Scritto da Giovanni Di Benedetto
È sorprendente registrare l’amnesia, forse sarebbe meglio dire la rimozione, che aleggia sulla figura e l’opera intellettuale di Piero Sraffa. Eppure la sua personalità e la sua figura di economista ed intellettuale sono fuori dal comune, certamente tra le più significative di tutto il Novecento. A fare da guida nel tentativo di riscoprire, alla luce dei problemi della contemporaneità, l’opera di Sraffa, può essere utile tornare ad accostarsi ad un libro che circa trent’anni fa tracciava una ricognizione ed un bilancio complessivi del suo magistero. Si tratta di un testo, oggi quasi introvabile, uscito per Franco Angeli nel 1986, curato da Riccardo Bellofiore e intitolato Sraffa tra teoria economica e cultura europea. È un testo che raccoglie le relazioni tenute ad un convegno sulla figura dello studioso tenuto a Torino ad opera dell’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali intitolato a Antonio Gramsci. Nato a Torino alla fine dell’Ottocento, per l’esattezza il 5 agosto 1898, Sraffa entra ben presto a contatto con alcuni dei più importanti protagonisti della cultura europea, non solo economica, novecentesca, da Luigi Einaudi a John Maynard Keynes, da Ludwig Wittigenstein a Joan Robinson. Per non tacere della sua amicizia con Antonio Gramsci di cui diventa il più importante sostegno durante la carcerazione facendo da tramite tra lui e il Partito comunista. Tutta la sua avventura intellettuale appare segnata dalla necessità di operare una rottura radicale con la teoria economica dominante, dalla sua tesi di laurea discussa con Luigi Einaudi, allora ordinario di scienze delle finanze, su L’inflazione monetaria in Italia prima e durante la guerra, ai primi contributi sulla crisi bancaria che gli attirarono le minacciose rimostranze mussoliniane. Fin da subito lo stile di Sraffa si caratterizza per il rigore consequenziale, la fredda sobrietà, l’assenza della pur minima ostentazione del proprio spessore culturale. Da qui alla critica della teoria marshalliana dell’equilibrio dell’impresa e dell’industria il passo sarà breve. Marshall aveva sottratto alla problematica della teoria classica del valore il costo di produzione e lo aveva riferito al fattore psicologico della disutilità. In un articolo pubblicato nel 1925 sugli Annali di economia, Sraffa attacca questa costruzione teorica che rinvia, nella determinazione dei prezzi, al livello d’equilibrio che si instaura tra domanda e offerta. Nella logica del marginalismo è la relazione fra preferenze dei soggetti economici e scarsità delle risorse a determinare i prezzi di ogni singola merce, secondo il libero gioco della domanda e dell’offerta. Secondo l’approccio di Sraffa, viceversa, vi sono difficoltà e contraddizioni insuperabili che rimandano alla pretesa di definire i costi come funzione della quantità prodotta attraverso un’unica legge dei rendimenti non proporzionali. Sraffa dimostra che Marshall ha elaborato una teoria parziale che, in regime di perfetta concorrenzialità, è valida esclusivamente per rendimenti costanti ma non per rendimenti crescenti o decrescenti. Nel ‘32 Sraffa recensisce un libro di von Hayek, Prices and Production e anche qui torna l’esigenza di mettere in discussione i fondamenti del marginalismo, in particolare la scuola austriaca. L’obiettivo è quello di evidenziare la distanza incolmabile che separa il Trattato sulla moneta di Keynes dalla teoria della moneta e del ciclo di Hayek, quasi a scongiurare prima del tempo il tentativo posteriore di inglobare il keynesismo all’interno della cosiddetta sintesi neoclassica. Ma è con il lavoro prestato per l’edizione critica delle opere di Ricardo che Sraffa opera l’affondo più pesante nei confronti del pensiero economico mainstream: si tratta di liberare Ricardo dalla visione che ne fa il marginalismo per riproporre, per suo tramite, la maggiore validità e consonanza con i problemi della realtà dell’approccio degli economisti classici, approccio poi ulteriormente sviluppato da Marx. Non è cosa di poco conto, se è vero che il lavoro sugli scritti di Ricardo comincia nel 1930 e procede per quasi tre decenni. Commissionatogli dalla Royal Economic Society, il lavoro di raffinata indagine filologica con cui Sraffa disseziona l’intera opera di Ricardo non è fine a se stesso ma ha il compito di mostrare la superiorità dell’economia classica: a differenza del modello neoclassico che illustra la sfera dell’economia come un sistema armonico, una via a senso unico tra la produzione e il consumo, il modello dell’economia politica classica descrive il sistema economico come se si trattasse di un organismo che, come direbbe Ruffolo, cresce su se stesso, grazie non alla forza esogena dei bisogni ma a quella endogena della ricerca del profitto. Da qui la centralità della nozione di sovrappiù e dell’antagonismo tra le classi sociali per la distribuzione della ricchezza. Saranno proprio questi i temi da cui, implicitamente, prende le mosse il capolavoro del 1960, Produzione di merci a mezzo di merci. In questo smilzo testo di appena un centinaio di pagine, ma al quale sembra che il nostro abbia lavorato per più di trent’anni, Sraffa abbandona la teoria del valore – lavoro quale fondamento di una teoria del prezzo e, di conseguenza, rinuncia a collegare la determinazione del salario con la nozione di sfruttamento e quella del profitto con la nozione di plusvalore. Dalla pubblicazione del libro si originerà un vasto e inconcluso dibattito che toccherà temi diversi e riguarderà interpretazioni disparate: dalla offensiva nei confronti del marginalismo alla messa in discussone delle capacità autoregolanti del mercato, dalla riattualizzazione dell’economia politica classica, ai legami con Marx e Keynes. Al riguardo, le posizioni emerse dalle relazioni del convegno e raccolte nel volume esprimono una ricca e articolata varietà di punti di vista. Qui vale la pena accennare, per la storia importante che hanno rivestito all’interno del dibattito sul rapporto tra Sraffa e l’economia politica classica, a quelle di Pierangelo Garegnani e di Claudio Napoleoni. Nel caso di Garegnani si sostiene che Produzione di merci a mezzo di merci avrebbe avuto il merito di riprendere e perfezionare l’opera degli economisti classici e di Marx per dimostrare la validità dell’impostazione fondata sullo sfruttamento derivante dalla mancata appropriazione del plusprodotto da parte dei lavoratori. Dunque slegare la determinazione dei prezzi dal contesto concreto delle relazioni sociali non vuol dire disconoscere l’esistenza di rapporti di forza tra le due classi fondamentali, imprenditori e lavoratori. Al contrario, secondo Napoleoni, il contributo di Sraffa avrebbe prodotto una definizione del sovrappiù socialmente muta e teoricamente neutra, visto che Produzione di merci a mezzo di merci sarebbe stata compatibile tanto con la teoria neoclassica quanto con la marxiana. Come si vede, posizioni fra loro anche duramente contrapposte, ma che evocano un dibattito intenso e proficuo, ricco di stimoli e contributi. Un dibattito di cui purtroppo oggi, nelle riflessioni della teoria economica dominante sulla crisi, sembra non restare traccia. Tuttavia, che Sraffa abbia dato molto all’Italia, che, come scrive Riccardo Faucci, uno degli autori delle relazioni contenute nel libro, il suo prestigio si sia riverberato sul suo paese d’origine è indubbio. Resta da chiedersi, piuttosto, quanto il nostro paese e la nostra società abbiano ricevuto e quanto possano ricevere ancora oggi dagli economisti che rappresentano la teoria dominante, che continuano dopo quasi dieci anni di recessione a propinare le loro ricette a base di austerità e deregulation e che fingono di misconoscere le conclusioni della critica sraffiana al processo economico.
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Gennaio 2021
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