di Marco Palazzotto
Tra il 2014 e il 2015 la Campagna Noi Restiamo, un collettivo di giovani attivo soprattutto nel Nord Italia, ha raccolto dieci interviste a dieci economisti accademici prevalentemente di estrazione marxista, marxiana e post-keynesiana. Il lavoro che ne è risultato è stato pubblicato in volume, sotto il titolo Tempesta Perfetta (Odradek, pp. 172, € 15,00). Il tema principale delle interviste è quello della crisi. Le quattro domande rivolte agli studiosi affrontano in sintesi: la collocazione teorica delle cause della crisi economica; la funzione delle istituzioni europee nella gestione della crisi; il ruolo del teorico “eterodosso” nel dibattito economico e politico; la possibile esistenza di elementi di rottura e di contraddizione del capitalismo in Italia e nel resto del mondo. Riguardo alla prima domanda, gli intervistati individuano due filoni principali di analisi nel dibattito teorico a sinistra. Una lettura che chiamerei marxista ortodossa, che vede la crisi attuale causata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, alla quale aderiscono per esempio Kliman o Giacché in Italia. Una seconda lettura, più keynesiana, che si focalizza sul sottoconsumo dovuto ai bassi salari. In linea di massima, la causa scatenante che emerge dalla lettura del testo è quella della sovrapproduzione sia di merci che di capitale, in cui la finanza ricopre una posizione centrale. Sulla crisi europea, e sul ruolo che giocano le istituzioni europee nel conflitto di classe, rileviamo interessanti spunti di riflessione nei seguenti interventi. Joseph Halevi definisce l’UE come la negazione di un’entità unita. Bisogna analizzare paese per paese (pag. 23). Francia e Inghilterra puntano all’egemonia finanziaria. Mentre sul lato del mercantilismo si muovono principalmente Germania e altri paesi satelliti, come Olanda, Belgio, Austria. In Italia regna la visione del mercantilismo come via d’uscita dalla difficoltà economica, ma l’esperienza olandese o quella finlandese, per esempio, insegnano che possono convivere recessione e saldi netti positivi con l’estero. Tuttavia esiste un unico fattore comune che unisce le differenti frazioni del capitale nella lotta alle classi lavoratrici, ed è la deflazione salariale garantita dall’Euro. Per Giorgio Gattei esiste un assetto asimmetrico in Europa con la Germania (“nocciolo duro”) che presta alla periferia europea. La politica deflattiva è utile a nascondere l’interesse egoistico del rigore che serve ad avvantaggiare i creditori del centro europeo che vogliono riscuotere con moneta deflazionata (pag. 37). Luciano Vasapollo evidenzia lo scontro inter-imperialistico nella competizione globale (termine che lui preferisce a “globalizzazione” – pag. 51). Vasapollo auspica un’uscita dall’UE attraverso un nuovo “internazionalismo di classe” e contemporaneamente dall’eurocentrismo, inseguendo sinergie con altre esperienze di lotta internazionali. Marco Veronese Passarella pone l’accento sulla sovranità monetaria, fiscale e nella politica salariale, non garantite dalla UE. La rottura con le istituzioni europee rappresenterebbe una condizione “necessaria ma non sufficiente” (pag. 74). Secondo l’economista veneto, in un momento in cui i movimenti dei lavoratori sono in crisi di coscienza e organizzazione, le politiche keynesiane sarebbero auspicabili nel breve periodo. Jan Toporowski vede la crisi europea come dipendente, non solo da un calo di domanda aggregata legata ai consumi, ma soprattutto da un crollo degli investimenti (pag. 88). Riccardo Bellofiore risponde che la crisi è fondamentalmente finanziaria, in cui la finanza si lega al capitalismo in maniera morbosa, e critica chi oppone cause reali a cause finanziarie (pag. 110). Sulla sovranità statale e monetaria, Bellofiore risponde che queste non hanno mai giocato a favore delle classi popolari. Basta ricordare la distruzione finale delle conquiste dei lavoratori degli anni ’60 e ’70 dopo la rottura dello SME negli anni 1992 e 1993. Sull'uscita dall'Euro Giovanna Vertova ritiene che la svalutazione che ne conseguirebbe non migliorerebbe, probabilmente, la competitività delle aziende italiane per via della forte dipendenza dalle importazioni, essendo il nostro paese un’economia di trasformazione (pag. 123). Per capire meglio questi aspetti la Vertova suggerirebbe un’analisi delle interdipendenze industriali attraverso l’utilizzo di modelli input-output. I sostenitori dell’uscita peccherebbero quindi di “tecnicismo” o “politicismo”. Solo un forte conflitto sociale potrebbe spostare i rapporti di forza verso una rottura della macchina europea gestita da sinistra. Un altro aspetto che sottolinea Giovanna Vertova – ed è l’unica nel testo che lo evidenzia (oltre ad essere l’unica economista donna ad essere intervistata da Noi Restiamo) – è la questione di genere. Infatti, la crisi UE è rappresentata da un altro attacco al welfare: quello destinato alla riproduzione sociale. I servizi sociali legati alla riproduzione sono sempre più mortificati, e queste dinamiche contribuiscono a peggiorare le condizioni di vita delle donne lavoratrici e non. Noi riteniamo dirimente, nell'analisi del capitalismo, il problema della riproduzione che è essenziale per capire la determinazione del valore della forza lavoro e quindi l’essenza della teoria del valore marxiana. Teoria centrale, secondo noi, per una critica dell’economia politica moderna. Affronteremo questi temi in maniera più approfondita durante la presentazione del libro Tempesta Perfetta che si svolgerà a Palermo mercoledì 1 marzo ai Cantieri Culturali della Zisa (qui maggiori informazioni).
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IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE - A margine di una inutile campagna elettorale
24/2/2017
di Roberto Salerno
Ci auguriamo che queste riflessioni possano avviare una discussione sulla città che guardi oltre la scadenza elettorale. Il primo marzo del 2012, all’ennesima domanda del solito giornalista, Leoluca Orlando rispose: “Il sindaco l’ho già fatto e non lo farò più, come devo dirlo, in aramaico?” Fu l’esito delle primarie del PD con la contestata vittoria di Ferrandelli su Rita Borsellino a far cambiare opinione a colui che è alla guida della città di Palermo dal 1985, fatta salva, posto che sia il caso di ricordarlo, la lunga parentesi di dieci anni dell’era-Cammarata. (Nel 1985 il sindaco di Torino era Diego Novelli; quello di Milano Tognoli; quello di Genova Fulvio Cerofolini; quello di Bologna Renzo Imbeni; a Firenze c’era Massimo Bogianckino; a Roma Ugo Vetere; a Napoli Carlo d’Amato. Il ventesimo anno di “governo” lo condurrebbe ad eguagliare il primato di Dozza che a Bologna fu sindaco ininterrottamente dal 1945 al 1965). Orlando ha provato un paio di puntate extracittadine. La prima all’inizio degli anni ’90, quando sembrava l’uomo sul quale la Democrazia Cristiana potesse impostare un tardivo rinnovamento; ipotesi poi abbandonata in favore della fondazione di un movimento di carattere più o meno nazionale (La Rete, che non arrivò mai al 2% dei voti nelle elezioni politiche). La seconda agli inizi del secolo, quando abbandonò la carica di sindaco per preparare la candidatura alla Presidenza della Regione Siciliana. Anche in questo secondo caso Orlando non fu troppo fortunato, subendo una dura lezione da Salvatore Cuffaro. Tornato a concorrere per la carica di Sindaco di Palermo nel 2007, fu stavolta Cammarata a sconfiggerlo, e con qualche polemica. Ce n’è abbastanza per concludere che la vicenda di Orlando travalica da tempo quella di qualsiasi altro esponente politico locale: da 32 anni ormai la sua figura è inscindibile da quella della città. Era pressoché inevitabile che una vicenda così viscerale finisse per polarizzare le posizioni di commentatori e analisti: anche se a dire il vero il campo orlandiano sulla “polarizzazione” ha giocato sin dall’inizio, quando avanzare dubbi sulle modalità di gestione della città e sui risultati conseguiti, già alla fine degli anni ’80, significava sic et simpliciter doversi difendere da accuse varie di mafiosità. Il che era anche abbastanza grottesco se arrivavano da un rivedibile pulpito, considerato il percorso politico tutto all’interno della Democrazia Cristiana. Le polemiche di quegli anni, tra i tanti risultati, ne conseguirono uno che qualsiasi forza di sinistra avrebbe dovuto provare in tutti i modi a evitare. Complici sia eventi epocali che più banali ingenuità di dirigenti travolti dalla “fine del mondo”, il PCI, mai particolarmente forte in città, scomparve del tutto. E a scomparire non fu solo il nome, trasformandosi in PDS prima in DS poi via via fino alle avventure del PD (“o come si chiama ora”, verrebbe da dire citando uno dei tanti opportunisti che si sono avvicendati alla guida di quell’aggregazione politica) ma la stessa idea di poter essere un partito di classe. La sconfitta del comunismo portava con sé la trasformazione dell’orizzonte politico per la sinistra istituzionale. Non si attaccava più l’intollerabile diseguaglianza tra classi ma si cercava di risolvere bisogni comuni. Cioè interclassisti. Per questo, anche per questo, provare a rispondere a una domanda di per sé non troppo semplice – come ha governato Orlando la città di Palermo? – è un’impresa inutile, perché il dibattito è tra sordi e terribilmente viziato dall’ideologia imperante: si agisce per la città, non per le classi. Così non sorprende che siano via via scomparsi dall’agenda delle élite locali questioni come l’occupazione o il livello del reddito per fare spazio ad altri temi, più spendibili, perché – dicono – interclassisti. Il verde pubblico, i trasporti, i rifiuti, la cultura. Temi che nell’immaginario di politici e commentatori riguardano tutti e che si prestano perfettamente al mantra “né di destra né di sinistra” che così tanto successo riscuote di questi tempi. E che ovviamente non possono che finire declinati da destra. Se questa trasformazione è davvero avvenuta – com’è avvenuta – diventa del tutto naturale sia entrare nella logica del “meno peggio” (ci sarà sempre qualcuno peggiore di chi state criticando) ma soprattutto diventa incomprensibile la competizione partitica. Se tutti hanno lo stesso programma (risolvere i problemi comuni) la competizione non potrà che avere lo stesso elettorato di riferimento, trasformato anch’esso in una indistinta e incattivita poltiglia destrorsa. Cosa ci starebbero a fare i partiti, espressioni di visioni del mondo differenti se non del tutto contrapposte? Così, si è passati senza capirci molto dal decennio orlandiano di fine anni ’90 a quello di centrodestra dei primi anni del secolo, con risultati che non consentono di districarsi in modo particolarmente efficace sulle differenze tra i due periodi in questione. E in effetti, a guardare i dati, di differenze non ce ne sono poi tante. E tra queste, alcune sembrano addirittura rilevare un rendimento migliore nel periodo oscuro, come viene definito da molti quello di Cammarata. Per fare qualche esempio la città riusciva a tirare fuori qualche soldo in più dai propri musei, specificamente dalla GAM; l’aeroporto di Palermo aveva più voli, ed è nettamente sceso il numero dei passeggeri sui trasporti pubblici, (26,1 milioni nel 2014 a fronte dei 35,8 del 2010). Dal 2002 la città si è dotata di un annuario di statistica. Per quanto campeggi in bella vista una misteriosa avvertenza (“i documenti pubblicati su queste pagine sono solo a titolo informativo”) l’annuario è uno strumento utile per avere un quadro, magari non precisissimo – l’avvertenza ha raggiunto il suo scopo: meglio non fidarsi troppo – ma indicativo di come (non) cambiano le cose a Palermo. Se prendiamo come riferimento il 2002 (anno primo dell’era Cammarata) e il 2014 (ultimo annuario disponibile, anno secondo della terza era Orlando) scopriamo che la popolazione residente è diminuita di poco (da 686.722 a 678.492), che sono aumentati gli anziani (da 103.845 a 129.147), che uomini e donne confermano le rispettive percentuali (47,8 e 52,2). Nel 2002 il saldo migratorio (immigrati-emigrati) era negativo (- 4.544) e negativo è rimasto nel 2014 (- 1.968). Parte cioè più gente di quanta ne arrivi. Ma naturalmente sono altri i dati che interessano. Per quanto sia complicato stabilire una sorta di elenco di priorità valido per tutti, si può essere abbastanza concordi nel ritenere alcuni parametri come occupazione, livelli di reddito, livelli di povertà, dati ambientali (raccolta differenziata, qualità dell’aria) dotazione infrastrutturale (passeggeri trasporto pubblico) come rilevanti. Su alcuni può esserci il dubbio che la possibilità di variarli non sia nella disponibilità dell’amministrazione comunale – ci torneremo in seguito – e anche quelli che si può ipotizzare siano diretta conseguenza dell’azione amministrativa vanno trattati con cautela: un miglioramento di alcuni parametri non necessariamente implica un giudizio positivo per l’amministrazione e, specularmente, un peggioramento non è necessariamente una bocciatura. Quello che invece possiamo cominciare a indicare è il motivo della scelta di un dato invece che un altro. Di alcuni, abbiamo detto, ci viene in soccorso l’autoevidenza. Sembra non possano sussistere dubbi sul fatto che in una città in cui la disoccupazione diminuisce o i livelli di reddito si alzano si viva meglio. Per gli altri ci siamo basati invece sulle stesse dichiarazioni dei protagonisti: il dato ambientale – specificamente il problema della raccolta dei rifiuti – per esempio è stato più volte evocato dal Sindaco, così come il dato assistenziale o il tentativo di migliorare l’efficienza dei trasporti urbani. Insomma, possono esserci punti di vista differenti sulla specifica azione amministrativa ma se si ritiene di prendere in esame altri parametri, questi andranno spiegati. Molto si parla del “risanamento” delle aziende pubbliche, per esempio. Che si tratti di un valore in sé è incerto, visto che in linea strettamente teorica l’azienda pubblica va valutata sulla capacità o meno di offrire dei servizi soddisfacenti. Siamo consapevoli che esistono linee di ricerca – a partire probabilmente dal New Public Management, a sua volta probabilmente filiazione diretta della famigerata crisi fiscale delle amministrazioni locali degli anni ’70 – che privilegiano la compatibilità economica. A nostro avviso, per fare un esempio classico, risparmiare il 50% su una biblioteca significa concretamente non comprare libri o diminuire l’accesso degli utenti. Non riusciremmo quindi ad annoverarli tra i “successi” di una determinata azione politico-amministrativa. Se qualcuno pensa che almeno su questi dati ci si possa mettere d’accordo è ovviamente fuori strada. Sia che si utilizzino parametri ampi (l’occupazione, il livello di reddito) sia che si utilizzi qualche dato che sembra più maneggevole (la raccolta differenziata) ci si scontrerà inevitabilmente con letture diverse dello stesso fenomeno. E questo a prescindere della difficoltà di reperire dei dati “puliti”. Potremmo così anche prendere il dato occupazionale e ricordare che secondo uno studio della CISL il tasso di occupazione a Palermo era del 44,7% nel 2005. Nel 2016 si era ridotto al 41,1. In valore assoluto si è passati dai 207.000 occupati del 2005 ai 188.000 del 2015 (2). È un dato significativo? Stesso discorso se guardiamo i dati relativi alla raccolta differenziata. Secondo i rapporti dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) la raccolta differenziata è passata dal 7,1% del biennio 2001-02 al 6,61% del 2011 per tornare al 7,8% nel 2015. Firenze nello stesso periodo è passata dal 26,4% del 2002 al 30,59% del 2011 per arrivare, al 2016, al 51,7%. Di nuovo: che considerazioni si possono fare su questi dati? È forse inutile continuare con gli esempi, anche se perlomeno le politiche sociali meritano un cenno. Anche lì le variazioni sono minime. Il “Comitato di lotta per la casa 12 Luglio” ha a lungo denunciato una sorta di inefficienza della Giunta. Nel 2015 la giunta ha stanziato circa 97 milioni di Euro impegnandone meno della metà (il 40,8%) e spendendo appena 21 milioni (il 22% scarso). Questo a fronte di un’emergenza abitativa aumentata. Questi tre casi non sono qui utilizzati per incentivare chissà quale giudizio, e ragionamenti simili sarebbe possibile farne per ogni città e per ogni altro settore di policy (quello dei trasporti pubblici, per fare un ulteriore esempio). E in ogni caso esistono ormai obiezioni consolidate. Tre in particolare vengono utilizzate dai “buoni amministratori”: 1) La prima è quello dell’irrilevanza dell’attività amministrativa su certi parametri. L’occupazione, il reddito, il livello di povertà, lo sviluppo in senso più o meno ampio, dipenderebbero da livelli di governo ben diversi da quello sotto la diretta responsabilità dell’apparato comunale. E quindi non è su questo che va giudicato l’operato di una giunta. 2) La seconda obiezione riguarda invece il confronto con un’ipotetica alternativa. Sì, le cose sono andate male, ma se non ci fossimo stati noi, se non avessimo messo in atto quelle policy considerata la congiuntura nazionale, europea, mondiale, le cose sarebbero andate molto peggio. 3) Infine, c’è l’obiezione “tecnica”, interconnessa con la precedente: non è possibile fare un confronto “pre-post”: avrebbe invece più senso andare a verificare cos’è successo nelle città in qualche modo comparabili a Palermo. Solo la differenza tra le due esperienze ci potrà dire qualcosa di più. In realtà questi sono argomenti buoni per un dibattito più o meno scientifico. Ma la campagna elettorale verrà tutta impostata – come sempre – su argomenti risibili: si è già cominciato a farlo. Da tempo Palermo si attorciglia sulla ZTL o sulla questione delle nuove linee del tram e anche lì è complicato già stabilire se davvero meriti e colpe vanno assegnati a questa amministrazione o alla precedente. E non è certo un caso se è praticamente impossibile, in parole e programmi dei candidati alternativi ad Orlando, comprendere quali sarebbero le colpe dell’eterno sindaco palermitano e quali i motivi per votarli, al di là di una generica necessità di “ricambio”. Giova però sottolineare che queste finte alternative non significa certo che non esista una qualche forma di competizione tutta interna a quella che una volta si chiamava “classe dominante”. Alcuni semplici meccanismi, che sembrano neutri – come l’allargare ad imprese la possibilità di intervenire sul centro storico, facoltà riservata in un primo tempo ai soli soggetti privati – sono l’esito non solo di tentativi estremi di riqualificazione, ma anche di variazioni del gruppo sociale di riferimento. Ulteriore indicatore del fatto che la domanda “chi ci guadagna?” non è più essenziale, visto che la riqualificazione (come l’ambiente, il traffico, la cultura) sono beni in sé, e quindi la risposta sarà sempre: “ma la città!” Un ulteriore soccorso all’ideologia imperante viene ovviamente offerto dalle scienze sociali, ormai appiattite sull’idea della competitività tra i vari centri urbani, ed esclusivamente occupate a misurare misteriose “ricadute sulla città” grazie alla cultura, all’ambiente, al civismo, al famigerato capitale sociale. Tutti perdono e tutti vincono a prescindere del proprio ruolo sociale e, figurarsi, della propria classe di appartenenza. In tutto questo risulta misterioso lo spazio per una forza di sinistra così cannibalizzata dalla figura di Orlando. È indubbiamente vero che sul piano dei diritti civili e delle politiche simboliche la Giunta Orlando è stata da sempre un esempio virtuoso. La concessione di cittadinanze onorarie a condannati a morte, o ad Ochalan e Soynka, non sono soltanto vanagloriosi tentativi di partecipare alla politica mondiale, ma testimoniano una sensibilità che sarebbe sciocco non riconoscere, soprattutto di questi tempi. Ma il fatto che queste “semplici” decisioni civili siano l’unica cosa a cui appigliarsi non è un gran bel segno. Il problema non è il giudizio sull’uomo, un democristiano che tutto sommato non è mai cambiato. E se è vero che, come detto in apertura, Orlando è rimasto l’unico a non essere mai realmente passato ad altro, facendo diventare Palermo la propria Neverland degna di essere analizzata più dagli studiosi di psicologia politica che da sociologi e politologi, è anche vero che la discussione all’interno degli ambienti di sinistra palermitani è stata largamente insufficiente. L’essersi fatti trascinare nell’approdo finale della parabola interclassista (“il mio partito è Palermo”) è qualcosa che fa rabbrividire, perché mostra come la competizione elettorale è giocata solo e soltanto con le armi degli avversari. A partire dal nascondersi, perché di questo si tratta quando si rinuncia al simbolo. Questo è quello che Orlando sta chiedendo alla sinistra e non solo al PD: volete vincere non si sa bene per fare cosa? Bene, allora intanto vergognatevi di quello che siete, perché se vincerete non si sa bene cosa, vincerete perché siete con me, non perché comunisti o chissà cosa. Non è mai troppo tardi per cambiare. Ma il dubbio è che alla fine, di questi dati, importi poco. Se è vero che non esiste una reale alternativa al “governo dell’esistente”, il modo in cui questo verrà affrontato è buono solo per gli addetti ai lavori. TOGLIATTI E IL COMUNISMO DEL ’900
21/2/2017
di Salvatore Tinè
Salvatore Tinè (Università di Catania), che ha recentemente curato per i tipi di Carocci – insieme ad Alexander Höbel – il volume Palmiro Togliatti e il comunismo del Novecento, sintetizza nel testo che segue la propria prospettiva sul percorso politico di Togliatti. Un nesso indissolubile lega la biografia politica di Palmiro Togliatti alla storia del movimento comunista internazionale del ’900. La stessa elaborazione della “via italiana al socialismo” che scandisce l’evoluzione dell’opera e del pensiero del dirigente comunista nel ventennio compreso tra la svolta di Salerno dell’aprile ’44 e la sua morte nell’agosto del ’64, affonda le sue radici in quel periodo, per molti versi decisivo e cruciale, della sua biografia politica che lo vede salire ai vertici dell’Internazionale comunista in una fase storica segnata dalla costruzione del socialismo nell’Urss staliniana e dall’avanzata del fascismo in Europa. Già a partire dai primissimi anni ’20 Togliatti viene maturando una concezione del processo rivoluzionario su scala mondiale che vede nell’esistenza dell’Urss il fattore principale di rivoluzionamento e di mobilitazione delle masse. Ma la sconfitta della rivoluzione in Occidente lo condurrà presto ad una definizione più articolata e complessa della funzione di avanguardia dell’Urss nel processo di transizione al socialismo su scala mondiale. Tale funzione non poteva prescindere infatti, nella prospettiva togliattiana, dalla priorità storica degli obiettivi immediati della costruzione del socialismo in Urss, a partire dalle basi stesse della statualità e della potenza sovietiche senza le quali lo stesso ruolo di avanguardia dell’Urss nella “rivoluzione mondiale” sarebbe venuto meno. Di qui l’affermazione della necessità di una articolazione e differenziazione dell’azione dei partiti comunisti sui loro rispettivi “terreni nazionali”, in una prospettiva teorica e strategica che mantiene tuttavia ben salda l’esigenza della massima unità ideologico-politica e organizzativa del movimento comunista internazionale attorno alla funzione dirigente del partito sovietico. Alla base dell’adesione di Togliatti alla strategia staliniana e buchariniana del socialismo in un solo paese v’è una visione non economicistica e catastrofistica della “crisi generale” del capitalismo. Una visione cui non sfuggono i processi di “stabilizzazione relativa” del sistema capitalistico mondiale e i caratteri nuovi assunti dalle forme del dominio economico e politico capitalistico in risposta alla mobilitazione “rivoluzionaria” della classe operaia e delle masse popolari determinata dalla rottura della Rivoluzione d’ottobre. È soprattutto sul terreno dello studio e dell’analisi del fascismo che Togliatti individua le linee essenziali dei processi di ristrutturazione e di riorganizzazione capitalistica. Le Lezioni sul fascismo del gennaio ’35 rappresentano la sintesi più matura e compiuta di tale analisi. Togliatti coglie nel fascismo la capacità delle classi dominanti di coniugare forza e consenso, ovvero di portare al massimo del loro sviluppo possibile i processi di unificazione politica dei vari gruppi e frazioni della borghesia sulla base di un nuovo rapporto tra stato e masse. Il partito fascista è lo strumento fondamentale con cui la borghesia unifica sé stessa e insieme fonda il suo dominio su nuove e più ampie basi egemoniche negli strati della piccola e media borghesia urbana e rurale ma anche in settori significativi della stessa classe operaia. La lotta contro il totalitarismo fascista diventa così allora anche un momento della lotta per l’egemonia da parte della classe operaia. La rivoluzione antifascista sarà tale solo se saprà collegare strettamente il proletariato ai contadini e alle masse popolari. Il tema della politica di massa è non a caso uno dei fili conduttori del pensiero di Togliatti nel corso degli anni ’30. Esso è al centro del grande rapporto sulla lotta per la pace al VII Congresso dell’Internazionale comunista. La lotta delle masse, motore principale della dialettica della storia, è in grado di opporsi alle politiche di guerra delle classi dominanti. Il tema della pace, già al centro dell’elaborazione strategica togliattiana nella seconda metà degli anni ’20, si collega certo in modo indissolubile a quello della “difesa dell’Urss”: l’esistenza dell’Unione Sovietica rappresenta infatti per Togliatti la contraddizione principale del mondo capitalistico, il fattore più importante della sua “crisi generale”. Tuttavia proprio attorno al cruciale tema della pace vengono maturando nella riflessione di Togliatti alcuni tratti essenziali della sua interpretazione della strategia unitaria dei Fronti popolari, una nuova concezione dell’unità politica della classe operaia e del fondamentale ruolo di quest’ultima nella lotta per la difesa e l’ampliamento della democrazia. Non v’è dubbio che la strategia dell’avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace che Togliatti verrà via via definendo nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale affondi proprio nella strategia dei Fronti popolari della metà degli anni ’30 le sue radici più profonde. Un tenace filo rosso lega il tema, centrale nel rapporto al VII Congresso, della lotta per la pace con la riflessione sulla “evitabilità della guerra” e la politica sovietica di “coesistenza pacifica” che scandisce l’evoluzione del pensiero e dell’elaborazione strategica di Togliatti a partire dalla svolta del XX Congresso del PCUS e che troverà nel discorso di Bergamo del 1963 su Il destino dell’uomo la sua formulazione più complessa e matura. Alle soglie della morte, Togliatti sviluppa il tema della pace fino a dichiarare mutata, nell’era atomica, la natura stessa della guerra e il suo rapporto con la politica. Così la lotta per la pace diventa uno dei terreni principali su cui è destinato a svilupparsi il processo di avanzata del socialismo su scala mondiale. Tali nuovi e originali sviluppi del pensiero di Togliatti riflettono una fase più avanzata, rispetto a quella degli anni ’30, della storia del movimento comunista mondiale. Non più isolata dal resto dell’Europa e del mondo, l’Urss è diventata con la grande vittoria contro il nazismo il perno del “sistema mondiale del socialismo”, l’avanguardia di un vasto schieramento internazionale composto da popoli e Stati in grado di controbilanciare il campo imperialista egemonizzato dagli USA. Ma proprio gli sviluppi della lotta tra il campo socialista e quello imperialista hanno reso la struttura del mondo sempre più multipolare e policentrica. L’interpretazione togliattiana della politica sovietica di “coesistenza pacifica” si caratterizza così per una percezione particolarmente acuta dei nuovi caratteri dei processi di unificazione e integrazione economica e politica mondiali nell’ambito di una “struttura del mondo” che pure resta ancora ampiamente condizionata dalla rigida divisione in due blocchi politico-militari contrapposti. Già all’indomani delle rivelazioni di Krusciov al XX Congresso sugli errori e i “crimini” di Stalin, Togliatti nell’intervista a Nuovi argomenti pone la questione di una nuova articolazione politica ed organizzativa del movimento comunista mondiale di tipo “policentrica”: la stessa funzione di avanguardia dell’Urss e del partito sovietico non significa che l’unità del campo socialista e anti-imperialista presupponga uno stato-guida e un partito-guida. È di fatto una nuova concezione del comunismo inteso come processo di emancipazione e di unificazione del genere umano, sempre aperto a nuove avanzate e sviluppi che Togliatti viene definendo. “La conquista del potere – scrive in articolo del 1959 sulla storia dell’Internazionale comunista – la costruzione di un primo Stato socialista e i suoi progressi vittoriosi hanno reso il mondo più unito, hanno avvicinato uomini e popoli, nella lotta, per ora, in attesa del giorno che l’unità del mondo potrà poggiare sopra una unica base reale e su universali rapporti di fraterna collaborazione.” Come nella fase della costruzione del socialismo in un solo paese, anche in quella segnata dalla trasformazione del socialismo in un “sistema mondiale” la dimensione nazionale del pensiero e dell’opera di Togliatti si salda strettamente con la prospettiva universalistica e internazionalistica della lotta politica. La denuncia al XX Congresso del PCUS degli errori e dei limiti che hanno contraddistinto la pur grandiosa esperienza rivoluzionaria di costruzione del socialismo nell’Urss negli anni ’20 e ’30 mette di nuovo al centro la questione del rapporto tra democrazia e socialismo. Ricollegandosi alla strategia antifascista dei Fronti popolari, Togliatti individua nel tema della democrazia come costruzione di uno stato e di un potere di tipo nuovo il nucleo stesso del processo di transizione al socialismo. L’analisi delle trasformazioni del capitalismo nei paesi industrialmente più avanzati in una fase in cui la sua crisi generale non impedisce lo sviluppo di processi di “espansione monopolistica” è la base di una concezione della transizione al socialismo come processo graduale e insieme come rottura rivoluzionaria del potere economico e politico dei gruppi monopolistici del grande capitale. In Bodies, Masses and Power: Spinoza and his Contemporaries, del 1999, sostieni la tesi della “contemporaneità paradossale e insospettata di Spinoza”. Dove starebbe questa contemporaneità?
Direi che “contemporaneità” ha qui due significati diversi. In primo luogo c’è il dato di fatto: Spinoza, nella misura in cui viene riproposto, resuscitato o riabilitato, non è forse diventato nostro contemporaneo, non più semplice punto di riferimento bensì corpo di pensiero vivente, e capace di crescere? La risposta qui è senz’altro un ‘sì’. Per motivi che ho spiegato nella prefazione a The New Spinoza, la radicalizzazione verificatasi a livello internazionale intorno al 1968 produsse tra i suoi effetti la rinascita di una teoria marxista le cui debolezze e lacune divennero però evidenti a livello pratico. Né le filosofie basate su Hegel o Kant né, successivamente, quelle fondate sulla filosofia analitica sono state in grado di identificare e tantomeno affrontare tali debolezze. Le prime si sono rivelate incapaci di separarsi dalle teleologie che affliggevano il pensiero marxista, mentre le seconde, che tendevano a vedere la teleologia ovunque (soprattutto nello strutturalismo) si sono rivolte all’individualismo metodologico di Hobbes e Adam Smith, senza alcuna consapevolezza delle tendenze provvidenzialiste – e pertanto teleologiche – cui esso è collegato. Dai suddetti punti di vista Spinoza era incomprensibile. Ma per Althusser e i suoi colleghi – e anche per Negri – la critica svolta da Spinoza di concetti come ‘ordine’ e ‘provvidenza’, dell’emanatismo e della causalità espressiva, cioè la sua profonda assimilazione (ma anche trasformazione) di Epicuro e Lucrezio, nonché di Machiavelli (come hanno dimostrato Filippo Del Lucchese e Vittorio Morfino) permetteva di riconoscere questi problemi come problemi nostri. Allo stesso modo, il fatto che Spinoza problematizzi l’idea per cui la mente attraverso un atto di volontà muova il corpo, e pertanto che la convinzione “causi” l’azione, pone una profonda sfida alla teoria politica passata e presente. Ma c’è un’altra questione che riguarda il rapporto di Spinoza con il presente: egli vi appartiene, d’accordo, ma che cosa ha da offrirgli? La risposta, naturalmente, sta in una serie di concetti – ivi compresi alcuni che nella sua opera esistono allo stato pratico – che possono essere messi a frutto. Per quanto mi riguarda, il più importante ma anche il più problematico è il concetto di ‘causa immanente’, perfettamente catturato nella dichiarazione di Spinoza nella Parte Prima dell’Etica,Proposizione 33, Scolio II, per cui “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Althusser insiste sul fatto che la nozione di causalità strutturale, “la presenza della struttura nei suoi effetti” – ovvero un altro modo di dire che la causa è assente al di fuori dei suoi effetti, che è sempre già rappresentata per delega attraverso una struttura metonimica – ha segnato una “distruzione delle teorie classiche della causalità”. Il modello di base e sovrastruttura, la determinazione delle ideologie da parte della base economica, concepito sulla falsariga di una causalità emanativa o espressiva, ha avuto l’effetto paradossale di legare il regno delle idee all’esistenza materiale, ma al prezzo di conservare l’immaterialità di un’ideologia che esisteva nel regno della coscienza in veste di credenze ed idee. La nozione althusseriana di Apparati Ideologici di Stato si basava invece sulla tesi che “l'ideologia ha una esistenza materiale”: un effetto di ciò era quello di eliminare la possibilità di una gerarchia ontologica vuoi del primato dello spirito sulla materia, dell’anima sul corpo, vuoi della materia sullo spirito, del corpo sull’anima. Sottolineo quale fosse l’obiettivo di Althusser perché si rischia di dimenticarlo. Mi riferisco a certe tendenze nell’ambito di quel movimento molto anglo-americano che è il “New Materialism”, che a me pare profondamente idealista: in primo luogo c’è una dichiarazione di indipendenza dalla storia della filosofia (facendo il verso alla filosofia analitica), come se uno potesse liberarsi dalla determinazione storica in virtù di una decisione o di un atto di fede; in secondo luogo, c’è la svolta in direzione degli oggetti (e, più recentemente, della materia) al posto del soggetto o dei soggetti – attraverso la cui mediazione purtuttavia gli oggetti ci sono disponibili – svolta che dichiara lingua o discorso meri “epifenomeni”, un termine la cui funzione primaria è quella di smaterializzare ciò a cui viene riferito in base al ragionamento (platonico) che esso è troppo lontano dalla fonte della verità. È assolutamente prevedibile che tra una decina d’anni assisteremo ad un ritorno al soggetto, in reazione a questo oggettivismo grezzo e riduttivo. Siamo ben lontani dall’idea che la filosofia debba prima di tutto capire la congiuntura teorica e politica in cui esiste se vuole poter agire in modo efficace: che deve cioè confrontarsi con la propria esistenza materiale. Tu sostieni con forza che, alla luce dei nuovi testi oggi disponibili, bisogna riconsiderare radicalmente l’opera di Althusser. Contro la lettura dominante che lo presenta come un austero marxista strutturalista, suggerisci che è più opportuno considerarlo un filosofo della congiuntura. Potresti diffonderti maggiormente sulla questione? Siamo arrivati al punto in cui le pubblicazioni postume sono più numerose degli scritti pubblicati in vita da Althusser. Si tratta in buona parte di testi abbandonati in corso d’opera, le cui ambizioni grandiose rendevano impossibile portarli a termine. Questo non significa che siano privi di valore: le impasse cui giunse Althusser non sono affatto sua provincia esclusiva, e indicano bensì i punti in cui lo sviluppo del pensiero marxista – in tutta la sua diversità – è stato bloccato da cause vuoi esterne (le sconfitte e la smobilitazione che divennero sempre più evidenti nel corso degli anni Settanta), vuoi interne (l’incapacità di spiegare tali sconfitte e talvolta persino di riconoscerle, data la persistenza di modalità di pensiero teleologiche o provvidenziali). Oltretutto, il rifiuto da parte di Althusser da un lato di negare quella che lui stesso chiamò la crisi del marxismo, dall’altro di abbandonare il pensiero marxista regredendo a posizioni politiche e teoriche che erano per lui ormai impensabili (in base a quella che il filosofo francese definì la sua “prudenza teorica”), lo distingue dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Geoff Goshgarian ha recentemente curato tre libri basati sui manoscritti dagli anni Settanta: Filosofia per non filosofi (1), Être marxiste en philosophie e Les vaches noirs. Non tutti gli scritti pubblicati postumi rientrano peraltro nella categoria di cui sopra. Sia Machiavelli e noi (2) (sebbene incompleto) e il recentemente pubblicato Cours sur Rousseau sono tra le sue opere più importanti, come lo sono, in misura minore, Marx nei suoi limiti (3) e La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro (4). Fondamentalmente, le pubblicazioni postume archiviano l’idea che sia facile separare il “primo” dall’“ultimo” Althusser. Da questi scritti viene fuori invece una lotta di lunga durata che assume forme diverse e si svolge su terreni differenti; un lavoro di analisi interminabile che richiede un ripensamento e una rettifica costanti degli stessi principi di base. Ciò non implica che il suo lavoro abbia uno svolgimento semplicemente progressivo: al contrario, mi sembra che i problemi posti dal materialismo aleatorio del tardo Althusser ci riportino indietro, e proprio verso il punto più alto del suo presunto strutturalismo, verso le idee di causalità strutturale e dell’esistenza di una struttura nei suoi effetti. Penso in particolare alla sua definizione di necessità “come il divenire necessario dell’incontro di contingenze”. La questione della causalità, che si potrebbe immaginare esclusa da qualsiasi discussione dell’aleatorio, rimane un problema centrale nell’ultimo dei testi che ho citato sopra: “ogni determinazione di questi elementi non è assegnabile che nel ritorno all’indietro del risultato sul suo divenire, nella sua ricorrenza. Se bisogna dunque dire che non c’è alcun risultato senza il suo divenire (Hegel), bisogna anche affermare che non c’è alcun divenuto che non sia determinato dal risultato di questo divenire: questa ricorrenza stessa (Canguilhem)” (5). Pertanto il suo lavoro dell’ultimo periodo può essere visto come un proseguimento delle precedenti, e altrettanto ellittiche, speculazioni sulla causalità strutturale: la struttura immanente ai suoi effetti non è un ordine nascosto o trascendentale, bensì un ‘grafico a dispersione’ o un ‘diagramma di divergenza’, in base al quale una causa assente o immanente ed il divenir-necessario dell’incontro possono essere intesi come una sola e medesima cosa. Se questo è vero, e la sua opera può esser vista come una incompiuta “sintesi disgiuntiva”, l’idea che Althusser vada inteso come uno strutturalista che applica il modello linguistico a fenomeni sociali e storici risulta chiaramente falsa. Ma forse è arrivato il momento di riconsiderare l’idea stessa di struttura nelle sue forme storiche concrete, per scoprirvi quei momenti in cui la struttura non è riducibile a ordine e unità, ma piuttosto consustanziale a una realtà diversa e conflittuale, aperta alla nostra partecipazione. Non possiamo inoltre dimenticare l’importanza del lavoro di Althusser sul soggetto e l’ideologia. Direi che la linea di ricerca al centro della quale sta l’idea dell'individuo “interpellato come soggetto” e che inizia con Tre note sulla teoria dei discorsi (6) e si conclude con i saggi sugli Apparati Ideologici di Stato (7) (ma su quest’aspetto specifico Lo Stato e i suoi apparati purtroppo aggiunge ben poco) è tuttora ben viva – sebbene non senza rotture e mutazioni – soprattutto nel lavoro di Balibar. Ciò che Althusser presentava in forma di allegoria, quel soggetto interpellato che è sia protagonista di un’azione che essere assoggettato, Balibar lo considera dal punto di vista storico al fine di mostrare il primato dell’assoggettamento sulla soggettivazione, come se il soggetto moderno in senso kantiano si fosse potuto sviluppare in relazione ad un assoggettamento che assume la forma dell’attribuire la libertà ad un essere che è già assoggettato. Balibar considera l’emergere del cittadino come una forma di quella che lui chiama “egalibertà”, che diventa però anche principio di esclusione ai danni di un’altra figura: quella dello straniero. Io e la mia collega Hanan Elsayed abbiamo curato una raccolta di saggi (ivi compresi due dello stesso Balibar) dedicati a questo tema: Balibar and the Citizen Subject. Nel 2014 hai scritto insieme a Mike Hill un libro intitolato The Other Adam Smith. Chi è l’altro Adam Smith? Adam Smith era davvero un sostenitore acritico della razionalità del mercato senza restrizioni, cui lo Stato permette di obbedire soltanto alle leggi immanenti al mercato stesso? Abbiamo evitato a bella posta di formulare la domanda (figuriamoci poi la risposta) se Adam Smith fosse buono o cattivo, che domina purtroppo, esplicitamente o implicitamente, buona parte della discussione accademica su Smith. L’opinione oggi prevalente è che Smith fosse un’anima più gentile, più buona di quanto non si pensasse una volta: certamente più umano di Milton Friedman o di Hayek. Dopo tutto, la sua Teoria dei sentimenti morali pone la simpatia, o il cameratismo, a fondamento della morale: una posizione che si oppone alla – o perlomeno qualifica la – nozione di interesse (o interesse personale) come passione che conduce verso la società quale mezzo più razionale in vista dello scopo (stando alla Ricchezza delle Nazioni).Mettere in discussione tutto ciò significa oggi esser considerato un apologeta delle più crude espressioni del fondamentalismo di mercato, un incolto che non s’è preso la briga di leggere nient’altro che qualche paragrafo della Ricchezza delle Nazioni. Mike Hill ed io ci siamo messi a leggere quanto più esaustivamente possibile e abbiamo prestato particolare attenzione ai tanti passaggi delle opere – in teoria conosciutissime – di Smith dei quali praticamente nessuno discute. Nella Teoria dei sentimenti morali, le scene di sevizie, le punizioni ed esecuzioni, l’impermeabilità degli individui alle urla del loro “fratello sotto tortura”, la notevole capacità da parte degli indiani d’America di resistere ai tormenti più raffinati e ancora il “trasporto” che un uomo sente nell’assistere all’impiccagione di un criminale comune: tutto questo in un libro dedicato alla simpatia. Nella Ricchezza delle Nazioni ci sono le indelebili – ma raramente prese in esame – immagini delle carcasse di cani e gatti morti, grazie alle quali “ancorché putride e puzzolenti” i lavoranti cinesi riescono non solo a sopravvivere, ma anche a nutrire i propri figli (o meglio quelli di loro che sopravvivono all’esercizio della “licenza di ucciderli” da parte dei genitori). Siamo stati così in grado di tracciare linee di demarcazione che rendessero visibili le fenditure che attraversano i suoi testi, anche se non corrispondono a una divisione tra buono e cattivo, o tra capitalista e non capitalista. Quello che abbiamo scoperto è la paura, ma anche il riconoscimento, dei faticatori che lottano per mantenere i livelli salariali vigenti contro il fronte padronale deciso ad abbassarli, nonché della violazione organizzata del diritto di proprietà quando i prezzi delle cibarie aumentano al di là della capacità delle persone di pagarle e la folla ridistribuisce il grano prelevandolo dai magazzini dei mercanti. Ma l’interesse di Smith si estende perfino al corpo del singolo lavoratore in quanto egli resiste alla sottile coercizione del lavoro come funzione vitale. Fuori della divisione del lavoro e dell’organizzazione dello spazio e del tempo che il padrone impone al lavoratore senza dire una parola, tale resistenza prende la forma della conservazione di energia da parte del corpo: il lavoratore “si divaga” o “si trastulla” ed è “indolente” (8). Questa resistenza è la resistenza alle esigenze del mercato e quindi alla razionalità di mercato, e come il “saccheggio” dei magazzini, rappresenta il punto in cui la logica immanente del mercato si scontra con la vita. Qui Smith sospende la sua argomentazione, lasciando che sia il lettore a giungere alla conclusione che la morte altrimenti evitabile di alcuni degli affamati sia un male che deve essere permesso così che un bene più grande possa seguirne. In Inghilterra o in Francia, sostiene Smith, dove non ci può mai essere una vera e propria carenza di grano, ma soltanto “spiacevoli” temporanee fluttuazioni dei prezzi, bisogna lasciare che all’indisponibilità di cibo ponga rimedio il mercato, senza interferenze statuali attraverso il controllo dei prezzi o distribuzioni d’emergenza. Ricchezza delle Nazioni, in particolare, ci mostra l’esistenza non tanto di un altro Adam Smith nel senso di quello “buono” da contrapporre a quello “cattivo”, bensì dell’altro che è sempre presente nella sua esposizione. La sua paura delle grandi folle è dunque la paura di ciò che egli stesso ha dimostrato: l’irriducibile resistenza collettiva che sorge necessariamente come conseguenza di e contro le leggi immutabili del mercato. Oltre un anno fa hai scritto un testo sulla congiuntura greca intitolato No. La situazione da allora è cambiata radicalmente in peggio, Syriza ha firmato nuovi memorandum e sta attuando le più radicali misure neoliberiste che la società greca abbia mai sperimentato. Nonostante tutto ciò, quale ritieni essere il principale retaggio politico della decisione che il popolo greco fece nel luglio 2015? Nel momento in cui scrissi quel testo, appena prima del referendum del 5 luglio, ero assolutamente convinto che Syriza, proponendo il referendum sulle condizioni di bailout offerte dalla Commissione Juncker, dalla BCE e dal Fondo Monetario Internazionale, si fosse impadronito dell’iniziativa politica. Mi pareva che Syriza avesse messo a punto una strategia che non poteva fallire: se il referendum fosse passato, il partito avrebbe potuto dichiararsi indisponibile ad attuare le misure delineate nel piano di salvataggio e dimettersi; se il referendum non fosse passato, e segnatamente nel caso di un margine significativo (che fu poi effettivamente conseguito) Syriza avrebbe cominciato a mobilitare il popolo per la lotta a venire, mettendo in evidenza fino a che punto i leader non eletti di istituzioni che operano in gran parte al di fuori di qualsiasi controllo e responsabilità democratici governino di fatto l’Europa; e mostrando agli altri paesi indebitati che a questi poteri è possibile resistere. Ciò avrebbe incoraggiato le varie popolazioni europee a mobilitarsi per analoghi obiettivi. Le settimane che seguirono hanno dimostrato come questa analisi fosse basata su una serie di illusioni e fantasie apocalittiche che sono l’inevitabile risultato di un equilibrio delle forze da lungo tempo sfavorevole alla sinistra, una sorta di marginalizzazione permanente che scoraggia la sinistra dal “prepararsi al potere”, fosse anche quel limitato potere che viene da una maggioranza parlamentare che ti fa diventare partito di governo. Syriza e il resto della sinistra greca erano impreparati sia all’intensità che alla rapidità dell’offensiva lanciata contro di loro, e impreparati di fronte alla specifica strategia di tale offensiva. Ci sono versioni contraddittorie riguardo ai dibattiti interni e alle discussioni precedenti il referendum, ma la sostanza è chiara: la sinistra interna ed esterna a Syriza non disponeva di un piano praticabile ed approfondito, né per un ritorno alla dracma né per mantenere l’euro ma a nuove e più favorevoli condizioni. Stante il controllo delle banche da parte delle istituzioni europee, appariva chiaro come l’economia greca potesse essere portata alla paralisi abbastanza facilmente e come i tedeschi e i loro alleati fossero pronti ad affamare il popolo greco qualora il partito di governo non avesse accettato le condizioni del piano di salvataggio. Non c’era alcun bisogno di un’invasione, come sarebbe potuto accadere un tempo, né di un colpo di stato progettato dalla BCE e dal FMI. La minaccia era già abbastanza grande da costringere Syriza alla ritirata totale, con uno scampolo testimoniale non disposto a genuflettersi di fronte ai barbari. In realtà, le strategie di entrambe le tendenze del partito si basavano su scenari altrettanto irrealistici: la leadership di Syriza sperava che la troika potesse far marcia indietro di fronte all’espressione della volontà del popolo greco, che conferiva piena legittimazione al partito. La sinistra di Syriza spingeva per un’uscita dall’euro, ma senza poter contare né su di un piano per la transizione, al di là di qualche abbozzo sparuto, né, cosa ancora più importante, della mobilitazione popolare necessaria alla messa in atto di qualsivoglia piano. Decretare l’uscita dall’euro senza il sostegno attivo di una grande maggioranza della popolazione sarebbe stata una forma di putschismo destinata al fallimento immediato, le cui conseguenze per la popolazione avrebbero potuto risultare devastanti. La firma del memorandum il 13 luglio del 2015 ha innegabilmente segnato una sconfitta enorme ed è servita a mo’ di avvertimento per partiti come Podemos e per le popolazioni di Spagna e Italia, che per quanto brutta sia la situazione, potrebbe mettersi molto peggio ed in seguito a poco più di qualche battuta su una tastiera. Ma quella greca è una lunga battaglia nell’ambito della guerra di classe globale, e andrebbe studiata in dettaglio. Come avrebbe potuto la sinistra prevedere, ostacolare e controbattere l’assalto della Troika? Questa lotta ha messo a nudo i punti deboli di una sinistra abituata al ruolo di opposizione parlamentare sostenuta da manifestazioni di massa, ma ha anche rivelato le opzioni strategiche a disposizione dei poteri dominanti, stante le nuove e continuamente evolventisi forme finanziarie di dominio e le tecnologie a loro disposizione. Queste non sono più un segreto e non ci può essere nessuna strategia per la transizione verso un diverso tipo di società senza un’attenta considerazione del modo migliore per organizzare la difesa del popolo contro di esse e, soprattutto, senza pensare le caratteristiche di un’eventuale controffensiva. La sinistra oggi, sia in Grecia che altrove, non può permettersi molte altre sconfitte del genere. Disarmiamo noi stessi se lasciamo che termini morali come tradimento e fedeltà, eroismo e martirio prendano il posto di un’analisi esaustiva della sconfitta e di una strategia globale basata su detta analisi, che possa determinare una svolta decisiva riguardo all’equilibrio delle forze. E, come ha osservato Machiavelli, il profeta disarmato va incontro alla rovina. [traduzione di Angelo Foscari] (qui la prima parte dell'intervista) NOTE (1) Or. Initiation à la philosophie pour les non-philosophes, tr. it. di Gaia Cangioli e Vito Carrassi, Dedalo, 2015. (2) Tr. it. di Maria Teresa Ricci, Manifestolibri, 1999. (3) Ed. it. a cura di Fabio Raimondi, Mimesis, 2004. (4) In Sul materialismo aleatorio, introduzione e cura di Vittorio Morfino e Luca Pinzolo, Unicopli, 2000. (5) Ivi, p.101. (6) In Sulla psicoanalisi, tr. it. di Gabriele Piana, Cortina, 1994. (7) Si tratta di Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in Freud e Lacan, a cura di Claudia Mancina, Editori Riuniti, 1977; e di Sur la reproduction, tr. it. di Maria Teresa Ricci Lo Stato e i suoi apparati, a cura di Roberto Finelli, Editori Riuniti, 1997. (8) Cfr. Ricchezza delle Nazioni, tr. it. di Alberto Campolongo, introduzione di Augusto Graziani, UTET, 1948, p.13. CERTE NOTTI
14/2/2017
di Marcello Benfante
Domenico Trischitta (che è nato a Catania nel 1960) continua, con quest’ultima silloge di racconti intitolata Le lunghe notti(Avagliano, pagine 150, euro 14), la sua interessante ricerca di frantumazione della struttura del romanzo, inteso nella sua classica unità e coesione formale. Si tratta infatti di una intensa galleria di brevi ritratti e di storie minime che hanno per denominatore comune il tormento e l’estasi del sesso. O almeno, intorno a tale rovello dei sensi e della coscienza si dipanano e intrecciano, ora in forma soggettiva e ora in terza persona, alludendo costantemente alla morte, secondo un antico e indissolubile binomio. I vari personaggi, viandanti per vocazione o professione, portavoce di un’umanità ordinaria e insieme sbandata, sono infatti figure penitenziali, in una duplice accezione. Sono cioè anime e corpi che recano in sé una pena inestinguibile (se non nel trapasso) che li conduce sulle rotte del destino e del caso in un lungo viaggio espiatorio al termine della notte. Ma sono anche reclusi esistenziali che scontano una detenzione inesorabile in ruoli e modelli di vita da cui cercano di evadere con una tensione metamorfica. Si tratta spesso di figure itineranti che cercano rifugio e refrigerio morale nell’oscurità, ma talora pure che soffrono di una inconsolabile nictofobia che li costringe a fare i conti con i propri incubi. Il loro travaglio li spinge a esplorare la notte alla ricerca di una luce che infine li ferisce e uccide, come incruenti vampiri ritardatari sorpresi da un’alba tragica. Così è soprattutto per una “spavalda gioventù siciliana” per lo più votata a una plateale autodistruzione che da una generazione all’altra eredita le medesime illusioni e velleità. Le varie storie (in cui talora affiora un risvolto autobiografico) s’intersecano e si attraversano reciprocamente come in un incrocio di destini, riallacciando il loro percorso, con improvvisi scarti temporali che scompaginano la diacronia degli eventi. La loro serie compone infine un lungo viaggio italiano, dal nord al sud, come un nostrano racconto on the road, in cui lo sconfinamento e il giro ozioso, l’incidente e la deviazione, l’iniziazione e l’eterno ritorno, la prigionia e la fuga assumono le forme fatali di un tentativo inane di sottrarsi alla madre e di verificare, in ultimo, l’indissolubile legame con essa. Trischitta compone questo mosaico di vite sperperate e incatenate ricorrendo a una lingua del tutto priva di indulgenze, sottratta a ogni retorica e all’ordine lapidario della consecutio temporum, sullo sfondo, come già in altri suoi lavori, di una colonna sonora cangiante che dal rock e dal blues arriva a lambire I Puritani di Bellini. Per frammenti prosaici e anodini si consuma così l’attesa insonne e febbrile di un domani senza redenzione. Sotto il segno di Louis-Ferdinand Céline, che appare in un cammeo senile, in limine mortis, ma anche di Giuseppe Pontiggia, sofferto cantore della miseria e nobiltà umane, che fu tra i primi a leggere e incoraggiare il manoscritto, a cui il libro è implicitamente dedicato con un commosso omaggio nei ringraziamenti finali. L'ULTIMO MARX E NOI
10/2/2017
di Annibale C. Raineri
Nel 2016 Donzelli ha pubblicato il libro di Marcello Musto L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale. Vale la pena soffermarcisi. Come chiarito dal sottotitolo, si tratta di un saggio di biografia intellettuale, che si avvale della gran mole di materiali che negli ultimi anni sono divenuti accessibili e che, secondo Musto, modificano l’immagine del vissuto e del pensiero di Marx fin ora consolidata. Anzitutto biografia: Musto ci consegna l’immagine di Marx uomo negli ultimi tre anni della sua vita, alle prese con le sofferenze, i dolori e le (poche) gioie che quegli anni gli hanno concesso, ma che conserva la sua umanità nonostante il destino ostile, che lo perseguita financo con un’avversione climatica che fiacca il corpo malato. Marx affronta questo destino con lo spirito tenace di un combattente, che continua a tenere per le vicende più ampie della storia dell’umanità, nonostante viva, soggettivamente e non solo oggettivamente, una condizione di isolamento anche e specialmente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi più affini solidali, la frastagliata famiglia del movimento socialista nella penultima decade dell’Ottocento. Resterebbe deluso chi cercasse in questo libro l’approfondimento teorico delle questioni irrisolte nell’ultima ricerca di Marx. Tuttavia il volume ci offre lo spunto per ridefinire la prospettiva nella quale dovrebbero collocarsi coloro che alle opere e alla vita di Marx continuano a fare riferimento, prendendo a testimone il lavorio cui lo stesso Marx sottopose il proprio pensiero, cercando nuovi orizzonti a partire dai quali superare l’impasse in cui si era trovata tanto la pratica che la teoria del “marxismo”. Caratteristica di questo periodo è l’estremo ampliamento dell’ambito delle ricerche di Marx, nonostante il succedersi dei drammi familiari, l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, e l’urgenza interiore di completare l’opera cui aveva dedicato la sua vita, Il capitale, e alla quale assegnava un ruolo fondamentale («Emblematicamente, quando proprio nel 1881 Marx fu interrogato da Karl Kautsky, circa l’opportunità di un’edizione completa dei suoi testi, egli rispose causticamente: – Questi dovrebbero prima di tutto essere scritti.», p. 78) Provo a indicare i punti che mi sembrano essenziali: 1. l’approfondimento delle scoperte in ambito antropologico, cui si dedica con intensità negli anni 1881-82; 2. la ripresa della ricerca storiografica di lunga durata; 3. la ferma opposizione all’oppressione coloniale in India, Egitto e Algeria ed il sostegno alla lotta di liberazione dell’Irlanda; 4. l’attenzione per la conoscenza delle forme di proprietà comune pre-capitalistica, non solo dal punto di vista storico, ma anche nei processi a lui contemporanei di esistenza/trasformazione delle forme di proprietà comune e di organizzazione politico-sociale non statuale (in particolare per le trasformazioni che vive la comune rurale in Russia, ma anche per le forme economiche e politiche non borghese-privatistiche né statuali del mondo islamico, con cui ha occasione di entrare in contatto grazie al suo viaggio in Algeria alla ricerca – fallita – di un clima più mite, secondo l’indicazione sanitaria). Marx si era occupato delle formazioni sociali precapitalistiche sin dagli anni Cinquanta, tornandovi alla fine degli anni Settanta. Ma perché tornarvi, dedicando a tali studi non solo di storia economica, ma propriamente antropologici, un tale dispendio di tempo, in un’epoca in cui per ragioni di salute le sue energie erano ridotte? perché dedicarvi tanto tempo e tante energie in un periodo in cui sente così acutamente il peso del non essere riuscito a chiudere gli studi sul Capitale e a darne una versione completa e per lui appagante? La risposta di Marcello Musto, con cui mi sento di convenire, è che «questo gli serviva anche per dare delle fondamenta storiche più solide alla possibile trasformazione di tipo comunista della società» (p. 21). È questo un punto al quale sono particolarmente interessato: mentre Marx continua a cercare di descrivere la dinamica strutturale del modo di produzione capitalistico, e quindi la logica cui sono sottoposte le società in cui esso domina, si affaccia al suo pensiero l’ipotesi (certo non pienamente cosciente, ma tuttavia fortemente operante in lui) che il fondamento di una società comunistica deve in qualche modo essere connesso a un piano più di fondo dell’essere umano, per scorgere il quale è necessaria una visione più ampia e profonda, che abbracci l’insieme della storia del genere umano, e che comprenda le vicende storiche del capitalismo e del suo superamento con lo sguardo dell’antropologo, che cerca di individuare le logiche di funzionamento delle società in quanto umane (significativo è l’interesse di Marx per le strutture familiari), e, insieme, con lo sguardo dello storico di lunga durata, che descrive i molti modi in cui queste logiche si sono trasformate nel corso dei secoli e dei millenni. In questo modo la “rettifica” che Marx opera nel suo laboratorio intellettuale negli ultimi tre anni lo ricollega all’intera sua ricerca, e a quell’esordio così straordinario che fu il primo emergere del suo pensiero: i Manoscritti del ’44 e l’idea radicale di comunismo. Musto, ripercorrendo i materiali di questi ultimi anni dell’opera di Marx, ed in particolare le lettere, che acquistano un ruolo decisivo per comprendere il profilo del Moro in questo squarcio di esistenza, conclude che il confronto con gli studiosi a lui contemporanei di antropologia, combinato con l’approfondimento delle sue ricerche storiche (fra l’autunno del 1881 e l’inverno del 1882 destinò gran parte delle sue energie intellettuali agli studi storici, ripercorrendo la storia mondiale a partire dal I secolo a. C.) portarono Marx a differenziarsi nettamente da una interpretazione della storia in senso evoluzionistico-darwinistico (prevalente fra gli antropologi dell’epoca), «conservando il suo caratteristico approccio: complesso, duttile e multiforme (…) non condivise i rigidi schemi sull’ineluttabile successione di determinati stadi della storia umana (e) respinse le rigide rappresentazioni che legavano i mutamenti sociali alle sole trasformazioni economiche. Marx difese, invece, la specificità delle condizioni storiche, le molteplici possibilità che il corso del tempo offriva e la centralità dell’intervento umano per modificare l’esistente e realizzare il cambiamento» (pp. 29-30). Dalla lettura del libro di Musso emerge come questo più articolato sguardo teorico alla storia umana, che incrina l’eurocentrismo della sua precedente elaborazione teorica, sia connesso ad un diverso approccio alla questione coloniale (complice l’attenzione ai fatti di attualità e le relazioni intrattenute con i soggetti che in esse promuovevano le lotte ai colonialismi): se negli anni Cinquanta l’accento di Marx era rivolto essenzialmente all’opera di “civilizzazione” che la dominazione coloniale realizzava, nei primi anni Ottanta prevale la consapevolezza di quanto il dominio coloniale con la sua opera abbia spinto i popoli indigeni non in avanti, ma indietro, in particolare attraverso la distruzione degli istituti comunitari (dalla distruzione della proprietà comune alle connesse forme sociali e politiche non statuali, tanto in riferimento alla politica coloniale inglese, p. 65, che francese, p. 109); senza peraltro con ciò mitizzare le società precapitalistiche. Questo diverso modo di intendere lo sviluppo storico appare in tutta evidenza nella controversia sullo sviluppo del capitalismo in Russia, o, più esattamente, sul ruolo che la comune rurale russa (l’istituto tradizionale della obščina) avrebbe potuto avere nella prospettiva di un processo rivoluzionario in senso socialista. È forse il capitolo teoricamente più pregnante. Marcello Musso descrive la trasformazione della posizione di Marx sulla Russia, considerata per lungo tempo «uno dei principali ostacoli all’emancipazione della classe lavoratrice» e vista adesso come il luogo che presentava le condizioni più propizie per una rivoluzione. Musso sottolinea come la Russia era diventata progressivamente sempre più importante nello studio di Marx, portandolo ad imparare il russo per approfondire la conoscenza storica e l’attualità di quel paese. Tale centralità viene a coincidere, nel 1881, con i suoi studi antropologici, facendogli vedere con altri occhi la questione che divideva allora il movimento rivoluzionario russo: da un lato coloro che si consideravano (o tali si sarebbero definiti di lì a poco) “marxisti”, che ritenevano necessaria la rapida dissoluzione della comune rurale russa al fine di permettere il rapido sviluppo del capitalismo, ritenuto premessa necessaria per la successiva rivoluzione socialista; e dall’altro i populisti che al contrario vedevano nella permanenza della comune una possibile base su cui costruire la prospettiva socialista. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare sulla base dei suoi scritti precedenti, Marx condivideva le posizioni di questi populisti “di sinistra”. Con molta nettezza Marx afferma, contraddicendo la lettera dei suoi scritti, che la storia del mondo non deve ripercorrere le strade che lui ha descritto nelle analisi storiche dedicate allo sviluppo capitalistico dell’Europa occidentale (ed in particolare dell’Inghilterra), e che sono possibili, e perfino auspicabili, percorsi alternativi, quali quelli che sarebbero potuti derivare dallo sviluppo dellaobščina come germe di una futura società comunista (p. 63). Nel 2001, intervenendo nel dibattito sulla globalizzazione aperto da Luigi Cavallaro sul “manifesto”, avevo ripercorso la posizione marxiana in merito alla possibilità di un processo rivoluzionario che avesse nell’antichissimo istituto della obščina – insieme economico, politico e sociale – la propria base, sottolineando come quella posizione marxiana, ma non marxista, potesse essere per noi fonte di orientamento per l’oggi. Ne riporto qualche passaggio. Di fronte al conflitto fra la potenza dissolutrice del denaro nella sua funzione di capitale – che irrompe sulla scena di un paese non ancora pienamente sviluppato – e le preesistenti formazioni sociali di tipo comunistico, quindi non ancora assoggettate agli “automatismi del mercato” e alla conseguente atomizzazione delle relazioni sociali, Marx riteneva possibile una pratica che né si attestasse su posizioni “reazionarie” di difesa dei vecchi istituti né accettasse come inevitabile pagare i “prezzi della modernizzazione capitalistica”. Anzi, riteneva Marx, proprio il carattere pubblico e comunitario di tali istituti li rendeva soggetti fondamentali nella lotta per il superamento della società borghese, avendo qualcosa da insegnare ai soggetti il cui orizzonte di vita è costituito dai “paesi ancora asserviti dal regime capitalistico”. La possibilità di questo nuovo sviluppo storico si fondava, per Marx, sulla contemporaneità fra la esistenza di antichi istituti comunitari e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sulla cui base si sono sviluppati tanto i processi di universalizzazione delle relazioni sociali quanto l’emergere del valore della individualità con la connessa idea moderna di libertà: «se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico» (Prefazione alla edizione russa del Manifesto, del 21 gennaio 1882). Se, come spesso ci ricorda Cavallaro, il nodo che abbiamo da sciogliere è quello di superare/sopprimere il dominio del denaro (capitale) nella determinazione del quanto, come e cosa produrre, è altrettanto vero che questo compito, che segna per le sue dimensioni una intera epoca storica, non può essere ridotto alla definizione di una autorità centrale a (livello planetario), ma ci riconsegna il problema della invenzione e costruzione di percorsi decisori pubblici e democratici, non (più) mutuabili dalle esperienze degli stati nazionali, senza ovviamente con ciò volere demonizzare le esperienze del Novecento, né darne una rappresentazione caricaturale, come troppo spesso capita di leggere. Questa invenzione storica, anche di articolazioni istituzionali, oltre che economiche e sociali, può essere solo il prodotto di un movimento in cui cooperino creativamente tutti i soggetti che già oggi fanno pratica (contraddittoria quanto si vuole) di relazioni sociali non mercantili e non autoritarie.[1] Queste considerazioni ci fanno comprendere come l’affermazione del vecchio Marx: «Quel che è certo è che io non sono marxista», sia più di una semplice battuta, e sia invece il frutto di un ripensamento su questioni fondamentali, anche se spesso poste nella forma di una mera reinterpretazione dei propri testi piuttosto che di una loro smentita (mai fatta). Sul cambio di prospettiva realizzatosi nel pensiero di Marx negli anni Ottanta aveva insistito molto Enrique Dussel (El último Marx (1863-1882) y la liberacion latinoamericana [1990], ed. it. L’ultimo Marx, manifestolibri 2009), che nel capitolo finale, Dall’ultimo Marx all’America Latina, mostra come la concezione unilaterale della storia universale abbia dominato il pensiero di Marx fino alla pubblicazione del primo libro del Capitale, per essere poi abbandonata alla fine degli anni Sessanta anche in relazione ai rapporti sempre più significativi con i rivoluzionari russi di tendenza populista. Dussell legge il cambio di prospettiva dell’ultimo Marx – in opposizione alla continuità engelsiana – anche confrontandosi con Rosa Luxemburg, nella prospettiva della costruzione di un diverso orizzonte etico-politico dell’agire, che colga l’importanza della dimensione popolare e nazionale, cui Marx avrebbe iniziato a guardare proprio seguendo con partecipazione quanto accadeva in Irlanda e ripensando con diversi occhi la questione contadina. Da queste letture marxiane Enrique Dussel può quindi ricavare ispirazione per l’orientamento nell’azione politico-sociale in America Latina, dove il modello europeo di movimento socialista sarebbe privo di prospettive. Rispetto al testo di Dussel, il recente volume di Marcello Musto (a parte diversità di accenti, che comunque non mi sembra modifichino l’essenziale, se non per uno sguardo accademico e museale all’opera di Marx) ci offre una visione più ampia della vita intellettuale dell’ultimo Marx. Da essa emerge con forza la testimonianza (quanto di più prezioso ci lasciano i suoi ultimi anni) di una ricostruzione unitaria dell’intero suo lavorio privo di attese dottrinarie. Ma soprattutto, confrontata con i compiti cui siamo oggi chiamati, ci impone la consapevolezza che l’unico orizzonte sensato dentro cui pensare la parola comunismo è quello che pone al centro della sua costituzione la dimensione antropologica, l’essere umano in quanto tale, cogliendo le sue vicissitudini non solo nella lunga storia della modernità (sin dal suo esordio, vedi le interpretazioni radicali della riforma protestante), ma specialmente nella lunghissima storia della nostra umanità, che, per tempi cronologicamente maggioritari e antropologicamente costitutivi, ha visto nel comune l’ambito primario dello svolgersi della sua esistenza. [1] L’articolo, pubblicato l’11.9.2001, è ancora reperibile nel web col titolo Le comuni rurali: Marx censurato. L’attentato alle Torri gemelle interruppe il dibattito per ovvie ragioni politiche e giornalistiche. L’intero dibattito è stato poi pubblicato nel 2002 da Deriveapprodi in appendice a Karl Marx, Discorso sul libero scambio. George Souvlis ha intervistato per Salvage (qui l'intervista in inglese) Warren Montag, professore di Letteratura Inglese e Comparata presso l’Occidental College di Los Angeles, studioso dai forti interessi politici e filosofici che ha scritto tra l’altro su Jonathan Swift, Spinoza, pensatori francesi contemporanei come Althusser e Pierre Macherey e, ultimamente, il fondatore dell’Economia Politica, Adam Smith.
Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato? La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri. Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri. Questa varietà di trotskismo, che in pratica negli Stati Uniti all’epoca non era presente, consisteva in larga misura nella codificazione delle esperienze politiche del 1968 a livello internazionale, mettendo insieme democrazia diretta dei consigli operai, opposizione coerente ai regimi burocratici dell’URSS e dei suoi satelliti, e sostegno intransigente ai movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti in tutto il mondo. Lo vedevo come un marxismo aperto, volto a cercar di comprendere le rispettive strategie di movimenti e tradizioni differenti, dalle forme di lotta armata presenti in America Latina alla Rivoluzione Culturale cinese fino a Solidarnosc in Polonia: ciascuna di queste esperienze, pur nel loro conclusivo, e in certi casi catastrofico, fallimento, impartiva determinate lezioni e illuminava problemi che non sarebbero emersi altrimenti. E si evitava di saltare all’automatica ‘denunzia’ basata su divergenze teoriche o programmatiche, prassi tipica dei gruppi trotskisti. Quegli infuocati dibattiti – sulla strategia rivoluzionaria in America Latina, ad esempio – mi affascinavano proprio perché nessuno dei contendenti condannava astrattamente… la realtà, colpevole di non corrispondere ad un modello teorico; si facevano invece dei genuini tentativi di pensare in chiave strategica su come un determinato movimento poteva compiere un’avanzata in una congiuntura specifica. Attraverso la mia partecipazione a varie organizzazioni socialiste rivoluzionarie “multi-tendenza”, che intrattenevano relazioni amichevoli sia con la Quarta Internazionale che con la tradizione degli International Socialists, negli anni seguenti entrai in contatto con una serie di figure che oggi riconosco come straordinarie: ovviamente Mandel, poi Michael Lowy, Tariq Ali, Livio Maitan, Michel Pablo (alias Michaelis Raptis, un sostenitore esemplare della lotta di liberazione algerina); messicani come Adolfo Gilly e l’attivista per i diritti umani Rosario Ibarra; e ancora il leader contadino peruviano Hugo Blanco, e Alex Callinicos degli International Socialists. Sono stato tra i membri fondatori del gruppo statunitense Solidarity, militando nel quale ho imparato moltissimo dai sindacalisti di Labor Notes e dei Teamsters for a Democratic Union. Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta ho preso parte a una serie di movimenti: il movimento anti-apartheid, quello di solidarietà con il Centro America e quello di solidarietà con la Palestina; ho lavorato nella campagna Justice for Janitors e con il sindacato del settore alberghiero per organizzare il sostegno della comunità alle loro lotte; sono stato attivo anche nell’opposizione alla Guerra del Golfo. Paradossalmente, quasi tutte le persone che mi erano vicine politicamente tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta – accademici o meno – erano fortemente ‘anti-althusseriani’: magari da punti di vista molto diversi, ma in definitiva convinte che Althusser rappresentasse una prospettiva stalinista oppure un riformismo che si travestiva con il gergo strutturalista di moda all’epoca. E a dirla tutta il mio orientamento teorico iniziale era un po’ La società dello spettacolo di Debord e un po’ Storia e coscienza di classe di Lukacs: una miscela che mi predisponeva a rifiutare Althusser in base a quella che – erroneamente – pensavo fosse una posizione hegeliana. Tuttavia, spronato da Geoff Goshgarian, insieme al quale avevo cominciato a leggere attentamente le opere di Althusser, ho scoperto che la maggior parte dei suoi critici avevano ben poco da dire sui suoi testi veri e propri, e si concentravano invece su quello che – secondo loro – il filosofo francese intendeva per “umanesimo” o “storicismo”. Ricordo ancora oggi l’esperienza della prima lettura di ‘Contraddizione e Surdeterminazione’: quella strana combinazione di lucidità e densità di pensiero che è il segno distintivo delle migliori cose di Althusser. Ho capito subito che la stragrande maggioranza dei suoi critici non si stavano confrontando con ciò che lui aveva scritto, ma s’erano costruiti un Althusser immaginario che ci diceva parecchio riguardo a loro e pochissimo riguardo ad Althusser. La mia “formazione” in pratica ha avuto poco a che fare con le realtà accademiche dell’epoca e molto di più con quello che ho letto insieme ad altri o per conto mio, al di fuori di ogni contesto istituzionale. Le prime cose che ho scritto si rivolgevano più o meno consapevolmente ad Althusser, Balibar, Macherey, a Michel Pêcheux, come se fossero i miei interlocutori, ben prima di conoscerli di persona. Questo fece sì che uno degli incontri più casuali che mi siano capitati diventasse qualcosa di durevole. Nell’estate del 1983 arrivo a Parigi deciso a sviluppare il suggerimento di Althusser per cui ci sarebbe un legame essenziale tra ideologia e l’inconscio, e pertanto fra marxismo e psicoanalisi. Avevo scritto alle due persone che in quel momento più si interessavano alla questione: Michel Pêcheux, le cui ricerche su linguaggio, semantica e ideologia mi avevano influenzato parecchio, ed Elisabeth Roudinesco che all’epoca scriveva cose interessanti in campo teorico, prima di dedicarsi alla storiografia. Pêcheux in quel momento stava preparando una conferenza negli Stati Uniti, e aveva bisogno di un traduttore. Io avevo convinto la Roudinesco a incontrarmi, accettando poi di svolgere per conto suo alcune ricerche negli Stati Uniti. A questo punto lei mi chiede se c’è qualchedun altro che mi piacerebbe conoscere, e quando dico di aver scritto a Pêcheux senza ottenere risposta, lo chiama al telefono seduta stante. Gli fa una lavata di capo per non aver risposto alla mia lettera, poi mi passa la cornetta. La conversazione seguente assomiglia a una prova orale, in cui Pêcheux mi spara contro una serie di domande riguardo a certi filosofi e rispettive opere: Althusser, Lacan, Bachelard, Canguilhem (ma anche il Jean-Claude Milner di L’amour de la langue, che io avevo appena letto) e, naturalmente, Spinoza (se ben ricordo, qualcosa riguardo l’Appendice alla Parte Prima dell’Etica). Il fatto che avevo superato l’esame fu segnalato dalla frase, pronunziata a mo’ di finalino: “on a fait ses devoirs”. Ho poi trascorso la settimana seguente a tradurre la conferenza di Pêcheux (“Discorso: Struttura o Evento?”) seduto al tavolo della cucina di casa sua. L’anno successivo, Roudinesco mi ha presentato a Macherey. Poco dopo ho incontrato Balibar, Lecourt, Negri ed altri. Verso la fine degli anni Ottanta, Balibar e Macherey erano ormai miei amici e mentori. Il tema del tuo primo studio pubblicato, The Unthinkable Swift, è il pensiero politico di Jonathan Swift. Chi era Jonathan Swift, e perché hai deciso di studiare il suo pensiero? Tu sostieni che i suoi scritti fossero surdeterminati dalla congiuntura storica che va dal 1688 – il fallimento definitivo dell’Assolutismo – al 1714, con la nascita del moderno stato britannico. In che misura ciò riflette un rapporto dialettico tra base e sovrastruttura ideologica? Quale parte del suo pensiero trascende quello specifico periodo, e conserva una sorta di relativa autonomia? Swift (1667-1745) è stato un sacerdote della Church of Ireland (costola irlandese della Chiesa Anglicana) le cui due opere principali, la Favola della botte e I viaggi di Gulliver, sono stati per me una sorta di laboratorio in cui testare, e dov’era il caso modificare, la pratica di lettura materialistica sviluppata nell’introduzione di Althusser a Leggere il Capitale e in Per una teoria della produzione letteraria di Pierre Macherey[1] (testi che avevo letto “parola per parola” con Goshgarian). Il fatto che entrambe queste opere di Swift fossero non soltanto delle satire (il che già complicava l’idea di lettura sintomale), ma satire le cui stesse “norme” positive erano continuamente messe in questione da un’ironia che non lasciava intatta alcuna posizione etica o politica, poneva certe sfide a questa teoria. Nella Favola della botte, per esempio, Swift attacca contemporaneamente sia i nemici della sua Chiesa (atei, non-conformisti puritani e cattolici romani) sia origini e istituzioni della Chiesa stessa, come se la satira colpisse ben oltre il suo bersaglio, compiendo una distruzione generale che non lascia in piedi alcunché, e privando lo stesso Swift di un punto d’appoggio. Anziché concludere l’analisi a questo punto, alla maniera del decostruzionismo americano degli anni Ottanta – che era motivato dal bisogno di de-politicizzare e de-storicizzare la letteratura – mi rivolsi a Swift con una domanda preliminare: quali sono le contraddizioni peculiari a questo tentativo di abolire tutte le contraddizioni, non “a priori” bensì in una particolare congiuntura che si realizza all’interno dei e attraverso i materiali letterari, filosofici e politici a disposizione? Per rispondere a questa domanda lessi il testo parola per parola e ripercorsi catene semantiche che mi portarono fuori dal testo in questione, verso altri scritti cui esso era rimasto legato. Se il mio libro dovessi scriverlo oggi, avrebbe senza dubbio un aspetto molto diverso: nell’esposizione procederei dall’interno verso l’esterno. Invece di cominciare come feci, con una lunga analisi della storia inglese e irlandese e della posizione ivi occupata dalla chiesa anglicana, seguirei le tracce di parole e di frasi che conducono fino a quelle storie. Ai critici non piacque il mio excursus storiografico, non perché non fossero d’accordo con quanto avevo scritto (a pochi la faccenda interessava a tal punto da poter dirsi d’accordo o in disaccordo con me), ma perché non ne vedevano la rilevanza. Se avessi seguito l’altro procedimento, i lettori avrebbero visto con maggiore immediatezza come il fatto di parlare e scrivere dall’interno della Chiesa – intesa come condensazione di forze sociali (per adoperare la frase di Poulantzas), le cui funzioni ideologiche e disciplinari precedono la propria giustificazione in termini di dottrina – desse forma a quel materialismo che le satire di Swift producono. Non direi che le opere di Swift posseggano un valore o un significato universale o trans-storico che rimane immutato a dispetto del costante cambiamento del mondo che sta loro intorno. Ma neppure sarebbe esatto considerarle come delle macchie di Rorschach sulle quali ciascuna epoca proietta i propri significati. Direi invece che uno scritto come I viaggi di Gulliver ha funzionato come un objet trouvé, un ‘ready-made’ che il movimento storico ha separato dal suo contesto originario e che si ripresenta in una modalità che non è né riducibile né indipendente da quella iniziale. Anziché domandarci quale realtà rifletta – come se fosse un “epifenomeno” che è reale solo in quanto si riferisce alla realtà primaria che riflette – potremmo chiederci quali effetti abbia prodotto come “cosa singolare”, stabilendo con tutta una serie di altre cose singolari certe relazioni che fanno sì che l’opera venga letta in differenti maniere. Nell’introduzione che hai scritto alla raccolta di testi di Pierre Macherey pubblicata in inglese come In a Materialist Way, sostieni che nel suo primo libro Per una teoria della produzione letteraria, lungi dal propugnare un’analisi formalista del testo, Macherey faccia proprio un close reading dell’opera letteraria che conduce verso il contesto storico: “per quanto coerente o unitaria appaia l’opera, essa non può sfuggire ai conflitti sociali, storici, che attraversano il campo in cui essa emerge”. Potresti diffonderti maggiormente su questo metodo di lettura? Che cosa comporta in termini epistemologici rispetto all’analisi del testo letterario? Potremmo applicare la stessa epistemologia a un testo di teoria politica? In che modo Macherey ci aiuta ad evitare un riduzionismo sterile? Sembrerà paradossale – specialmente a quei lettori anglofoni che rimangono fissati con l’anti-hegelismo di Althusser, Balibar e Macherey intorno al 1965 (a dispetto dell’evidenza in senso contrario, sia prima che dopo quel periodo lì) – ma c’è qualcosa di irriducibilmente hegeliano nella lettura di Marx che fa Althusser (anche rispetto al residuo “hegelismo” di Marx, la specifica tendenza all’interno del pensiero di Hegel cui Marx – uno dei “figli senza padre” della storia – si rivolge onde teorizzare la forma specificamente capitalistica dell’accumulazione e dello sfruttamento). Questo è altrettanto – se non maggiormente – vero per Balibar e Macherey e la loro lettura di testi filosofici e letterari. Potremmo riassumere questa eredità hegeliana nell’idea che questi testi sono intelligibili, cioè diventano gli oggetti di una conoscenza adeguata, solo sulla base di contraddizioni che possono essere intese come la loro causa immanente. Ma la ‘contraddizione’, parola che Macherey evita sistematicamente di utilizzare in Per una teoria della produzione letteraria, non può essere intesa in senso formale (lo stesso Hegel respingeva con veemenza l’idea di una “dialettica formale” come imposizione di un unico modello a qualsiasi contenuto), come se possedesse una sola struttura invariante. Macherey aveva proposto di sostituire “contraddizione” con “conflitto” o “disordine”, il che si può intendere come una rielaborazione del concetto. Nel caso dei testi letterari, l’idea di forma o genere comporta la suddivisione del testo in superficie disordinata e caotica da un lato e ordine nascosto o struttura profonda (in senso linguistico) dall’altro: il che rivelerebbe come il disordine in superficie altro non sia che un ordine nascosto. Macherey si oppone a questa visione e insiste sul fatto che “l’opera non ha interno né esterno: o piuttosto… il suo interno è come un esterno, esibito, spalancato”. In questo modo, il testo è solo superficie, senza una dimensione nascosta sulla base della quale i suoi elementi discordanti e contraddittori possano essere riconciliati. Qui possiamo rilevare la presenza di Spinoza, in particolare del capitolo VII delTrattato teologico-politico, e la sua critica delle pratiche esistenti di esegesi biblica. In assenza di “profondità”, i difetti, le lacune e le incongruenze della Scrittura si solidificano in qualcosa di irriducibile, che va spiegato in base alle proprie cause anziché venire minimizzato o esorcizzato. Questo a sua volta ci permette di comprendere i paradossi dell’attuale contro-offensiva anti-Althusser e anti-Macherey, che contrappone una lettura “di superficie” alla [althusseriana] “lettura sintomale” (intesa come operazione che sarebbe volta a rivelare elementi nascosti, che necessariamente svaluterebbe la superficie in favore di ciò che essa tiene celato). Il concetto di “nascosto”, così come quello di “profondità” è qui definito in maniera assai larga: anche le “lacune”, i vuoti e le assenze possono essere definiti come cose “nascoste” sebbene in effetti non siano affatto presenti né all’interno né all’esterno del testo. In realtà ciò che è chiaramente visibile negli argomenti in favore di questa lettura “di superficie” è la volontà di riportare l’ordine nel testo, definendo la superficie testuale come una “struttura” o “forma”. In questo modo l’ordine precede il disordine, così come l’essenziale precede e definisce l’inessenziale. Ciò che è incongruente con tale struttura non è pertanto nascosto nel testo, bensì negato dal metodo stesso e respinto in quanto “epifenomenico”. Il conflitto è messo al bando, e con esso ogni possibilità di spiegare il testo se non come realizzazione di una forma pre-esistente. Quello che ho chiamato il peculiare hegelismo di Althusser e Macherey ha reso ai miei occhi ogni testo filosofico – è il caso di Hegel – leggibile e davvero prezioso, in quanto non più espressione di una dottrina, bensì luogo di un conflitto. Per me è stato estremamente liberatorio leggere Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati di Althusser: i testi filosofici presentano tendenze antagonistiche, e leggere significa tracciare linee di demarcazione che servono a delineare tali antagonismi. Nel 1997 viene pubblicato The New Spinoza, volume di cui sei curatore insieme a Ted Stolze. Pierre Macherey una volta ebbe a dire che: “studiare Spinoza dopo Hegel, ma non secondo Hegel ci permette di porre la questione della dialettica non-hegeliana”. Davvero Spinoza offre tale possibilità? E in che senso? Sono tentato di dire che il posto giusto nel quale cercare una dialettica non hegeliana (che avrebbe prodotto il proprio concetto nel processo della sua auto-determinazione: quell’autocoscienza che è il correlativo del movimento attraverso cui diventa sé stessa) dovrebbe trovarsi all’interno dello stesso Hegel. Nella Scienza della Logica, Hegel definisce il “momento dialettico”, come quello in cui l’Idea Assoluta si determina “come l’altro da sé”. Ora, lo Spinoza di Macherey, distinto e separato dallo Spinoza di Hegel (cioè lo Spinoza che costituirebbe una fase necessaria ma subordinata nel processo che culmina in Hegel) può essere inteso come l’“altro” di Hegel, l’altro proprio di Hegel che lo contrassegna – osserva Balibar – come un “noi” anziché come un “io”. Anche Spinoza risulta diviso in virtù dell’essere inscritto in Hegel: lo Spinoza “orientale”, pensatore del mondo come emanazione dall’Uno indeterminato, e lo Spinoza pensatore dell’assoluta immanenza per il quale “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Se rimuoviamo la garanzia della “negazione della negazione”, che è inestricabilmente legata alla concezione di Hegel per cui la sostanza deve essere intesa come un soggetto capace di agire con un fine in vista, ecco svanire quella teleologia che non solo garantisce il raggiungimento del fine, ma anche la necessaria successione dei vari momenti lungo il cammino. Risultato: “non solo il reale rapporto tra filosofie non è più misurabile in base al grado di integrazione gerarchica, ma questo rapporto non è più riducibile a una discendenza cronologica che posiziona ciascuna filosofia rispetto all’altra in un ordine di successione irreversibile. In questa storia, che forse non è materiale, ma che non è più ideale, emerge un nuovo tipo contraddizione: una lotta tra tendenze che non porta in sé la promessa della propria risoluzione. In altre parole: unità dei contrari senza negazione della negazione”. Certo, questo non suona molto spinoziano; in realtà Macherey ha tradotto Spinoza in un linguaggio hegeliano, o forse nel linguaggio di uno Hegel letto da Lenin (la lotta tra le tendenze) per meglio mostrare le differenze tra Spinoza ed Hegel. Ma il concetto di una dialettica sospinta dalla lotta, senza teleologia né necessaria “fatica del negativo” è già presente in Spinoza, in particolare nella sua definizione di “cose singolari” nella definizione VII della Parte Seconda dell’Etica: Per cose singolari [res singulares] intendo le cose che sono finite e hanno una esistenza determinata. Poiché se più Individui [o particolari Cose Singolari] concorrono in un’unica azione in modo tale che tutti insieme siano causa simultanea di un unico effetto, li considero tutti in quanto tali come una sola cosa singolare[2]. Il punto cruciale qui sta nell’osservare che Spinoza quando dice “concorrono” adopera il verbo latino concurro, anziché convenio o conjungo. Convenio suggerisce accordo, compatibilità e armonia, mentre conjungo suggerisce un collegamento o intreccio, lasciando intendere che le cose singolari si uniscono e rimangono unite. L’impiego di concurro comporta una nozione più complessa, il “correre insieme” di forze opposte che si affrontano in battaglia e che formano così una sorta di “unità degli opposti” in virtù dell’antagonismo che le trae insieme in battaglia facendone “causa simultanea di un unico effetto”. Volendo distillare una dialettica da questo concetto, ne verrebbe fuori più uno sviluppo spinoziano di certe idee di Machiavelli che non un’anticipazione della dialettica hegeliana. (continua) [traduzione di Angelo Foscari] [1] Del testo di Althusser esistono due traduzioni italiane: quella “storica” di Raffaele Rinaldi e Vanghelis Oskian, in L.Althusser e E.Balibar, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, 1968; e quella più recente di Vittorio Morfino, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière Leggere Il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, 2006. Il libro di Pierre Macherey è stato tradotto in Italia solo parzialmente: la prima parte come Per una teoria della produzione letteraria, tr. it. di Paola Musarra e Luigi M. Cesaretti, con prefazione di Emilio Garroni, Laterza, 1969; e una porzione della terza parte come Jules Verne o il racconto in difetto, a cura di Fabrizio Denunzio e con una prefazione dell’autore all’edizione italiana, Mimesis, 2011. [2] Baruch Spinoza, Etica. Dimostrata con Metodo Geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988, p.124 (trad. lievemente modificata, NdT) di Marcello Benfante
Tutto ritorna a ciò che è veramente intero Tao-Tê-ching Mary Poppins è una creatura aerea. Il che, tuttavia, non la fa appartenere al cielo più di quanto non appartenga al sottosuolo. È il Vento dell’Est a portarla nel romanzo d’esordio. Forse lo stesso vento foriero di trasformazioni che avverte Sherlock Holmes in chiusura del racconto “Il suo ultimo saluto”. Anche in “Mary Poppins ritorna” (Mary Poppins Comes Back, 1936) l’indecifrabile governante entra in scena dall’alto, come un deus ex machina. A trascinarla giù sembrerebbe l’aquilone dei piccoli Banks, Michele e Giovanna, rimasto impigliato tra le nuvole sopra gli ordinatissimi giardini pubblici. Ma le cose non stanno proprio così. Mary Poppins ha preso il posto dell’aquilone, si è sostituita ad esso per mezzo di una magica metamorfosi. Non c’era più traccia dell’aquilone verde e giallo, ma al suo posto si agitava una figura che sembrava a un tempo strana e nota, una figura che portava un abito blu con bottoni d’argento e un cappello di paglia guarnito di margherite. La discensione di Mary Poppins comporta una vera e propria sovversione delle convenzioni categoriche e delle verità inoppugnabili, che è poi il tema centrale e il fil-rouge del romanzo. Paracadutandosi, Mary ha infranto un ordine sublunare. E infatti il Guardiano del Parco, dopo un attimo di stupore, le intima severamente di fermarsi. Io devo far rapporto su tutto questo. È contrario ai Regolamenti. Cadere dal cielo in questo modo! E da dove, vorrei sapere, da dove? Già: da dove proviene Mary Poppins? Qual è la scaturigine di questa figlia – o madre – del vento e delle stelle? Qualcosa in proposito la Travers ha la bontà di suggerirci, senza però mai concedere una vera anagrafe. Soffermiamoci intanto sul fatto che il fiscale Guardiano è il primo a introdurre il leitmotiv delle domande, vero e proprio tormentone del secondo episodio delle avventure di Mary Poppins. Vuole sapere da dove arrivi quello strano personaggio che somiglia a una “bambola olandese”. Stupisce che non si chieda come abbia fatto. Evidentemente, il Guardiano è un personaggio che può permettersi un interrogativo alla volta. L’enigma però resta. E si può anche esprimere in questi termini più generali: Mary Poppins è forse un’apparizione angelica, ossia, con le immortali parole di Dante, “cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”? O invece è un essere di più inquietante origine che possiede le proprietà aviatorie delle streghe? Ma la domanda in fondo è oziosa. Mary Poppins è un’eroina sui generis, temibile e al tempo stesso adorabile. D’altronde lei stessa si ostina a negare, con sospetta perentorietà, i suoi prodigi. Del suo meraviglioso atterraggio smentisce ogni cosa (“All’estremità di un filo? Come una scimmia o una trottola?”) confutando perfino l’evidenza dei fatti. Ma i fatti non esistono, o almeno non sono unilateralmente interpretabili (ed è questo, come si accennava prima, il cuore argomentativo e se vogliamo il messaggio educativo del romanzo). Poiché Michele Banks osa insistere sulla sua versione, Mary Poppins si palesa in modi inequivocabilmente stregoneschi. Mary Poppins, nella collera, sembrava avere raddoppiato le sue dimensioni abituali. Volteggiava nella sua camicia da notte sopra di lui, immensa e furiosa, in attesa di una risposta. Dunque Mary Poppins, per respingere la testimonianza del suo arrivo aereo, si mette a volare in modo minaccioso, gonfiandosi come una mongolfiera! E non è la sola incongruenza del suo sconcertante modus operandi. Qui si presenta la natura ossimorica di Mary Poppins, il suo essere materna e terribile, iraconda ma anche dolce, rancorosa e sollecita, narcisista e altruista, intimidatoria quanto rassicurante. Ma la contraddizione, torniamo a dire, è la qualità fondamentale della vita. Eppure, ci vediamo costretti, noi fedeli lettori, a confermare quanto i piccoli Banks hanno visto e detto, a ciò autorizzati dal testo. Dietro la porta, a un gancio, era appeso il cappotto di Mary Poppins, con i bottoni d’argento che brillavano nella fioca luce del lumino da notte. E, pendente dalla tasca, c’era una fila di frange di carta, le frange di un aquilone verde e giallo. È l’indizio irrefutabile che nella transustanziazione è rimasto un residuo, una specie di scoria alchemica. E d’altra parte, che Mary Poppins sia un personaggio dotato di poteri sovrannaturali è fuori discussione. Basterà vedere in che modo si sbarazza dell’ex governante di Mr. Giorgio Banks, l’arrogante e dispotica signorina Eufemia Andrew, altrimenti detta “Sacrosanto Spauracchio”. E con ciò entriamo nel vivo della questione che vogliamo trattare. Eufemia Andrew annuncia con un telegramma la propria venuta in casa Banks, dove intende trasferirsi per un mese intero. Nessuno l’ha invitata, e Mr. Banks addirittura si dilegua per non accoglierla. Non possiamo dargli torto. L’ex governante è una vera “arpia” di aspetto e modi sgradevolissimi. Arriva (via terra) su un taxi stracarico di bagagli e subito comincia a tiranneggiare, a imporre la sua prepotente e capricciosa volontà su tutti e tutto. Il suo metodo è racchiuso in un motto sinistro e ostile: “Zolfo e melassa”. E quest’accenno a virtù sulferee la dice lunga sulla statuto diabolico di questa odiosa figura. A conferma di ciò la vediamo posare sul pavimento un “misteroso oggetto rotondo”, accingendosi a fare un’ispezione dello stato, a suo dire, cadente e indecente della casa dei signori Banks. L’enigmatico oggetto si rivela “una gabbietta di ottone” dentro cui è imprigionato (da due anni) “un uccellino color nocciola” che Mary Poppins si affretta a liberale. Si tratta di un’Allodola. Proprio così, con la A maiuscola. Che sia un’allodola, anzi un’Allodola, non è particolare di poco conto, a intendersi di simboli. Ritenuta fin dall’antichità un intermediario tra l’umano e il divino, l’allodola era l’emblema di Artemide. Creatura sacra e messaggero augurale presso i Galli, l’allodola fu poi considerata annunciatrice della primavera, ossia della rinascita o resurrezione del creato (a cui nel libro della Travers è dedicato un episodio decisivo e rivelatore). Per cui l’allodola è divenuta anche un simbolo della cristianità, un’immagine della levitazione dei santi e della stessa ascensione di Cristo. È questo significato alto e religioso che la Travers ha inteso conferire alla sua Allodola? Forse. Proprio come Mary Poppins, la sua creatrice non dà mai spiegazioni e tiene “per sé i suoi pensieri”. Sappiamo però che la perfida Eufemia ha dato al povero uccellino il nome altisonante di Caruso e la tiene in gabbia con la maligna intenzione di godere del suo canto. L’Allodola è quindi la Bellezza imprigionata, l’Arte asservita. Resta da capire chi sia il suo aguzzino, il “Sacrosanto Spauracchio”. Un altro indizio potrebbe indicarci una soluzione. Quando la signorina Andrew si avvede che Caruso è stato liberato e ha preso il volo prorompe in una raffica stizzita di domande: “Perché? Dov’è? Quando? Che cosa? Chi? balbettò”. Si tratta delle convenzionali cinque domande su cui si basa, secondo una ben nota regola del giornalismo anglosassone, la stesura di un esauriente articolo di cronaca. Versione moderna delle “loci argumentorum” del mondo classico, le cinque domande delimiterebbero quindi l’ambito di una corretta esposizione oggettiva, sottraendola pertanto alla soggettività dell’opinione e della rappresentazione letteraria. Insomma, l’atto spregevole di ridurre in cattività l’uccello canterino può dirsi un’allegoria del mettere in gabbia le idee e le espressioni artistiche. Mary Poppins ribalta questa situazione, vendicando la crudele clausura dell’Allodola e anche la propria suscettibilità ferita (la Andrew ha osato mettere in discussione la sua competenza professionale l’ha perfino definita una “ragazza”). Mary Poppins fissò i suoi occhi sulla signorina Andrew e questa, improvvisamente, sotto il fascino di quello sguardo strano e profondo, cominciò a tremare sulle gambe. Emise un piccolo sospiro, vacillò in avanti e con terribile violenza urtò contro la gabbia. Era la signorina Andrew che diventava più piccola o la gabbia che si ingrandiva? Giovanna e Michele non potevano dirlo con sicurezza. Certo è che lo sportello della gabbia, con un piccolo clic, si richiuse sulla signorina Andrew. Anche la gabbia, nonostante la pesante zavorra del mascolino donnone dagli enormi piedi, si alza da terra. Lo spirito positivo, che avrebbe preteso d’essere saldamente ancorato alla realtà dei fatti, si dimostra volatile e incapace di evadere dalla trappola in cui è caduto. Non si tratta solo di una critica della superficialità del giornalismo, che la Travers d’altronde praticò esordendo giovanissima su “un noto quotidiano australiano”, come ha narrato in un suo racconto intitolato “Ah Wong”, nome del cuoco cinese della sua infanzia. Ma è anche un rifiuto di ogni pensiero dogmatico e a senso unico. Per capire questo punto cruciale della filosofia della Travers occorre esaminare l’episodio in cui Mary Poppins si reca, insieme ai piccoli Banks, a trovare il cugino Sotto, specialista in accomodamenti e riparazioni d’ogni genere. Arturo Sotto è un tipo piuttosto bizzarro, non tanto perché “per mestiere aggiustava le cose”, quanto perché il secondo lunedì di ogni mese è puntualmente soggetto a una serie di incontrollabili stramberie. Benché aggiusti tutto (eccetto le promesse rotte) il signor Sotto abita in una “piccola costruzione cadente”. Alla domestica che ha aperto la porta, una certa Tartina, Mary Poppins chiede se il cugino è in casa. La risposta è spiazzante: “Può essere e può non essere. Tutto dipende dal modo in cui voi lo guardate”. Il principio di non contraddizione sembrerebbe venire meno. lo stesso Arturo risponde dall’interno della sua stanza di essere “fuori”. Accade infatti che quel giorno è il Secondo Lunedì del mese e che quindi tutto vada all’incontrario. Per cui avendo egli desiderio di rimanere in casa, una forza misteriosa e invincibile lo ha sollevato da terra e sospeso in aria oltre la finestra. Gli incovenienti di tale situazione sono molteplici, come spiega lo sconsolato signor Sotto: Se cerco di salire, mi accade invece di scendere. Voglio voltare a destra ed ecco che volto a sinistra. E non mi dirigo mai a ponente senza trovarmi immediatamente a levante. Tutto ciò deriva da un disguido originario, dal fatto che la madre di Arturo desiderava una bambina e invece in un dispettoso secondo lunedì del mese partorì un maschietto: “Così andò tutto di traverso fin dal principio, dal giorno in cui nacqui”. Si spiega così lo scombussolamento mestruale (“tutto il mio essere subisce un’alterazione”) che mensilmente affligge e sconvolge il povero Sotto. Occorre però vedere il lato buono delle cose. Per esempio, prendere il tè a testa in giù si rivela un’esperienza inebriante che coinvolge e diverte tutti. La signorina Tartina, sconvolta e conquistata da tale “deliziosa sensazione”, arriva perfino all’entusiastica considerazione “che la sola maniera giusta di vivere è sottosopra”. In una quasi totale assenza di gravità tutti piroettano liberamente e felicemente nell’aria come palloni che rimbalzano (ritroveremo i palloni in un altro episodio). Solo il Postino, cioè ancora una volta l’ordine statuale, sopraggiunto a recapitare una lettera, trova che la situazione sia pazzesca e inaccettabile. Vorrebbe addirittura avvertire la Polizia o il Direttore Generale per far ristabilire l’ordine. Coinvolto da Tartina nella giocosa sarabanda, si sottrae e rimpiange la sua vita tranquilla e domestica; confuso e disorientato, ha una sfilza di domande angosciose da fare: Aiuto, aiuto! Dove sono? Chi sono? Cosa sono? Non mi ci raccapezzo più. Sono perduto. Tutti gli altri (eccetto ovviamente Mary Poppins) sembrano invece aver trovato delle risposte e avere finalmente compreso la propria identità. E tutta la città, così capovolta, assume ai loro occhi rovesciati per la prima volta un senso di intelligibile partecipazione. Il capitolo ha un happy end: scopriamo che la signorina Tartina ha un cognome fatidico: Sopra. Cosicché sarà naturale e necessario che il Sotto e il Sopra si uniscano in un perfetto matrimonio. Il sotto e il sopra sono opposti complementari che si integrano e completano a vicenda, come gli Yin e Yang dell’antica filosofia cinese. E sono il modo in cui la Travers afferma un principio di relatività e ambivalenza del reale. È la lezione che Michele apprende nientemeno che dal Sole, dopo lo spettacolo del circo celeste, dove Mary Poppins ha condotto, in forma di stella, i suoi protetti nella sua sera libera. Cosa è vero e cosa non lo è? Puoi dirmelo tu, oppure io a te? Forse non non sapremo mai più di questo: che credere una data cosa è renderla vera. Che sia il Sole (auro simbolo di verità) a esprimere questa visione del mondo e della vita non è casuale, perché essa rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana. La verità appare indecidibile senza il concorso della volontà. Cioè in qualche modo della forza inverante delle illusioni. Il teorema, per così definirlo, non vale soltanto per i massimi sistemi, ma anche per le piccole faccende quotidiane. I ragazzi scopriranno così, seguendo Mary Poppins che fa compere per conto della signora Banks, che il resto della spesa può o esserci o no (“Ce n’è e non ce n’è”), non tanto per una questione economica di parsimonia e oculatezza nell’uso del denaro, quanto invece per opzioni d’investimento, ancorché minimali. Scopriranno in particolare che i tragitti non sono obbligati (“Non c’è un modo soltanto di traversare il Parco, ce ne sono diversi”) e che grazie alla Donna dei Palloni si può spiccare un fantastico volo nel segno del proprio nome, come una agnizione. Questo volo battesimale prepara il pirotecnico finale del romanzo. Nel frattempo è tornata primavera. Tutto si rinnova nel ciclo eterno della natura. Mary Poppins ha portato a compimento le sue imprese ed ora si accinge a ripartire. Verso dove? Inutile chiederselo. Ciò che conta è vivere intensamente la propria vita, senza porsi superflui interrogativi, come spiega Mary Poppins a Michele: “Siamo alla vigilia di un’avventura. Non sciuparla con domande inutili!”. Così com’è venuta planando dall’alto, ora Mary Poppins se ne andrà volando verso l’alto. E attraverso un’altra metamorfosi. La giostra in cui ha preso posto, in groppa al cavallino Caramella, si innalza nel cielo, rotando vorticosamente come una specie di disco volante. Ancora una volta il Guardiano del Parco obietterà che ciò non è conforme al Regolamento e minaccerà di fare intervenire la Legge. La giostra è però destinata a divenire una nuova stella del firmamento. Cercandola e scrutandola col cannocchiale del marito, la signora Banks esclama: “Dov’è questa stella? Ah, eccola! Splendida la più lucente del cielo! Vorrei sapere da dove è venuta!”. Ennesima inutile questione di fronte all’imperscrutabile mistero che sovrasta la terra eternamente: per sempre, per sempre, per sempre! Riferimenti bibliografici Pamela Lyndon Travers Mary Poppins Ritorna, Milano, Rizzoli (BUR ragazzi) 2000, traduzione di Letizia Bompiani Arthur Conan Doyle, “Il suo ultimo saluto” in Le ultime avventure dell’infallibile Sherlock Holmes, p. 703, Milano, Arnoldo Mondadori, Omnibus Gialli 1977 traduzione di Maria Gallone Pamela Lyndon Travers, “Ah Wong” in Zia Sass, Palermo, Sellerio 2015, traduzione di Martina Testa di Marco Palazzotto Io so.* Io so i nomi di chi ha appoggiato in Italia lo sviluppo del neoliberismo. Io so i nomi di chi ha gestito il processo d’integrazione europea, e oggi è colpevole del disastro economico e sociale che colpisce milioni di famiglie in tutta Europa. Io so i nomi dei responsabili che oggi si trovano alla guida delle istituzioni economiche, finanziarie e politiche europee e che continuano a imporre le politiche di austerità a paesi martoriati da quasi dieci anni di crisi economica. Io so i nomi dei politici italiani, oggi anche nei partiti di governo, che da più di trent’anni attuano politiche volte allo smantellamento dei servizi sociali e delle leggi a tutela dei lavoratori. Io so i nomi di chi ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione, istituzionalizzando così un credo liberale che non trova riscontro nelle risultanze empiriche. Io so i nomi di chi nel 2008 ha votato in Italia la ratifica di un Trattato europeo, senza alcun dibattito pubblico. Io so che le politiche di destra attuate negli ultimi decenni (e adottate soprattutto dal cosiddetto centrosinistra), hanno dimostrato la loro inefficacia nelle dinamiche di sviluppo, di occupazione e di benessere sociale. Io so che politici, imprenditori, banchieri, economisti che hanno svolto un ruolo da protagonisti nella gestione della cosa pubblica nell’ultimo quarto di secolo sono responsabili della povertà e del sottosviluppo che mi circondano. Io so tutti questi nomi e tutti questi fatti: ed ho le prove. Le prove del fallimento delle politiche neoliberali sono sotto gli occhi di tutti. L’Italia è tra i paesi che in Europa ha applicato i maggiori tagli alla spesa pubblica, al netto degli interessi, a discapito dello sviluppo industriale e dei servizi sociali. Già dal divorzio tra Banca d’Italia e Ministero delle Finanze il nostro paese segue la dieta neoliberista, prima ancora che esistesse l’Euro. Inoltre l’Italia è anche il paese che più di tutti ha prodotto leggi volte ad abbassare le tutele nel mercato del lavoro. Ma non esiste correlazione tra precarietà e aumento dell’occupazione, come anche studi dell’OCSE hanno dimostrato (Brancaccio 2016).
Già negli anni Quaranta Michael Kalecki, economista polacco di idee socialiste, analizzò il fenomeno della disoccupazione in un saggio intitolato Aspetti politici della piena occupazione (1), evidenziando come le imprese si siano sempre opposte alle politiche governative volte alla piena occupazione (tranne in alcuni casi storici come quello della Germania prenazista). I riscontri empirici dimostrano che le politiche pubbliche dell’occupazione stimolano produzione e assunzioni, e quindi ne traggono vantaggio anche i capitalisti, non soltanto i lavoratori. Inoltre la politica governativa di spesa pubblica per la piena occupazione non intacca i profitti perché non richiede imposte aggiuntive, se si ricorre al finanziamento in deficit (2). Le ragioni dell’opposizione degli industriali alle politiche di piena occupazione mediante spesa pubblica sono, secondo lo studioso polacco, di tre tipi: a) avversione nei confronti dell’ingerenza pubblica nel problema dell’occupazione in quanto tale; b) avversione nei confronti dell’orientamento della spesa pubblica (investimenti pubblici e sussidi al consumo); c) avversione per i mutamenti sociali e politici derivanti dal mantenimento della piena occupazione. Per quanto riguarda il punto a), nel laissez faire il livello di occupazione dipende dallo stato di fiducia. Se questo si logora gli investimenti privati diminuiscono. Questo mette i capitalisti nella situazione di esercitare un controllo indiretto sulla politica del governo: tutto ciò che intacca lo stato di fiducia deve essere evitato. Se il governo spende aumentando l’occupazione, questo meccanismo si inceppa. Ecco perché i capitalisti parlano dell’importanza sociale della dottrina delle finanze sane, subordinando così il livello di occupazione allo stato di fiducia. b) Nel caso dell’intervento pubblico i capitalisti preferiscono i sussidi al consumo e alla disoccupazione rispetto gli investimenti pubblici, perché questi, per l’effetto di sostituzione nei settori strategici, sottraggono quote di investimenti ai privati. Mentre i sussidi sono semplicemente trasferimento di potere di acquisto che permette di acquistare merci prodotte dai capitalisti. c) Infine la piena occupazione non conviene perché darebbe maggiore peso politico alla classe lavoratrice, così che il licenziamento smetterebbe di avere la funzione sociale di misura disciplinare. È vero poi che i profitti sono maggiori con la piena occupazione di quanto non siano in regime di laissez faire, ma è anche vero che con l’aumento dei salari aumentano i prezzi e vengono perciò intaccati i profitti dei rentiers. Ad ogni modo disciplina nelle fabbriche e stabilità politica sono più apprezzati rispetto alla piena occupazione. Riportando queste analisi di Kalecki all’oggi notiamo, ad esempio, che a tre anni dall’emanazione delle ennesime leggi di modifica del mercato del lavoro, quelle del cosiddetto jobs act, abbiamo assistito ad un aumento del contratti a tempo indeterminato solo grazie agli incentivi all’assunzione con gli sgravi contributivi. Dopo la fine degli incentivi i contratti a tempo indeterminato sono calati sensibilmente. Di contro vi è stato l’aumento vertiginoso dei voucher, ovvero buoni-lavoro che, dietro la motivazione di far “emergere il nero”, in realtà servono a precarizzare e sfruttare maggiormente i lavoratori (Forges Davanzati 2016, qui un articolo recente). Il “ce lo chiede l’Europa” si traduce perciò nello smantellamento delle tutele sociali e lavorative, e nella distruzione dell’apparato industriale italiano, così che il capitalismo mitteleuropeo possa mantenere una posizione di supremazia verso le economie della periferia del vecchio continente. Abbiamo visto quali risultati sono stati ottenuti in Grecia dai diktat della Troika europea. Le evidenze contabili ci mostrano che quel modello di austerità espansiva, sostenuto anche da eminenti economisti italiani ( ad esempio Alesina e Giavazzi dalle colonne del ‘Corsera’) non ha funzionato. Allora perché insistere con una medicina che non funziona? Una risposta analoga a quella che ci offre Kalecki sopra, la troviamo anche in Lenin, che, criticando il pensiero di Kautsky, proprio 100 anni fa scriveva: è caratteristica dell'imperialismo appunto la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari, ma di metter mano anche su paesi fortemente industriali (…), giacché in primo luogo il fatto che la terra è già spartita costringe, quando è in corso una nuova spartizione, ad allungare le mani su paesi di qualsiasi genere, e, in secondo luogo, per l'imperialismo è caratteristica la gara di alcune grandi potenze in lotta per l'egemonia, cioè per la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto a indebolire l'avversario e a minare la sua egemonia (…) (3) (*) La struttura di questo articolo prende spunto, nella prima parte, dal famoso articolo di Pier Paolo Pasolini: Cos’è questo golpe? Io so pubblicato dal Corriere della Sera il 14 novembre 1974, un anno prima della scomparsa dell’autore. (1) M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica, Einaudi (1985) (2) Se il pieno impiego viene mantenuto con un aumento del debito pubblico, ciò non comporta, secondo Kalecki, alcun problema per la produzione e l’occupazione, “se gli interessi sul debito sono finanziati con una imposta patrimoniale annuale. Il reddito corrente, dopo il pagamento dell’imposta patrimoniale, sarà minore per alcuni capitalisti e maggiore per altri rispetto a quello che sarebbe stato se il debito pubblico non fosse stato incrementato, ma il loro reddito complessivo rimarrà uguale e il loro consumo aggregato probabilmente non varierà significativamente.” (3) Lenin, L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo (1916) https://www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/ |
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Gennaio 2021
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