BAIL-IN COI LUPI
25/1/2016
di Giovanni Di Benedetto
Si profila all’orizzonte una stagione particolarmente critica per il sistema finanziario del nostro paese. I crediti deteriorati del sistema bancario italiano ammontano - è noto a tutti - a più di 200 miliardi di euro e sarebbe ormai il caso di trovare una qualche soluzione per evitare, attraverso il sostegno dell’intervento pubblico, di precipitare il sistema italiano degli istituti di credito nella spirale devastante di un vero e proprio crollo finanziario. Sarebbe auspicabile la nazionalizzazione del sistema bancario; ma pare che le traiettorie che verranno seguite andranno da tutt’altra parte. Infatti si è a lungo parlato nelle scorse settimane di una bad bank, uno strumento societario che permetterebbe di “depurare” i bilanci bancari degli istituti in difficoltà dei propri asset tossici o anche di un fondo interbancario di salvaguardia dei depositi, ma da Bruxelles si è addirittura risposto paventando il rischio del ricorso ad aiuti di stato. Il problema è che le regole dell’Unione Bancaria Europea, contrariamente a quanto prescrive la Costituzione Italiana (art.47 sulla tutela prioritaria del risparmio), ammettono aiuti statali a tutela della stabilità e della difesa del risparmio solo in presenza di fallimenti di mercato tali da determinare rischi di crisi sistemica. Si evincono perciò, nelle more della disciplina imposta dalle regole comunitarie, le vere ragioni che presiedono all’attuale scontro tra il governo italiano e la Commissione europea. Perché non sembra che criteri di analoga rigidità siano stati applicati per evitare negli ultimi anni il crack delle banche tedesche (238 miliardi pari al 8% del Pil) e di quelle irlandesi, portoghesi, austriache e olandesi. In relazione a quei salvataggi realizzati con denaro pubblico si disse che era stata scongiurata l’eventualità che il naufragio di pochi istituti di credito determinasse un effetto domino dalla portata incalcolabile. Tuttavia, se al momento non è dato sapere quale evoluzione assumerà la contesa, alcune considerazioni si possono già avanzare. Innanzitutto sembra piuttosto facile trovare la conferma che la crisi che molti analisti consideravano alle nostre spalle è lungi dall’essersi esaurita. L’economia continua a boccheggiare e lo testimonia la stessa difficoltà nell’esigibilità, sempre più precaria, dei crediti. Le sofferenze bancarie sono in stretto rapporto con la crisi dell’industria, dell’immobiliare e del commercio. Il sistema economico italiano, del resto, è in una condizione di relativa stagnazione e proviene da una recessione che è stata più grave di quella del 1929. In un contesto nel quale emerge la centralità della finanza e della sua strettissima connessione con il sistema produttivo del paese è ovvio, allora, constatare una situazione di sofferenza dell’economia tutta. Ne L’imperialismo Lenin riconosceva che attraverso la restrizione o l’allargamento del credito, ma anche attraverso il controllo delle operazioni industriali e commerciali dell’intera società, il capitale finanziario gioca un ruolo che trascende l’originaria funzione di intermediazione nei pagamenti. Veniva riconosciuta così l’inestricabilità del nodo gordiano che lega produzione e finanza. Inoltre, le politiche economiche dell’UE fondate sull’austerità, e che hanno penalizzato soprattutto i paesi periferici dell’Europa, hanno contribuito a rendere i bilanci delle banche di questi paesi più fragili e hanno determinato la necessità di elaborare piani di ricapitalizzazione. Infatti a causa delle misure di contrazione dei bilanci pubblici è derivato un calo della produzione e da qui un deterioramento dei coefficienti patrimoniali delle banche di alcuni paesi europei. Tra questi l’Italia. È il nesso, colto da Hilferding già un secolo fa, tra accumulazione, crisi, solvibilità e circolazione monetaria, tutti elementi che configurano le condizioni di possibilità per la riproduzione del capitale finanziario. Dunque se il sistema bancario italiano è in crisi, e non è possibile alcun intervento statale, resta da fare, secondo le direttive dei poteri che sono stabilmente insediati sulla tolda di comando della UE, solo una cosa: applicare la direttiva sul bail-in, entrata in vigore da questo mese di Gennaio 2016, che prevede, in caso di crisi bancaria, che a riparare alle perdite debbano essere in prima istanza gli azionisti, gli obbligazionisti e anche i risparmiatori con più di 100.000 euro nei conti correnti. Nella storia del comparto bancario italiano sarebbe la prima volta che i guasti della finanza creativa non vengono riparati dai poteri pubblici, Tesoro e Banca d’Italia in testa. Insomma è concreto il rischio che i risparmiatori siano criminalizzati a causa del fallimento delle banche nelle quali hanno depositato i loro risparmi. Perché se è vero che le tendenze alla speculazione, all’opacità e alla dimensione predatoria vivono di una loro internità al sistema del capitale finanziario e alle sue articolazioni, è pur vero che i costi dei fallimenti sarebbero scaricati su una clientela a volte inconsapevole delle operazioni rischiose procurate magari da funzionari disonesti, manager mascalzoni e dirigenti cialtroni che spesso hanno occultato i reali rischi di certi investimenti finanziari. Ma non è tutto. Nella dinamica sistemica che lega produzione, circolazione e riproduzione interviene un ulteriore elemento a rendere più intellegibile la crisi che rischia di attanagliare, e soffocare definitivamente, le banche italiane. È fuor di dubbio, infatti, che l’applicazione del bail-in rischia di approfondire ulteriormente la tendenza già in atto verso la centralizzazione monopolistica del settore bancario. La regola che, come è stato scritto, prescrive ai creditori dell’istituto bancario di contribuire al risanamento delle perdite contribuirà a implementare al dinamica di flussi di capitale verso la centralizzazione, spingendo fuori dal mercato le banche meno solide e alimentando processi di fusione e acquisizione a tutto vantaggio dei capitali del nord Europa. In un recente intervento a Davos, nel corso del World Economic Forum, la vetrina dove periodicamente si confrontano, a tutela dei propri interessi, i poteri forti del capitalismo mondiale, il ministro dell’economia e delle finanze Pier Carlo Padoan ha parlato di una fase di transizione per le banche. Al riguardo, bisognerebbe chiedere al ministro della Repubblica a quale transizione pensa di riferirsi. Perché sembra che piuttosto che difendere il sistema creditizio nazionale, e con esso soprattutto correntisti e risparmiatori, il rischio davvero concreto è che si tratti di una transizione verso un’ulteriore perdita di sovranità, dopo quella con l’euro sulla moneta nazionale, quella sul credito e sul risparmio. Una transizione che renderà ancora più subalterna la Repubblica di fronte agli interessi asimmetrici dei paesi forti dell’UE, a partire innanzitutto dalle sempre più smaccate ambizioni egemoniche della Germania e del suo sistema bancario.
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COM'È PROFONDO IL SUD
12/1/2016
di Marco Palazzotto 12 gennaio 2016 Lo scorso 21 dicembre ha fatto molto discutere – come succede ogni anno – la classifica stilata da Il Sole 24 Ore sulla qualità di vita nelle province italiane (qui il riferimento). Come sempre il sud ne esce con le ossa rotte. Regolarmente a Natale si levano i cori del qualunquismo italiota, tra quelli che: “quanto fa schifo il sud”, “la palla al piede del sud”, “l’inefficienza, il clientelismo e la mafia”. Ci sono poi i più vittimisti - di solito i meridionali che si reputano maggiormente evoluti rispetto al resto dei loro conterranei (insomma, gli elettori dei partiti al governo) - : “peccato perché nel sud c’è il sole e i beni culturali….se solo si valorizzasse il turismo”; “i politici meridionali sono tutti corrotti…andate in galera”; “la colpa è della spesa clientelare”; “togliamo lo statuto autonomo alla Sicilia”; “il debito pubblico è il problema da risolvere”. Insomma i luoghi comuni la fanno da padrone. Peccato che i giornali e telegiornali guardino il dito e non la luna (in realtà ci sono interessi da difendere e consenso da creare attorno a spauracchi che tolgono responsabilità proprio alle classi sociali che hanno creato il problema). Sarà perché sono diffidente e avvezzo al pregiudizio, soprattutto nei confronti dei quotidiani di proprietà privata (a maggior ragione se di una sola categoria sociale, qual è quella degli industriali, concentrati soprattutto nel nord del paese), che sono andato a cercare altre fonti che analizzino, oggi, la situazione economica del nostro paese regione per regione. Già in questo articolo avevo parlato di questione meridionale. Una recente intervista di Emiliano Brancaccio (qui il riferimento), sempre molto attento alle dinamiche del mezzogiorno, mi ha condotto all’ultimo studio della Banca d’Italia sulle economie regionali, pubblicato appena lo scorso 3 dicembre (qui lo studio in pdf). Questo scritto è foriero di una serie di riflessioni. Le prime che mi vengono in mente fanno riferimento al ruolo degli operatori privati e delle istituzioni pubbliche, attivi rispettivamente in ambito industriale e di politica economica, che in teoria dovrebbero indirizzare lo sviluppo dell’Italia verso una diminuzione del divario ormai secolare tra i “due paesi dentro un paese”. Infatti, supponendo la veridicità di molti luoghi comuni sul divario Nord-Sud, risulta lapalissiano che i governi succedutisi durante l’ultimo trentennio non hanno messo in atto alcuno strumento di politica economica tendente ad alleviare lo squilibrio in argomento. Lo stesso vale per il settore privato, compresi i proprietari del quotidiano di cui in premessa. Guardate ad esempio gli indicatori di investimento per aree regionali (pag. 10 dello studio di BdI): Gli imprenditori potrebbero ribattere che gli investimenti devono essere stimolati da fattori che permettano di remunerare il capitale investito in aree molto svantaggiate, come quella del sud e isole. Analizziamo allora come si è comportato il governo italiano per ridurre i divari e stimolare consumi e investimenti di famiglie e imprese del (e nel) meridione. La figura 1.3.1 di pag. 16 dello studio di Bankitalia dimostra che il famoso bonus 80 € è stato maggiormente utilizzato nelle aree del centro nord in quanto più popolate da forza lavoro occupata con contratto di lavoro subordinato. L’andamento della spesa primaria nel periodo 2009-2013 (pag. 22) dimostra che il meridione ha contribuito maggiormente al risanamento dei conti pubblici voluto dalle istituzioni europee nell’ambito della politica di austerity che ci ha coinvolti dallo scoppio della crisi del 2008. A causa della diminuzione di risorse pubbliche destinate al sud, soprattutto da parte delle amministrazioni centrali, si è creato un effetto paradossale, per cui il reddito delle famiglie del sud subisce una incidenza del prelievo fiscale maggiore rispetto al reddito delle famiglie del centro nord (pag. 28-29). Dalla distribuzione delle risorse dei programmi operativi 2014-2020, i famosi PON e POR, sembra di assistere a una controtendenza, con una destinazione di circa 23.500 mln di € su un totale di 31.119 verso le regioni meno sviluppate e quelle chiamate di “transizione” (pag. 67). Ovviamente stiamo parlando di fondi europei per i quali vige un iter burocratico molto complesso (dal cofinanziamento degli enti locali e regionali, alla difficoltà di reperimento di progetti) che spesso - come è successo nelle regioni del sud per la programmazione 2007-2013 – ha costretto gli enti gestori alla restituzione di buona parte delle somme erogate.
Lo studio della Banca d’Italia, insieme all’ultimo rapporto Svimez, non fa che dimostrare l’indifferenza della classe dirigente italiana nei confronti del processo inarrestabile che Brancaccio - riprendendo l’Augusto Graziani di ieri e il Paul Krugman di oggi - ha chiamato “mezzogiornificazione”, riguardante le aree periferiche del continente (e a maggior ragione il nostro Mezzogiorno storicamente definito). Questo modello fortemente asimmetrico, con un centro-nord più industrializzato e sviluppato ed un sud al quale applicare politiche pro-cicliche (l’austerità in recessione) continua a mortificare e peggiorare la situazione delle aree del sud come ha ampiamente dimostrato il caso italiano post-unitario e il caso greco in Europa. di Pavlov Dogg 7 gennaio 2016
Sharknado 3 regia di Anthony C. Ferrante Se l’ideologia dominante opera su almeno 3 livelli differenti, con le relative modalità; e se – procedendo dal più ovvio al più nascosto – possiamo definirli Livello Goebbels (dai Diari del gerarca nazista, citati da Goffredo Fofi nel film Sbatti il Mostro in Prima Pagina) che funziona “per semplice ripetizione”; Livello Orwell (dal romanzo 1984) in cui si manipola il linguaggio, e ad esempio “Guerra” diventa “Missione di Pace”; e infine Livello Althusser (dall’omonimo filosofo francese) che riguarda ciò che si dà per scontato, di cui “non c’è bisogno di parlare”: se tutto questo non è completamente inverosimile, è anche legittimo immaginare che certi film ultracommerciali, magari orrorifici ma spensieratamente tali, abbiano poco a che vedere con il livello Orwell (che è il più creativo), parecchio a che fare con il livello Goebbels, e moltissimo con il livello Althusser, quello più vicino all’inconscio collettivo e alle paure che vi albergano. È questo il caso di Sharknado 3, terzo episodio di una saga che – essendo già in preparazione per il 2016 Sharknado 4 – viaggia all’impressionante media di un film all’anno: da fare impallidire – quanto a produttività, anche se non quanto a effetti speciali – i 7 in 38 anni delle guerre stellari alla cui visione siamo stati appena, tristemente, precettati dal Regime. Il film (come tutta la serie) è stato definito con le 4 “F” che nel titolo ho fatto seguire dal punto interrogativo: vediamo allora se le ha meritate davvero. 1) Fesso? Chiamalo fesso! Le entrate di The Asylum – lo studio californiano che ha prodotto questa serie di film per la TV – sono in costante ascesa e hanno superato da tempo i 20 milioni di dollari annui, con un margine di profitto del 15%. Sharknado ha straripato nei social media, è diventato fenomeno di costume e ha pure resuscitato l’etica cormaniana dei bassi costi di produzione (2 milioni di dollari di budget, contro i 200 del Risveglio della Forza). 2) Fetente? Certo, se proprio ci teniamo alla “recensione” “obiettiva” del “prodotto” cinematografico, allora il film è chiaramente monnezzaro i dialoghi non sono di Mankiewicz la regia non è di Hitchcock e non vi recitano Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Solo che definirlo “fetecchia” e “cagata” – come hanno fatto diversi critici e blogger – significa giocare nella stessa squadra dei produttori, che con tutte le loro forze hanno attivamente ricercato proprio questa nomea. E David Hasseloff (l’ex-stella di Baywatch), che fa la parte del padre del protagonista, ha dichiarato tutto contento che Sharknado 3 è “il peggior film di sempre” e che proprio per questo prenderà parte anche al n.4, che “sarà ancora peggio”. E resta il fatto che sia Sharknado 2 che 3 (il primo non l’ho visto) sono film mozzafiato, senza un secondo di tregua (perlomeno nella prima metà: un certo appesantimento nel finale va riconosciuto). Laddove di fetecchie lente e non coinvolgenti la storia del cinema è piena. 3) Forcaiolo ? Be’, forcaiolo è forcaiolo. Il punto del film è proprio questo. All’inizio del n. 3, il Presidente degli Stati Uniti d’America vorrebbe ancora “proteggere gli squali” (ho già detto che questi film trattano di tornado e trombe d’acqua che scaraventano migliaia di squali su varie città americane, a turno? e della “quotidianizzazione” dell’orrore che ne consegue, nonché della Guerra al Terrore degli Squali intrapresa – contro le titubanze dei soliti panciafichisti – da un manipolo di eroi? ecco, ora l’ho detto), i loro diritti costituzionali, in pratica, ma quando i pescioloni gli piombano sulla Casa Bianca (che poi finirà distrutta) si trasforma a tempo di record in un implacabile cacciatore, diventa tutt’uno con il fucile che imbraccia. Di fronte ad un attacco così devastante, bisogna rinunziare a tutti i paletti dell’ordine costituito, se vogliamo che la sostanza di quell’ordine (con l’American Way of Life al suo centro) sopravviva. Se la Statua della Libertà finisce decapitata (come nel film n.2) allora si possono pure sacrificare alla causa i ritratti di Washington e Lincoln alle pareti della sede presidenziale, e così accade nel n. 3. 4) Fascista ? se questo non dev’essere il solito insulto generico, proferito per pronto accomodo, bisogna verificare la presenza di almeno 3 caratteristiche: A) una mobilitazione reazionaria di massa; B) un attacco evidente ai diritti dei lavoratori; C) lo scatenamento di una teppaglia violenta che possa svolgere il “lavoro sporco” al posto delle autorità. Vediamo un po’. In merito ad A) non ci sono dubbi. Saltano tutte le garanzie e la mobilitazione va dagli anchormen della Daytime TV agli inevitabili tassisti, dai ragazzini ai veterani (il già citato Hasseloff, Bo Derek), con una preminenza da manuale di elementi borghesi declassati: gli attori protagonisti Ian Ziering (Fin) e Tara Reid (April) erano diventati celebri, rispettivamente, attraverso il telefilm Beverly Hills e la serie cinematografica American Pie, per poi finire abbastanza nel dimenticatoio. Se l’aspetto B) non è immediatamente lampante, a motivo dell’attuale debolezza e scarsa visibilità del lavoro organizzato negli USA, sbagliarsi è però impossibile: lo stressato giostraio dell’Universal Orlando Resort, poco client-friendly nel non mettersi all’inseguimento della figlia di Fin per renderle il cellulare, a tempo debito verrà esemplarmente punito dagli squali; mentre la povera impiegata dell’autonoleggio, colpevole di lamentarsi dell’ennesima requisizione “emergenziale”, viene decapitata dai pescecani non appena ha finito di pronunziare le parole: “ma così perderò il mio lavoro!”. Tutti i salariati che si mettono di traverso o obiettano qualcosa rispetto alla guerra totale vengono, nel film, abbattuti senza pietà; laddove a sopravvivere sono le figure auto-imprenditoriali, che non danno mai nulla (regole, diritti, orari eccetera) per scontato, per acquisito. La caratteristica C) parrebbe assente (Fin è un brav’uomo e peraltro è nato in pieno establishment, col padre generalone) eppure… eppure, nella scena iniziale, quella del ricevimento presidenziale, il nostro eroe viene insignito dell’Ordine della Motosega, appositamente creato per lui. Con la motosega ha sconfitto gli squali nei primi due film e della motosega d’oro che gli viene adesso consegnata dovrà far uso di lì a pochi secondi, allorché gli squali piombano su Washington. Solo che, nel cinema americano, la motosega è tradizionalmente arma d’elezione di assassini cannibali (come in Non aprite quella porta di Tobe Hooper, del 1974, il cui titolo originale è per l’appunto The Texas Chain Saw Massacre), efferati gangster (in Scarface di Brian de Palma, del 1983) e, in generale, di sociopatici assortiti: se in La casa 2 di Sam Raimi (1987) viene adoperata dall’eroe del film, ciò avviene in una situazione estrema e contro soverchianti forze nemiche. Che in un film USA si possa oggi istituire l’onorificenza di cui sopra indica che qualcosa è cambiato: c’è un rimescolamento dei simboli in cui la sineddoche dei peggio psico-criminali viene sdoganata al servizio della Causa. La mente corre alle recenti vicende in Ucraina. A,B e C indicano dunque che l’inconscio, ma forse è meglio dire il semi-conscio, di Sharknado 3 è effettivamente fascista. Il che non dice ovviamente alcunché in merito alle qualità spettacolari che il film possiede o non possiede, e non inficia il suo valore di semplice (e che “semplice”, lo sappiamo, non è mai) divertimento. Una cosa è sicura: non mancheranno gli appassionati del pensiero apocalittico pronti ad esaltarsi per la caduta – per l’appunto – di tutte le regole, l’abbattimento di tutti i simboli della “normalità” americana, il ritorno dichiarato al Far West della massima deregulation, interpretati come doloroso crocevia verso un Mondo Nuovo e Più Libero. A me pare invece che questi cacciatori di squali americani abbiano letto e assimilato il Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. P.S.: bellissima la colonna sonora, specie l’overture pseudo-Ramones. E grazie ad Alex e Ruggio per avermi attirato nel ciclone. |
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Febbraio 2019
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