“ANNORBÒ TOTÒ”
19/6/2017
di Marcello Benfante
La fine della carriera teatrale di Totò, il principe della risata, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, è tristemente legata a Palermo. Fu nel capoluogo siciliano, infatti, che il grande attore calcò per l’ultima volta il palcoscenico. Il canto del cigno avvenne al teatro Politeama nel maggio del 1957, come ci racconta con dovizia di particolari Giuseppe Bagnati nel suo libro Totò, l’ultimo sipario (Nuova Ipsa, pagine 130, euro 12), e fu determinato dal repentino e drammatico aggravarsi dei problemi alla vista di cui da tempo Totò soffriva. Calarono le tenebre, dunque, insieme al sipario. E oscuro fu anche il modo in cui avvenne questa eclissi. Nel senso che non tutto è spiegabile in termini di mera evoluzione patologica. C’è qualcosa in questo tragico epilogo che sembra sfuggire a un esame razionale e attingere a una dimensione più profonda, forse mitica, forse inconscia. Assente dal teatro dal 1949 e ormai divenuto prevalentemente una star cinematografica, Totò tornò sui palcoscenici alla fine del 1956 con la rivista A prescindere di Nelli e Mangini. Da sette anni dunque Totò disertava quel contatto diretto e vivo con gli spettatori che a suo dire lo entusiasmava e appassionava creando una sorta di osmosi e di totale identificazione: “Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro a teatro sono eccitato, inebriato. Il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico: si diventa una cosa sola col pubblico”. Ma sebbene agognato, il ritorno sui palcoscenici non nasceva sotto una buona stella. Il rodaggio non fu privo di inconvenienti, di screzi e revisioni. Probabilmente era a scopo scaramantico che Mario Casalbore, nel testo del programma di scena, insisteva sulle virtù magico-cabalistiche del numero sette, fino a lasciarsi sfuggire un apocalittico ed enigmatico “sette e non più sette?” che suonava come una specie di funesta profezia. A conferma di questi presagi di malaugurio, a Milano venne a diffondersi chissà come e perché la voce che Totò fosse morto. All’attore, dopo i prevedibili scongiuri di rito, toccò pertanto convocare una conferenza stampa per smentire la propria dipartita. La tournée purtroppo fu caratterizzata da un progressivo indebolimento della vista che afflisse Totò nel mese di aprile prima a Genova, poi a Sanremo, quindi a Firenze. Totò confessò alla compagna Franca Faldini: “Strano, vedo ballare le pareti e i tavoli, oscillano come se fossi sbronzo, eppure non ho bevuto niente”. Mestiere e talento arginarono comunque gli inconvenienti. La compagnia giunse al porto di Palermo, a bordo della motonave Calabria, il 3 maggio del 1957. Nelle previsioni A prescindere doveva andare in scena per cinque recite, a cui si sarebbe aggiunta una serata d’addio in onore di Totò. Al suo arrivo, Totò, accompagnato dalla figlia Liliana, dichiarò alla stampa che era molto lieto di tornare a Palermo, dove già si era esibito nel 1922 in Eravamo sette sorelle, anche per ragioni personali: “Io sono mezzo di Napoli e mezzo palermitano, perché mia madre era una palermitana”. La madre, Anna Clemente, detta Nannina, era infatti nata a Palermo nel 1881 e giovanissima si era trasferita a Napoli con la famiglia. Qui aveva intrapreso una relazione clandestina ma tutt’altro che segreta con il marchese Giuseppe De Curtis, rimanendo incinta e dando alla luce, a soli diciassette anni, un figlio, che all’anagrafe veniva registrato come Antonio Vincenzo Stefano. In una fotografia di Gigi Petyx apparsa su L’Ora del 4 maggio si scorge Totò che scende (forse con una certa impacciata titubanza) la scaletta della nave. Più lesta, davanti a lui, Franca Faldini, con foulard al capo e occhiali neri. La didascalia si sofferma ovviamente sulle origini palermitane di Anna Clemente. La prima rappresentazione di A prescindere al Politeama è un successo. Peraltro scontato. Ignazio Mormino scrive sul Giornale di Sicilia che il pubblico ha mostrato tutto il suo affetto per il grande comico, il quale a sua volta “si è commosso”. La sua recensione sprizza entusiasmo. Ma forse Mormino ha intuito o colto qualcosa: “Totò non recita, inventa. Il copione gli serve e non gli serve; il copione sono i suoi occhi, le sue mani, i suoi passi, i suoi silenzi e quel mento mobilissimo”. Oltre la maschera, il critico si è accorto che il formidabile istrione improvvisa, va a braccio, abbandona la parola del copione per riscriverla col linguaggio del corpo. Ciò che Mormino non può sapere è che quegli occhi così mobili esprimono ormai uno sguardo quasi cieco. Ne ha invece un’intuizione Liliana De Curtis: “Mi accorsi che qualcosa non andava in camerino”. Totò, davanti allo specchio, si trucca con gesti lenti e malsicuri. Si trucca a memoria, ripetendo un rito consueto. Ma dopo lo sketch di Napoleone, l’attore rientra affranto. Franca Faldini lo sorregge. Tra le lacrime Totò ripete: “Sono cieco, non vedo più”. In sala, tuttavia, nessuno si è reso conto della disgrazia. Totò ha accelerato i tempi, imprimendo un ritmo parossistico alla sua mimica. Tutti sono infervorati da questa scatenata performance burattinesca. Tra il pubblico euforico c’è anche il giovane Lando Buzzanca, che di quello show pirotecnico ha ricordato un’improvvisa stasi di Totò: “probabilmente è stato il momento che non vedeva più”. Pur nella quasi completa cecità, Totò non rinuncia nemmeno alla passerella al trotto dei bersaglieri. Se l’è cavata con la perizia del teatrante consumato. Tuttavia le successive repliche del 4 maggio lo trovano barcollante e brancolante. Il pubblico comincia a rendersi conto del suo dramma. Il 6 maggio Totò si reca allo studio del professor Giuseppe Cascio, oculista rinomato e cattedratico all’Università di Palermo. Accusa un acuto dolore agli occhi. Alle prime domande del medico Totò risponde sussurrando alcune frasi in modo riservato per non farsi sentire dalle persone che lo hanno accompagnato (Franca Faldini, la figlia Liliana, il dottore Giovanni Di Marco, che lo ha visitato in albergo, a Villa Igiea, una soubrette della rivista). Tuttavia, quando il professor Cascio gli chiede di specificare di quali disturbi soffra, Totò si produce in una battuta piuttosto sfrontata: “Veda professore, dall’ombelico in giù la situazione è normale, anzi non potrebbe andare meglio: sei d’accordo Franca o dico bugie? Viceversa è dall’ombelico in su che la salute degli occhi mi dà qualche preoccupazione”. Fuori tono e fuori luogo, la boutade a sfondo sessuale è stranamente approssimativa e ridondante. Che cosa può mai significare la salute degli occhi dall’ombelico in su? Esistono forse occhi dall’ombelico in giù? E in questo visconte dimezzato, quale delle due metà è la paterna e quale la materna? Ovvero, quale la napoletana e quale la palermitana? Naturalmente, può darsi che la frase sia stata riferita in modo inesatto. O che si sia trattato di una specie di lapsus. La facezia comunque è solo un tentativo di mascherare una profonda disperazione. Totò scoppia in lacrime e invoca la madre. Nella città natale della madre, tutta la sciagurata faccenda avviene e si compie proprio sotto il segno della madre. È difficile allora sottrarsi alla tentazione di leggere il caso clinico, per così dire, in una chiave edipica. Soprattutto considerando il fortissimo sentimento che legava Totò alla madre – alla quale dedicò versi dolcissimi: “Tengo na ’nnammurata / ca è tutt’ ’a vita mia” (“A cchiù sincera”) – e i rapporti invece complessi e tormentati con il padre (che riconobbe il figlio naturale soltanto nel 1928, a trent’anni dalla nascita). In un certo senso, questa interpretazione para-freudiana trova una conferma, ancorché tutta congetturale e simbolica, in una dichiarazione di Liliana De Curtis riguardo alla nonna Nannina: “Un giorno mi disse: ‘Sai, Liliana, essere nata a Palermo mi dà qualcosa in più’. E credo che sia stato un segno del destino che l’ultima recita di papà a teatro sia stata proprio a Palermo”. Un segno del destino. Del Fato. Una ineffabile verità che rimanda alla tragedia greca. Ma ovviamente la parziale cecità che colpì Totò nel 1957 non fu né una punizione volontaria, come nell’Edipo di Sofocle, né la rivelazione tout court di un complesso inconscio. Ebbe però probabilmente anche un aspetto psicosomatico. La diagnosi del professor Cascio, sostanzialmente confermata da tutti i successivi referti medici, si esprime in questi termini: “coroidite essudativa in atto, prevalentemente posteriore, V. max 2/10 faticosamente cercati e non migliorabile, pregressa corio retinite disseminata. Visus spento”. Quindi una deficienza oggettiva e particolarmente grave. All’indomani della visita, gli strilloni urlano per strada “Annurbò Totò”. Più precisi i resoconti dei giornali. “L’Ora” titola in prima pagina l’8 maggio: “Totò quasi cieco scioglie a Palermo la compagnia”. Ne scaturirono lunghe e penose beghe giudiziarie. Al di là degli aspetti legali, gli sviluppi del caso appaiono degni nota per la prodigiosa capacità di Totò di continuare la propria carriera cinematografica anche se quasi del tutto privato della vista. Totò spiegherà così a Lello Bersani, nel corso di un’intervista, tali sue operative e momentanee guarigioni: “Sul set cambia tutto. Appena batte il ciak, ci vedo benissimo. È un fatto nervoso, lo hanno spiegato i medici, un fenomeno. Sul set faccio tutto: salto, mi arrampico…”. Anche Federico Fellini descrive nel suo libro Fare un film queste inspiegabili metamorfosi e reviviscenze ottiche. E racconta che a Cinecittà vede giungere Totò accompagnato e guidato dall’attore napoletano Donzelli. Inforca un paio di occhiali neri e ha le tipiche movenze dei ciechi, il loro disarmato sorriso. Non scorge nulla, non riconosce il regista, ha bisogno di riferimenti acustici per orientarsi. Ma ecco che si gira la scena: “Motore! Ciak! E solo a questo punto Totò si toglie gli occhiali ed è il miracolo. Il miracolo di Totò che improvvisamente ci vede, vede le cose, le persone, i segni di gesso che limitano i suoi percorsi, non due occhi ma cento che vedono tutto, perfettamente”. Una cecità nevrotica, dunque? Una enigmatica fenomenologia edipica? Chissà. Nel nostro paradigma indiziario possiamo solo aggiungere che, nel copione di A prescindere, una canzone omonima (di Nelli, Mangini, Paone e Totò) allude proprio a un “dolcissimo segreto” mai rivelato, “che abbacina, che allucina”, potremmo dire che acceca. E a una Sfinge che “interpellata rimase tramortita” per poi affidare il responso allo stesso Totò.
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