condizionamento reciproco, nel quale uomo e natura coevolvono insieme secondo una dinamica processuale che segue uno svolgimento storico. Nell’interazione reciproca i due termini della relazione devono essere considerati come poli mai identici a se stessi ma in perenne mutamento. Il rapporto con la natura è un rapporto dialettico. Entro questa visione ne va del modo in cui si sviluppa il processo di interazione reciproca, se esso si evolve secondo uno svolgimento compatibile con l’equilibrio ecosistemico o se va incontro a esiti dominati da elementi di mutua distruttività.

L’elaborazione di questo orizzonte teorico rappresenta un cambio di prospettiva radicale, orientato nella direzione del riconoscimento della profonda complessità che regola il rapporto tra il genere umano e la natura. Come se il filosofo di Treviri volesse, in anticipo sul nostro tempo, neutralizzare i limiti epistemologici della scienza economica attuale. Ossia di quel pensiero economico che non capisce, o non vuole capire che, di fronte alla gravità del problema ecologico, occorre ripensare un nuovo ordine categoriale che sappia mettere in discussione la separatezza, che rappresenta un presupposto fondamentale dell’economia ortodossa, tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura e, per finire, tra scienze sociali e scienze naturali. Di fronte al disastro incombente la teoria mainstream si ostina a non riconoscere che è indispensabile un mutamento di paradigma che, ponendo in rilievo la dimensione economica e la portata politica dello svolgimento della dialettica della storia e, insieme, della natura, parta dalla consapevolezza che i due ambiti sono mediati dal lavoro. Peraltro, ne Il Capitale sono numerosi i luoghi in cui Marx sottolinea il ruolo distruttivo del capitalismo nei confronti della natura. E si vedano anche le Forme economiche precapitalistiche all’interno dei Grundrisse, dove le condizioni naturali della produzione sono rappresentate dall’organizzazione comunitaria e dalla sua relazione con la terra. Nel quadro delle forme economiche precapitalistiche tali elementi, non a caso, sono il presupposto, ossia le condizioni oggettive, del lavoro, preesistono come natura e, all’opposto, non ne sono il prodotto.
​

Il problema nasce nel momento in cui il ciclo di accumulazione, di per sé bulimico, insostenibile e illimitato, perché tendente a una crescente appropriazione di ricchezza astratta, si scontra, oltre che con la capacità di resistenza e opposizione della forza lavoro, con la finitezza e l’esaurimento delle condizioni e delle risorse naturali. Perché, come scrive Marx, nel momento in cui si tratta della valorizzazione del valore il problema diventa quello della circolazione del denaro come capitale e, in questo ciclo, in questo movimento sempre rinnovato la cui vocazione è quella di avvicinarsi alla grandezza assoluta, “il movimento del capitale è senza misura”(Marx, Il Capitale, libro I, Roma, 1989, pp.184-185). E per dirla tutta: anche se non è escluso che, per la sua natura flessibile, fluida e dinamica, il capitalismo riesca ad aggirare i limiti e gli ostacoli intrinseci al contesto naturale, è certo che se questo avverrà non potrà che causare ulteriori disastri ambientali e ecologici. Insomma, non esistono scorciatoie se vogliamo limitare i danni dovuti all’innalzamento delle temperature e salvare il pianeta. Per affrontare gli aspetti teorici e pratici relativi al funzionamento del modo di produzione dominante, alla salvaguardia della natura e al bisogno di rielaborare una prospettiva socialista, occorre ripartire dalla necessità di predisporre e sviluppare una visione sistemica che tenga innanzitutto conto del modo in cui i rapporti sociali di produzione distruggono le forze produttive e le condizioni di produzione. Di tutto questo, la teoria economica dominante sembra non curarsi affatto. ​
0 Commenti

ABBASTANZA NON È PIÙ ABBASTANZA

9/2/2018
​di Salvatore Cavaleri

“Abbastanza non è più abbastanza”, in questa frase è racchiuso tutto 
Realismo capitalista, il seminale libro di Mark Fisher, appena tradotto in Italia nella neonata collana Not di Nero editions (https://not.neroeditions.com/mark-fisher-realismo-capitalista/) a dieci anni dalla sua pubblicazione in Inghilterra e ad un anno dalla morte dell’autore.
La citazione per l’esattezza continua così: “Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni non è più… sufficiente”. 
 
Questa frase ha continuato a risuonarmi in testa. È diventata un tormentone. Mi sono trovato a ripeterla o a leggerla a tutti quelli che incontravo. Così sono iniziati gli aneddoti: come quello di una mia amica che mi racconta che, al momento di acquistare una macchina, l’impiegata della concessionaria che ha curato la vendita, una volta finita la transazione, le ha sottoposto un questionario di soddisfazione, spiegando che sì, comunemente in una scala da uno a dieci otto sarebbe una buona valutazione, ma non per il suo capo, che si chiederebbe perché non dieci, cosa cioè è andato storto a tal punto da far scendere di due punti il gradimento rispetto alla piena soddisfazione.
Oppure, penso al questionario di valutazione che ogni tanto ci viene sottoposto al lavoro, con il quale bisogna capire se siamo abbastanza flessibili, ambiziosi e disposti a venire incontro alle esigenze dell’associazione, ma al tempo stesso se siamo rispettosi delle gerarchie interne. 
Mark Fisher stesso racconta che “in molte strutture educative, se ad esempio la classe valuta come sufficiente il lavoro del proprio insegnante, quest’ultimo verrà obbligato ad intraprendere un corso di formazione prima che gli venga riassegnato un posto”.
 
Siamo talmente assuefatti a questi meccanismi da prenderli come qualcosa di naturale, qualcosa che fa parte della realtà, dimenticandoci, però, che si tratta della realtà del capitalismo.
Il realismo capitalista, che dà il titolo al libro è esattamente questo, il processo attraverso il quale il capitalismo si presenta non come il migliore dei mondi, ma come l’unico possibile.
Mi è venuta in mente l’autobiografia della Rossanda quando, raccontando la sua adolescenza, parla del fascismo come di “un panorama trovato, non scelto”. O altri libri ambientati nell’Italia del ventennio, nei quali il fascismo viene descritto come la realtà. Il sabato fascista, per i bambini dell’epoca, era semplicemente il sabato, la scuola fascista era la scuola e così via. Tutta la coreografia sociale e l’amministrazione della vita quotidiana assumevano qualcosa di naturale. Il fascismo era una realtà talmente totalizzante da presentarsi come l’unica realtà.
 
Ma il realismo capitalista va ben oltre, perché il capitalismo non ammette un fuori, è l’ideologia che si afferma dopo la fine delle ideologie, la meta-narrazione che arriva dopo la fine delle meta-narrazioni. Tanto da rendere “più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.
 
Fisher descrive il realismo capitalista come una sorta di evoluzione del postmoderno, inteso nella accezione che ne diede Fredric Jameson, cioè, quella di logica culturale egemone del tardo capitalismo.
Parlare di logica culturale consente di osservare la narrazione che un assetto sociale fa di sé stesso. Il realismo capitalista è allora una sorta di mitologia antimitica che da un lato descrive la realtà e dall’altra la performa, proprio perché dichiara di descrivere il mondo per quello che è.
Pensiamo al perenne dibattito sul ruolo della violenza nei film, antico quanto Scorsese e attuale quanto Gomorra, se certi prodotti culturali si limitino a descrivere la realtà o siano essi stessi a produrre emulazione. Si tratta di un circolo vizioso in cui una serie tv descrive la realtà che essa stessa alimenta, operando un raddoppiamento estetico nel quale la rappresentazione esaspera i tratti realistici a tal punto che l’epica cancella l’etica e ci consegna una realtà iperreale.
 
Il discorso di Fisher non si limita all’analisi dei prodotti culturali e si dirama su due tematiche strettamente intrecciate tra loro: il moltiplicarsi di dispositivi burocratici di controllo e il diffondersi di nuove forme di sofferenza mentale.
 
Secondo Fisher la vittoria dell’ideologia neoliberista non ha prodotto, come vorrebbe la retorica del “meno stato più mercato”, uno snellimento burocratico, un dissolversi del ruolo dei governi centrali in favore delle magiche virtù auto-regolative di mani invisibili. Al contrario, oggi assistiamo al proliferare di strutture di potere al tempo stesso hard e soft, verticistiche e molecolari, impersonali e interiorizzate dai soggetti. È come se lo stalinismo avesse trovato la sua massima realizzazione non nell’esperienza socialista ma nel tardo capitalismo.
Il diffondersi propagandistico dei miti dell’efficienza e della competizione è avvenuto anche con il diffondersi di strumenti di valutazione costante e meccanismi nati per quantificare ogni prestazione, anche quelle attività che per loro natura non sarebbero quantificabili, come quelle che riguardano le relazioni di cura o l’elaborazione di concetti. 
 
Ognuno di noi è chiamato a farsi carico di questa inutile fatica (http://www.palermo-grad.com/una-fatica-sempre-piu-inutile.html), del tentativo di stare al passo di imperativi all’efficienza, impossibili da reggere.
La nostra epoca vede, cioè, il diffondersi, in dimensioni che hanno i tratti dell’epidemia, di una nuova forma depressiva, non riconducibile semplicemente ai difetti di funzionamento delle meccaniche mentali come vorrebbe la psichiatria, e neanche riducibile alle dinamiche familiari dell’infanzia come vorrebbe la psicologia. Questa depressione di tipo nuovo, secondo Fisher, è una malattia sociale propria del tardo capitalismo. Non siamo di fronte ad una forma di anedonia, all’impossibilità cioè di provare piacere. Al contrario si tratta di una paradossale forma di depressione edonistica, nella quale non possiamo fare altro che cercare soddisfazione immediata al nostro impulso al godimento, in cui il principio di piacere non è rinviabile. È la condizione che Calogero Lo Piccolo descrive come il passaggio dalla “tirannia dell’io devo a quella dell’io posso”.
Siamo chiamati cioè ad adeguarci a modelli di efficienza e a ideali di velocità. Siamo costretti ad essere sempre originali, a volte bizzarri e magari anche trasgressivi. Foolish and hungry e possibilmente cool.
Non possiamo essere altro che belli, magri, connessi, attivi, giovani: né vecchi né bambini, con figli che parlano come i propri genitori e genitori che si vestono come i propri figli.
Qualsiasi cosa diciamo è destinata a ricevere immediatamente una valutazione quantitativa e qualitativa, misurabile dal numero di like e giudicabile attraverso i commenti.
 
È interessante il modo in cui in un contesto del genere Jameson, insieme a Žižek e Harvey, diventano dei punti di riferimento fondamentali. Fisher, che come racconta Valerio Mattioli nella bellissima prefazione all’edizione italiana ( https://not.neroeditions.com/la-funzione-mark-fisher/ ), nella sua vita ha navigato le acque agitate delle controculture, sceglie per il suo saggio più importante degli appigli teorici a loro modo forti. Fisher cita film, discute di musica, smonta prodotti culturali di ogni sorta, ma senza mai scadere in ammiccamenti pop o in narrazioni giovanilistiche. Siamo distanti anni luce da certe teorie della classe disagiata ( https://www.che-fare.com/valerio-mattioli-33780-battute-contro-la-teoria-della-classe-disagiata/ ). Qui si parla di come funziona il capitalismo sui nostri corpi e sulle nostre vite, anche e soprattutto nei suoi aspetti più crudi e dolorosi.
 
 
Ho provato a scrivere questa recensione senza far riferimento al suicidio di Mark Fisher avvenuto un anno fa. Discutere del libro a prescindere. Ma non ci troviamo davanti a parole buttate giù con distacco e disincanto. Raramente vita personale e opere di un autore di saggi politici risultano essere così intrecciate. Ogni singola parola scritta da Fisher ha il peso enorme di ciò che si è vissuto sulla pelle.
Fisher ha fatto della depressione, anche della propria depressione, un tema politico. Per dirla con Francesca Coin ( http://effimera.org/usciamo-mano-dal-castello-dei-vampiri-francesca-coin/ ) “il lavoro di Mark Fisher è come una sorta di diario intimo abitato da fantasmi in cui i racconti in prima persona riescono a mostrare con straordinaria precisione le crepe del mondo neo-liberale”.
 
Il suo sentirsi “buono a nulla” ( http://effimera.org/buono-nulla-good-for-nothing-mark-fisher/ ), parente stretto di quel “c’è qualcosa che non va in noi?” pronunciato da David Foster Wallace, suona come la descrizione più cruda della condizione in cui ci troviamo alla fine della postmodernità. Il conto che viene presentato alla fine della festa. L’analisi tossicologica che rivela quanto veleno ci fosse in quel liquido in cui si è trasformata la società.
 
Chi legge i suoi scritti si trova a farsi carico del peso delle parole e ad averne cura, in una dimensione in cui la cura reciproca è diventata terreno di lotta politica.
Nelle ultime pagine del libro scrive: “dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale”.
È questa la grande lezione di Mark Fisher che non ripeteremo mai abbastanza.
Anche perché abbastanza non è più abbastanza.
0 Commenti

VIENE AVANTI IL CRETINO

5/2/2018
di Marcello Benfante

​“E a un tratto Ulrich riassunse in modo assai comico tutta la questione, ponendosi la domanda se in fin dei conti, dato che di intelligenza ce n’è certamente abbastanza, il guaio non stia semplicemente in questo, che l’intelligenza stessa non è intelligente”

Robert Musil

Impegnarsi in un discorso sul cretinismo, seppure riferito al solo ambiente culturale, è un’impresa improba e scivolosa. Non solo, infatti, è facile smarrirsi nella complessità di una tematica così vasta e articolata, ma si rischia soprattutto di arrivare alla conclusione poco o punto lusinghiera che in fondo il fenomeno ci riguarda molto da vicino.
Insomma, siamo quasi tutti un po’ cretini, chi più, chi meno. E se talvolta di questa condizione beota possiamo addirittura farne un vanto o una bandiera, come quando ci compiacciamo di non comprendere le astruserie di un mondo demenziale, più spesso ci capita di provare un senso di frustrazione e di mortificazione per quanto sfugge al nostro intelletto e alle nostre capacità.
Com’è noto, una certa idiozia confina paradossalmente con la genialità e/o la santità. Tale è la sospensione imprecisabile del candido (ma anche oscuro) Myškin di Dostoevskji. Più esplicito – anche se non privo di una sua sfuggente enigmaticità – è il messaggio evangelico sulla purezza dei poveri di spirito, che sta all’origine della figura stessa dell’Idiota dostoevskiano e della sua straziata cristologia.
Ma al di là di questo misterioso potere catartico e salvifico di una particolare insipienza o incoscienza che attiene alla follia e alla mansuetudine sacrificale, la stupidità presenta solitamente un volto assai più truce e volgare.
Per usare le parole di Saul Bellow in Herzog: 

“Questo è un crudele mondo di fronzoli e d’escrementi. Una civiltà superba e pigra che adora la propria cafonaggine”.

Dobbiamo ogni giorno confrontarci con un mondo bifolco e dozzinale contro cui è vano perfino opporsi, se non a scopo consolatorio.
Lo hanno detto bene Fruttero e Lucentini nella Prefazione al loro Il cretino in sintesi:

“Perché nello sfondo c’è sempre la grande questione: a che mai servirà tutta questa critica della bêtise? A niente, parrebbe di poter rispondere in conclusione. Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé (…) Il movente di libri come questo andrà dunque cercato tra passioni di minoranza: lo sfogo impotente, la vana rivalsa, il piacere invero minuscolo di aver almeno detto al nemico ses quatre vérités”.

Tuttavia, non è di tali ambiguità né tanto meno di tali depravazioni che occorre trattare in questa sede. Bensì di un cretinismo relativamente nuovo – in termini storici – e apparentemente meno osceno che si presenta armato di cultura e perfino di arguzia, entro certi limiti almeno. Ovvero di un cretinismo, per così dire, intelligente.
Il fenomeno era già stato intuito da Sciascia, che lo aveva definito e battezzato in Nero su nero: 

“Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile: ma ce ne sono”.

E qui davvero siamo un po’ tutti chiamati in causa, compreso ovviamente il sottoscritto, tanto che si potrebbe dedurne che un certo cretinismo erudito e sagace è il vero tratto distintivo dei nostri tempi.

Naturalmente, tutto ciò ha inizio con l’avvento della società di massa e la nascita dell’industria culturale. Ma è inutile soffermarsi per l’ennesima volta su analisi fin troppo note di Tocqueville, Ortega y Gasset o la Scuola di Francoforte, che daremo in qualche modo per scontate.
Questa arbitraria ma necessaria semplificazione ci consente di concentrare il discorso sul cretinismo colto come si è venuto a configurare progressivamente pressappoco negli ultimi cinquant’anni.
Siamo al di là della bêtise di Flaubert. Al di là della grossolana innocenza del mite dottor Bovary, con il suo complicatissimo cappello, ma in un territorio in cui si è già insediato comodamente Monsieur Homais, il farmacista grafomane.
Stiamo parlando, in sintesi, del cretino che legge e che soprattutto si vanta di ciò che ha letto (o che finge di aver letto). 
Ancora Bellow, sempre in Herzog: 

“La gente che sa leggere si appropria del meglio che trova nei libri e poi se ne adorna come pare facciano certi granchi quando s’agghindano di alghe per imbellirsi”.

Ottusità e vanità. Superficialità e narcisismo. Ecco i tratti specifici del cretino acculturato.
Peggio ancora, stiamo parlando del cretino che scrive. Di me, certamente, ma anche di te, Hypocrite lecteur – mon semblable – mon frère.
C’è infatti una perfetta specularità e circolarità fra il cretino che scrive e il cretino che legge, entrambi sciascianamente intelligentissimi.
L’oggetto del nostro discorso è dunque quel tipo di cretino che potremmo definire (parafrasando Montale) “laureato”. Cioè l’esatto ribaltamento della dotta ignoranza. Come catalogarlo? È un cretino che affolla le mostre e i teatri, che interviene nei modi più vari a dibattiti e conferenze, che si aggiorna, che è sempre al corrente, a cui non sfugge l’ultimo best seller o il più discusso “caso” letterario, che è invariabilmente un cinefilo agguerrito, un cultore di arti maggiori e minori. 
Un cretino alacre, perfino impegnato, iperattivo, fecondo non meno facondo, di cui per lungo tempo abbiamo un po’ tutti auspicato un incremento costante. Almeno fino a che non siamo stati sorpresi dalla sua intima essenza distruttiva. 
Il cretino intelligente è infatti l’ossimoro che sancisce la fine del pensiero critico e la minaccia esiziale all’arte tutta.

Che il cretino fosse pericoloso, perfino più pericoloso del delinquente, era già un fatto ben noto. Il paradosso ci era stato illustrato con sottile arguzia dallo storico Carlo M. Cipolla in Allegro ma non troppo, un suo brillante saggetto tra il serio e il faceto.

“Una persona stupida è una persona che causa danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita” 

Questa gratuità della stupidaggine è proprio l’elemento imprevedibile che la rende particolarmente perniciosa.

“Essenzialmente gli stupidi sono pericolosi e funesti perché le persone ragionevoli trovano difficile immaginare e capire un comportamento stupido”.

Di conseguenza eccoci giunti alla Quinta Legge Fondamentale della stupidità umana: “La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista”. Il cui corollario è il seguente: “Lo stupido è più pericoloso del bandito”.
Ma adesso si tratta di affrontare l’insidia assai più sottile di un cretino in qualche modo utile, che acquista e consuma beni culturali, che alimenta un’economia basata sulla spettacolarizzazione della cultura, su un turismo che una volta si diceva alternativo e intelligente, e oggi invece appare in tutta la sua ottusa eterodirezione. Si tratta, insomma, del cretino che pensa (ovviamente con la testa di un altro e per mezzo di una serie di più o meno sofisticate mistificazioni). Del cretino che pontifica ex cathedra.
Fra i primi a cogliere la mutazione (e a collegarla allo svuotamento di senso della democrazia e quindi al ritorno di ideologie autoritarie e reazionarie) fu Musil in una conferenza tenuta a Vienna l’11 e il 17 marzo del 1937.
L’intuizione di Musil muove dalla costatazione che la stupidità può sembrare molto simile al progresso e perfino al talento.
È una tesi presente nel capolavoro di Musil, L’uomo senza qualità, con cui la conferenza viennese, intitolata Sulla stupidità, ha profonde connessioni: 
 
“Per quel che mi riguarda, diversi anni or sono ho scritto: ‘Se la stupidità non somigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza e al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido’. Questo accadeva nel 1931, e nessuno oserà porre in dubbio che anche successivamente il mondo abbia conosciuto progressi e miglioramenti!”.

Qui rileviamo una secondaria contraddizione: da un lato la stupidità somiglia soltanto a ottime cose come l’evoluzione e la capacità attraverso cui la si ottiene, e quindi non consiste propriamente in esse; ma dall’altro lato, essa effettivamente concorre alla loro realizzazione. Tanto che si potrebbe pensare che senza la stupidità non vi sarebbero crescita né avanzamento per la società e l’umanità stessa.
Abbiamo così una prima percezione dell’intima ambiguità di un certo cretinismo culturale che, proprio come la follia descritta da Erasmo, non solo presenta un polo positivo e uno negativo, ma in entrambi rivela una necessità intrinseca e in qualche modo provvidenziale.

“Erasmo da Rotterdam non ha forse scritto nel suo incantevole e ancor oggi attuale Elogio della follia che senza certe stupidità l’uomo non sarebbe neppur nato?”.

A encomio della stupidità bisogna dunque ammettere che essa è uno dei motori della civiltà umana. Ma anche in questo suo ruolo propulsivo dimostra un’essenziale doppiezza: concorre con una sua operosa ottusità a un avanzamento materiale collettivo, e tuttavia sospinge soprattutto un certo carrierismo becero e l’immeritato successo dei mediocri, a scapito e detrimento del talento più autentico.

“Sarà sufficiente stabilire, come risultato certo, che la scarsa sensibilità artistica di un popolo non si rivela soltanto in tempi difficili e in modo brutale, ma anche quando le cose procedono positivamente, per cui vi è una differenza solo graduale tra divieti e persecuzioni di un’opera, da un lato, e lauree ad honorem, nomine accademiche e distribuzioni di premi, dall’altro”.

Sicché possiamo dire che la stupidità alimenta in realtà un falso progresso e delle illusorie conquiste, mentre determina le condizioni di un effettivo intralcio alla cultura più autentica.
Tutto ciò spiega perché sia così allettante la condizione double-face del cretino intelligente. La quale non ha nulla a che vedere con quella stupidità “astuta”, dice Musil, che in ultima analisi è una forma di “scaltrezza” ravvisabile in quei “rapporti di dipendenza in cui le forze sono così impari che il più debole cerca scampo nel fingersi più stupido di quanto realmente sia”. 
È il caso, per esempio, della proverbiale furbizia contadina o di una certa arguta dialettica tra servo e padrone.
Vi è poi una forma di stupidità “schietta e onesta”, una stupidità “solare” e sostanzialmente innocua, che consiste semplicemente in una certa lentezza e durezza di comprendonio. E vi è, paradossalmente, un tipo di stupidità che può essere intesa come “un segno d’intelligenza”, ancorché in modo limitato, e che “è di gran lunga la forma più pericolosa”.
La si riconosce per la sua caratteristica presunzione, per certi suoi atteggiamenti vanitosi e arroganti: “Questa stupidità supponente è la vera malattia della cultura”.
Grazie al suo trasformismo, tale stupidità altezzosa assume le sembianze della verità per trarre vantaggio da questo superficiale travestimento, e sebbene contribuisca “a vivacizzare la vita spirituale, però la rende instabile e sterile”.
Ecco perché la modestia rimane in ultima analisi il “più importante rimedio contro la stupidità”.
L’umiltà, quindi, come antidoto e criterio di discernimento, necessario anche se non sempre sufficiente.

L’insidia portata dal cretino intelligente risiede infatti subdolamente in un suo abile e credibile mimetismo. Come in certi film di fantascienza l’alieno è indistinguibile dall’essere umano per talune sue virtù proteiformi, analogamente il cretino intelligente può sembrare un autentico intellettuale, un brillante scrittore o un genuino artista a uno sguardo superficiale, grazie ad una sua elaborata costruzione di millanterie.
Lo si può riconoscere, per esempio, dal fatto che afferma di aver letto tutto e di stare rileggendo questo o quel classico (di cui ha comunque già scritto). Analogamente egli ha visto tutto, ha ascoltato tutto, è stato ovunque (talora anche contemporaneamente). Questa sua esistenza elevata all’ennesima potenza non è comunque il male più inquietante, ché anzi rivela a lungo andare l’impostura.
In fondo, l’autoesaltazione di un pubblico di fruitori presenzialisti è un fenomeno antico e in ultima analisi innocuo. Ben più corrosiva e inquinante è l’attività produttiva del cretino intelligente, il suo proporsi e imporsi come autore in base alla considerazione, peraltro nient’affatto infondata, di non essere tutto sommato inferiore a questo e a quell’altro che già è stato baciato dalla fama e dal successo.
Si capisce come in una simile deriva la profezia di Andy Wharol sul quarto d’ora di celebrità a tutti accessibile, non solo si sia avverata oltre misura, ma sia divenuta del tutto obsoleta.

Nei termini di un avvento di una cultura posticcia che fa il verso, in modo sterile quanto fastidioso, alla letteratura e all’arte vere e profonde, l’era del cretinismo culturale è stata definita e catalogata (sebbene in altri termini) da un classico della critica militante: Masscult & Midcult di Dwight Macdonald.
Si tratta di un celebre pamphlet apparso nel 1960 sulla Partisan Review che costituisce una delle più lucide e veementi invettive contro la massificazione della cultura.
Parlare di una cultura di massa è per Macdonald contraddittorio poiché “non si tratta affatto di cultura”. Il termine Masscult sta quindi a indicare un fenomeno che consiste soltanto in “una parodia dell’Alta Cultura”.
In realtà, come vedremo, questa definizione si attaglia molto più a quello che Macdonald chiama Midcult, ossia il “figlio bastardo” del Masscult, l’opaco middlebrow. 
Per spiegare l’essenza del Midcult, Macdonald ricorre a una serie di esempi, di cui forse il più significativo è il seguente: “È Midcult il Club del Libro del Mese che dal 1926 fornisce ai suoi aderenti testi di cui il meglio che si possa dire è che potrebbero essere peggiori”.
Non stiamo quindi parlando del pessimo o dell’infimo, ma di una mediocrità che a lungo andare corrompe il gusto e il senso estetico.
Macdonald, inoltre, sceglie di analizzare quattro “prodotti tipici” del Midcult, tutti vincitori del Premio Pulitzer. Si tratta di opere non spregevoli, ma sostanzialmente prive di un autentico e profondo valore: 

“Dal punto di vista tecnico, sono opere abbastanza d’avanguardia per impressionare i midbrows senza tuttavia costituire motivo di preoccupazioni. Quanto al contenuto, sono ‘centrali’ e ‘universali’, nella linea di quell’arte falsamente solenne che i francesi definiscono pompier,  dagli scintillanti elmi dorati dei loro vigili del fuoco”.

Fra esse spicca Il vecchio e il mare di Hemingway: un testo scritto in quella “artificiosa prosa biblica” da Nobel “che pare esercitare un maligno incantesimo sui midbrows” e in cui gli unici due personaggi (il vecchio e il ragazzo) “non sono individualizzati perché l’individualizzazione escluderebbe il Significato Universale”.
Ciò può darci la misura non solo del drastico criterio aristocratico usato con magistrale sarcasmo da Macdonald, ma anche di come sia enormemente decaduta da allora la situazione della cultura occidentale (in Italia, per esempio, il panorama letterario odierno è pressoché interamente costituito da un asfittico Midcult, da Erri De Luca ad Alessandro Baricco a Margaret Mazzantini). Ma seguiamo un passo alla volta lo sviluppo del suo ragionamento. Da dove scaturisce il Masscult? Ovviamente dalla società di massa, che a sua volta è il prodotto della rivoluzione industriale. È in queste condizioni storiche che assistiamo alla mercificazione della cultura e alla corruzione del gusto, fino all’avvento del “reame” vastissimo della “Dea dell’ottusità”.
Sia Masscult che Midcult praticano una standardizzazione dei loro prodotti nell’ambito di un’estetica del Kitsch consistente in una sorta di arte predigerita che permette al fruitore di evitare ogni sforzo di comprensione, controllandone e dirigendone le reazioni emotive e intellettive.
Il Masscult non ha niente a che vedere con l’arte popolare, di cui è anzi concorrente. A sua volta il Midcult è un confuso compromesso che nasconde ipocritamente un “duplice tranello”. Esso infatti “finge di rispettare i modelli dell’Alta Cultura mentre in effetti li annacqua e li volgarizza”.
Se il Masscult è più schiettamente teso alla ricerca esclusiva del gradimento delle folle, il Midcult si “nasconde pudicamente con una foglia di fico culturale”. Ciò lo rende più subdolo e più devastante.
Macdonald individua nel secondo dopoguerra il periodo di svolta che sancisce l’affermazione del Midcult:

“La settimana lavorativa s’è accorciata, i salari reali sono aumentati, e mai nella storia un numero così grande di uomini ha raggiunto un tenore di vita così alto come negli Stati Uniti a partire dal 1945. Il numero degli iscritti alle università supera attualmente i quattro milioni di unità, tre volte quello del 1929. Denaro, tempo libero e sapere, i requisiti della cultura, sono più abbondanti e più equamente distribuiti che mai prima d’ora”.

È un quadro indubbiamente positivo, che certamente può essere considerato un apprezzabile progresso democratico. Oltre a beneficiare di un maggiore benessere economico, grandi masse si elevano culturalmente, avvertono bisogni più raffinati.
Ma tutto ciò cela un’insidia inquietante:

“In questi tempi più progrediti, l’Alta Cultura è minacciata da un pericolo, costituito dal Masscult quanto da un particolare ibrido nato dai rapporti contro natura di quest’ultimo con la prima. Ha visto la luce una cultura media, che minaccia di assorbire entrambi i genitori”.

Tralasciamo per un attimo la rigidità classista della tripartizione culturale utilizzata da Macdonald e concentriamo la nostra attenzione sull’esito finale di questo parto mostruoso. L’avvento del Midcult segna l’estinzione sia dell’Alta Cultura che della cultura di massa, dopo che quest’ultima ha soppiantato la cultura popolare. 
Non resterebbe quindi che una sorta di palude priva di una precisa identità intellettuale e sociale.
Capiamo allora (e specialmente oggi) il senso dell’accorato allarme di Macdonald:

“Il nemico che se ne sta fuori le mura è facilmente individuabile. Ciò che rende pericoloso il Midcult è la sua ambiguità. Perché il Midcult si presenta come facente parte dell’Alta Cultura”.

Il nemico è dunque intra-moenia. Ma il Cavallo Troia che ne ha consentito l’invasione non è stata la cultura di massa, cui almeno Macdonald attribuisce una sincerità di intenti. Non si tratta infatti di un’elevazione dell’infimo a uno status medio, bensì di una banalizzazione e di una simulazione dell’arte autentica.

“Il Midcult non costituisce, come potrebbe apparire a prima vista, un miglioramento del livello del Masscult; è piuttosto una corruzione dell’Alta Cultura”.

Il meccanismo mimetico caratteristico del Midcult si palesa nell’utilizzazione pedissequa e strumentale degli stilemi e delle tematiche delle avanguardie.
Naturalmente, si tratta di un calco depotenziato d’ogni carica innovativa, che non va oltre la riproduzione di una maniera, ma con conseguenze anche peggiori dell’accademismo.

“La particolare minaccia del Midcult consiste nel fatto che sfrutta le scoperte dell’avanguardia. È qualcosa di nuovo. Il precedente storico del Midcult, gli somigliava nel senso che era Kitsch per una élite, esteriormente Alta Cultura, ma in effetti un articolo fabbricato esattamente come i prodotti più a buon mercato”.

Anche riguardo all’Accademia, Macdonald dimostra una certa miopia (vi ascrive perfino Stevenson!) ma non esclude del tutto che in essa permanga talora un barlume di coscienza critica e possa perfino “sbocciare qualcosa di nuovo”.
Sarebbe già tanto se tali concessioni, ancorché parziali, al suo elitario senso estetico fossero estese alla cultura di massa, che Macdonald sembra ignorare del tutto, anche quando assurge (deliberatamente o magari casualmente) a un innegabile valore artistico.
D’altronde, anche nell’analisi del Midcult, che è la parte più originale e convincente del suo discorso, Macdonald elabora in qualche caso teorie (o teoremi) poco coerenti.
Ma si tratta di incongruenze secondarie. Nella sostanza il suo giudizio sul Midcult è di una chiarezza e di un’efficacia straordinarie: nell’atto di plagiare e deprivare la cultura highbrow e in particolare le avanguardie in modo spregiudicato e superficiale, il Midcult perviene a un singolare processo di rovesciamento di valori e di senso. Si appropria di oro e lo trasforma - quando va bene - nel più greve e opaco piombo.

“Dato un certo quantitativo d’impudenza, sembra che non vi sia limite a un tale genere di alchimia alla rovescia”.

Alla base del Midcult c’è dunque una ben misera furbizia e “qualcosa di maledettamente americano”, un modello degradato di progresso che si spaccia per democratico, ma che invece è soltanto un “comodo pantano” dove a un Unico Grande Pubblico piace tanto sguazzare, illudendosi di immergersi in salubri e tonificanti bagni termali.

Su una simile linea di pensiero si trova anche Sciascia - sempre in Nero su nero - quando denuncia un nuovo tipo di convenzionalismo opportunista generato dallo stesso sviluppo democratico e dalle sue magnifiche sorti e progressive.

“Una nuova formidabile ondata di conformismo sta per abbattersi sul nostro paese; meno fragorosa di quelle del 1925 (fascismo), del 1945 (antifascismo), del 1948 (anticomunismo, civiltà occidentale), ma tanto più grave nella misura in cui è spontanea, non mossa dalla preoccupazione del pane quotidiano”.

È un conformismo con la pancia piena, ma affamato di affermazioni, per così dire, sovrastrutturali: titoli di studio, posti dirigenziali, posticci momenti di gloria, posizioni di prestigio, riconoscibilità sociale.
In una Italia che intravede, in gran parte illusoriamente, il benessere e la modernità, iniziano a contare anche i lussi culturali e quegli status symbol che promettono un’uscita dall’anonimato di massa.
È da questo contesto che scaturisce un fenomeno nuovo, per certi versi sorprendente e perfino scandaloso:

“Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania”.

Il cretino di sinistra chiude il cerchio d’ogni possibile cretinismo. Nella società omologata il cretino non ha più colore né bandiera. È un cretino interclassista e trasversale che percorre diagonalmente tutto lo schieramento politico, che critica (acriticamente) e contesta (formalmente) ciò a cui si assimila e a cui si adegua.
Il cretino di sinistra sciasciano si inserisce in una linea di sviluppo che va da Musil a Macdonald, ossia di quel cretino intelligente che da oltre mezzo secolo domina la scena culturale del mondo occidentale.
In qualche modo il cretino di sinistra è anch’esso una figura ossimorica, se considerata alla luce della categoria ideologica della coscienza di classe o di altre tipologie marxiste del concetto di avanguardia.
La sua immagine speculare, il cretino di destra, è invece una figura in buona sostanza tautologica, salvo eccezioni quasi sempre demenziali e deliranti.
Ma la collocazione politica del cretino intelligente è un dato secondario e strumentale che non ne modifica fondamentalmente il comportamento. Si tratta in ogni caso di una imitazione quando non addirittura di una scimmiottatura della vera cultura, ma anche di un apporto quantitativo e strutturale di materiale combustile alla locomotiva di un sedicente progresso.
Molta parte di ciò che oggi passa per evoluzione e riformismo, per dottrina e bellezza, è fatta di mera stupidità, da cui ben pochi si salvano. 
Che fare dunque? Il dilemma è antico e ancora privo di risposte convincenti. In fondo, possiamo soltanto raccomandare, in primo luogo a noi stessi, la misura prudenziale della modestia e della parsimonia come opposizione alla prosopopea di un’epoca in cui ciascuno aspira a proporsi come un genio, almeno per un quarto d’ora.

Indicazioni bibliografiche
Saul Bellow Herzog (traduzione di Letizia Ciotti Miller), Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2002.
Carlo M. Cipolla Allegro ma non troppo Bologna, il Mulino, 1988.
Fruttero e Lucentini Il cretino in sintesi Milano, Mondadori, 2002.
Dwight Macdonald Masscult e Midcult (traduzione di Adriana Dell’Orto e Annalisa Gersoni Kelley), Roma, Edizioni e/o, 1997.
Robert Musil Sulla stupidità (traduzione di Alisio Rendi), Milano, SE, 2013.
Leonardo Sciascia Nero su nero Milano, Adelphi, 1991.
0 Commenti

IL SEME DEL DUBBIO

2/2/2018
di Marco Palazzotto

​Anti-Blanchard – Un approccio comparato allo studio della macroeconomia – è un saggio pubblicato nel 2012 e riedito nel 2017 da Franco Angeli.  L’autore Emiliano Brancaccio parte dalla premessa che il pensiero dominante nella letteratura economica, il cosiddetto mainstream, vede tra i suoi rappresentanti di spicco Olivier Blanchard, capo economista al Fondo Monetario Internazionale fino al 2015, professore presso il MIT di Boston e autore di uno dei più importanti testi di macroeconomia. In Italia il testo di Blanchard viene adottato in molte facoltà di economia, grazie anche all’adattamento della versione italiana di Alessia Amighini e Francesco Giavazzi per Il Mulino editore.
Con questo saggio Brancaccio vorrebbe evidenziare che, oltre alla scuola dominante macroeconomica che trae le origini dalla cosiddetta “sintesi neoclassica”, esistono degli approcci alternativi. Entrambi gli approcci utilizzano la teoria keynesiana. Tuttavia, mentre la teoria dominante relega i principi dell’economista inglese in un orizzonte temporale di breve periodo e solo per poche e precise circostanze, il modello alternativo tiene conto dei contributi di Keynes anche in un orizzonte temporale di lungo periodo.
La considerazione sostanziale, per i sostenitori della sintesi neoclassica (nella quale ricordiamo possono essere ricompresi i cosiddetti nuovi keynesiani contemporanei come Blanchard, Krugman, Stiglitz, Mankiw), è che nel breve periodo gli interventi di politica economica e monetaria messi in atto dagli operatori pubblici, stimolano la domanda aggregata e riportano in equilibrio il sistema economico in momenti di recessione o depressione del ciclo economico. Ma nel lungo periodo, ed è qui la differenza tra neo-keynesiani e post-keynesiani (si veda a riguardo Marc Lavoie - Introduction to post-keynesian economics – Palgrave Macmillan - 2006) l’intervento pubblico nell’economia è superfluo (a volte anche dannoso) poiché le forze del mercato lasciate operare autonomamente portano infine il sistema in equilibrio. 
Il lavoro di Brancaccio si può suddividere in due parti principali che rappresentano la comparazione dei due modelli: il modello mainstream di Blanchard e il modello alternativo. La terza parte è dedicata agli approfondimenti e l’ultima parte a un’appendice statistica.
​
IL MODELLO MAINSTREAM
Il modello mainstream di Blanchard, familiare a tutti gli studenti di economia di primo e secondo anno, parte dall’analisi del modello IS-LM e del mercato del lavoro, per determinare rispettivamente domanda aggregata e offerta aggregata. Così il modello mainstream viene chiamato AS-AD (dall’inglese Aggregate Supply e Aggregate Demand).
Occorre premettere che il modello IS-LM (dall’inglese Investment and Savings – Liquidity and Money), è il modello di equilibrio di teoria keynesiana sviluppato dagli economisti John Hicks e Alvin Hansen (il modello IS-LM viene chiamato anche “modello Hicks-Hansen”). In pratica il modello determina tutte le combinazioni di tasso d’interesse e di produzione (ovvero di reddito “Y” nell’identità keynesiana) che pongono  in equilibrio il mercato dei beni (curva IS) e mercato monetario (curva LM). Il punto di equilibrio è dato dall’intersezione delle due curve.
Intorno alla metà degli anni 50 gli economisti neoclassici si servirono dell’impostazione keynesiana del modello Hicks-Hansen per mostrare in quali condizioni sia possibile ritenere valida la tesi keynesiana. In parole povere viene fuori quell’ibrido teorico denominato “sintesi neoclassica”. L’obiettivo ideologico è quello di dimostrare l’efficacia del modello keynesiano solo per particolari circostanze (esempio la trappola della liquidità) e per un breve periodo. Nel lungo periodo le forze di mercato riescono a raggiungere l’equilibrio economico e di piena occupazione con aggiustamenti spontanei, evitando l’intervento dell’operatore pubblico superfluo e, a volte, dannoso.
Nel modello di Blanchard l’equilibrio è costituito dall’intersezione della curva di domanda aggregata (AD) e di offerta aggregata (AS). La prima è determinata dallo sviluppo del modello IS-LM aggiungendo, rispetto a questo, la variabilità dei prezzi nella determinazione dell’equilibrio macroeconomico. La rigidità dei prezzi nel modello IS-LM viene quindi superata e viene introdotta la variazione dei prezzi che influisce sulle scorte monetarie e quindi sul mercato dei titoli. Conseguentemente si assiste a variazioni del tasso di interesse e, perciò, del livello degli investimenti, produzione e occupazione. La curva della domanda aggregata è decrescente e ci dice quale sarà il livello di produzione (e quindi di reddito) a un certo livello di prezzi.
La curva dell’offerta aggregata invece è derivata dal mercato del lavoro. Infatti, nel modello mainstream si parte dalle curve di offerta e domanda di salario monetario per arrivare all’equilibrio del mercato delle merci. Viene così introdotto, per avvalorare le tesi del pensiero economico dominante, il concetto di “disoccupazione naturale”. Nell’ottica del modello mainstream “il tasso di disoccupazione naturale non solo è l’unico tasso in grado di rendere le richieste salariali dei lavoratori conformi alle offerte salariali delle imprese, ma è anche l’unico compatibile con una situazione di stabilità dei salari e dei prezzi”. Il tasso di disoccupazione naturale è quello in corrispondenza del quale la domanda e l’offerta di salario coincidono. Si precisa che l’offerta di salario delle imprese è una retta orizzontale e cioè qualunque livello di salario si discosti da quello offerto dalle imprese, è un salario non di equilibrio che genera squilibri nel mercato della produzione di merci e servizi. La spiegazione di Blanchard, criticata da Brancaccio, è una rappresentazione statica della realtà perché non offre spiegazioni su come varia un tasso di disoccupazione rispetto ad un altro a seguito di mutamenti di alcuni parametri come: margine di profitto, produttività del lavoro, grado di conflittualità nel mercato del lavoro. Un tasso di disoccupazione inferiore a quello di equilibrio provocherà, secondo l’impostazione prevalente, solo aumento d’inflazione.
Si arriva così alla curva di offerta aggregata che descrive la relazione tra livello di produzione e livello dei prezzi. La relazione è crescente. Al crescere della produzione aumenta l’occupazione necessaria a realizzarla quindi il tasso di disoccupazione diminuisce, il potere contrattuale dei lavoratori aumenta insieme al salario monetario. Ma le imprese per mantenere fisso il profitto dovranno aumentare i prezzi in proporzione ai salari. L’equilibrio è quel punto di intersezione tra le curve AS-AD.
Il modello mainstream AS-AD completo serve ad avvalorare alcune posizioni tipiche liberiste. La prima è che il mercato lasciato a se stesso tende in modo spontaneo verso il suo equilibrio naturale di produzione, di salario e di disoccupazione. Ciò implica che i tentativi di modificare i livelli naturali di equilibrio tramite l’intervento pubblico, con le politiche espansive o rivendicazioni salariali, è inutile e può rivelarsi dannoso.
In definitiva, le pressioni dal lato della domanda da parte del governo e le pressioni sociali da parte dei lavoratori e dei sindacati dal lato dei salari, non sono compatibili con l’equilibrio generale.

IL MODELLO ALTERNATIVO 
Il modello alternativo spiegato da Emiliano Brancaccio abbandona “l’idea armonica dell’equilibrio naturale per proporre un’idea conflittuale dei rapporti sociali e del meccanismo di funzionamento dell’economia capitalistica“, cercando di smontare l’esistenza della relazione inversa tra prezzi e domanda aggregata (curva AD decrescente) e il carattere esogeno del saggio di profitto e del parametro conflittuale nel mercato del lavoro.
Per quanto attiene la relazione inversa tra prezzi e domanda aggregata, Brancaccio espone alcuni motivi per i quali gli economisti critici avanzano dubbi sull’elevata elasticità tra le due variabili.  
In primo luogo, gli economisti critici ritengono che non sia necessariamente vero che movimenti dei prezzi influiscano sempre sul mercato dei titoli e quindi sui tassi di interesse. In questo senso viene introdotto il concetto keynesiano di “trappola della liquidità”, nella quale gli operatori finanziari anche in situazioni in cui i tassi di interesse sono molto bassi, possono decidere di trattenere moneta senza consumarla in attesa che i tassi aumentino.
Il secondo motivo per il quale gli economisti eterodossi avanzano dubbi sulla relazione prezzo-domanda aggregata è che gli investimenti non dipendono sempre dal tasso di interesse, ma principalmente dalle aspettative sui futuri profitti, e quindi dalla domanda aggregata. 
Per le superiori considerazioni nel modello alternativo è rappresentata una curva AD verticale e cioè una curva in cui le variazioni dei prezzi non influiscono sui tassi di interesse,  negando la relazione diretta tra tassi e investimenti.
Il secondo punto su cui s’incentra la critica del modello alternativo riguarda il carattere esogeno del profitto del capitalista e del parametro della conflittualità del mercato del lavoro, come rappresentato nell’economia ortodossa. Gli eterodossi così riprendono un’idea tipicamente ‘marxista’, secondo la quale la produzione e la distribuzione reddituale tra salari e profitti dipendono dai rapporti di forza tra le classi sociali. Al mutare di questi rapporti si modifica anche il livello di produzione e distribuzione. Ciò significa che, ad esempio, la produttività del lavoro non è una variabile dipendente dallo sviluppo tecnologico dei macchinari, ma diventa essa stessa oggetto di contrattazione tra lavoratori e imprese. Anche i livelli di domanda e di produzione diventano soggetti a pressione da parte dei gruppi sociali. Infatti, i capitalisti desidereranno sempre un certo livello di disoccupazione per tenere più bassi i salari (ed ottenere conseguentemente un maggior margine di profitto – Kalecki, 1942), mentre le rivendicazioni della classe lavoratrice tenderanno verso la piena occupazione.
Alla fine di questa parte l’autore critica il modello alternativo evidenziando che le politiche economiche favorevoli al lavoro sarebbero efficaci solo se gli interventi avvenissero sulla struttura del modo di produzione, ovvero modificando quelle che vengono a volte definite “condizioni di riproducibilità” del capitale.

LA CRISI
Il capitolo terzo è dedicato a due interpretazioni della crisi attuale. L’interpretazione mainstream di Blanchard è quella dell’assenza di regolamentazione finanziaria, mentre quella degli economisti critici fa riferimento alla mutata distribuzione di reddito a sfavore del salario. Interessante è a tal proposito la rappresentazione grafica trentennale della caduta della quota salari rispetto al reddito nazionale nei paesi più ricchi al mondo. Il periodo di riferimento corrisponde alla modifica dei rapporti di forza tra classe dei capitalisti e dei lavoratori a favore dei primi, che si può far coincidere con l’indebolimento dei partiti di sinistra e dei sindacati, e della sconfitta in campo accademico della teoria keynesiana che ha influenzato la politica economica del “trentennio glorioso”. 

LA FLESSIBILITÀ DEL LAVORO RIDUCE LA DISOCCUPAZIONE? 
Nell’ultima parte del terzo capitolo e nel quarto Brancaccio cerca di dimostrare, grazie all’utilizzo di strumenti statistici come gli indici di correlazione e la regressione lineare, che non sussiste una relazione diretta tra flessibilità del lavoro e disoccupazione. Studiando i dati presenti nel data base dell’OCSE, si dimostra che tra i 28 paesi in esame (tra i quali l’Italia), mettendo  in correlazione due serie statistiche, da un lato l’indice di protezione del lavoro e dall’altro i tassi armonizzati di disoccupazione, il legame tra le due serie di variabili non ha un andamento lineare (con indice di correlazione vicino allo zero).
Il saggio di Brancaccio rappresenta, a parere di chi scrive, un utile strumento per chi si approccia in maniera critica alla macroeconomia dominante e fornisce degli strumenti teorici utili per instillare il seme del dubbio nei lettori. L’idea che il sistema capitalistico corrisponda a quello rappresentato dagli economisti convenzionali nelle università e nelle istituzioni pubbliche ed economiche rimane ancora tutto da dimostrare.
0 Commenti

    Archivio

    Marzo 2021
    Gennaio 2021
    Dicembre 2020
    Novembre 2020
    Ottobre 2020
    Settembre 2020
    Agosto 2020
    Luglio 2020
    Giugno 2020
    Maggio 2020
    Aprile 2020
    Marzo 2020
    Febbraio 2020
    Gennaio 2020
    Novembre 2019
    Ottobre 2019
    Settembre 2019
    Agosto 2019
    Luglio 2019
    Giugno 2019
    Maggio 2019
    Aprile 2019
    Marzo 2019
    Febbraio 2019
    Gennaio 2019
    Dicembre 2018
    Novembre 2018
    Ottobre 2018
    Settembre 2018
    Luglio 2018
    Giugno 2018
    Maggio 2018
    Aprile 2018
    Marzo 2018
    Febbraio 2018
    Gennaio 2018
    Dicembre 2017
    Novembre 2017
    Ottobre 2017
    Settembre 2017
    Luglio 2017
    Giugno 2017
    Maggio 2017
    Aprile 2017
    Marzo 2017
    Febbraio 2017
    Gennaio 2017
    Dicembre 2016
    Novembre 2016
    Ottobre 2016
    Settembre 2016
    Luglio 2016
    Giugno 2016
    Maggio 2016
    Aprile 2016
    Marzo 2016
    Febbraio 2016
    Gennaio 2016
    Dicembre 2015
    Novembre 2015
    Ottobre 2015
    Settembre 2015
    Agosto 2015
    Luglio 2015
    Giugno 2015
    Maggio 2015
    Aprile 2015
    Marzo 2015
    Febbraio 2015

    Feed RSS

I contenuti di questo sito, salvo dove altrimenti specificato, sono distribuiti con licenza
Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia (CC BY 3.0 IT)  
palermograd@gmail.com
Immagine
RSS Feed