MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
10/7/2015
Scritto da Giovanni Di Benedetto 10 luglio 2015
Belligerent ghouls Run Manchester schools Spineless swines Cemented minds Sir leads the troops Jealous of youth Same old suit since 1962 He does the military two-step Down the nape of my neck I want to go home The Smiths – The Headmaster Ritual Il progetto renziano della “buona” scuola è legge. In questi giorni si sono consumati gli ultimi passaggi di una vicenda drammatica e grottesca al tempo stesso. Dopo la fiducia al Senato, il ddl, in un unico articolo, è tornato in seconda lettura a Montecitorio. Quello che era stato sbandierato, nell’estate agostana dello scorso anno, come un grande momento di partecipazione democratica, si è tramutato farsescamente nel suo contrario e, seppur di fronte ad un inedito movimento di opinione pubblica palesemente contrario alla proposta dell’esecutivo, il governo ha operato secondo criteri tutt’altro che democratici e rispettosi del dettato costituzionale. Non so se è ancora il caso di entrare nel merito dei singoli passaggi del dispositivo legislativo approvato alla Camera. L’acutezza di molte analisi e la copiosità delle controproposte rende vana qualsiasi ulteriore aggiunta. Può essere più interessante provare a collocare il provvedimento sulla cosiddetta “buona” scuola all’interno di un quadro politico nazionale (e internazionale) caratterizzato da una crisi politico-istituzionale ed economica, nel nostro Paese, sempre più profonda e irreparabile. Proverò ad andare per flash: alcune settimane fa, sull’Huffington Post, Gianni Rossi osservava come fosse drammaticamente dilacerato il tessuto democratico del paese, denunciando la voragine sempre più profonda che separa il mondo del disagio sociale dal mondo barricato nei palazzi della politica. Da qui, oramai, l’esistenza, in Italia, di un’unica forma di opposizione presente sulla scena politica elettorale, quella del “Popolo dell’astensione”. Che l’astensionismo l’abbia fatto da padrone, lo dimostra il dato generale delle ultime consultazioni elettorali (ha votato il 53,90% dei cittadini rispetto al 64,13% del 2010), omogeneo in tutte le regioni. Scrive ancora Gianni Rossi: “i numeri del disagio sociale sono implacabili, la disoccupazione è oltre il 13%, quella giovanile ha raggiunto il picco storico del 43%, mentre nell’area Euro questi due indici sono rispettivamente all’11,3% e al 22,7%. Sono ben oltre 6 milioni i disoccupati, comprendendo i 3,2 milioni (ultima Relazione annuale Bankitalia), cioè quelli “espulsi” dal lavoro e coloro che lo cercano, insieme ai circa 3,7 milioni di Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), ovvero giovani tra i 15 e i 34 anni, che secondo gli ultimi dati Istat sono fuori da scuole secondarie o università, non hanno un impiego né lo cercano e non sono impegnati in attività assimilabili (stage o lavori domestici). Da tutti questi fattori nasce l’odierno astensionismo disperato, che coinvolge classi sociali una volta anche economicamente forti (ceto medio produttivo, artigiani, commercianti e piccoli imprenditori), cui si aggiungono gli altri strati tradizionalmente colpiti dalle crisi, come operai, pensionati, donne e abitanti del Mezzogiorno”. La crisi di profittabilità e di accumulazione si riverbera sui livelli più bassi della società: disoccupazione, povertà, precarietà. Aumentano le disuguaglianze sociali e le disparità salariali mentre, come riconosce lo stesso presidente dell’Inps Tito Boeri, il reddito del 10% più povero della popolazione si è ridotto del 30%. È naturale che di fronte alla crisi vi sia una crescita del malcontento e delle proteste. È proprio da qui che si deve partire per indagare le risposte offerte dalle classi dirigenti che hanno formulato il progetto sulla “buona” scuola. Innanzitutto, una progressiva e sempre più evidente restrizione degli spazi di democrazia. Ripeto, l’astensionismo alle recenti elezioni regionali ne è soltanto l’ultimo esempio. Diventa addirittura secondario stabilire chi ha vinto e chi ha perso. Come sempre, nel nostro paese, ognuno trova ragioni per evidenziare aspetti del proprio presunto successo. Ma il vero campanello d’allarme è costituito dalla imponente diserzione dalle urne che fa il paio con l’esercizio di forme di autoritarismo populistico di cui Renzi è soltanto l’ultimo epigono. A fronte di un disagio che può potenzialmente trovare espressione in forme di opposizione politica ampie e sempre più organizzate, l’establishment restringe gli spazi, per quanto angusti, della democrazia rappresentativa e del controllo partecipato. In questo quadro, la “buona” scuola gioca un ruolo strategico e riveste una centralità risolutiva visto che la posta in gioco è la “formazione” di teste ben fatte, per dirla con Morin, ossia di cittadini dotati di pensiero critico e di autonomia culturale piuttosto che di soggetti passivi e omologati agli indirizzi del potere. In questo senso la scuola di Renzi ricorda fin troppo bene la “scuola fascista” del Ventennio, per come ce l’hanno illustrata qualche anno fa in un magistrale libriccino recante questo titolo, i due autori, Gianluca Gabrielli e Davide Montino. Dall’altro lato, la crisi offre l’occasione per ricercare nuovi ambiti di “intrapresa” a partire dai quali esercitare la ricerca del profitto: l’istruzione, come l’acqua o la gestione del ciclo dei rifiuti, rientra in questo ambito. Il disegno è chiaro: solo diminuendo l’efficacia, l’incisività e la forza dell’istruzione pubblica può decollare l’affare delle scuole private. L’operazione di immiserimento della prima è condizione sine qua non della seconda. Del resto, nel mondo occidentale gli esempi non mancano: distruggere la scuola pubblica negli Usa è stato l’obiettivo di chi ha voluto sistematicamente ostacolare obiettivi di promozione sociale e di integrazione etnica e culturale. In un articolo-inchiesta di “Aeon”, magazine online britannico, nell’Aprile di quest’anno lo scrittore Dwight Watkins racconta la violenza e il degrado delle scuole medie pubbliche di Baltimora e scrive: “nel 2015 a Baltimora chiuderanno altre scuole a causa della proposta di Larry Hogan, il governatore repubblicano del Maryland, di ridurre di 35 milioni di dollari le spese per le scuole pubbliche della città. Ma il problema non riguarda solo Baltimora. A Filadelfia ci sono scuole che ospitano fino a cinquanta studenti per classe e sono piene di topi. Spesso sento qualcuno lamentarsi che le nostre scuole sono in rovina. Ma è proprio così? Le nostre scuole sono in rovina oppure il sistema funziona esattamente come vorrebbero le persone che lo hanno creato?” Watkins infine si chiede: “se le scuole sembrano prigioni e le prigioni sembrano scuole, ci comporteremo come studenti o come detenuti?” Il problema è che nonostante la propaganda sulla “buona” scuola, ossia su una presunta scuola di qualità, sembra che il sistema vada in tutt’altra direzione. E non si tratta soltanto degli effetti devastanti sui docenti, con conseguenze nefaste sul reclutamento e sulla retribuzione, e sulle scuole, con prevedibili ripercussioni sul sistema di finanziamento e di scelta da parte degli studenti. Più in generale, è il retroterra culturale che prepara il campo all’intervento della “buona” scuola che occorre continuare, nonostante tutto, a mettere radicalmente in discussione. È la visione del mondo improntata sulla necessità di valorizzare il capitale umano, imperniata sul bisogno di rendere la scuola produttiva, efficiente e competitiva, insomma centrata sull’idea rozza e superficiale che il funzionamento di un’azienda privata, comandato da un esasperato efficientismo, e quello che presiede ai sofisticati e complessi meccanismi della costruzione e della trasmissione del sapere siano la stessa cosa. Tutto ha una logica: la “buona” scuola risponde al fine di organizzare la subordinazione della società al mercato, ossia ad uno spazio, quello dell’economia, nel quale tutto viene ridotto a merce. Tuttavia, occorre continuare a resistere e tentare di lavorare all’elaborazione, nelle scuole, di una cultura della ricerca pedagogica fondata sulla collegialità, su meccanismi di partecipazione democratica che rendano tutti i docenti protagonisti della costruzione dei percorsi didattici nei quali i meno attrezzati e preparati possano essere coinvolti in un proficuo scambio di idee, proposte e soluzioni, in vista di una società fondata su criteri altri, magari relativi alla centralità del soggetto e della sua identità in perenne mutamento e ricomposizione. Mi piace chiudere queste riflessioni ricordando Michel Serres, che esortava a resistere non solo alle droghe narcotiche, ma soprattutto alla chimica sociale, di gran lunga la più forte e dunque la peggiore. Resistete, resistiamo ancora, ai media, ai modi conformisti che dicono sempre la stessa cosa e, come il flusso dell’influenza, tutti discendono insieme la china generale.
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