LE TESSERE IDEOLOGICHE DEL DOMIN(I)O
13/1/2021
di Vincenzo Scalia
Il dibattito sull’egemonia neoliberista si è sviluppato, in molti casi, attorno alla formula di pensiero unico, per riferirsi sia alla mancanza di alternative intellettuali e progettuali al capitalismo, sia alle conseguenze quasi dittatoriali di un dominio incontrastato. D’altra parte, i paesi che ancora si proclamano comunisti, a partire dalla stessa Cina, sono pienamente integrati all’interno dell’economia capitalista globale, e non ipotizzano minimamente lo studio o la proposta di modelli sociali o economici alternativi. Ma come e perché ha vinto il neoliberismo? Cosa sarebbe il pensiero unico? Marco D’Eramo, nel suo ultimo lavoro, Dominio, edito da Feltrinelli, cerca di colmare queste lacune, compiendo un poderoso lavoro di ricostruzione della trama di potere dispiegata dal capitalismo post-fordista a partire dalla crisi del 1973, ma divenuta più evidente dal 1989 in poi. Innanzitutto, ci spiega D’Eramo, dobbiamo intenderci sulla natura dell’egemonia neoliberista. Non abbiamo a che fare con un potere, bensì con un dominio. La differenza si rivela cruciale ai fini della comprensione delle dinamiche socio-economiche attuali. Il potere infatti, rappresenta una risorsa relazionale, diffusa all’interno del corpo sociale, che dà vita a forme diverse di negoziazione e permette di creare spazi di resistenza. Per esempio, le strutture familiari o religiose, le rappresentazioni culturali, permettono di creare spazi di reciprocità e solidarietà che spesso hanno arginato le conseguenze negative della modernizzazione capitalista. Il dominio invece si connota come una supremazia assoluta, che cancella ogni possibilità di mediazione e obbliga gli attori a lui soggetti di adeguarsi alle sue direttive. Nel caso del dominio neoliberista, un esempio lampante lo fornisce la Grecia. Lo stato ellenico è stato costretto a smantellare i servizi pubblici e a rifiutare i prestiti russi e cinesi, su imposizione della troika. Questo sarebbe da aspettarselo, pur nella sua tragicità. Quello che non ci si aspetta, invece, è che la troika abbia obbligato il governo greco ad uniformare la forma e il peso delle pagnotte, allo scopo di favorire l’acquisto di pane precotto fabbricato dai benefattori internazionali! Un esempio apparentemente marginale, ma che mostra come l’egemonia neoliberista faccia proprio l’obiettivo di livellare tutte le differenze, sia per allargare il mercato mondiale, sia per scoraggiare ogni difformità che potrebbe portare al formarsi di distinzioni più articolate. Eppure il capitalismo aveva svolto una funzione progressiva, modernizzatrice, come affermato dallo stesso Marx. Come è possibile che i suoi presupposti fondativi si siano rovesciati in una tirannia globale? D’Eramo nota che si tratta di un approccio radicalmente differente dal liberalismo classico. In primo luogo, i liberali ottocenteschi, abbinavano la libertà di impresa e di commercio al consolidamento delle libertà politiche. Da Ricardo a Cavour, da Tocqueville a Hamilton, tutti i padri della tradizione liberale hanno tenuto ferma la barra sulle libertà civili. Il neoliberismo si è invece fondato sul divorzio dalla politica. Non a caso, il primo paese ad applicare le ricette dei Chicago Boys, fucina del pensiero neoliberale, è stato il Cile di Pinochet, che è poi stato imitato da tutti i satrapi latinoamericani. Ancora meno è casuale che le autocrazie orientali, vale a dire Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, sotto la coltre della bandiera rossa mobilitino al lavoro masse sottopagate e represse. La libertà passa in secondo piano rispetto alle esigenze della produzione e della circolazione di merci e beni finanziari. In secondo luogo, i Chicago Boys, a partire dal loro padre intellettuale Milton Friedman, hanno operato una vera e propria rivoluzione antropologica. Laddove il primo liberalismo collocava l’utilitarismo nella sfera produttiva e distributiva, lasciando ampio spazio alla morale e alla religione, il neoliberalismo estende il calcolo di costi e benefici a tutte le sfere dell’esistenza. Così l’amore di una madre per il figlio è ispirato dalla gratificazione individuale, così come la fede religiosa è legata al beneficio di una vita futura. Se ogni individuo è un essere razionale che agisce per un proprio tornaconto, allora è corretto dire che ognuno di noi è un’impresa, dotato di un proprio capitale umano, intellettuale e materiale, che deve investire sul mercato per massimizzare i benefici che può trarne. Da qui a trasformare le USL in ASL, ovvero in aziende, a chiamare i lavoratori “risorse umane”, il passo è breve. I lavoratori cessano di essere operai e sfruttati, per diventare dei professionisti che forniscono una prestazione che i datori di lavoro (non più padroni), pagano in proporzione al capitale umano e intellettuale che i primi mettono a disposizione. Il conflitto di classe, secondo questa trasformazione, non esiste più, in quanto siamo tutti gli imprenditori di noi stessi. Servizi essenziali come istruzione, sanità, difesa e incolumità personale, diventano beni da mettere sul mercato in nome della libertà dei consumatori, che lo stato coarterebbe. La libertà di impresa e di consumo, ci spiega l’autore, è proprio l’argomento alla radice del neoliberismo. Tutto nasce, infatti, da un gruppo di imprenditori del Midwest, che negli anni 50, per opporsi alla crescente espansione della sfera pubblica da cui si sentivano penalizzati, in termini di regolamentazione delle norme ambientali, della sicurezza sul lavoro, dei prelievi fiscali, utilizzarono una scappatoia introdotta dall’amministrazione Roosevelt. FDR negli anni trenta aveva varato un provvedimento che garantiva forti detrazioni fiscali a tutti i cittadini ad alta capacità contributiva che destinavano parte dei loro introiti alla creazione di fondazioni benefiche. I miliardari del Midwest sfruttarono questa clausola per fondare centri studi che elaborassero strategie di uscita dal welfare state e mettessero l’iniziativa privata al centro della società. I campioni del pensiero liberale più in vista come Friederich Von Hayek, Karl Popper e Milton Friedman accettarono di tenere lezioni e conferenze, promuovere ricerche, editare pubblicazioni che cantassero le lodi dell’iniziativa privata e biasimassero lo stato che la penalizzava e la tartassava. Ancora oggi, attraverso questo escamotage, è possibile per i miliardari yankee sottrarre ingenti quantità di risorse all’erario, privando così i loro concittadini di disporre di un welfare state all’altezza del loro fabbisogno, per alimentare i think tank che promuovono una società fondata naturalmente sulle disuguaglianze. Ci troviamo di fronte, dice D’Eramo, ad una battaglia delle idee, che ha portato il neoliberalismo a diventare il parametro di valutazione dei rapporti sociali, operando una vera e propria traslazione ideologica all’interno della società, cosicché i primi a considerare naturali le disuguaglianze, lo sfruttamento e l’oppressione sono proprio i gruppi sociali e gli individui che dovrebbero contrastarli. Si tratta di ideologia in senso althusseriano, ovvero di rapporto immediato con le proprie condizioni di esistenza, che preclude la possibilità di andare al di sotto della superficie. Oppure, per dirla con Bourdieu, di violenza simbolica, ovvero quella coartazione che non viene percepita come tale in quanto considerata manifestazione naturale dei rapporti umani. È proprio questa naturalità posticcia, sostiene l’autore, che dobbiamo rovesciare, sia demistificandone la portata, sia elaborando un paradigma nuovo. Solo che le idee si fondano sulle forze sociali che le promuovono, nonché sulla capacità di diffonderle. Insomma, facendo politica. Quello che non si sa più fare.
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LUCIO COLLETTI:UN MARXISTA CONTROCORRENTE
25/12/2020
Nel 2021, che sta per arrivare, commemoreremo il filosofo italiano Lucio Colletti a 20 anni dalla sua scomparsa. Molti lo ricorderanno, probabilmente, per la sua esperienza politica in parlamento con Forza Italia. Ma Lucio Colletti è stato soprattutto uno dei più importanti teorici marxisti del ‘900. Allievo di Galvano Della Volpe, è stato per anni attivo nel PCI, poi allontanandosi dallo stesso partito. Nel 1968 fu pubblicato un testo teorico molto importante a firma del Nostro, intitolato Bernstein e il marxismo della seconda internazionale, come introduzione allo scritto Socialismo e socialdemocrazia (il saggio è apparso anche nella raccolta Ideologia e società, edito da Laterza la cui edizione del 1969 sarà la principale fonte bibliografica di questo articolo). La critica è ovviamente rivolta all’impianto teorico che ha influenzato tutto il pensiero marxista del ‘900, soprattutto in URSS e in molti partiti comunisti occidentali condizionati dal socialismo reale.
I bersagli principali, oltre a Bernstein, sono Kautsky e Plechanov. Gli argomenti trattati sono diversi: teoria del crollo, teoria dello Stato rappresentativo, teoria del valore, concetto di scienza, ecc. Tratteremo in questo articolo alcuni temi che riteniamo importanti, non solo per capire il pensiero di Colletti, ma per riportare attenzione su un metodo che ormai ci sembra scomparso dall’accademia e dalla politica. Sulla teoria del crollo Marx nel paragrafo del Capitale intitolato Tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, prevede una tendenza alla centralizzazione dei capitali, ovvero il frutto della concorrenza coercitiva tra capitalisti che fanno fuori i più piccoli. Marx rileva una contraddizione: da un lato si sviluppa la forma cooperativa del processo lavorativo, dall’altro con la diminuzione del numero dei magnati del capitale cresce la miseria e l’asservimento, lo sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia. Questa contraddizione scoppia perché diventano, i due corni, incompatibili con l’involucro del capitalismo. Bernstein rifiuta questa concezione e cerca di smontare ciò che probabilmente viene considerata la previsione più verificata di Marx, ovvero la concentrazione e centralizzazione dei capitali. La prova che Bernstein respinge tutto questo sta nel suo impegno a dimostrare che esiste una capacità del capitalismo ad autoregolarsi. I cartelli, il credito, il miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, sono tutti elementi che rendono eterno il sistema capitalistico. All’idea del socialismo quale sistema che ha condizioni e radici obiettive che si trovano nel processo stesso della produzione capitalistica, Bernstein contrappone il socialismo come ideale etico, meta che l’umanità sceglierà come avvenire per conformarsi agli ideali di morale e di giustizia. Colletti rileva una comunanza tra Bernstein e gli altri marxisti, soprattutto Plechanov, nella formulazione del concetto di economia, o meglio nel concetto di rapporti sociali di produzione. Secondo questi autori la produzione sociale è tecnica della produzione e l’economia ha come oggetto la tecnologia. Questa economia è quindi tecnica materiale nel vero senso della parola, una concezione tecnologica come concezione materialistica della storia, che sappiamo poi ha influenzato tutto il marxismo cosiddetto ortodosso molto legato all’esperienza sovietica. Colletti quindi rileva che in comune tra Bernstein e gli altri marxisti come Plechanov, c’è questa separazione tra produzione e società che vengono entrambi ridotti in un'unica tendenza che è il cambiamento della tecnica produttiva che influisce le istituzioni sociali. Essi, ancora, rilevano una separazione di due rapporti quello tra uomo e natura e quello tra uomo e uomo. Senza mediazione interumana però, scrive Colletti (pag. 89) non ci può essere lavoro e attività produttiva. In Lavoro salariato e capitale Marx scrive: “Nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e cambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e le loro azioni sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali”. Secondo la concezione dei teorici della Seconda Internazionale l’uomo rappresenta solo un anello della concatenazione materiale oggettiva, il cui agire è guidato da una forza superiore e trascendente che per Plechanov è “la Materia” (ma potrebbe mutatis mutandis essere anche l’Assoluto di Hegel). Il Marx della produzione di rapporti umani e insieme di cose è qui ignorato, con il risultato di avere una ingenua metafisica, filosofia della Provvidenza. Questa Materia di Plechanov ha una accezione teleologica, una forza che muove verso una meta i popoli come le classi sociali che ci stanno dentro. La storia, cioè l’analisi delle formazioni storico-sociali, scompare per lasciare il posto alla materia primigenia. Colletti continua affermando che qui prende forma un Hegel ‘formato popolare’ al posto di Marx. La teoria del pensiero fa a meno dell’uomo e torna ad essere un Assoluto come identità originaria di pensiero ed essere (pag. 96). Colletti continua il discorso sull’approccio “ingenuamente mistico e metafisico” del marxismo ortodosso o della seconda internazionale. Al pari di Plechanov, anche Bernstein muove da un concetto naturalistico di economia, economia come un istinto o forza naturale. Però a differenza di Plechanov, per Bernstein la società dell’avvenire non è il risultato di uno sviluppo oggettivo, ma una “méta ideale” che il genere umano si pone liberamente. Anche per Kautsky esiste un ideale morale di cui neanche la lotta di classe può farne a meno (pag. 98). Colletti continua soffermandosi sulla contrapposizione tra giudizi di fatto e di valore, e quindi sul rapporto tra scienza ed ideologia. Qui il filosofo romano sembra abbracciare alcune affermazioni di Hilferding e soprattutto di Myrdal. Secondo il primo è errato identificare il marxismo con il socialismo. Infatti il marxismo, visto come sistema scientifico, è solo una teoria delle leggi del divenire della società (pag. 100). Riconoscere la validità del marxismo non significa formulare valutazione. Il marxismo della Seconda Internazionale è diviso, dice Colletti, tra scientismo positivistico e neokantismo. Il primo cerca l’oggettivismo deterministico non riesce a vedere il momento ideologico, il programma politico rivoluzionario. D’altra parte l’ideologia si ripropone come mondo della libertà etica accanto al mondo della necessità naturale. Senza idea però non esiste osservazione in quanto la teoria, nell’osservare la realtà, deve essere elaborata e diventare idea nello scienziato. “I fenomeni vengono ad assumere un loro significato solo se sono accertati e organicamente inseriti in uno schema teorico. Bisogna porsi le domande prima che possano essere ottenute le risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse per il mondo, sono in ultima analisi valutazioni.” Scrive l’economista svedese Myrdal (citazione di Colletti, pag. 101). Ciò è quello che aveva detto anche Kant: “quando Galilei fece rotolare le sue sfere… e Torricelli…ecc. e Stahl….ecc., essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che …deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini” (Kant, Critica della ragion pura, citazione di Colletti a pag. 102). Ciò che sembra allora semplice osservazione è deduzione, oggettivazione delle nostre idee, cioè proiezione sul mondo delle nostre valutazioni e nostri preconcetti. Quindi i giudizi di valore nella scienza per Colletti sono fondamentali ma solo se il loro significato è rimesso alla prova storico-pratica, deve cioè reggere la confutazione dell’esperimento. Questo è il nesso tra scienza e politica, conoscenza-trasformazione del mondo, operata da Marx. Tale compresenza di scienza e ideologia, interpretazione criticata da Bernstein, è in realtà ciò che rende originale ed elemento di forza il pensiero di Marx. Riprendiamo il concetto di “economia” accennato, da un altro punto di vista, sopra. Si capisce come l’interpretazione della Seconda Internazionale sia povera riguardo alla teoria del valore, che viene ridotta alla sola interpretazione ricardiana. Si manifesta un’incapacità di comprendere come la teoria del valore di Marx senza la teoria del feticismo sia incompleta. È vero che l’economia politica classica è riuscita ad analizzare il valore e la grandezza di valore scoprendone anche il contenuto nascosto, ma non ha mai scoperto perché quel contenuto prendesse una determinata forma. Il contenuto nascosto è il lavoro umano, anche se il valore si presenta come valore di cose. Il limite principale sta nel fatto che non ci si chiede perché il lavoro si presenta come valore di cose. Marx scrive che l’economia classica non è stata capace di vedere che: “la forma valore del prodotto di lavoro è la forma più astratta ma anche più generale del modo borghese di produzione “(pag. 104) L’analisi della grandezza di lavoro, ovvero del rapporto di scambio, valore di scambio, ha occupato tutta l’analisi di Smith e Ricardo, dice Marx. Laddove non ci si è occupato dall’importanza decisiva che assume l’analisi del feticismo o alienazione o reificazione cioè: “processo per cui, mentre il lavoro soggettivo umano sociale si presenta nella forma di una qualità intrinseca delle cose stesse, queste ultime a loro volta – risultando dotate di qualità soggettive o sociali proprie – appaiono per così dire personificate e animate, quasi fossero soggetti autonomi” (pag. 105) Il carattere sociale del lavoro privato si presenta come proprietà di cose alla rovescia. Questa interpretazione di Colletti sul feticismo sembra limitarsi però al solo ‘Carattere di Feticcio’ di cui parla Marx nel famoso primo capitolo del Capitale Manca una distinzione tra Carattere di Feticcio e Feticismo. Il capitale, come il valore e il denaro, è dotato di poteri sociali. Tali poteri non sono illusori, lontani dalla realtà, bensì “apparenti”, ovvero rappresentano manifestazioni fenomeniche delle cose come sono nella loro determinatezza storica specificatamente capitalistica e in questo senso si può dire che il capitale rivesta carattere di feticcio. L’illusione che determina invece il Feticismo coincide con la naturalizzazione di questi poteri sociali, come se appartenessero alle cose in quanto cose. Da queste considerazioni nasce la famosa affermazione di Marx per cui le relazioni tra persone appaiono come relazioni tra cose: che è proprio ciò che di fatto si verifica. Riprendendo il discorso, Colletti considera importante per spiegare la teoria del valore di Marx il concetto di lavoro astratto o lavoro umano eguale. Se si fa astrazione dai materiali utilizzati durante l’attività lavorativa, ciò che rimane in generale, comune a tutti i lavori è il dispendio di forza lavorativa umana. Questo lavoro umano comune, anche se qualitativamente diverso (esempio il sarto e il falegname), lavoro indistinto riguardo alla forma del dispendio, è il lavoro che produce valore (pag. 106). Colletti aggiunge che questo lavoro astratto è un’astrazione come “generalizzazione mentale” dei molteplici lavori utili e concreti (p. 107). Essendo una generalizzazione mentale, Bernstein afferma che ci sia distanza con la realtà. Per il pensatore tedesco proprio perché frutto della mente, questa analisi serve a dare sistematicità alla teoria, ma è privo di esistenza reale. Di conseguenza anche il plusvalore diventa una pura formula di pensiero. Quest’entità diventa solo un elemento scolastico-teleologico partorita da una logica difettosa, come rileva criticamente anche Bohm-Bawerk. Il filosofo italiano però difende la ”astrazione mentale” chiarendo che questa non nasce nella mente del ricercatore, ma invece si compie ogni giorno nella realtà dello scambio. Scrive Marx nel Capitale a riguardo: “gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’un con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno” (pag. 113 di Ideologia e società) Questa realtà in cui le forze lavorative sono eguagliate le une con le altre perché prese astrattamente e separate dagli individui in carne ed ossa a cui invece appartengono, diventa una realtà alienata, in quanto queste forze separate diventano forze a sé a prescindere dagli individui. Ciò ci porta ad un’altra conclusione che il lavoro astratto così intenso è lavoro alienato, cioè estraniato o separato dall’uomo stesso. (pag. 114) Così sembra che il soggetto reale non sia l’uomo che eroga la forza lavorativa, bensì la forza lavorativa stessa e dell’uomo non rimane che una concessione di veicolo o mezzo che manifesta questa forza. I soggetti reali diventano quindi determinazioni di queste determinazioni cioè di forza lavoro così “entificata”. Il tempo di lavoro è quindi tutto, l’uomo è niente tutt’al più carcassa del tempo. In conclusione il lavoro astratto non è solo una generalizzazione mentale ma è attività reale essa stessa, che non è appropriazione del mondo naturale oggettivo, ma espropriazione della soggettività umana (pag. 117), ovvero separazione di capacità lavorativa dall’uomo stesso. Colletti in questo modo vuole rilavare non solo che teoria del feticismo e dell’alienazione contraddistinguono la teoria del valore di Marx rispetto al canone classico dell’economia politica, ma che le prime costituiscono anche un nuovo punto di vista per permettere a Marx di spiegare nascita e destino di economia politica come scienza (pag. 119). Quindi il compito dell’economia politica come scienza consiste per Marx nella “de-feticizzazione” del mondo delle merci ovvero scoprire che ciò che si presenta come valore di cose in realtà non è una proprietà delle cose stessa, ma lavoro umano reificato. SINDACATI MODERNI?
2/12/2020
di Marco Palazzotto
Pubblichiamo, in forma di articolo, un intervento dell'autore all’assemblea nazionale dell’area programmatica di sinistra sindacale CGIL: Democrazia e Lavoro. La conferenza si è tenuta nei giorni 27 e 28 novembre scorsi. Qui il link ai video degli interventi https://www.facebook.com/Democrazia-e-Lavoro-CGIL-716876725014804/videos ) Nell’affrontare la crisi economica e finanziaria provocata dal blocco pandemico, finora ha prevalso la logica del garantire liquidità al sistema, un intervento pubblico che non ha come scopo quello di una presenza diretta nell’economia attraverso l’uso della spesa pubblica. Occorrerebbe un cambio di paradigma. La ripresa a “V” che tutti sperano, o a “U” come qualcun altro paventa, o peggio a “L”, lascerebbe immutato il sistema attuale. Probabilmente cambieranno alcune forme di lavoro, alcuni settori andranno ridimensionandosi, mentre altri ne rinasceranno (ad esempio il settore sanitario, della cura, della logistica, dei servizi educativi, ecc.). Tutti settori che comunque necessitano di un’alta intensità di lavoro: altro che tendenza alla fine del lavoro grazie alle rivoluzioni tecnologiche. Una cosa che fa riflettere in queste settimane è l’uso politico di questa crisi. Si noterà che la narrazione principale è la stessa che andava in voga durante la guerra (spesso abbiamo visto che molti paragonano lo stato pandemico alla guerra). Le istituzioni ci dicono che esiste un nemico esterno, il virus. Prima erano i tedeschi, o i russi o gli americani, e così via, e pertanto per combatterlo dobbiamo stare uniti e accettare lo stato di emergenza, non lamentarci dei decreti emergenziali, del lockdown eccetera. Il problema che preoccupa maggiormente è che la ripresa avverrà in un contesto di crisi sociale tale che saremo costretti, come ormai da più di 40 anni, ad ingoiare le politiche neoliberiste, perché dobbiamo sconfiggere il nemico esterno (il virus, la crisi, ecc.). Ricordiamo però che durante la guerra l’immagine del nemico esterno è parte integrante del modo in cui gli stati capitalistici fanno valere l'interesse di classe dominante come un interesse generale. In guerra la difesa della nazione è sempre copertura di ragioni sistemiche della guerra stessa e della sua natura imperialistica (Michele Nobile, 2020). Qui è corretto parlare di intervento dello Stato: ma il fatto è che il neoliberismo non è per principio contrario all'intervento statale, tutt’altro. Vedi il disavanzo pubblico da record di Ronald Reagan. Lo fece Obama durante la crisi del 2007, lo faremo anche noi. Il problema è il controllo sociale sul sistema produttivo e il suo finanziamento. Il soggetto sociale che lo gestisce. Negli ultimi trent’anni la CGIL ha modificato la sua cultura. Dopo la cancellazione delle componenti partitiche interne ha anche modificato la propria ideologia e ha un po’ seguito le trasformazioni culturali che avvenivano anche nella politica nazionale ed europea. È stata messa da parte l’analisi di classe, sostituita da un’analisi dei soggetti produttivi. Le imprese e i lavoratori sono stati messi quasi sullo stesso piano in quanto soggetti fondamentali per lo sviluppo economico ed umano. Il profitto, quale forma monetaria del plusvalore, si è trasformato in remunerazione del capitale investito e ha raggiunto una legittimazione etica: l’imprenditore che si comporta bene con i lavoratori produce profitti “buoni”. In sintesi la CGIL si è trasformata, pur avendo alle spalle decenni di lotte e di pensiero anticapitalistico, in soggetto politico che difende i lavoratori in un capitalismo che può essere buono. Ci si è ridotti, per tornare al presente, ad abbandonare le lotte e l’ideologia operaia per fare proposte di politica economica compatibili con il sistema produttivo attuale. È evidente l’approccio economicistico e statalistico. La crisi pandemica comporta si anche una certa critica del neoliberismo senza freni, ma in effetti imporrebbe una radicalizzazione della critica del presente e in particolare una critica radicale dell'economia politica che ci viene propinata - ancora dopo 2 secoli - come scienza esatta alla quale dobbiamo adeguarci acriticamente, come se il capitalismo fosse un sistema produttivo naturale e perenne. Quindi va bene se chiediamo più intervento dello Stato, più welfare, più lavoro, meno precarietà e disoccupazione, ma dobbiamo però essere capaci di creare quella coscienza secondo la quale senza legame con il soggetto sociale lavoro non andiamo da nessuna parte. Ecco perché dobbiamo mettere al centro il lavoro non come “diritto”, come fattore produttivo destinatario di concessioni da parte di chi mantiene i mezzi di produzione, ma come soggetto politico promotore di una trasformazione che prenda il controllo sulla moneta e sulla produzione attraverso lo Stato, uno Stato dei lavoratori e non delle classi sfruttatrici. Occorre spostare quindi l’attenzione dal rapporto ricco-povero a quello capitale-lavoro. Il capitalismo si evolve sempre anche attraverso il perfezionamento della tecnica produttiva: ciò significa che la parte di lavoro necessario al mantenimento del lavoratore sarà sempre più piccola. Con ciò la parte del prodotto sociale che andrà al lavoratore è sempre minore. Contro il calo del salario relativo (ne discute Rosa Luxemburg ad esempio in Introduzione all’economia politica, 1925) i lavoratori non possono far nulla, perché non possono far nulla contro il progresso tecnico. L’azione sindacale per aumentare i salari è quindi importante ma non risolutiva. Per combattere la caduta del salario relativo occorre combattere contro il carattere di merce della forza-lavoro. Ma Rosa Luxemburg evidenzia anche che l’azione sindacale è importante per evitare che la forza-lavoro venga pagata al di sotto del suo valore. Il sindacato quindi gioca un ruolo organico ma indispensabile nel sistema salariale capitalistico. Occorre, in conclusione, che il sindacato torni ad essere antagonista e non compatibilista, che ritorni alla lotta, abbandonando il ruolo di “consigliere del Principe”, che si faccia promotore si di un’azione volta a difendere il valore necessario della prestazione lavorativa, ma tenendo presente il carattere di merce del lavoro che scaturisce da un rapporto di sfruttamento impari tra classi in conflitto. Abbiamo intervistato Francesco Saraceno* stimolati dalla lettura del suo ultimo lavoro: La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela (Luiss University Press, 2020) - qui la scheda del libro nel sito dell’editore.
Una delle tesi fondamentali del testo è che, riprendendo la teoria delle Aree Valutarie Ottimali dell’Economista Premio Nobel Robert Mundell[1], la zona Euro non possiede strumenti di politica economica a livello continentale tali da gestire shock asimmetrici. La zona rimane ingabbiata in uno schema di doppia velocità. Il problema ideologico di fondo è che gli aggiustamenti di questi shock asimmetrici debbano essere lasciati gestire direttamente dai mercati, trascurando invece la vulgata keynesiana che vorrebbe interventi più diretti di politica economica nel garantire stabilità e crescita. Tu proponi un cambiamento nel quadro di riferimento intellettuale. Come ritieni che possa avvenire un cambiamento di questo tipo? Per parafrasare il Keynes della Teoria Generale, gli uomini politici sono sempre schiavi di qualche economista (lui aggiunge defunto, speriamo che non sia sempre così!). L'enfasi della costruzione europea sugli aggiustamenti di mercato non è un caso, ma è figlia del consenso degli anni Novanta che rigettava le politiche keynesiane. Oggi quel consenso è ridiscusso, e anche tra gli economisti detti mainstream sembra esserci più attenzione ai ruoli di politiche monetaria e di bilancio nel regolare l'economia. Se questo nuovo clima intellettuale si consolida, si porrà anche ai policy maker la questione del rivedere le istituzioni per la moneta unica e dell'introduzione di mezzi di "condivisione del rischio" Per quanto attiene le istituzioni europee, suggerisci delle riforme per un ritorno del dibattito verso un federalismo più compiuto. In particolare proponi l’utilizzo di strumenti automatici di condivisione del rischio: capacità dei mercati di assorbire gli shock asimmetrici, magari aumentando la loro regolazione (un modello ordoliberale alla tedesca?). Infine la revisione delle regole di bilancio. Potresti spiegarci, anche sinteticamente e per chi non ha ancora letto il tuo libro, in cosa consistono questi tre pilastri? L'enfasi sull'aggiustamento dei meccanismi di mercato riposa sull'idea che i mercati (fondamentalmente efficienti) possano da soli, con flessibilità e mobilità, assorbire ogni shock che colpisce l'economia. Abbiamo davanti agli occhi un esempio che mostra che questo non basta in nessun caso: anche in un paese come gli Stati Uniti, dove i mercati finanziari sono integrati, prezzi e salari flessibili e la mobilità del lavoro molto forte, il ruolo del governo federale nell'evitare la divergenza dei diversi stati è fondamentale. L'idea del federalismo surrogato è quella di replicare questi meccanismi in un sistema, come il nostro, in cui il federalismo non è (e non sarà ancora a lungo) all'ordine del giorno. Prendiamo il caso del sussidio di disoccupazione europeo, una sorta di assicurazione. Nei periodi di espansione e di bassa disoccupazione, i paesi contribuiscono ad un fondo, dal quale poi riprendono nel momento in cui le cose vanno male. Se il ciclo in due paesi non è sincronizzato, questo vorrà dire che in alcuni momenti i contributi al fondo ad esempio della Francia in espansione serviranno a pagare i sussidi di disoccupazione dell'Italia in crisi. L'opposto avverrà quando i cicli si invertiranno. Si noti che questo meccanismo è molto diverso da quelli esistenti nel bilancio europeo (ad esempio i fondi strutturali) volti a trasferire risorse dalle regioni più ricche a quelle più povere, per garantire una convergenza di lungo periodo. Se fosse esistito nei primi anni Duemila, un meccanismo assicurativo del tipo del sussidio di disoccupazione avrebbe visto la Grecia contribuire e la Germania attingere al fondo. Un ritrovato ruolo della politica di bilancio richiederebbe poi di rivedere le regole europee, che oggi tendono a vincolare eccessivamente l'azione dei governi, soprattutto per quel che riguarda l’investimento pubblico. È lodevole che la Commissione abbia avviato, prima dell'arrivo della pandemia, un processo di consultazione sulla revisione del Patto di Stabilità Una domanda che riguarda il tuo libro ma che, credo, non mi pare di aver letto nel testo. La questione è molto attuale. Alfonso Gianni, dalle pagine del Manifesto di qualche settimana fa[2], riprendeva una tua proposta per affrontare la crisi sanitaria attuale. Tale idea riguarda la costituzione di uno strumento di finanziamento europeo della sanità pubblica simile allo SURE, evitando così gli inconvenienti del ricorso al MES. Ci spieghi meglio le differenze tra i due strumenti e in che cosa consiste sinteticamente la proposta? Gli strumenti sono molto simili nel funzionamento: Le istituzioni europee si indebitano a tassi molto bassi e girano questi prestiti ai paesi europei, che così si indebitano a tassi più bassi di quelli di mercato. In entrambi i casi ci sono vincoli alla destinazione dei fondi, il mercato del lavoro nel caso del SURE e la sanità nel caso del MES detto sanitario. Ci si potrebbe chiedere allora perché il SURE è stato plebiscitato (17 paesi lo hanno chiesto) mentre il MES sanitario finora non ha avuto nessuna richiesta (e se ne parla solo nel nostro paese). La risposta risiede nella natura del meccanismo. Mentre il SURE si appoggia sull'articolo dei trattati (122 TFEU) che regola la solidarietà in caso di eventi eccezionali, il MES sanitario utilizza una struttura, il MES appunto, che è stata messa in piedi nel 2012 per fornire assistenza ai paesi in preda a crisi finanziarie. Per poter preservare la stabilità della zona euro al MES sono stati dati molti poteri di interferenza nelle scelte dei paesi. Se questo si può almeno in linea di principio (e solo in linea di principio, ma questo è un altro discorso) giustificare nel caso di una crisi del debito (ti assisto ma mi assicuro che rimetti i conti in ordine), nulla giustifica quest'ingerenza nel caso di un'emergenza sanitaria. Siccome tutto l'impianto che consente l'ingerenza del MES è rimasto invariato nella linea di credito sanitaria, non è vero che il MES non ha condizioni come osservano alcuni. E se ne sono accorti tutti i governi che hanno ritenuto di non doverlo prendere. Da qualche anno come PalermoGrad leggiamo con grande interesse i tuoi libri e i tuoi interventi, anche nell'ottica di cercare di ricostruire un pensiero e una prassi di sinistra che accetti l'Europa come terreno di lotta, contro le utopie luddista dei NoEuro e simili. Quali sono secondo te le 2-3 battaglie che dovrebbe fare oggi la sinistra italiana, se esistesse? La madre di tutte le battaglie, che si declina in quasi tutte le scelte di politica economica, è quella per la riduzione delle disuguaglianze di reddito. Sia quelle dette di mercato che quelle successive alla redistribuzione operata dal sistema fiscale. La disuguaglianza, oltre un certo livello, non è solo una questione etica dipendente dai valori e dalle scelte di ognuno di noi. Ma diventa una questione di efficienza. Atkinson, Milanovic, Piketty Stiglitz e molti altri mostrano che l'aumento eccessivo della disuguaglianza ha sregolato la macchina del capitalismo, ormai sempre più instabile, incapace di generare crescita, innovazione, benessere. Quindi per ritrovare il capitalismo progressista dell'età d'oro socialdemocratica bisogna in primo luogo agire sulla distribuzione del reddito. In questa risposta tu poni l’accento sulle questioni di etica e di efficienza, valori che – se rispettati – ci lancerebbero di nuovo in una “età d’oro socialdemocratica” del “capitalismo progressista”. Se ti riferisci al periodo del Trentennio Glorioso del dopoguerra è vero che abbiamo assistito in Italia e in altri paesi occidentali (attenzione: non in tutto il mondo) ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, anche grazie ad un nuovo welfare. Come pensi che questo “benessere” fosse stato costruito? Quali dinamiche politico-sociali hanno creato l’humus che ha determinato una prima volta la situazione alla quale aspiri adesso? Non credi che quella fase sia ormai definitivamente alle nostre spalle, in quanto quel keynesismo, di cui si sono avvantaggiati molto anche i capitalisti, è esploso a causa del seguente corto circuito: conflitti, lotte, crescita dei salari e dei diritti civili, crescita profitti e rendite, stagflazione? Non pensi che bisognerebbe inventarsi qualcosa di diverso? Non si può immaginare di tornare al periodo socialdemocratico del dopoguerra, non fosse altro perché il contesto economico è cambiato moltissimo. Piketty nel suo Capitale nel XXI secolo descrive molto bene la specificità di quel periodo, durante il quale il patto sociale era molto diverso. Da un lato le difficoltà del capitale, messo in crisi dalla crisi degli anni Trenta, dall'altro la forte crescita del secondo dopoguerra che hanno consentito di perfezionare la costruzione dello Stato sociale e di ridurre le disuguaglianze. Infine, un mondo aperto ma non globale, in cui gli Stati avevano anch'essi una sia pur parziale capacità di redistribuzione. Oggi il contesto è molto diverso. La stagnazione secolare, la stagnazione della produttività, il predominio delle rendite, l’impotenza degli Stati di fronte a capitali sempre più mobili. Però, sia chiaro, quello che è cambiato è solo l'insieme di vincoli che l'azione pubblica fronteggia, non gli obiettivi. Non è possibile oggi, per lo Stato, utilizzare gli stessi strumenti utilizzati negli anni Cinquanta per assicurare efficienza ed equità. Ma come spiegavo sopra, questi devono rimanere obiettivi centrali. E oggi credo che la sola dimensione che consenta (con enormi difficoltà) di perseguirli sia quella sovranazionale. E un po' si cerca di farlo. Si pensi al gruppo di lavoro dell'OCSE sulla tassazione delle multinazionali. Di fondo, questa è la ragione del mio scettiscismo di fondo sul sovranismo. Le politiche neoliberali non sono inevitabili per l'Europa (è il tema centrale del mio libro), ma non vedo come un singolo paese possa lavorare ad un capitalismo progressista. Se una (flebile) speranza di tornare ad una distribuzione più equa esiste, non è certo l'Italia (o la Francia, o la Germania) da sola che riuscirà ad arrivarci. [1] https://www.treccani.it/enciclopedia/aree-valutarie-ottimali_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/ [2] https://ilmanifesto.it/il-mes-sarebbe-un-passo-indietro-e-nessun-paese-lo-ha-chiesto/ [intervista a cura di Marco Palazzotto] *Francesco Saraceno è professore di macroeconomia internazionale ed europea a Sciences Po di Parigi e alla Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di congiunture economiche, e membro del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy. Ha pubblicato, oltre al saggio che presentiamo con questa intervista, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia (Luiss University Press, 2018) qui una nostra recensione. I suoi editoriali appaiono tra l’altro sul Sole 24 Ore. LUNGA VITA ALLA SIGNORA (DI FERRO)
4/11/2020
di Vincenzo Scalia
Al pari degli altri paesi europei, anche nel Regno Unito la seconda ondata avanza prepotentemente. Dai circa 1.700 contagi del 3 settembre, si è passato ai 24.000 del 28 ottobre. In realtà pare che siano il doppio. Sia l’Imperial College di Londra, sia gli esperti del SAGE (Scientific Advisor Group for Emergencies), sostengono che il sistema governativo di tracciamento dei casi di COVID è inadeguato. Anche lo stesso governo ha dovuto ammetterlo, in seguito all’impennata di casi registratasi a partire dal 3 e 4 ottobre, quando sono stati immessi i dati relativi a 35.000 casi del mese precedente. Inoltre, il conteggio dei dati segue dei criteri estremamente soggettivi, secondo il contesto: ad esempio le università scorporano i positivi asintomatici in auto-isolamento dal resto dei casi positivi, oppure si affrettano a sottolineare che come i casi positivi non riguardino gli studenti che alloggiano sul campus. In questo modo diviene possibile per il governo evitare o posticipare l’introduzione di un nuovo lockdown, dal momento che non si dispone né di un criterio oggettivo per classificare i casi, né di un sistema di tracciamento capillare, diffuso sul territorio. Di conseguenza, si rischia di aggravare ulteriormente la situazione. Alla base di questa apparente confusione, si cela in realtà una razionalità neo-liberista ben strutturata, come proveremo a spiegare di seguito. Innanzitutto il contesto politico britannico rende più difficoltoso il varo di misure drastiche. Se in Italia i particolarismi di tipo economico, territoriale o culturale vengono storicamente controbilanciati dall’utilizzo dell’emergenza, viceversa in Gran Bretagna un assetto politico stabile e una tradizione centralista rendono il governo in carica più permeabile agli interessi particolari. In altre parole, Boris Johnson è stato eletto col supporto attivo del mondo imprenditoriale britannico, e anche i settori contrari alla Brexit hanno preferito Bojo al rischio delle nazionalizzazioni e della tassazione progressiva minacciate da Corbyn. Di conseguenza il biondo etoniano rampante si trova a dovere restituire il credito elargitogli per favorirne l’ascesa a Downing Street. Da qui scaturisce la disattenzione verso le raccomandazioni del SAGE, con la formula del “lavorare da casa dove possibile” enunciata in modo così vago da permettere ai datori di lavoro di applicarla a misura delle loro esigenze. Nel caso dell’università, ad esempio, studenti e staff vengono incoraggiati a recarsi sul campus, per quanto nella forma ridotta prevista dal blended learning, ovvero una modalità di apprendimento per due terzi a distanza. Malgrado gli studenti mostrino di preferire l’apprendimento online, malgrado i contagi negli atenei britannici stiano aumentando in misura esponenziale, il management accademico, che attinge a finanziamenti interamente privati, ovvero degli studenti, si attiene a questa regola governativa vaga per non spostare la didattica online. Alla base di questa decisione c’è il rischio, per le università, di dover rimborsare gli studenti delle rette versate per gli alloggi e l’istruzione in presenza. Il governo Tory, da parte sua, non prende minimamente in considerazione la possibilità di erogare ammortizzatori economici in favore delle università. Il rischio dei contagi e della loro effettiva propagazione vengono a costituire in questo contesto delle possibilità concrete. In secondo luogo, il carattere di parte delle decisioni prese da Boris Johnson si riflette anche nel sistema a 3 livelli (“3 Tiers”) varato dal governo da lui presieduto. Il sistema prevede l’introduzione di misure restrittive in proporzione al numero dei contagi per 100.000 abitanti. Non sembra del tutto casuale il fatto che il Tier 3 riguardi le ex-aree industrializzate del Nord e delle Midlands: Liverpool, Manchester, Sheffield, Leeds, Newcastle, Nottingham, Birmingham, Leicester, si trovano tutte all’interno del terzo livello. Malgrado negli ultimi anni i media abbiano ostentato indicatori macroeconomici che classificavano l’ex cuore industriale dell’Inghilterra come la zona più dinamica del paese, malgrado alle ultime elezioni in queste aree l’egemonia laburista sia stata erosa, il feeling tra i Tories da un lato e geordies, mancunians, yorkies, scousers e bromies dall’altro, è lungi dall’essere scoppiato. Le memorie degli anni Ottanta, i problemi sociali che continuano a permanere, rendono il nord e il centro dell’Inghilterra ancora delle aree problematiche da gestire, che un’emergenza rischia di mandare fuori controllo. Non a caso i sindaci delle città interessate dal Tier 3, con alla testa Andy Burnham, sindaco blairiano di Manchester, si sono opposti aspramente a un provvedimento che vedono ispirato da una repressione preventiva. La presunta copertura finanziaria del governo alle imprese in crisi viene tuttora giudicata insufficiente dalle popolazioni e dai politici locali. In terzo luogo, il rifiuto di adeguarsi a misure drastiche sulla scia di quello che avviene oltremanica ha a che fare con l’utilizzo della Brexit come collante politico. Il dibattito sul COVID 19 di questi giorni si è sovrapposto allo stallo delle negoziazioni con la UE in merito all’uscita. Il governo ha ostentato la propria posizione di fermezza rispetto alle imposizioni provenienti da Bruxelles. DI conseguenza, il rifiuto di seguire le misure anti-Covid adottate in Francia o in Germania, alludono al sentimento nazionalista. Comportarsi diversamente dal resto d’Europa significa ribadire la propria diversità, anche sotto la minaccia di una pandemia, e della sua seconda ondata che rischia di provocare serie conseguenze dl punto di vista della salute pubblica. Infine, non si può non fare riferimento all’eredità della signora Thatcher, e di come le sue scelte politiche di impronta neoliberista abbiano distrutto uno dei migliori sistemi sanitari del mondo. Il NHS (National Health Service) britannico si trova ad operare entro strutture sempre più insufficienti, con macchinari obsoleti, un parco medicinali sempre più ridotto, personale scarno, in seguito all’introduzione dell’opt-out nel 1987, grazie al quale gli ospedali possono scegliere di abbandonare il pubblico per orientarsi al mercato. E’ andata a finire che le visite mediche si svolgono prevalentemente per telefono e che la codeina e gli antidolorifici costituiscono la principale terapia somministrata nelle unità di pronto soccorso; e ricordiamo la scelta da parte di Theresa May di consentire alle palestre di possedere macchinari TAC per svolgere esami clinici e ai supermercati di acquistare apparecchiature per i raggi X. Una spinta prepotente verso la mercificazione della salute. La Signora di Ferro è morta, ma i suoi insegnamenti sono saldi nella testa della classe dirigente inglese. Speriamo non a costo della vita altrui. DOBBIAMO POTER DISCUTERE DI TUTTO - Per Marcel Trillat, in memoriam (04/04/1940-18/09/2020)
1/11/2020
di Rosella Saetta Cottone
[Il punto di partenza di questo articolo è stato un’intervista a Philippe Laïk e a Colette Djidou, amici di Marcel Trillat per più di 50 anni, realizzata il 3 e l’11 Ottobre 2020. Le altre fonti di riferimento sono : il film documentario in due parti L’Atlantide. Une histoire du communisme realizzato da Maurice Failevic e Marcel Trillat (Rouge Production, 2011), il documentario Marcel Trillat, portrait realizzato da Tangui Perron e Philippe Troyon (2008), la serie di documentari su Marcel Trillat realizzata da Jeanne Menjoulet, che comprende: Entretiens 2016-2018. Au temps de la guerre d’Algérie, Marcel Trillat, journaliste de télévision à ‘5 colonnes à la une’ (2019), Marcel Trillat, Les années 1968 (2019), e Histoire du communisme. À propos de l’Atlantide (2019)] 17 Ottobre 1981, telegiornale delle 20:00 sul secondo canale della televisione nazionale. Il giornaliste giscardiano Patrick Poivre d’Arvor introduce il servizio che il giornalista Marcel Trillat, recentemente nominato capo del settore « società » di France2, ha realizzato per commemorare i fatti del 17 Ottobre 1961. È la prima volta che un media pubblico osa soffermarsi francamente su questo episodio oscuro della storia francese, legato alla guerra d’Algeria : la repressione cruenta e metodica di una manifestazione di Algerini contro il coprifuoco razzista decretato dal governo di Michel Debré allo scopo di limitare le possibilità di incontro di coloro che lottavano per l’indipendenza del loro Paese. All’ora stabilita per l’inizio del coprifuoco, 30.000 Algerini venuti dalle periferie erano usciti dalle bocche dei metro e avevano sfilato silenziosamente lungo i boulevard della capitale, prima di essere bloccati dalla polizia. In un’atmosfera di calma agghiacciante, davanti ai parigini testimoni complici o silenziosi, i poliziotti agli ordini del prefetto Maurice Papon[1] li avevano picchiati, poi gettati nella Senna, dove in parecchi erano annegati. La sera stessa, circa 12.000 manifestanti erano stati arrestati poi condotti al Palazzo dello sport e al Salone delle esposizioni della Porta di Versailles, dove erano stati mantenuti in condizioni inumane per tre giorni, allo scopo di essere interrogati. Per alcuni di loro il viaggio era finito alla prefettura di polizia, dove si dice che 50 donne e uomini avessero trovato la morte. L’indomani, il ministro degli interni, supportato dai media dell’epoca, aveva annunciato il bilancio di due morti e 64 feriti, mentre l’istituto medico-legale aveva recensito 60 cadaveri di Algerini. Ma il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) aveva finito per lamentare un totale di 200 morti e 400 dispersi. La data di diffusione di questo servizio è significativa per diverse ragioni. 1981 è l’anno dell’elezione di François Mitterrand alla presidenza della Repubblica, quindi anche della riunificazione della sinistra francese dopo la rottura che aveva opposto comunisti e socialisti durante la guerra d’Algeria. Di fatto, nel 1981, il presidente Mitterrand non avrebbe vinto le elezioni senza il sostegno attivo dei comunisti e dei radicali di sinistra in seno al « Programma comune ». Per molti di loro non è stato facile partecipare a questa impresa elettorale, in particolare per quelli, come Trillat, entrati nel PCF proprio a causa della loro opposizione alla guerra d’Algeria. Anche se il dissenso tra comunisti e socialisti aveva cominciato a manifestarsi già nel 1948, quando il ministro socialista degli interni Jules Moch aveva inviato i carri armati nel Nord per soffocare uno sciopero di minatori[2], è solo con la guerra d’Algeria che il dialogo tra le due componenti principali della sinistra francese diventa difficile anzi impossibile. Il punto di non-ritorno era stato raggiunto già nel 1956, due anni dopo l’inizio della guerra, quando dopo avere ottenuto dei « poteri speciali » con il sostegno dei comunisti, grazie alla promessa di mettere fine ad una guerra « imbecille e senza via d’uscita », il capo del governo socialista Guy Mollet aveva ceduto alle pressioni dei francesi d’Algeria e aveva tradito le promesse, raddoppiando i suoi sforzi nella guerra contro gli indipendentisti. Nei mesi seguenti il ministro della Giustizia François Mitterrand sarebbe stato favorevole alle ghigliottine contro i patrioti algerini. Il servizio realizzato da Trillat per il telegiornale del 17 Ottobre 1981 significa dunque molte cose : non solo un richiamo alla memoria collettiva dei crimini coloniali, ma anche il ricordo di una ferita ancora aperta nel corpo della sinistra pur riunita, e infine l’impegno del suo autore per una informazione libera, nel momento della sua piena reintegrazione all’interno del servizio pubblico dell’informazione. In effetti, il programma comune di governo che aveva condotto Mitterrand al potere, stipulando che la libertà di espressione sarebbe stata acquisita definitivamente dalle televisioni e le radio del servizio pubblico, aveva permesso di reintegrare circa 100 giornalisti – tra i quali Maurice Trillat - che solo due mesi dopo il Maggio ‘68 avevano pagato lo scotto della loro partecipazione al movimento. La parola d’ordine dei giornalisti nelle manifestazioni del ‘68 era stata appunto « Libertà di informazione e di espressione ». In tal modo, i responsabili dell’informazione impegnati nella rivolta avevano agito una doppia rivendicazione, quella di poter informare liberamente i loro concittadini, e quella di poter esprimere le loro idee attraverso altre forme di linguaggio : il disegno per esempio. Nei fatti, il ‘68 sarà la radice comune di una pluralità di esperienze giornalistiche, tra cui è possibile annoverare la creazione di Charlie Hebdo. Per Trillat, che aveva scelto il suo mestiere per fedeltà agli ideali della Resistenza ereditati da suo padre —un contadino socialista dell’Isère che era stato partigiano nel Vercors—, « Libertà di informazione e di espressione » significava soprattutto due cose : che la sua ragion d’essere, in quanto giornalista, era di nuocere ai potenti[3] ; che il suo contributo più importante, in quanto uomo di sinistra, era di adoperarsi per l’unione nel pluralismo, poiché « Dobbiamo poter discutere di tutto ! »[4], i due atteggiamenti trovando una conciliazione naturale nel sostegno continuo che egli apportò alle lotte dei lavoratori attraverso i suoi servizi e i suoi film documentari. Per tutte queste ragioni, nel ’68 Trillat non si era fidato del « separatismo » dei gruppi di estrema sinistra e aveva preferito la strategia di alleanza con il PS sostenuta dal partito comunista, essendo contemporaneamente molto vicino alla Confederazione Generale del Lavoro (CGT) ; per le stesse ragioni, nel 1987, valutando che le condizioni di un dialogo interno non fossero più presenti, aveva abbandonato il PCF, senza per questo rinnegare il suo impegno politico, fino alla morte. In tal modo, egli prendeva le distanze dalla fedeltà acritica verso la politica dell’URSS esaltata dalla direzione del partito, opponendole i principi di un comunismo europeista, come quello incarnato da Enrico Berlinguer e in modo diverso da Alexandre Dubcek - l’ispiratore della primavera di Praga - o quelli del socialismo umanista di Salvador Allende[5]. Uno dei risultati di questa messa in discussione è stato il film documentario L’Atlantide. Une histoire du communisme , realizzato con il collega e amico di lunga data Maurice Failevic (Rouge Production, France2), sguardo incrociato di due militanti che vanno incontro ad altri militanti, scelti come testimoni di una storia colettiva e plurale, in cui la questione dei rapporti con Mosca attraversa gli eventi più salienti: dal congresso di Tours, nel dicembre 1920, al Fronte popolare, dalla Resistenza alle guerre coloniali, dall’Ungheria a maggio '68 e alla Primavera di Praga. Se si volesse presentare l’opera di Trillat ad un pubblico che non la conosce ancora si potrebbe dire che essa ha cercato di mostrare ciò che gli altri non volevano vedere e di dire ciò che gli altri non volevano ascoltare, allo scopo di contribuire alla riunificazione della sinistra. Per quanto riguarda i servizi televisivi, oltre a quello per il telegiornale del 17 Ottobre 1981 già evocato, si potrebbe mostrare quello per il telegiornale dell’8 febbraio 1982 per commemorare la repressione poliziesca di una manifestazione contro la guerra d’Algeria e contro l’OAS[6], che era costata la vita di 9 manifestanti presso la stazione del metro Charonne ; o ancora quello del gennaio 1991, realizzato in qualità di inviato speciale di France2 in Iraq, quando egli aveva denunciato in diretta la censura praticata dalle autorità militari americane contro i giornalisti stranieri (in seguito a questo servizio verrà trasferito a Mosca come corrispondente, allo stesso modo in cui, nel 1986, era stato trasferito a Roma dalla destra ritornata al potere). Sul versante dei film documentari, oltre il già menzionato L’Atlantide. Une histoire du communisme già menzionato, è da vedere Étranges étrangers [7] (Crepac, 1970, regia di Trillat e di Frédéric Variot), che ricostruisce la rete di accordi taciti tra i paesi esportatori di manodopera, i padroni e il governo francese per ammassare i lavoratori stranieri nelle bidonville, prendendo come punto di partenza la morte per asfissia di 5 lavoratori africani avvenuta nell’inverno 1969/70 in un centro di accoglienza ad Aubervilliers. E soprattutto la trilogia dedicata al mondo del lavoro, composta da 300 jours de colère (2002), Les Prolos (2002) e Femmes précaires (2005), che analizza la deteriorazione delle condizioni di lavoro nell’epoca della mondializzazione, focalizzandosi in particolare su due armi a disposizioni dei nuovi padroni e che servono ad annullare le conquiste sociali degli anni passati, ossia il subappalto e l’interim. Una cosa che sarebbe forse importante ricordare nell’ambito di una retrospettiva su Trillat è che un’opera come la sua incappa necessariamente nella censura, di destra come di sinistra. Per il primo tipo di censura, un esempio eloquente potrebbe essere quello del servizio 1er Mai à Saint Nazaire , realizzata il primo maggio 1967 nella città di Saint Nazaire, alla fine di uno sciopero storico di tre mesi condotto dagli operai dei cantieri dell’Atlantique e di Sud-Aviation. Alla vigilia della festa, i padroni avevano ceduto alle richieste dei lavoratori per paura che il movimento, sostenuto dalla solidarietà dei contadini, dei pescatori e dei commercianti della regione, si amplificasse (« eravamo già alla vigilia del ‘68 », sottolineerà Trillat in un’intervista). Quando il servizio era stato mostrato alla redazione del celebre programma di attualità « 5 colonnes à la une », al quale era destinato, il rappresentante della SLI (Service de liaison interministériel pour l’information) che sorvegliava la produzione di tutti i programmi di televisione, compresa l’informazione politica, aveva detto: « Brutto cinema del 1936 », facendo riferimento al Fronte Popolare. Nonostante il produttore della trasmissione, Pierre Desgraupes, avesse difeso il servizio (« Signore, lei è qui per dire se si tratta di buona o di cattiva politica. Faccia il suo lavoro, è pagato per questo. Quanto a sapere se si tratta di buono o di cattivo giornalismo, siamo noi che dobbiamo dirlo »)[8], il servizio aveva finito per essere censurato e Trillat aveva dovuto rubare le bobine nella notte, affinché il film non fosse distrutto. Per quel che riguarda la censura di sinistra, si potrebbe evocare un’esperienza che Marcel Trillat considerava tra le più belle della sua vita di giornalista: l’animazione, su iniziativa della CGT locale, di una radio libera chiamata « Lorena cuore d’acciaio », che durante un anno e mezzo, tra il 1979 e il 1980, aveva ridato speranza ad una regione devastata dalla soppressione di 15.000 posti di lavoro e dall’avvio di una liquidazione totale della filiera siderurgica. Installata tra il Comune e la chiesa del paese di Longwy, in un bacino popolato in gran parte da immigrati italiani, questa radio aveva dato la parola a tutti, con la sola limitazione che non era possibile esprimervi pareri razzisti o fascisti : poesia, letteratura, musica classica, jazz, storie di vita, aborto, tutto era passato da lì, « Lorena cuore d’acciaio » era diventata “la cosa di tutti”, al punto che il sindacato non aveva nemmeno bisogno di pagare i giornalisti: ci pensavano gli abitanti con le loro collette. Nonostante ciò o forse anche a causa di ciò, la CGT aveva deciso di mettere fine al gioco, approfittando di un cambiamento di direzione a livello nazionale. Un’esperienza talmente forte che alcuni dei protagonisti di questa storia non si sono mai ripresi dalla delusione e che ancora oggi, in occasione della scomparsa di Trillat, il vecchio responsabile locale della CGT, Michel Olmi, ricorda con emozione : « Ha liberato la parola di coloro che ne erano privi : le donne, gli immigrati, la classe operaia. Metteva tutti a loro agio, liberava dalle certezze, apriva le teste....” (Le Républicain lorrain, 27/09/2020). Nelle conclusioni della retrospettiva immaginaria fin qui abbozzata, non si può evitare di notare che la censura colpisce spesso la gioia che accompagna ogni movimento di liberazione contro l’oppressione praticata dai potenti di questo mondo. [1] Durante l’Occupazione, Maurice Papon aveva svolto un ruolo importante nell’organizzazione delle retate contro gli ebrei. [2] Il bilancio di questo sciopero, che aveva condotto al licenziamento di 3000 minatori, era stato di molti morti, migliaia di feriti, centinaia di arresti. [3] Intervista con Tangui Perron. [4] Ivi. [5] Cfr. il documentario « Les années 68 ». [6] L’Organisation de l’Armée Secrète, meglio nota attraverso l’acronimo OAS, era un’organizzazione politico-militare francese creata l’anno precedente la fine della guerra d’Algeria, allo scopo di difendere la presenza francese in Algeria in tutti i modi, compreso il terrorismo (fonte Wikipedia). [7] Il titolo di questo film riprende quello di una poesia di Jacques Prévert, scritta nel 1951 e pubblicata nel 1955, nella raccolta « Grand bal de printemps » (Gallimard). [8] Fonte dell’aneddoto : intervista a Philippe Laïk e Colette Djidou. di Vincenzo Scalia
[Il testo è la traduzione italiana dell’Introduzione ad uno studio pubblicato da Vincenzo sulla rivista scientifica Trends in organized crime] Studiosi, magistrati, politici, attivisti, usano la definizione di “Sacco di Palermo” per riferirsi allo sviluppo urbano sproporzionato che Palermo ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale. Tra il 1951 e il 1991 sono stati costruiti 170.000 nuovi appartamenti (Cancila, 1985), mentre la città vecchia è rimasta in rovina, poiché il numero di residenti nella parte vecchia di Palermo è sceso da 125.000 a 30.000. Mentre si trascurava il rifacimento della parte monumentale, le ville barocche e liberty della periferia furono rase al suolo per far posto a edifici a più elevazioni. Non sono stati costruiti servizi e strutture nella parte nuova della città, poiché gli agrumeti sono stati inghiottiti da tonnellate di cemento. La mafia ha svolto un ruolo fondamentale in questo processo (Chubb, 1983). Il massiccio e apparentemente non regolamentato periodo di sviluppo edilizio - in effetti il Sacco si è attuato anche attraverso l’approvazione del piano regolatore del 1959 - ha fatto conoscere la mafia siciliana agli italiani e, infine, al pubblico internazionale, confutando l'idea di Cosa Nostra come un'organizzazione arretrata e primitiva, come dipinta da molti autori (Hobsbawm 1963; Arlacchi 1983). Il processo di sviluppo urbano che costituì 'il Sacco' dimostrò che la mafia siciliana - lungi dall'essere un'eredità folcloristica del passato - era un'organizzazione potente e spietata, la cui influenza si estendeva attraverso la politica, l'economia e la società e che poteva contare anche sul sostegno internazionale. Il Sacco di Palermo ha cambiato per sempre l'identità economica, sociale e urbana della città (Chubb 1983; Scalia 2017). La Conca d'Oro, cioè la fertile pianura di agrumi che circonda Palermo, ricca altresì di pregiati edifici barocchi, è stata inghiottita da scatoloni di cemento armato, edificati seguendo una cubatura esagerata. Palermo oggi è un caso peculiare di città senza una periferia in senso classico, in quanto le borgate storiche, che facevano leva sull'economia agricola, sono state assorbite nel tessuto urbano e hanno perduto la loro identità. Inoltre, questo massiccio processo di costruzione ha compromesso la prospettiva a lungo termine di sviluppare una strategia urbana alternativa. A Palermo oggi mancano gli spazi necessari per realizzare un centro direzionale, un terminal container, una fiera o un parco tecnologico, tagliando così la città e l'area metropolitana circostante fuori dall'economia globale contemporanea. Una strategia a breve termine, quella dell’espansione edilizia intensiva ed estensiva, ha compromesso il futuro di una città negli anni a venire. Infine, l'altro importante cambiamento riguarda l'identità della città. I quartieri più antichi furono trascurati e abbandonati per decenni, lasciati nelle stesse condizioni di degrado dalla fine della seconda guerra mondiale. È stato così possibile trasferire gli abitanti del cuore di Palermo nei quartieri di nuova costruzione, come ZEN, CEP, Sperone e Borgo Nuovo. Parallelamente, nell'area compresa tra l'antica città e le contrade comunali, venne costruita una nuova città per impiegati della piccola borghesia, dove si trovano i principali servizi e le più importanti strutture. Il degrado sociale e urbano della città vecchia ha avuto conseguenze socio-economiche: gli stretti legami di vicinato sono svaniti per sempre, e i loro legami con le piccole imprese sono stati interrotti definitivamente, eliminando così ogni possibilità di trasformazione delle attività artigianali nella tipologia della piccola e media impresa che è stata il motore dello sviluppo economico in altre parti d'Italia (Bonomi 1998). Solo i mercati alimentari storici, come Ballarò, Capo e Vucciria, sopravvivono oggi nella città vecchia, anche se lo sviluppo dei centri commerciali rende sempre più difficile portare avanti l'attività alimentare al dettaglio. La distruzione di queste singolari reti residenziali-economico-familiari - conseguenza immediata di questa deportazione forzata - ha seriamente danneggiato anche la sensibilità civica dei palermitani. Considerando che la coincidenza di residenza, lavoro e vicinato scaturisce nella produzione di identità locali che forniscono il terreno su cui attecchisce la partecipazione alla vita pubblica (Hannerz 1998), vivere in isolati anonimi, circondati da vicini sconosciuti, in circostanze precarie, ha trasformato molti dei primi residenti della città in un proletariato diseredato, privo di identità sia sociale che professionale. Attingendo al lavoro di David Harvey (1999) e Henri Lefebvre (1978), il Sacco di Palermo può essere analizzato attraverso la categoria della produzione dello spazio, che entrambi gli autori hanno sviluppato in relazione alla trasformazione dello spazio urbano all'interno della società capitalista. Entrambi gli autori condividono l'idea che lo sviluppo urbano ruota attorno al passaggio dal valore d'uso al valore di scambio. Questo processo è guidato dall'accumulazione capitalista. Le alleanze fluide tra diversi gruppi sociali così come i risultati delle lotte sociali e politiche, guidano la produzione dello spazio verso il raggiungimento degli obiettivi specifici di questa alleanza. Nel caso del Sacco di Palermo, questa categoria può essere riconfigurata come produzione dello spazio mafioso, poiché il cluster di gruppi sociali riuniti attorno alla mafia, che altri autori chiamavano la borghesia mafiosa (Mineo 1953), ha promosso e realizzato questo trasformazione. A differenza di altre aree urbane europee, in cui il capitalismo moderno ha portato a un miglioramento delle condizioni generali di vita, la produzione dello spazio mafioso ha portato sottosviluppo, povertà, disgregazione, emigrazione, violenza, emarginazione, nonché un massiccio spreco di risorse naturali e sociali. Questo processo di urbanizzazione di Palermo si sviluppa in due parti complementari: in primo luogo la dislocazione, che riguarda lo sgombero fisico dei residenti (dislocamento spaziale), accompagnato dalla trasformazione della struttura produttiva: da agricola e industriale a clientelismo ed economia illegale orientata. Le scelte compiute dall'amministrazione locale, il coinvolgimento di attori economici locali come il Banco di Sicilia, hanno giocato in questa fase un ruolo fondamentale nella produzione dello spazio mafioso, utilizzando l'ideologia del progresso per giustificare le loro azioni. In secondo luogo l'anonimizzazione, ovvero l'alienazione dei cittadini dalla loro cultura e tradizioni, dal loro status professionale, dai loro legami sociali. Attraverso un processo di de-identificazione ed emarginazione economica, la popolazione che viveva a Palermo divenne soggetta all'egemonia della borghesia mafiosa. La dislocazione e l'anonimizzazione riguardano diversi gruppi sociali, dagli artigiani ai lavoratori, e si estendono anche alle classi medie e alte che potevano accettare il dominio mafioso solo per preservare i loro standard di vita e salvare parte della loro ricchezza materiale e simbolica. Arlacchi, P. (1983) La mafia imprenditrice. Rizzoli, Milano Cancila, O. (1989) Palermo. Laterza, Bari Chubb, J. (1983) A tale of two cities. Politics and patronage in Southern Italy. Cambridge University Press, New York Hannerz, U. (1998) Esplorare la Metropoli. Il Mulino, Bologna Harvey, D. (1999) L’esperienza urbana. Il Saggiatore, Milan Hobsbawm, E. (1963) Primitive Rebels. Penguin, London Lefebvre, H. (1978) The production of space. Verso, London di Barbara Ambrogio*
Industria 4.0, Smart factory, Advanced manufacturing, Internet industriale, sono tutti sinonimi per descrivere il modello produttivo che poggia sull’integrazione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale nei sistemi di automazione dei processi produttivi di merci e servizi. Può essere definita come parte del processo di approfondimento dell’automazione industriale attraverso le tecnologie digitali. Nel dibattito politico e accademico viene per lo più presentata come uno sviluppo autopoietico delle trasformazioni tecnologiche, progresso ineluttabile e sostanzialmente positivo, rispetto al quale i sistemi politici possono intervenire a posteriori per raccogliere il massimo dei vantaggi possibili. In questo modo si tralascia di affrontare i conflitti sottesi a questa ondata di innovazione tecnologica, e le tensioni che l’hanno stimolata. Dall’analisi preliminare di una mole di informazioni sulle modalità di funzionamento delle tecnologie dell’industria 4.0, emerge l’ipotesi che i costi del lavoro improduttivo sono quelli su cui si prova a intervenire in modo sostanziale verso una loro riduzione e sostituzione. Si tratta di una problematica assente nella letteratura politica e scientifica. L’impatto di tali tecnologie sul lavoro improduttivo può essere colto ai tre livelli in cui nel capitalismo si sono storicamente configurate le relazioni tra attività produttive e non produttive di valore: l’organizzazione del processo produttivo industriale, il settore terziario e le supply chains. Evidenze empiriche Nella produzione industriale è la logistica tra i primi settori, cronologicamente, in cui le tecnologie 4.0 hanno davvero fatto la differenza. La movimentazione delle merci con gli strumenti di tracciamento, come i sensori RFID, assieme a software che indicano la distribuzione dei carichi di lavoro per ciascun lavoratore, definiscono al secondo i tempi di consegna necessari, con una saturazione dei tempi impensabile qualche decennio fa, tenendo conto, grazie ad esempio alla geolocalizzazione e ad algoritmi di apprendimento automatico che, dopo poche volte che viene seguito un percorso, rilevano e memorizzano la presenza di semafori, passaggi al livello, interruzioni originariamente non segnate sulla mappa. Ma più evidente è probabilmente l’assorbimento di alcune operazioni interne alle fabbriche: i compiti di monitoraggio, la gestione degli ordini effettuati, da effettuare e quelli evasi, la manutenzione degli strumenti e tutti quelli che possono essere racchiusi sotto l’insieme dei “colletti bianchi”. E questo avviene su due fronti. Da un lato attraverso la sostituzione vera e propria, in tutto o in parte, con i CPS, le tecnologie dell’IoT in generale e i software industriali, grazie ai quali le macchine eseguono automaticamente e autonomamente compiti come la manutenzione, l’ordine e la movimentazione dei materiali, il controllo qualità e la gestione dei tempi e dei carichi di lavoro. O anche mediante piattaforme digitali che forniscono tutta una serie di servizi a costi di gran lunga inferiori, come la consulenza finanziaria, la formazione del personale, l’e-commerce, i servizi postvendita e le comunicazioni con le aziende che compongono gli altri segmenti del ciclo di produzione di una merce. L’altro fronte attraverso il quale le tecnologie dell’industria 4.0 favoriscono la riduzione dell’onere del lavoro improduttivo consiste nello spostare il carico delle attività sui lavoratori che stanno sulla linea di montaggio. I robot industriali sono dotati di pc applicati alla macchina, tablet a essa connessi e/o pannelli di controllo che attribuiscono a chi li utilizza una serie di incarichi – controllo qualità, compilazione di fogli di produzione e altri compiti burocratici, manutenzione ecc. – che prima erano di competenza di figure specifiche. I robot collaborativi, e in generale gran parte dei sistemi riconfigurabili - oltre ad adeguare la produzione alle variazioni dalle condizioni di partenza grazie alle proprietà di customizzazione, convertibilità, integrabilità, e così via – danno il vantaggio di poter essere riconfigurati facilmente dagli stessi operai a posteriori, senza quindi il bisogno di ingegneri o tecnici specifici, siano essi in organico o esterni all’azienda. Ancora, è possibile “remotizzare” diverse attività, operazione che, alla luce di uno studio effettuato sullo smart working per l’anno 2019 dal Politecnico di Milano, riportato in un seminario sull’Industrial smart working da MADE, centro di competenze tecniche e manageriali, offre notevoli vantaggi alle aziende in termini di aumento della produttività (stimato al 15%), riduzione dell’assenteismo (-20%), maggiore coinvolgimento dei lavoratori, che viene accostato a miglioramento dei prodotti, stimolo all’innovazione e incremento delle competenze digitali dei “collaboratori”, condivisione delle informazioni e ottimizzazione degli spazi, grazie alla quale vengono ridotti in modo significativo i costi di gestione. Questa strategia è applicabile in maniera ancora più diffusa nelle aziende del settore terziario, in cui le piattaforme e le tecnologie ICT “la fanno da padrone”. Sono innumerevoli le società che fanno uso di piattaforme e intelligenza artificiale per erogare servizi, che sono stati autonomizzati con l’esternalizzazione. Si sta parlando di Robo Advisors, consulenti finanziari digitali, che in modo automatizzato selezionano ed elaborano la strategia d’investimento più opportuna in base agli obiettivi e ai profili di rischio dei clienti. O anche di Vera, robot-recruiter, che con l’intelligenza artificiale può eseguire colloqui e selezionare i canditati, o di CARE, una delle funzioni della piattaforma UtilityAI™ di Bidgely destinata ai call center delle imprese elettriche che sta determinando una riduzione dei tempi medi di gestione delle chiamate permettendo contestualmente agli addetti al servizio di assistenza di proporre piani personalizzati. La logistica esterna evidenzia un’altra, importante, funzione delle tecnologie 4.0 al livello delle supply chains, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione e le transizioni economiche tra imprese. Sono eloquenti le necessità soprattutto tra aziende degli stessi gruppi, di uniformare i linguaggi informatici e di utilizzare strumenti come il cloud e le blockchain. Nel primo caso si tratta di un insieme di risorse di calcolo, server e applicazioni che forniscono servizi computazionali, di gestione e archiviazione. La piattaforma di cloud computing, Gaia-X, lanciata dalla Germania e dalla Francia, è destinata a garantire la custodia e la gestione di dati in Europa, al fine di realizzare una maggiore autonomia dai colossi della Silicon Valley, risparmiando sui costi e avere il controllo amministrativo e legale sui dati. La blockchain invece è un contenitore virtuale, che traccia e registra transizioni, asset, informazioni ecc., assorbendo una grande quantità di funzioni improduttive attinenti i rapporti tra i soggetti economici coinvolti nelle supply chains. Inquadramento teorico La dinamica secolare di innovazione tecnologica e scientifizzazione del processo produttivo indirizzata all’aumento dell’intensità e della produttività del lavoro comporta una quota crescente di capitale costante che viene messo in moto con sempre meno quantità di lavoro vivo e quindi produce sempre meno valore. L’innovazione tecnologica è un’arma a doppio taglio per il capitale, da un lato aumenta il tasso di sfruttamento del lavoro, ma così facendo riduce la quota di lavoro vivo che produce valore. Sicché, ogni singolo processo di valorizzazione è meno produttivo di valore nonostante la maggiore produttività dei mezzi produttivi. Il finanziamento della produzione e riproduzione del capitale tramite il credito può funzionare in maniera coerente fino a che la produzione reale è sufficiente a pagare il valore anticipato e gli interessi sui crediti. Ma la saturazione dei mercati e l’esaurimento dello spazio globale verso il quale potersi espandere rendono il costo del capitale fisso in relazione alla reale produzione di valore, la quota di lavoro improduttivo e il numero crescente di imprese fantasma, un onere che non è più possibile compensare, come era accaduto invece durante il fordismo. E ciò, data l’estensione cui si è giunti comporta la crescente difficoltà di far ripartire ogni volta ciascun ciclo di produzione e accumulazione a fronte del progressivo aumento su scala globale dell’intensità di capitale. Costi preliminari sempre più alti significano masse di denaro creditizio per mantenere in moto la produzione, sicché ad oggi la produzione reale di merci non solo è fonte marginale di profitti, ma è sempre più dipendente dal capitale produttivo di interesse. L’aumento dell’intensità di capitale e della scientifizzazione del processo produttivo richiede masse crescenti di denaro a credito per avviare e sostenere la produzione capitalistica. Il punto è che il denaro è capitale laddove rappresenta lavoro che si oggettiva nella produzione di valore. Il lavoro improduttivo fa parte e approfondisce questa dinamica contraddittoria, premendo verso una soglia critica, risultando allo stesso tempo costo necessario e via via insostenibile, onere insopportabile per il capitalismo complessivo. Necessario, perché lo sviluppo delle forze produttive richiede tutta una serie di infrastrutture, materiali e non, che consentono che il flusso di capitale, nelle sue varie forme, possa seguire nella maniera più rapida e “indisturbata” possibile. Dai customer service alla logistica, dalla viabilità all’amministrazione pubblica, dal sistema scolastico a quello sanitario, l’intrattenimento, la consulenza finanziaria, il sistema giudiziario e così via, sono tutti settori imprescindibili nel capitalismo e quanto più la produzione è estesa, quanto maggiore è l’intensità del capitale, tanto più è fondamentale sviluppare i suddetti settori, applicare a essi la scientifizzazione e la razionalizzazione del processo produttivo. Ciò comporta che quote sempre maggiori di capitale produttivo di interesse vengono impiegate per consentire l’erogazione di tali servizi e il consumo improduttivo di merci, tanto nella forma di capitale prestato a imprese che utilizzano lavoro improduttivo, tanto come debito pubblico impiegato per il welfare, la costruzione di infrastrutture ecc., tanto come consumo a credito, sia esso consumo di lavoratori improduttivi o denaro impiegato da lavoratori produttivi per pagare lavori improduttivi. Nella riproduzione complessiva ai costi del credito per la produzione industriale, si aggiungono quelli del lavoro improduttivo, di modo che il saggio complessivo di profitto viene in un certo senso schiacciato, mentre gli Stati o aumentano la pressione tributaria o fanno essi stesso ricorso al credito. La sproporzione tra i due fattori mina la riproduzione del sistema capitalistico, dal momento che quanto maggiore è il lavoro improduttivo rispetto a quello produttivo, tanto meno valore viene prodotto e può essere impiegato per far ripartire il ciclo. E l’espansione del lavoro produttivo, che ha visto uno slancio vertiginoso col fordismo, ha certamente aperto nuovi campi nella produzione reale, ma ha anche richiesto l’espansione delle “spese generali”, di lavoro improduttivo. Questo squilibrio ha retto per un po’ grazie a una serie di sistemi compensativi dal deficit spending keynesiano all’espansione permanente dei mercati, sia verso l’interno, con l’aggiunta di nuovi mercati e prodotti, e strumenti di stimolo al consumo ecc., che verso l’esterno, inglobando nella produzione capitalistica regioni del mondo che fino ad allora erano state coinvolte solo in maniera marginale. L’esaurimento di questi strumenti compensativi si è accompagnata con la fine degli anni Settanta alla rivoluzione microelettronica, con l’emergere di tutta una serie di tecnologie, l’informatica, la cibernetica e così via, che da un lato hanno reso sempre più “globali” le catene produttive, dall’altro hanno alzato i costi di produzione senza garantire maggiori profitti e hanno dato il “colpo di grazia” all’allargamento del lavoro produttivo. Fare una distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo dà contezza di quanto possano essere rilevanti le trasformazioni messe in atto dall’introduzione delle tecnologie 4.0. La questione sta nel fatto che alle spalle dell’industria 4.0, ci sono decenni di caduta a picco della produzione reale di valore. A partire dagli anni Ottanta la crisi del fordismo si è nascosta dietro la creazione di gigantesche bolle di “capitale fittizio” rispetto alle quali la produzione reale è sempre meno significante. Tra le condizioni dello scollamento tra la rappresentazione e la reale sostanza del valore, il lavoro, vi è l’aumento della composizione organica del capitale e la quota crescente di lavoro improduttivo, che premono sulla produzione reale e allo stesso tempo movimentano quantità sempre maggiori di capitale monetario che ormai ha “vita” e riproduzione autonoma dalla produzione di valore reale. Tenendo poi conto delle situazioni particolari in cui questa dinamica si è evoluta storicamente nell’ultimo mezzo secolo - tanto dal punto di vista della configurazione degli Stati e delle forme commerciali globali, che in merito agli strumenti materiali ed economici creati e messi a disposizione, quindi ad esempio la microelettronica e gli strumenti finanziari creati negli ultimi decenni – l’industria 4.0 assume caratteri meno “mistici” e si mostra, guardando all’innovazione tecnologica, come una sorta di aggiustamento di tecnologie costose più che produttive, e come tentativo, difficile dire se e quanto consapevole, di ridurre la quota e i costi del lavoro improduttivo. La capacità delle tecnologie dell’industria 4.0 di eseguire lavoro cognitivo, di controllo e problem solving consente di eliminare una grossa fetta di lavoratori improduttivi nella produzione, industriale e non. Dal personale incaricato al reclutamento e alla gestione delle risorse umane, a quello che definisce gli obiettivi giornalieri per ogni fase e per ciascun dipendente, fino ai già citati Robo Advisors, gli algoritmi sembrano la risposta più efficace per sostituire lavori costosi e che non producono plusvalore. Ciò ha un duplice effetto: da un lato, grazie anche alla maggiore facilità e varietà con cui può essere customizzato il prodotto, ai rapporti che vengono istaurati lungo la filiera in materia di gestione degli ordini e dei materiali, che sostanzialmente riduce al minimo la possibilità che vengano ordinati pezzi inutili, sbagliati o in eccesso, è teoricamente difficile che le merci prodotte rimangano invendute, quindi che il lavoro produttivo oggettivato in esse sia, alla fine del ciclo, improduttivo. Tuttavia, ripercorrendo il ragionamento per cui lavoro produttivo “è” improduttivo se svolto a livelli di produttività inferiori allo standard sociale, posto che quest’ultimo non rispecchia la media, ma il livello di produttività migliore, quello più alto, avviene che la rapidità con cui il processo può essere migliorato in termini di efficienza, i costi bassi o nulli che il perfezionamento comporta e la frequenza con il quale può essere applicato, tutto ciò rende qualunque lavoro potenzialmente improduttivo. Dal momento in cui, ad esempio, il gemello digitale di una data “isola” industriale suggerisce che una determinata funzione sia più conveniente se eseguita con una procedura più efficiente, attuabile immediatamente modificando rapidamente una impostazione del cobot e la tempistica estremamente breve entro la quale si possono compiere questi aggiustamenti fanno sì che un lavoratore oggi produttivo è probabile che già domani non lo sia più. Considerazioni conclusive In conclusione, è vero che le tecnologie 4.0 consentono alle imprese di risparmiare i costi delle spese generali, che non vengono sostenuti né direttamente né da aziende terze. Oppure le imprese cui viene esternalizzato il servizio possono erogarlo a un costo di gran lunga inferiore – si pensi ancora una volta ai Robo Advisor o alle piattaforme di e-commerce. Ma così facendo, se da un lato il lavoro improduttivo viene ridotto, sia per la singola impresa che per il capitale in assoluto, dall’altro, ancora una volta, il capitale costante aumenta a fronte di un capitale variabile pari o minore. In altri termini, se il lavoro improduttivo autonomizzato in imprese apposite, che forniscono servizi, costituisce una sottrazione dal plusvalore complessivo, l’attribuzione di questo lavoro a macchine più o meno autonome crea una dinamica ambigua, nella riduzione del consumo improduttivo, che costituisce un onere per la riproduzione in generale del capitale, e nell’aumento del capitale costante, della composizione organica del capitale che richiede un crescente impego di capitale monetario che impiega sempre meno lavoro e produce sempre meno plusvalore. Ed è ambigua anche perché, se da un lato manifesta il tentativo più o meno consapevole di assorbire lavoro improduttivo, dall’altro è particolarmente efficace nel generarne di nuovo, proprio perché, la capacità predittiva delle tecnologie introdotte, fanno sì che una quota crescente di lavoro produttivo sia eseguito a un livello di produttività inferiore a quello sociale, così da rendere anche lavori produttivi lavori improduttivi. Fare un bilancio tra lavoro produttivo e improduttivo messo in moto nella produzione dell’industria 4.0, alla luce delle accezioni che possiedono e delle implicazioni materiali che li caratterizzano, può apparire un po’ artificioso. Ma è rivelatorio se si tengono in considerazione il periodo e il contesto di “incubazione” delle tecnologie chiave, lo stato di sviluppo del capitalismo e le categorie analitiche utilizzate nei paragrafi precedenti, che consentono di comprendere il modo in cui le tendenze sistemiche si dispiegano nel momento particolare preso in riferimento, ossia il mondo contemporaneo alle prese con limiti strutturali, rispetto ai quali è difficile pensare a delle soluzioni per rimandare o, meno ancora, risolvere, la crisi in cui il capitalismo si trova. La questione sta nel fatto che l’aumento dell’intensità del capitale, del tasso di sfruttamento della forza lavoro e della produttività attraverso le innovazioni tecnologiche tendono ad aumentare la componente del capitale che non produce plusvalore e richiedono la crescita di infrastrutture, servizi e operazioni accessorie indispensabili per la riproduzione del capitalismo. L’industria 4.0 da questo punto di vista non costituisce un eccezione, piuttosto approfondisce la prima delle due tendenze, quella dell’aumento del capitale costante, e lo fa in maniera evidente e dirompente, lasciando probabilmente più che nelle passate fasi di innovazione un timore piuttosto fondato della possibilità di sostituzione quasi totale del lavoro umano. Rispetto alla seconda tendenza, quella del lavoro improduttivo, si intravede un tentativo più o meno volontario di correzione, cioè di assorbire sostituendo o convogliando in numero minore i lavoratori improduttivi ma d’altro canto, la dilatazione spaziale delle catene produttive e la compressione dei tempi, fa sì che questi sforzi risultino nella migliore delle ipotesi nulli. Il punto è che il grado di sviluppo tecnologico non può retrocedere, e allo stato attuale ciò significa che il lavoro improduttivo non può diminuire, e continua a soffocare il lavoro produttivo di plusvalore, che invece decresce progressivamente. (*) Barbara Ambrogio (Reggio Calabria, 1996) è laureata in Scienze per la Cooperazione e lo Sviluppo, Università della Calabria, con una tesi dal titolo “Le premesse teoriche e storiche dell’Industria 4.0”. Precedentemente ha conseguito la laurea triennale in Discipline economiche e sociali. di Giordano Sivini
(la prima parte la trovate a questo link) Il grande lockdown La diffusione del covid 19 è partita dalla città di Wuhan, nella provincia cinese dello Hubei, area di grande sviluppo industriale (metallurgia, automobile, chimica, tessile, navale ed elettronica), le cui attività si sono bloccate nel mese di gennaio. Nella provincia hanno la sede centrale 17 mila società. A febbraio il blocco si è esteso a 24 provincie della Cina in cui si produce più del 20 per cento del PIL nazionale e il 90 per cento delle esportazioni. C’è una fitta rete di piccole imprese, per il 70 per cento con meno di 10 dipendenti e un altro 20 per cento tra 10 e 100. Alcune producono per il mercato interno, ma in gran parte sono fornitori diretti o di primo livello di 50 mila società operanti nel mondo - soprattutto Stati Uniti, Giappone, Germania e Svizzera - e fornitori di livello più basso di circa altri cinque milioni[1]. Il blocco della produzione e del mercato cinese ha avuto effetti negativi sulle attività degli altri Stati prima che questi, grossomodo a partire da marzo, decidessero a loro volta la sospensione delle attività non essenziali, mentre la Cina già affrontava le conseguenze del blocco delle proprie supply chains; con il governo alla ricerca di fonti alternative di approvvigionamento, e impegnato anche ad offrire sostegno a quelle di esportazione[2]. Il paese aveva già sperimentato, nella grande recessione, il blocco delle supply-chains, meno pesante e tuttavia più generalizzato negli effetti, dal momento che è recente la tendenza alla ristrutturazione su basi regionali di una parte delle relazioni di fornitura, entro le aree del Nafta, dell’Europa e dell’Asia Orientale, con centri rispettivamente negli Stati Uniti, in Cina, Giappone, Corea, e in Germania[3]. Dalla grande recessione il paese era uscito rafforzato rispetto alle altre economie del globo, che avevano subìto la recessione in maniera più massiccia. Nel 2009 la Cina era cresciuta dell’8 per cento, e un anno dopo, superato il Giappone, era diventata la seconda economia del mondo. L’uscita dalla crisi attuale potrebbe avere conseguenze analoghe. Per il 2020 la Banca mondiale stima una sua crescita dell’1 per cento, molto più bassa degli anni precedenti, che tuttavia va messa a confronto con il meno 6 per cento degli Stati Uniti. Dalla Cina è partito il processo che, sviluppandosi nel mondo globalizzato, ha bloccato il circuito produttivo, intaccando il flusso di rendimenti che, partendo dai sottostanti, alimenta i titoli, e privando temporaneamente il capitale produttivo di interesse della possibilità di erogare crediti e il capitale produttivo di merce di erogare rendimenti. Il blocco ha prodotto per gli Stati Uniti conseguenze sintetizzate da questi indicatori: Pil – 5,0 per cento, disoccupazione 14,7, commercio al dettaglio – 16,4, produzione industriale -11,2, prezzo delle abitazioni – 30,2. Stando ad alcune analisi, il covid 19 ha solo anticipato l’emergenza di una crisi che avrebbe potuto essere prodotta dallo scoppio di una bolla finanziaria globale, negli anni recenti sempre più spesso evocata. “Le bolle speculative su credito e equity che circolavano nel sistema attendevano una miccia per esplodere e la crisi finanziaria sarebbe arrivata comunque, anche solo per una semplice recessione. Se si continua ad insistere nell’attribuire a un virus, e cioè a un fattore esterno, il motivo della crisi che ci attende, si continua a negare l’evidenza di un modello finanziario ed economico che funziona solo con eccesso di leva, compressione dei redditi, ampio debito speculativo e pochi investimenti nell’economia reale, un modello che non è sostenibile”[4]. Il PIL non cresce, e cresce invece il debito. “perché una parte rilevante di questo nuovo debito serve per fare finanza (leverage) e non per fare investimenti nell’economia”[5]. Dal 2009 il valore dei titoli obbligazionari delle società quotate in borsa è triplicato, e ne è aumentato il rischio. Non di rado l’indebitamento è servito al riacquisto dei propri titoli azionari, per realizzare l’estremo tentativo di sostenere una redditività non raggiunta con profitti operativi, praticamente fermi da 5 anni[6]. Il credito veniva non dalle banche ma dagli investitori istituzionali frustrati dal calo quasi a zero degli interessi dei titoli di Stato, causato dalla liquidità elargita dalle Banche centrali anche dopo la fine della grande recessione. Prima dell’arrivo del covid “il 22 per cento del debito societario non finanziario comprende obbligazioni spazzatura emesse a fini speculativi e un altro 40 per cento è classificato BBB, solo una tacca sopra la spazzatura. In altre parole, quasi i due terzi delle obbligazioni provengono da società ad alto rischio di insolvenza”[7]. Nella crisi del lockdown lo Stato si è fatto carico di questa situazione. “Così facendo - osserva Valsania, già consigliere economico di Obama - ha prevenuto che una crisi economica si trasformasse in crisi finanziaria e ha significativamente difeso la stabilità del mercato del credito”[8]. Sono stati attivati programmi per sostenere le imprese in difficoltà, offrendo direttamente credito per riattivare i flussi di rendimenti sottoposti a rischio e di sostenere le attività. Uno spostamento di rotta significativo, rispetto alla grande recessione che aveva puntato sulla riattivazione del sistema bancario come mediatore della liquidità necessaria per riavviare il credito. Questa volta alle banche è stata attribuita la funzione di incubatrici del credito che Federal Reserve e Tesoro avrebbero erogato o garantito direttamente alle imprese. Nel 2019 la Federal Reserve era dovuta intervenire, con prestiti e iniezioni di liquidità, per riattivare le relazioni interbancario minacciate da insolvenza. Col lockdown la centralità dell’intervento dello Stato si è spostata dalle banche alla Borsa, per proteggere le relazioni tra attività sottostanti e flussi di rendimenti puntualmente identificabili. Su questo terreno la Federal Reserve e il Tesoro gestiscono 6.800 miliardi di dollari, equivalenti al 31,7 per cento del Pil annuo degli Stati Uniti. La Federal Reserve tiene a zero il tasso di interesse, facilita l’accesso al credito delle banche, sostiene il movimento dei flussi di credito, e rilancia il quantitative easing con acquisti dalle banche per 1.143 miliardi di dollari nelle due settimane a cavallo tra marzo e aprile (801miliardi di titoli del Tesoro e 302 di titoli derivati), in seguito progressivamente ridotti. In quei due mesi monetizza il cento per cento del debito legato all’emissione di titoli del Tesoro[9]. Il sostegno alle imprese in difficoltà consiste in contributi al fondo perduto alle piccole imprese, nell’acquisto in Borsa di quote azionarie e obbligazionarie, di garanzie sul debito e in credito agevolato. I contributi a fondo perduto erogati dal Tesoro sono previsti dal Paycheck Protection Program, che ha una dotazione di 669 miliardi di dollari sui 2.350 stanziati a fine marzo dal Congresso con il Cares Act e di altri 494 il mese successivo. Copre nella totalità i prestiti bancari ottenuti da imprese in attività con non più di 500 dipendenti per far fronte ai costi diretti e indiretti di otto settimane di salari. Ne hanno beneficiato cinque milioni di imprese. Per le compagnie aereonautiche e per la Boeing sono riservati invece 46 miliardi a fronte di partecipazioni, vincoli sull’utilizzazione dei fondi e licenziamenti limitati al 10 per cento dei dipendenti. L’acquisto in Borsa di titoli azionari e obbligazionari è stato annunciato dalla Federal Reserve il 23 marzo per ridare fiducia alla Borsa, dopo un mese di andamenti incerti seguiti al crollo del 20 febbraio. La Banca centrale agirà sul mercato primario e su quello secondario, mettendo al sicuro tutti i titoli in difficoltà. È la salvezza per i fallen angels, come Carnival. Kraft, Heinz, Ford, Hertz, i cui debiti potranno essere garantiti dalla Banca centrale. Il messaggio è chiaro e nei mesi successivi la Borsa cresce. “Quale crisi?”, si domanda il New York Times, osservando che nel trimestre del covid l’indice S&P 500, che rappresenta bene il mercato borsistico, è cresciuto del 20 per cento, l’aumento trimestrale più alto dal 1998. L’indice Nasdaq sta inoltre puntando su un guadagno che su base annuale sarebbe tra i migliori degli ultimi due decenni. Non c’è dubbio che sia stata la Federal Reserve, rassicurando gli investitori, a preparare il terreno per questa carica speculativa. Ma 200 società del S&P 500 hanno difficoltà a fornire previsioni agli azionisti; il Nasdaq è del tutto sconnesso dai fondamentali, centinaia di imprese hanno dichiarato bancarotta. Potrebbe prospettarsi una crisi come quella Dot-Com[10]. Ci sono però 5 giganti che trascinano la Borsa: Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Facebook. Fin dal gennaio 2018 il mercato azionario “è diventato totalmente dipendente da essi con una immensa concentrazione di potere che adesso si trova in una situazione di sicurezza normativa”[11]. La Federal Reserve dovrebbe limitarsi per legge a trattare titoli di Stato o coperti da garanzie governative. Supera però l’ostacolo agendo attraverso società appositamente costituite dal Tesoro, a cui affida i propri fondi per erogare crediti o acquistare titoli che a fine programma verranno reimmessi sul mercato. Queste soluzioni sono autorizzate dal Dodd-Frank Act, che dopo la grande recessione ha emendato l’articolo 13 paragrafo 3 del Federal Reserve Act del 1913: vengono appunto definite thireen three facilities. Il Tesoro a questo fine dispone di 500 miliardi avuti dal Congresso. Investe 75 miliardi nei programmi Primary and Secondary Market Corporate Credit Facilities per la costituzione di due società che gestiranno 750 miliardi della Federal Reserve per gli acquisti in Borsa. La gestione delle società è affidata a BlackRock Financial Market Advisory, che si presenta così sul web: “Sfrutta i dati di BlackRock, le sue capacità di analisi dei rischi, la tecnologia e i modelli finanziari, mantenendo al contempo barriere informative rigorose e altre procedure per gestire i potenziali conflitti di interesse”. BlackRock è la più grande società d’investimento al mondo, e gestisce un patrimonio di 6.3 mila miliardi di dollari, È azionista di peso di grandi banche e di imprese in molti paesi, e interviene nelle loro assemblee. La sua fortuna viene dagli ETF (Exchanged Traded Funds), fondi di investimento passivi negoziati in borsa, costituiti da indici compositi di titoli azionari e obbligazionari il cui rendimento complessivo proviene dai loro sottostanti. Gli ETF sono tra i titoli di cui la Federal Reserve prevede l’acquisto; l’annuncio ha contribuito ad attirare in aprile sugli ETF di Blackrock un flusso di investimenti di quasi 4 miliardi di dollari[12]. Per facilitare il credito alle piccole e medie imprese in difficoltà con meno di 15 mila dipendenti la Federal Reserve interviene invece con il Main Street Lending Program. Il Tesoro investe 75 miliardi nella costituzione di una società che con 600 miliardi della Federal Reserve acquista dalle banche il ’95 per cento di crediti quadriennali erogati anche senza garanzie. La parte restante resta a carico delle banche, che, assieme al Tesoro, alla maturazione del debito saranno responsabili di eventuali perdite. Un’altra società è creata dal Tesoro con 10 miliardi di dollari per implementare la cartolarizzazione. Con 100 miliardi della Federal Reserve, acquista titoli derivati dalle imprese che li producono cartolarizzando mutui e prestiti entro un elenco che spazia dall’acquisto dell’automobile, alle carte di credito, ai beni di consumo. L’obiettivo enunciato è di facilitare l’indebitamento di persone e famiglie, facilitando la cartolarizzazione dei loro debiti. Non manca dunque la fantasia nell’allestimento e nell’implementazione dei programmi congiunti del Tesoro e della Federal Reserve che sono più di quelli qui citati. Su Bloomberg un analista finanziario osserva: “La Fed sta dando al Tesoro l'accesso alla sua macchina da stampa. In ultima analisi, ciò significa che l'Amministrazione sarà libera di esercitare il proprio controllo, non quello della Fed, su queste società, incaricandola di stampare sempre più denaro in modo da poter acquistare titoli e distribuire prestiti, nel tentativo di spingere in alto i mercati finanziari in periodo di elezioni”[13]. Segretario al Tesoro è Steven T. Mnuchin, “un lupo di Wall Street impigliato in vari scandali finanziari”, secondo Philip Mirowski, un economista statunitense[14]. Mnuchin è stato promotore di un fondo di investimento assieme a Soros, produttore a Hollywood di Avatar e Suicide Squad, sostenitore finanziario del partito democratico. È approdato al Tesoro dopo aver diretto la campagna finanziaria di Trump. “È il tipo di persona che riutilizzerà il denaro messo a disposizione dalla Banca centrale per riorganizzare l'economia come preferisce. Se Mnuchin poteva avere dubbi su ciò che stava facendo nel 2008 - allora era in Goldman Sachs - è ovvio che ora è pienamente consapevole degli abusi che sta commettendo”, aggiunge Mirowski[15]. Secondo Robert Brenner, col Tesoro e la Federal Reserve si realizza una “intensificazione della predazione politica”[16] Il credito al consumo costituiva, prima del covid, il driver dell’economia[17] che gonfiava una bolla. Su questo fronte lo Stato non ha previsto interventi mirati, limitandosi alla erogazione di contributi. Con il Cares Aid sono stati stanziati 293 miliardi per l’erogazione di 1.200 dollari più 500 per ogni figlio a carico a ottanta milioni di persone di basso e medio reddito; altri 268 miliardi per dare 600 dollari a settimana per quattro mesi a trenta milioni di disoccupati, oltre ai contributi di disoccupazione. Si aggiungono alcune facilitazioni fiscali, 25 miliardi buoni alimentari per gli indigenti, moratoria (se i creditori sono d’accordo) sulle scadenze dei debiti, che rinvia di pochi mesi la crisi dei derivati che li hanno cartolarizzati. Niente che apra una prospettiva. “È chiaro che, più tempo ci vorrà per sviluppare e distribuire vaccini e cure efficaci, più grande sarà la montagna di debito non pagato con carta di credito, affitti, impegni ipotecari e altri conti che emergeranno”[18]. Ma la tempistica è stata definita dai repubblicani che controllano il Senato, e non vogliono interferenze sul mercato del lavoro. Conclusioni Nella grande recessione il discorso pubblico era concentrato sulla liquidità dei titoli e la solvibilità delle banche. I rendimenti si alimentavano del valore espropriato alle famiglie che avevano impegnato le case e i salari futuri. La soluzione non riguardò queste attività sottostanti, bensì i titoli per ritirali temporaneamente dal circuito finanziario fin quando fossero diventati liquidi, di compensare le banche per questi ritiri, e risanare i loro bilanci. La liquidità immessa dallo Stato restò in parte all’interno del circuito finanziario, in parte servì ad alimentare l’indebitamento privato. Nel grande lockdown il discorso pubblico è concentrato su debito e sulle difficoltà delle attività sottostanti di farvi fronte, a causa del fermo delle imprese. La soluzione è di intervenire per garantirle nell’erogazione dei rendimenti e nell’accesso al credito per sostenere la ripresa. La liquidità immessa a piene mani nel circuito produttivo sta gonfiando la Borsa, immunizzata dai disastrosi eventi sociali e produttivi. Le banche invece sono fuori gioco; non sanno più chi è degno di credito. Le tre agenzie che classificano i consumatori sulla base dell’affidabilità creditizia non sono in grado di contabilizzare gli oltre 4 milioni di pagamenti rinviati. Le banche non conoscono i propri clienti, essendosi affidate all’algoritmo, che definisce il punteggio di credito, sufficiente per valutare i rischi formali dei derivati. La Federal Reserve ha affermato che una prolungata recessione potrebbero subire perdite fino a 700 miliardi di dollari. In Borsa le imprese sono rappresentate da titoli di debito che esse stesse devono remunerare con i rendimenti sottratti ai loro profitti. Se riescono a farlo possono riprendere ad estrarre valore da quello che già incorporano o dal plusvalore che ancora producono, per trasferirlo agli investitori che hanno in mano i titoli avendo erogato il credito. Questo orizzonte è segnato dalla riduzione irreversibile della valorizzazione e dalla incessante espropriazione di ricchezza sociale che alimenta la crescita economica basata sul debito. Ma, in Borsa come in banca, il movimento procede sul breve periodo con la crescita fittizia che la speculazione riesce a realizzare puntando al rialzo dei prezzi dei titoli e sulle plusvalenze, che Federal Reserve e Tesoro stimolano nel lockdown. Nella grande recessione questa crescita aveva già mostrato la corda con lo scoppio della grande bolla e la generale svalorizzazione. Prima dell’arrivo dei covid era stata prevista una nuova bolla, che potrà riproporsi al termine della breve moratoria sui pagamenti dei rendimenti dei nuovi titoli cartolarizzati basati sul debito delle famiglie. Ma una nuova, gonfiata dallo Stato, sta maturando in Borsa, e le banche, qui declassate ad imprese, attribuiscono al Volker rule lo spostamento di campo della speculazione. Lo Stato, più rapido e alacre di prima, nel grande lockdown si espone finanziariamente senza limiti poiché la distribuzione di liquidità, ovunque sia politicamente conveniente, è l’unica strategia di cui dispone nell’economia del debito. Consente alle attività sottostanti di indebitarsi per far fronte ai rendimenti dei debiti già pendenti, e colma le aspettative dei possessori di titoli in quanto creditori. Con le due grandi crisi diventa anacronistica la rappresentazione della Banca Centrale dome espressione della sovranità del denaro, che le era stata attribuita nella società del valore. Il Congresso ne ha allargato le funzioni, in una sorta di connubio con il Tesoro che consente alla politica monetaria di intrecciarsi con la politica fiscale, e allo Stato di contare su una illimitata potenza di intervento. In entrambe le crisi la Federal Reserve ha monetizzato integralmente la spesa straordinaria decisa dal Congresso, acquistando dalle banche i titoli del Tesoro. I rendimenti che lo Stato paga vanno alla Federal Reserve e sono girati al Tesoro fin quando i titoli si estinguono. Questo, pur detto sommariamente, indica che il livello di dipendenza dello Stato dagli investitori è un problema politico se Tesoro e Banca centrale cooperano entro la stessa sfera di sovranità[19]. Quel che avviene negli Stati Uniti con la seconda grande crisi dell’economia del debito accelera la transizione egemonica che Giovanni Arrighi aveva preannunciato all’inizio della prima grande crisi[20]. Lo rileva con chiarezza Maurizio Novelli su Milano Finanza. “Mentre tutti si scannano per comprare un mercato ormai sostenuto solo dalla FED, dall’altra parte del mondo si aprono spazi di manovra che non dipendono solo da quanto QE fanno le Banche Centrali, ma dalla capacità di creare nuova domanda per consumi e investimenti in un potenziale mercato di oltre 3 miliardi di consumatori. La Cina si prepara a gestire il decoupling dall’economia americana e ad abbandonare il dollaro al suo destino”[21]. [1] Dun&Bradstreet, Business and Supply Chain Analysis Due to the Coronavirus Outbreak, Special briefing 5 febbraio 2020. [2] Fondazione Italia-Cina, Instant Analisys, 28 febbraio 2020. [3] Baldwin R., Freeman R., Supply chain contagion waves, VOX CEPR Policy Portal,1 aprile 2020. [4] Novelli M., La crisi? Inizierà a settembre. E assomiglia purtroppo al 1929, Milano Finanza, 10 giugno 2020. [5] Ivi. [6] Novelli M., Perché il sistema capitalistico è praticamente morto, Milano Finanza, 5 maggio 2020. [7] Lund S., Are we in a corporate debt bubble?, Project sindacate, 21 giugno 2018. [8] Valsania M., L’ex consigliere economico di Obama: come risollevare gli Usa dalla crisi del virus, Sole 24 Ore, 20 maggio 2020. [9] Richter W., Who Bought this Huge Pile of US Government Debt? Wolf Street, 16 giugno 2020. [10] Ponczec S., Wang L., Blistering Nasdaq Momentus Is Approaching Dot-Com Escape Speed, Bloomberg, 2 luglio 2020. [11] Richter W., Wild Ride Nowhere, Woolf Street, 11 luglio 2020. [12] Dorn J.A., The Fed’s Corporate Lending Facilities: A Case of Pseudo Markets, Cato Institute, 26, 13 giugno 2020. [13] Brown E.H., Hanno nazionalizzato la Federal Reserve?. Tlaxcala, 7 giugno 2020. [14] Celnik N., L’après ne sera pas favorable à une société de gauche, Liberation, 28 aprile 2020. [15] Ivi. [16] Brenner R., Escalating plunder, New Left Review, 123, maggio-giugno 2020. [17] Novell M., Crisi del debito, cresscita economica e crisi finanziarie, Milano, Sole 24 Ore, 2019, pp. 66-7. [18] Kane E.J., The Good, the Bad, and the Ugly About the Fed’s New Credit AllocationPolicy, Institute for Economic Thinking website, 30 giugno 2020. [19] Tankus N., The Federal Government Always Money-Finances Its Spending: A Restatement, Notes on the crisis, 30 giugno 2020. [20] Arrighi G., Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli, 2008. [21] Novelli M., Perché è il momento di vendere USA allo scoperto, Milano Finanza, 3 luglio 2020. di David Broder
[Una recensione di The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), curato da Pietro Basso] Il 27 marzo del 1944, Palmiro Togliatti sbarcò a Napoli dopo diciotto anni trascorsi in esilio. Secondo un suo compagno, Maurizio Valenzi, al momento di incontrare i comunisti partenopei una delle prime domande del segretario del PCI fu: “Ma che cosa fa Bordiga?” Il fondatore del Partito Comunista era stato espulso dal partito clandestino nel 1930, in un momento in cui la sua organizzazione sul territorio italiano era stato pressoché schiacciata dal fascismo; tornando dall’URSS nel 1944 per costruire il suo “partito nuovo,” Togliatti voleva perciò combattere ciò che chiamava i residui di “bordighismo” nella base comunista. E come Togliatti stesso aveva insistito nel 1930, espellere Bordiga dal partito era una cosa; espellere il “bordighismo” tutta un’altra. Parallelamente, di fronte alle espressioni diffuse di “estremismo” e di “settarismo classista” tra la base comunista nelle regioni liberate (e anche all’ascesa di forze dissidenti organizzate in tutta Italia), gli agenti dell’Allied Military Government temevano la potenza sovversiva di uno spettrale Bordiga, sfuggente eppure “very popular amongst masses and especially amongst workmen”. Che cosa faceva Bordiga, in quei mesi? I compagni di Togliatti risposero seccamente: non faceva quasi nulla, ancora non si era fatto vivo. Il segretario del PCI: “Non è possibile, cercate di capire” (o secondo un’altra versione, in tono più tetro: “Eppure con questo abbiamo un conto aperto e dobbiamo chiuderlo”.) Per lo storico Luigi Cortesi questo episodio evidenzierebbe un aspetto chiave della vicenda storica di Bordiga, che potremmo qualificare come lo scarto tra, da una parte, la presenza duratura fra la base comunista di un insieme di idee tendenzialmente “livorniste” e poco gramsciane, ma anche un po’ generiche (l’opposizione frontale al mondo borghese, la politica classe-contro-classe, l’imminenza della rivoluzione proletaria “come in Russia” ecc.), e, dall’altra, l’attività e i posizionamenti politici concreti del fondatore stesso. Negli anni della Resistenza, le opposizioni alla politica nazional-unitaria del PCI (molte delle quali rimaste su posizioni più o meno filo-staliniane, ad esempio il Movimento Comunista d’Italia, MCd’I, a Roma) avevano cercato la collaborazione di Bordiga per “ricreare il partito del 1921”: una proposta secondo lui velleitaria. Nonostante lo slancio militante e anche la capacità d’aggregazione dei movimenti comunisti dissidenti, Bordiga vedeva solo la loro confusione politica e — era questa la vera discriminante, che condizionava anche il suo giudizio sull’attività dei comunisti “internazionalisti” — la morsa del “periodo controrivoluzionario”. Un articolo pubblicato sul bollettino interno del MCd’I nel maggio del 1944, probabilmente ad opera di Antonino Poce (già amico di Bordiga nel confino), condannò la politica nazional-unitaria del PCI insistendo che “la più brutta malattia che abbiamo contratta in questi venti anni è l’antifascismo”. Ma per Bordiga, la “situazione reazionaria” era determinata non solo dalla politica frontista dei leader del PCI, ma proprio dalla sua genesi originaria, cioè la sconfitta fondamentale subita dalla rivoluzione europea negli anni ’20. Nel 1930 aveva negato l’opportunità di creare un’opposizione antistalinista internazionale, ipotesi difesa invece da alcuni suoi compagni quali Onorato Damen e Ottorino Perrone. E nel 1944, davanti all’affermazione piena di una nuova egemonia mondiale — l’imperialismo a stelle e strisce — era illusorio, secondo Bordiga, immaginare che le opposizioni italiane avrebbero potuto anche iniziare a superare il clima di “controrivoluzione democratica” globale. Come Bordiga ha spiegato allo storico Giorgio Galli, dopo la sua sconfitta nel partito e nell’Internazionale nel 1926, egli non proseguì la sua opposizione in modo attivo perché “non c’era niente da fare.” E a fine marzo 1944, nei giorni della “svolta di Salerno,” i compagni di Togliatti avevano sostanzialmente ragione a dire che Bordiga non s’era fatto vivo. Eppure, da quell’anno in poi, cominciava un altro periodo di attività, ormai non più inserita nelle vicende politiche “di massa” o di agit-prop, ma centrata sul “recupero” di ciò che chiamava la “dottrina marxista inadulterata.” Nel 1952, durante la scissione che lo separò dai sostenitori della ricostituzione immediata del partito, avrebbe avuto modo di citare il giudizio di Engels del 1874 sui fuoriusciti della Comune parigina, secondo cui: Dopo ogni rivoluzione naufragata, od ogni controrivoluzione, si sviluppa tra i profughi scampati all'estero una attività febbrile. Le diverse gradazioni di partiti si raggruppano, si accusano reciprocamente di aver condotto il carro nel fango, si incolpano gli uni e gli altri di tradimenti e di tutti i possibili peccati mortali. Si rimane così in istretto legame con la patria, si organizza, si cospira, si stampano fogli volanti e giornali, si giura che in ventiquattro ore si tornerà a ricominciare, che la vittoria è certa e si distribuiscono nell'attesa di già gli uffici governativi. Naturalmente i disinganni seguono ai disinganni, e poiché questi non si vogliono ascrivere alle condizioni storiche ineluttabili, che non si vogliono capire, ma ai fortuiti errori dei singoli, così si accumulano le reciproche accuse e tutto finisce in una baruffa generale. Ormai Bordiga si dedicava alla ricerca e allo studio, volendo ripristinare e difendere la dottrina del “partito storico” (approssimativamente, la parte comunista) anche quando non era possibile ricostruire il “partito formale” concreto e organizzato. La nuova antologia in lingua inglese degli scritti di Bordiga (curata da Pietro Basso) cerca di valorizzare soprattutto questo secondo periodo della vita di Amadeo Bordiga. Prima pubblicazione di questo tipo in lingua inglese, propone un’ottima traduzione (realizzata da Giacomo Donis e Patrick Camiller) di testi quasi sconosciuti nel mondo anglofono, al di fuori dei piccolissimi circoli legati o alla figura di Damen o (in chiave più eterodossa, meno leninista) alla parabola di Jacques Camatte e della Gauche Communiste francese postsessantottina. Infatti, sebbene il volume presenti anche 160 pagine di testi classici riguardanti il periodo “alto” della sua militanza, dal 1911 al 1926 — e viene segnalato il suo ruolo di “fondatore”, solitamente rimosso nella produzione accademica di ispirazione “PCI-ista” o gramsciana — Basso sottolinea il fatto che l’importanza di Bordiga non si limita al suo coinvolgimento diretto nelle vicende storiche del movimento operaio italiano. Infatti, anche parlando del dopoguerra, è palese l’interesse di Basso soprattutto per le capacità analitiche di Bordiga e per la sua lettura di Marx, anziché per le sue tesi sulla forma-partito e sulle questioni più prettamente organizzative. Pubblicato da Brill proprio nel 50° anniversario della morte di Bordiga, avvenuta il 23 luglio 1970, The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965) cerca di interrompere la congiura del silenzio contro questa figura, una rimozione ancora prevalente e pressoché totale nonostante (e in qualche senso grazie a) la canonizzazione quasi unanime di Gramsci. Al di là della loro importanza per capire il vero rapporto Bordiga-Gramsci, i testi inclusi in questa antologia affrontano temi di importanza più generale come l’ascesa dell’indebitamento personale negli USA, quale modo di formare dei proletari-consumatori; la rivoluzione nei paesi coloniali ed “I fattori di razza e nazione nella teoria marxista”; nonché la prospettiva di un comunismo ecologico e “anti-produttivista” basato sulla riduzione del tempo di lavoro, cioè un “piano di vita per la specie umana”. Nonostante il dogmatismo rivendicato di Bordiga ed il suo ripudio di ogni pretesa “innovatrice”, questi scritti avevano in realtà anche una carica anticipatrice, rimossa sia dalla storiografia PCI-ista che da gran parte dei suoi propri seguaci. Originalità Nel piccolo mondo della sinistra comunista, e anche agli occhi di Bordiga stesso, risulterebbe davvero eretico parlare del suo ruolo “innovatore.” Dal 1944 in poi non firmò i propri articoli, almeno quelli sui problemi politici; e, al di là di questo anti-individualismo, criticò aspramente ogni pretesa di rendere “la dottrina originale” del comunismo formulata da Marx più “sofisticata” o di piegarla alle domande di “condizioni speciali”, secondo lui fornendo così soltanto la base d’appoggio ad ogni tipo di rinuncia e di opportunismo. Al contrario, Bordiga ha vantato il proprio “dogmatismo” parlando addirittura — con un affermato spirito di provocazione — delle “tavole immutabili” della teoria marxista del partito. Già nelle sue prime battaglie politiche prima della Grande Guerra, Bordiga evoca il bisogno di “tornare alle origini” per superare l’opportunismo del Partito Socialista Italiano. Ma — come ci indica la dettagliata ricostruzione proposta da Luigi Gerosa — Bordiga ha proseguito uno studio attento di Marx soprattutto dopo il 1945 e, su questa base, ha cercato di utilizzare le sue categorie per elaborare un’indagine approfondita dal capitalismo americano e della formazione sociale russa (secondo lui anch’essa capitalista). Nonostante la negazione del proprio ruolo personale (arrivando anche all’anonimato assoluto) e l’insistenza sul fatto che non stesse facendo niente di più rivoluzionario che riscoprire la dottrina originale (un po’ come Martin Lutero, dunque…), è evidente che Bordiga ha formulato qualcosa di molto originale, rispetto non solo alle tradizioni del socialcomunismo italiano ma anche allo stesso pensiero di Marx. Indicativo in questo senso era il suo “programma per i paesi del capitalismo maturo,” abbozzato nel 1952-53. Questo documento, citato nell’Introduzione di Pietro Basso, esprime una critica molto forte dell’industrialismo staliniano e delle sue ramificazioni italiane (la “costruzione del socialismo” identificata con lo sviluppo delle forze produttive), ma allo stesso tempo una lettura di Marx più che rara fino ad allora. Contrastava anche alcuni aspetti ‘sviluppisti’ presenti nell’opera del pensatore tedesco stesso, nonché in Trockij ed altri. Possiamo riassumere così i punti del programma abbozzato da Bordiga (Basso lo fa a p. 92 dell’antologia): 1. Disinvestimento dei capitali, destinando la produzione al consumo anziché allo sviluppo dei mezzi strumentali. 2. Innalzamento dei "costi di produzione" : salari alzati, orari ridotti. 3. Una drastica riduzione del tempo di lavoro, almeno alla metà delle ore attuali. 4. Piano di "sottoproduzione" per contrastare l’economia-spreco; controllo autoritario del consumo, abolizione delle merci di lusso, dannose, inutili ecc. 5. Rottura dei limiti di azienda, nuovo piano collettivo di produzione e consumo. 6. Fine delle contraddizioni fra le età dell'uomo; va abolita la cosiddetta assistenza a carattere mercantile. 7. Fine della contraddizione fra le aree urbane e il resto del territorio. 8. Abolizione della divisione del lavoro e delle gerarchie professionali. 9. Abolizione dell'informazione mercificata, oramai disciplinato dallo stato. Si stagliano in questo documento due cose piuttosto impressionanti. Il primo è il disinteresse totale per i processi decisionali quale fondamento dell’ordine nuovo; se il Manifesto del 1848 cercò una doppia rivoluzione democratica-sociale, Bordiga considerava questa enfasi superata e ormai dannosa. Ma, soprattutto, questo sarebbe un programma focalizzato sulla pianificazione: non per sviluppare l’economia in modo più “razionale” o “coordinato”, ma per rispondere agli “autentici bisogni umani” sia nell’ambito del consumo che nel processo di produzione stesso. Contro la visione del socialismo quale industrializzazione accelerata (ciò che il primo Jacques Sapir avrebbe chiamato “l’economia di guerra permanente”) Bordiga propone delle misure fin da subito atte a smantellare i meccanismi di accumulazione capitalistica e favorire lo sviluppo libero della specie umana. Come ha scritto nel 1957, parlando de Il Capitale, “In quelle pagine di Marx fiammeggia in opposizione al concetto borghese di Libertà della Persona quello comunista del Tempo disponibile per la Specie, il suo sviluppo materiale e mentale, e la sua armonia di letizia.” Castelli in aria? Il gruppo di Programma Comunista in cui “militava” Bordiga era un gruppo di studio anziché un partito che si indirizza alle masse, e il Programma di cui parlava non era portato avanti da un’organizzazione vera e propria. Eppure, bisogna distinguere tra la scarsa eco delle tesi di Bordiga (che pure, certo, finì con l’occultare loro carica “anticipatrice”) e l’utopismo nel senso di una visione di un futuro ordine delle cose, staccata dall’analisi delle realtà presenti. Critico assiduo non solo del Socialismo in Un Solo Paese, ma, a maggiore ragione, dei vari neo-proudhonismi e utopie autonomo/localiste (che secondo lui riproponevano vecchie formule idealiste già demolite da Marx), Bordiga sottolineava il fatto che l’ordine comunista di cui parlava dipendeva da condizioni tecniche già esistenti ma da condividere altrimenti. Invocava “un'espressione formidabile” di Marx: il “cervello sociale” per sottolineare la base tecnico-materiale su cui l’ordine nuovo potrebbe reggersi: “Il Sapere della specie, la Scienza, ben più che l'Oro, non sono per noi privati retaggi, ed in Potenza appartengono integri all'uomo Sociale.” Qui, Bordiga ha fornito una lettura precoce, sebbene ancora poco nota, dei Grundrisse di Marx. A lungo ignorato, il manoscritto di Marx (che risale al 1857-8) era uscito a Mosca nel 1939 prima della sua pubblicazione nella DDR nel 1953. Bordiga aveva modo di studiare e commentare i Grundrisse grazie alle traduzioni private girategli dal suo compagno francese Roger Dangeville già negli ultimi anni Cinquanta, ben prima della loro pubblicazione in qualsiasi paesi occidentale (teniamo presente che anche la famosa lettura compiuta da Roman Rosdolsky è apparsa solo nel 1968). In questa chiave, Bordiga forniva un’interpretazione originale del problema dell’automazione, opponendosi già negli anni Cinquanta alla tesi secondo cui questo processo avrebbe costituito una minaccia alla prospettiva rivoluzionaria fondata sulla centralità del proletariato. Nel testo selezionato per questa antologia (con il nuovo titolo ‘Chi ha paura dell’automazione?’), Bordiga ripudia la tentazione luddista insieme a quella ‘sviluppista’ — insistendo sul bisogno di assimilare i progressi scientifici odierni proprio per cambiarne il segno: il Mostro nemico [il capitale fisso industriale come contrapposto nella forma capitalista al lavoro umano] che incombe sulla massa dei produttori e monopolizza un prodotto, che non solo attiene a tutti, ma a tutto il corso attivo della specie nei millenni, la Scienza e la Tecnologia elaborate e depositate nel Cervello Sociale. Oggi che la Forma capitalista scende il ramo della degenerazione, questo Mostro uccide la Scienza stessa, ne fa mal governo, ne conduce l'Usufrutto in modo criminale dilapidando il retaggio delle generazioni avvenire. In quelle pagine [dei Grundrisse] si vede l'odierno fenomeno della Automazione scontato e teorizzato per il lontano avvenire. Quello che ci permettemmo di chiamare Romanzo del lavoro oggettivato, ha per epilogo la sua palingenesi, con cui il Mostro diviene Forza benefica dell'umanità tutta cui consente di non estorcere sopralavoro inutile, ma di ridurre a minimi il lavoro necessario, "a tutto vantaggio della formazione artistica, scientifica, ecc., degli individui", ormai elevati all'Individuo Sociale. Vogliamo qui trarre dagli autentici materiali, oggi assai più validi ed evidenti dell'epoca in cui nacquero, un'altra non meno autentica formulazione. Fermata dalla rivoluzione proletaria la dilapidazione della Scienza opera del Cervello Sociale, compresso il tempo di lavoro ad un minimo che ne fa tutta gioia, esaltato a forme umane il Capitale fisso mostro di oggi, ossia soppresso, non conquistato all'uomo o alla Società, il Capitale, transeunte prodotto storico, l'industria si comporterà come la terra, una volta liberati da ogni proprietà di chicchessia gli impianti come il suolo. Sulla base del capitalismo Sebbene esistano in Marx alcuni spunti adatti a ispirare una simile visione (e anche aspetti ecologici, rilevati di recente anche da autori quali John Bellamy Foster), tutto questo non era solo un ripristino della “dottrina originale del marxismo” contro i suoi falsificatori. Anzi, spesso Bordiga entra in contraddizione con la nozione marxiana dei rapporti capitalistici che diventerebbero “catene” per l’espansione delle forze produttive (soprattutto se questa espansione viene vista come necessaria e/o auspicabile). Questa specificità di Bordiga venne sottolineata da Loren Goldner in un articolo che qualifica le posizioni di Bordiga come un ripudio del socialismo concepito quale “succedaneo della rivoluzione borghese” Qui, Goldner parla di una nozione inerente alla “rivoluzione permanente” (ma anche al pensiero dei vari Kautsky, etc…) secondo cui il proletariato dovrebbe portare a buon fine i “compiti” della rivoluzione borghese tralasciati dalla borghesia stessa. Vediamo questo approccio già in Gramsci (sul Risorgimento ecc.) ma radicalizzato dal PCI togliattiano attraverso il discorso della modernizzazione economica e democratica dell’Italia, la ricostruzione anche capitalistica nel secondo dopoguerra ecc. Senz’altro Bordiga aveva sempre condannato tale approccio, con l’accento messo sulle “élite incapaci” anziché sulla tendenza inerente nel capitalismo a produrre distruzione e miseria accanto alla ricchezza sterminata. E prendeva le distanze non solo da chi ripudiava la presa del potere (secondo Bordiga il binomio partito-stato era centrale per ogni azione politica, il resto solo “astensionismo” anarchico) ma anche da chi vorrebbe un’amministrazione migliore o più partecipativo-democratica del capitale. Esprimeva ciò nella critica dell’“affinismo” sin dalle sue prime battaglie politiche a Napoli, così come nel suo ripudio della politica “culturalista” della gioventù socialista che voleva impartire la cultura borghese agli operai. Contro chi voleva evocare l’arretratezza del mezzogiorno quale pretesto per ogni tipo di alleanza interclassista (i riformatori sociali buonisti, i partigiani dell’”anticorruzione”, i laicizzanti della massoneria ecc.), Bordiga riconosceva un rapporto più complicato tra la miseria di Napoli, le isole industriali, e l’evoluzione del capitalismo italiano nel suo insieme. Se questa visione presentava punti di contatto con lo “sviluppo diseguale e combinato” trockijsta, non condivideva il giudizio del dissidente russo secondo cui nell’URSS del 1936 “il socialismo [poteva ormai] confrontarsi con il capitalismo in tonnellate di acciaio e di calcestruzzo…”. Per Bordiga, l’industrialismo sovietico era un’accumulazione di capitali, sebbene questi fossero nazionalizzati. Goldner ci dice che il Bordiga degli anni ’50-60 si interessava sempre di più all’economia rurale, considerando il capitalismo “anzitutto la rivoluzione agraria, la capitalizzazione dell’agricoltura” e tratto dominante dei kolkhoz sovietici lo sviluppo di un capitalismo di piccoli imprenditori. Ma fu anche uno degli esponenti della Komintern che più difese la Nep e le posizioni di Bucharin all’epoca, constatando che sarebbe in ogni caso impossibile “costruire il socialismo” in Russia: sebbene Lenin avesse “sacrificato” elementi di economia socialista per difendere la testa di ponte della rivoluzione mondiale, “Con lo stalinismo si è rinunciato alla rivoluzione internazionale intensificando la transizione al grande industrialismo, nella Russia e anche nell'Asia. Elementi proletari da un lato, feudali dall'altro, tendono al capitalismo.” Pertanto ripudiava l’idea korschiana secondo cui la rivoluzione di ottobre sarebbe stata solo borghese ma anche l’ipotesi che l’economia nazionalizzata rappresentasse in qualche modo la base del socialismo. Anzi, la rivoluzione proletaria al livello politico si abbinava alla rivoluzione sociale borghese nella Russia rurale; determinante per l’ascesa degli elementi socialisti sarebbe non la contesa tra proprietà privata e statale, bensì l’avanzata della rivoluzione proletaria nei paesi di capitalismo maturo. Anche l’azienda nazionalizzata accumulava capitale costante, estraeva plusvalore e dava luogo a reti di manager aziendali all’interfaccia tra l’azienda ed il mercato (mondiale). Questo indicava non un capitalismo di stato nel senso di una “fase ultima”, ma una società transitoria e in tendenza verso il pieno capitalismo. Questo capitalismo interstiziale stava superando i lasciti del feudalesimo e ogni vestigia del potere proletario e, avendo sviluppato l’infrastruttura dello sfruttamento capitalistico su questa base, infine si sarebbe liberata anche della finzione del socialismo per integrarsi pienamente al capitalismo mondiale. Contro l’indifferentismo Bordiga condannava a chiare lettere il ruolo controrivoluzionario dello stalinismo sul piano politico, in quanto nemico dell’internazionalismo e sottomesso agli interessi dello stato-nazione russo. La politica di industrializzazione non rappresentava una via al socialismo e la russificazione del Komintern aveva rapidamente minato la pretesa di un “partito della rivoluzione mondiale”, facendo della politica dei partiti comunisti una mero eco dei disegni russi. Eppure, qui l’essenziale stava nella razionalità economica sottogiacente dell’URSS (lo sviluppo capitalistico di un paese arretrato) e non nelle sue forme politiche effimere. Bordiga smentiva l’approccio trockijsta ossessionato dai problemi del “burocratismo” (e dalla difesa della democrazia) attribuendo allo stalinismo anche un certo ruolo rivoluzionario… proprio perché borghese, superando pertanto ciò che sarebbe stato possibile sotto l’ancien regime zarista. Come l’ha spiegato in una lezione del 1951: Lenin intravide la possibilità del suo partito di essere portatore della rivoluzione politica proletaria nel mondo e frattanto anche della rivoluzione sociale capitalista in Russia: solo con le due vittoriose premesse la Russia poteva divenire economicamente socialista. Stalin dice che il suo partito attua il socialismo economico nella sola Russia; in effetti, il suo Stato - e partito - si è ridotto ad essere il portatore della sola rivoluzione sociale capitalista in Russia e Asia. Tuttavia al di sopra degli uomini queste forze storiche lavorano per la rivoluzione socialista mondiale. Non diversa valutazione deve darsi alla rivoluzione cinese. Anche lì operai e contadini hanno lottato per una rivoluzione borghese, in varie fasi, ed oltre non possono andare. L'alleanza di quattro classi: operai, contadini, intellettuali e industriali riproduce l'alleanza, che ha piene carte in regola col marxismo in dottrina e tattica, della Francia del 1789 e della Germania del 1848. Tuttavia la distruzione della millenaria impalcatura feudale orientale è un dato acceleratore della rivoluzione proletaria mondiale, sol che questa abbia ragione delle metropoli europee e americane. Un tale giudizio potrebbe sorprendere chi conosce Bordiga solo come il critico “estremista” dei compromessi interclassisti del PCI togliattiano. Infatti, assai spesso i critici di Bordiga ci raccontano che la sua intransigenza avesse un carattere prettamente “morale,” astorico e capace solo di proclamare il proprio “purismo.” In particolare, è la critica bordighiana della democrazia ad alimentare tale preconcetto: e la sua posizione fu certamente caratterizzata da (1) [come ha rilevato Perry Anderson] una critica della forza conservatrice e controrivoluzionaria della democrazia nei paesi dell’Occidente, molto più capace di produrre consenso (ma anche di esercitare la forza repressiva) che ogni regime despotico o zarista e (2) [come sottolinea Basso], un rifiuto di riconoscere il bisogno di difendere lo spazio in cui organizzarsi, conquistato dal movimento operaio attraverso lunghe battaglie. E Bordiga ha in effetti promosso una visione identitaria del partito comunista, definito e reso coerente proprio dalla sua opposizione al mondo della democrazia borghese: nozione questa poi radicalizzata dal suo atteggiamento assecondante verso Jacques Camatte (il quale vedeva il partito comunista quale Gemeinwesen in formazione). Eppure, nei suoi scritti negli anni ‘50, Bordiga ha criticato l’idea secondo cui la situazione mondiale (a maggior ragione, qualsiasi situazione nazionale) si limitasse alla contesa diretta tra socialismo e capitalismo: sarebbe stato puro idealismo immaginare che i russi o i cinesi potessero scegliere tra l’uno e l’altro. Al Secondo Congresso della Komintern nel 1920 Bordiga (così come Serrati) dubitava dell’importanza che Lenin attribuiva al mondo coloniale; ma a partire dagli anni Cinquanta questa problematizzazione influenza la sua concezione del rapporto tra lo stalinismo e la rivoluzione mondiale. Lo aveva irritato la demagogia del Congresso di Baku, quando Grigory Zinoviev invocò la “guerra santa ai capitalisti francesi e inglesi” per cercare alleati dello stato russo tra i vari movimenti nazionalisti islamici. Ma, se ripudiava le ideologie terzomondiste, Bordiga riconosceva il “movimento gigantesco di emancipazione” nel mondo coloniale. Sarebbe stato impossibile costruire il socialismo nel Ghana o nel Congo degli anni Sessanta, così come lo era stato nella Russia del 1917. Ma queste rivoluzioni — pienamente borghesi — hanno gettato le basi per ulteriori sviluppi. Secondo Basso, “la connessione proiettata ai congressi di Mosca e di Baku [nel ‘20] tra i proletari del mondo ed i popoli oppressi rimaneva un orizzonte lontano [ma] Bordiga ha indicato il valore liberatorio straordinario delle rivolte e rivoluzioni anticoloniali per il movimento proletario mondiale”, aggiungendo che oggi sarebbe anche più facile stabilire quelle connessioni. Considerando il carattere unitario del capitalismo mondiale, Bordiga insistette nei suoi interventi all’esecutivo allargato del Komintern nel 1926 sul fatto che anche i problemi “interni” fossero un problema per tutta l’Internazionale. Nel 1953 riconoscerà il carattere interconnesso dei problemi occidentali e (post)coloniali — rifiutando ogni tipo di “indifferentismo” — nei suoi testi su I fattori di razza e nazione nella teoria marxista e Le rivoluzioni multiple. Secondo Bordiga, Stalin avrebbe rovesciato l’internazionalismo di Lenin, negando il carattere unitario del capitalismo mondiale e postulando la coesistenza pacifica tra diversi centri di capitalismo e poteri militari costituiti. La vedeva come una riformulazione della teoria “piccolo-borghese sull'uguaglianza giuridica delle nazioni in regime capitalistico” bollata nelle tesi leniniane di 1920 (un’idea risalente anche a Mazzini). Sarebbe un errore “assolutista e metafisico” vedere solo “un duello tra le forze pure del capitale moderno e degli operai di azienda, dal quale sorgerà la rivoluzione proletaria, negando ed ignorando l'influenza sulla lotta sociale di ogni altra classe e di ogni altro fattore”. Anzi, le rivoluzioni anticoloniali costituiscono per l’appunto un tale fattore, nonostante il loro carattere pienamente borghese. “Per quei paesi dell'Asia, ove ancora domina l'economia locale agraria dei tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle ‘quattro classi’ è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all'imperialismo euroamericano.” Ma così come la strategia di Lenin nel 1917 era incentrata sulla vittoria rivoluzionaria nell’Occidente, anche le sorti della rivoluzione nei paesi della periferia negli anni ’50-60 dipenderebbero da questa. In questo caso, “il proletariato, padrone in Occidente del potere e dei mezzi moderni di produzione, ne [potrebbe fare] partecipe l'economia dei paesi arretrati con un "piano" che, come quello cui già tende il capitalismo di oggi, è unitario, ma a differenza di quello non vuole conquiste, oppressione, sterminio e sfruttamento.” Conclusioni Questo volume è un’antologia, per forza di cose incompleta; e qui - anche rispondendo alle scelte editoriali di Basso - ho dedicato poco spazio all’attività più direttamente politica di Bordiga in Italia dal 1910 al 1926. Senz’altro, si potrebbero anche stabilire collegamenti tra la sua attività di “fondatore” del comunismo italiano ed i suoi scritti del dopoguerra, anche considerando il radicamento territoriale e di classe del primo PCd’I (la presenza debole di contadini, quella forte di artigiani e di operai in unità di produzione piccole fuori delle grandi fabbriche; il dibattito sulle cellule di fabbriche o territoriali, ecc.). Considerando l’ipotesi di Cortesi riguardante lo scarto tra il pensiero di Bordiga e un più diffuso ‘livornesismo’, si potrebbe anche indagare su quanto le tesi del fondatore fossero davvero capite nella base del PCd’I neonato dal 1921 al 1926, al di là delle sue capacità di capo carismatico e interprete intransigente dell’anti-interventismo e dello spirito del bolscevismo “pianta in ogni clima”. Si potrebbe anche riflettere su altri temi “anticipatori” presenti in questa antologia, quali un suo pezzo sulle Watts Riots di Los Angeles del 1965, o i suoi commenti sull’importanza dell’addebitamento personale nella società benessere negli Stati Uniti. Questo libro esce alla vigilia del centenario del congresso di Livorno, e non ci sono da aspettarsi grandi iniziative per ricordare il fondatore del PCd’I, neanche quale figura rappresentativa della sinistra della Terza Internazionale. Nonostante le ricerche più valide degli ultimi decenni, dal lavoro di Liliana Grilli sugli scritti bordighiani sulla Russia, agli Scritti di Amadeo Bordiga 1911-26 curati da Luigi Gerosa, fino alle opere storiche dei compianti Sandro Saggioro e Arturo Peregalli, prevale nella produzione accademica e nella pubblicistica una visione impoverita e mal informata di Bordiga quale il presunto “antagonista settario e dogmatico” di Gramsci, e nient’altro. Sarebbe utile combattere questo mito, anche solo valorizzando i legami tra questi due uomini negli anni di confino e carcere, nel periodo dopo le loro lotte più aspre. Ma soprattutto, va presa sul serio la grandezza e la carica anticipatrice di Bordiga stesso. Non sarà mai un santino alla Gramsci, in cui tutti vedono ciò che vogliono vedere, rendendo il suo pensiero consensuale e quindi inefficace. Ma se si cominciasse almeno a leggere Bordiga, integrandolo nella storia del comunismo italiano, saremmo forse in grado di capire meglio i fallimenti che il marxista napoletano seppe presagire. di Giordano Sivini
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati. La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie. Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza. Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti”[2]. I rendimenti determinano la riproduzione del rapporto tra credito e debito. Da ciò deriva la loro centralità nell’analisi delle crisi e degli interventi dello Stato per affrontarle, al di là delle enunciazioni relative a specifiche misure di sostegno per banche, imprese e famiglie, e delle implementazioni da parte del Tesoro e della Banca centrale. La rilevanza dei rendimenti è poco tematizzata nelle analisi, ma è implicita nel discorso pubblico. Si legge, ad esempio, sul Sole 24 Ore. “La crisi del 2008-2009 fu essenzialmente una crisi finanziaria che contagiò l’economia attraverso una generale stretta creditizia. Con il Covid le imprese hanno avuto un blocco del fatturato che ha messo a rischio la loro capacità di onorare i debiti”[3]. Ogni titolo è originato dalla cessione di un credito e attesta l’esistenza del debito. Definisce le modalità del rimborso accresciuto dagli interessi, mediante rendimenti che l’attività sottostante, costituita o potenziata utilizzando il credito, deve erogare. Per farvi fronte, deve attingere al valore di cui dispone, anche se non è riuscita con il credito ad acquistare mezzi di produzione e forza lavoro e creare nuovo valore. L’interruzione del flusso di rendimenti è comune alle due crisi. Nella grande recessione si è manifestata dal lato della insolvibilità dei titoli, per il timore che si potesse estendere dai subprime alla generalità dei derivati; nel grande lockdown, invece, dal lato delle attività sottostanti, la cui operatività è stata sospesa. In entrambi i casi, lo Stato - come si evidenzia dall’esame relativo agli Stati Uniti - è intervenuto prioritariamente per riaffermare la connessione tra attività sottostanti e titoli attraverso i rendimenti. La loro funzione di strumenti di espropriazione di ricchezza sociale è qui di seguito delineata. L’inversione tra valore e debito Nella società del valore il credito genera il debito per contribuire a realizzare nuovo valore. Due soggetti, il capitale produttivo di interesse e il capitale produttivo di merce si riproducono incontrandosi. Il primo si accresce offrendo credito in cambio di interesse, il secondo lo domanda quando non dispone di risorse proprie per acquistare i mezzi che gli consentono di accrescersi attraverso la produzione e la vendita di merce. I loro diversi orizzonti sono espressi dalle relazioni D-D’ e rispettivamente D-M-D’, che evidenziano la diversa origine del denaro accresciuto. L’incremento D’ che nella relazione D-D’ rappresenta il rendimento, deve sostanziarsi attingendo al D’ della relazione D-M-D’. Nella società del valore implica una sottrazione di ricchezza sociale, compensata tuttavia dal contributo del credito alla creazione delle condizioni della produzione di plusvalore. Quando l’accumulazione rallenta, il capitale produttivo di merce utilizza il profitto non per riprodursi ma per alimentare il capitale produttivo di interesse, il quale, per accrescersi come D-D’, eroga crediti e produce titoli di debito. Questo afflusso di titoli espande la liquidità, un concetto che denota la variabilità del loro prezzo nel momento della trasformazione in denaro. Il prezzo infatti dipende sia dall’andamento dell’attività sottostante sia dall’apprezzamento nella loro compravendita, da cui scaturiscono plusvalenze o minusvalenze. Il passaggio dall’economia basata sul valore a quella basata sul debito si realizza con la terza rivoluzione industriale, che riduce la capacità di produzione di plusvalore a causa dell’aumento della produttività del lavoro, che contrae l’utilizzazione di lavoro vivo, e condiziona il capitale produttivo di merce a ricorrere sistematicamente al credito. Quando il credito condiziona la valorizzazione, il saggio di profitto va ridefinito rapportando al plusvalore i suoi costi oltre a quelli del capitale costante e del capitale variabile. Il saggio si abbassa, e per conseguire un profitto al netto del debito è necessario aumentare ancora la produttività. Nel contesto di generale riduzione della produzione di plusvalore il capitale produttivo di merce accelera la centralizzazione. La sopravvivenza competitiva è riservata a quella parte del capitale produttivo di merce che realizza profitto oltre la soglia necessaria a far fronte agli interessi sui crediti. L’altra parte, tuttavia, resta in piedi finché ha risorse di cui il capitale finanziario può alimentarsi. Metà delle grandi imprese che operano nel mondo non realizzano profitti economici, ma riescono a remunerare il capitale finanziario. Altre ricadono nella categoria delle imprese zombie, che stanno sul mercato senza essere in grado di rimborsare il debito, costrette dai creditori ad emettere nuovi titoli per rinnovare il credito fino a quando possono estrarre da esse rendimenti. D’altra parte le imprese stesse, approfittando dei bassi tassi di interesse, prima della recente grande crisi si indebitavano per acquistare azioni proprie e aumentare il prezzo di quelle che restano in borsa, facendo contenti azionisti e manager premiati con stock option. Nel 2018 e 2019 hanno speso 115 dollari in buy back per ogni 100 di investimenti, contro i 60 della media dei 20 anni precedenti. Le imprese che non riescono nella valorizzazione devono emettere nuovi titoli per onorare il debito. L’erogazione dei rendimenti deve essere fatta con capitale-denaro che deriva dalla cessione di parte del valore che l’entità sottostante ha già in sé incorporato, in un processo che la porta all’estinzione. I rendimenti legati al debito delle imprese di servizio incidono negativamente oltre che sul profitto specifico dell’impresa, anche sul plusvalore complessivo con cui si sostiene il settore terziario, costituito dall’esternalizzazione delle funzioni improduttive di valore. I rendimenti legati al credito per il consumo sono estorti al salario e al reddito delle famiglie, a fronte di mutui, prestiti e, meno consapevolmente, delle carte di credito, tanto molecolarmente diffuse che i rapporti sociali di merce sono ormai mediati dalla coazione al debito. La crescita dell’economia del debito si realizza attraverso il credito che genera titoli di debito, che attraverso i rendimenti trasformano valore in liquidità. Alla moltiplicazione dei titoli si arriva per due strade, la speculazione e l’investimento produttivo. Su entrambe si sviluppano crisi come quelle qui oggetto di analisi. La prima strada, quella speculativa, porta alle banche, dove la liquidità si espande con mero capitale fittizio, per la sovrapposizione di titoli che fanno perdere il rapporto con l’attività sottostante dotata di valore. Qui si incontrano gli eventi che hanno segnato la grande recessione: i prestiti e i mutui di famiglie che si indebitano, la cartolarizzazione dei titoli di debito, la loro superfetazione sollecitata da investitori voraci, il blocco dei rendimenti, l’arresto delle relazioni interbancarie, la contrazione delle attività, la disoccupazione, e, infine lo Stato che condona il malfatto e risana i bilanci delle banche senza che queste contribuiscano alla ripresa. La seconda strada, quella dell’investimento produttivo, porta alla Borsa e riguarda le imprese che, senza, la crisi, potrebbero contribuire all’espansione della liquidità con i rendimenti dei titoli generati da crediti finalizzati ad investimenti produttivi. La Borsa rende palese che molti titoli, quotati nella speranza di generare plusvalenze, non fanno profitti e restano in vita per essere spogliate dai creditori[4]. Nel grande lockdown l’imperativo dello Stato è di evitare, per dirlo con le parole del Sole 24 Ore, che sia messo a rischio la capacità delle imprese di onorare i debiti. La grande recessione La nicchia dei titoli subprime che avevano fatto deflagrare il sistema non essendo più alimentati da rendimenti, stava all’interno della massa dei derivati che aveva gonfiato le banche. Per espandere l’attività speculativa, quelle commerciali avevano creato uno shadow banking system, un fitto e dinamico intreccio di società finanziarie ombra, che consentiva di superare i limiti normativi di operatività. Vi facevano ricorso anche quelle di investimento che, avendo il privilegio di operare con una leva fino a quaranta volte superiore al valore patrimoniale, facevano operazioni fino a quaranta volte superiori al suo valore, traendo dalla speculazione utili molto maggiori di quelli derivanti dalla collocazione dei titoli azionari e obbligazionari, dall’intermediazione nelle fusioni e acquisizioni, e dalla ottimizzazione della gestione di portafogli di clienti privati e pubblici di tutto il mondo. La speculazione si reggeva sull’enorme liquidità immessa nel circuito finanziario da un capitale produttivo di interesse che faceva credito a chi emetteva titoli immobiliari cartolarizzati. Era alimentato dai profitti realizzati con le esportazioni da Giappone, Cina, Corea, Germania e Medio Oriente, da quelli non reinvestiti dalle multinazionali statunitensi, dagli investitori istituzionali, e dai rendimenti pagati da Stato, imprese e famiglie a fronte dei loro debiti. La cartolarizzazione aveva bisogno di enormi quantità di mutui immobiliari. Il basso costo del credito ne facilitava la sottoscrizione e sosteneva anche un robusto sviluppo edilizio. La domanda di titoli era talmente alta che venivano costruiti per sovrapposizione, allontanandosi dalle attività sottostanti i mutui fino a dimenticarle. La bolla si gonfiava però partire dal punto di incontro tra circuito produttivo e circuito finanziario costituito dai mutui che finivano cartolarizzati, e scoppiò quando l’aumento del tasso di interesse deciso dalla Federal Reserve interruppe il flusso di rendimenti dai mutui ai titoli a causa dell’impennata delle rate a tasso variabile, e abbassò i prezzi delle case che garantivano i mutui. Il timore che le insolvenze si estendessero dai subprime a tutte le attività sottostanti i titoli interrompendo i flussi di rendimenti, minò la fiducia coltivata in anni di euforia espansiva, sostenuta dalle agenzie di rating che minimizzavano i rischi. Nella primavera del 2007 una delle grandi banche di investimento, la Bear Stearns, specializzata in titoli subprime, entrò in dissesto, e l’anno successivo venne acquistata da JPMorgan, altra banca di investimento. Qualche mese dopo, altre due banche crollarono: Lehman Brothers dichiarò il fallimento e Merrill Linch venne acquistata da Bank of America. Goldman Sachs e Morgan Stanley, infine, dovettero rinunciare ad alcuni privilegi e trasformarsi da banche di investimento a banche commerciali. Il timore nella solvibilità dei mutuatari si era trasferita sulla solvibilità delle banche, provocando il blocco del credito e il crollo della Borsa. Le attività produttive si contrassero, il PIL si restrinse del 4,3 per cento; i prezzi delle case diminuirono del 30 per cento, la disoccupazione raggiunse il 10, i consumi crollarono. La recessione iniziata nel dicembre 2007 si protrasse fino al giugno 2009. La cartolarizzazione dei titoli era stata fatta negli Stati Uniti, e l’external shadow banking sub-system delle sussidiarie europee e nipponiche delle banche commerciali e di investimento statunitensi li aveva piazzati nel mondo. Il sistema bancario deregolamentato di Londra registrò il dissesto di Northern Rock, quinta tra le grandi banche britanniche, già prima che si disgregasse Wall Street. Congresso e Federal Reserve si attivarono per affrontare la situazione, assumendo che la crisi fosse causata dalla mancanza di fiducia sulla liquidità dei titoli. Il principale intervento fu di sostenere le banche e ritirare dal circuito finanziario quelli che il mercato considerava illiquidi pur continuando ad essere alimentati da rendimenti, per ricollocarli sul mercato una volta superata la crisi. In questa direzione si mosse il Segretario al Tesoro Henry Paulson sostenuto dal presidente George W. Bush, presentando al Congresso un programma di 700 miliardi di dollari per l’acquisto di titoli deteriorati. “Cash for trash” scrisse Paul Krugman, sul New York Times. Venne bocciato dalla Camera dei Rappresentanti. “Centinaia di americani si sono svegliati, scrisse Michael Moore, ed hanno deciso che era tempo di ribellarsi. Il Congresso è stato bersagliato da milioni di telefonate e di mail: basta col saccheggio, arrestate i ladri”[5]. Ma la proposta venne ripresentata, rivista e approvata dopo un intenso mercanteggiamento per acquisire i voti dei deputati riottosi. Paulson non usò i soldi per acquistare i titoli deteriorati. I primi 150 miliardi vennero dati a nove grandi banche e altri 125 a banche regionali, contro la cessione al Tesoro di titoli sicuri e di partecipazioni privilegiate senza diritto di voto. Altri ancora, a condizioni analoghe, servirono per salvare AIG, Citigroup, Bank of America, General Motors e Chrysler. Timothy Geithner, nuovo segretario al Tesoro con Obama, decise di utilizzare 250 miliardi per coprire fino all’85 per cento il credito di investitori privati che avrebbero acquistato titoli immobiliari deteriorati, offrendo garanzie sui relativi rendimenti. Nel 2010 il programma venne ridimensionato a 475 miliardi. Ne furono spesi complessivamente 431 con un utile, dalla liquidazione dei titoli, di 24 miliardi nel 2012. Da parte sua la Federal Reserve azzerò il tasso di interesse e lavorò, anch’essa, per immettere liquidità nel sistema bancario. Elargì prestiti a istituti finanziari per periodi progressivamente allungati, contro garanzie sempre meno sicure, persino a soggetti ombra. Lo fece in base all’articolo 13 paragrafo 3 del Federal Reserve Act del 1913 che consentiva in circostanze eccezionali di estendere il credito a individui, associazioni e società. Avviò nell’ottobre 2008 il quantitative easing con un impegno iniziale di 600 miliardi, ai quali seguirono altri fino a giungere nel febbraio 2010 a quasi 2 mila, di cui 1250 in titoli di Fannie Mae e Freddie Mac, le due finanziarie che dominavano la concessione dei mutui, e 700 in titoli del Tesoro, monetizzando così interamente la spesa preventivata dal Congresso. Per quanto deteriorati o persino ridotti a spazzatura i titoli continuavano ad alimentarsi di rendimenti. Il loro declassamento era dovuto alla emersione dei livelli di rischio prima di allora accuratamente nascosti dalle agenzie di rating, pagate dagli stessi produttori dei titoli. La crisi sociale venne trattata a parte, con 152 miliardi stanziati dal Congresso sotto la presidenza Bush nel febbraio 2008, ed esattamente un anno dopo con 832 miliardi sotto la presidenza Obama. Il primo, che anticipò di diversi mesi gli interventi sul sistema bancario, cercò di sostenere sia i consumi sia i rendimenti dei debiti per consumi, dando, per le fasce basse e medie di reddito, 600 dollari a persona più 300 per figlio a carico; provò anche a contenere il crollo dei prezzi delle abitazioni che aveva contribuito a creare problemi di solvibilità per coloro che le avevano ipotecate, e offrì incentivi agli investimenti. Con il secondo intervento i contributi alle persone scesero a 4 mila dollari, ma erogati sia nel 2009 che nell’anno successivo; si aggiunsero incentivi fiscali e crediti per beni di consumo, nonché numerose misure assistenziali, programmi sociali puntuali, e un fallimentare programma per le abitazioni, che lasciò campo libero all'enorme ondata di pignoramenti che ha fruttato miliardi agli speculatori. Nel terzo trimestre del 2009 la recessione era terminata; la Borsa aveva recuperato, le grandi banche avevano utili maggiori del 2007, ma il credito continuava a subire una contrazione senza precedenti[6]. I contributi alle persone servivano a risanare debiti e farne altri e l’impatto sui consumi e sulle importazioni era tanto modesto che, secondo Bernanke, presidente della Federal Reserve, aveva contribuito ad estendere e amplificare la crisi fuori dagli Stati Uniti. Nei due anni successivi il PIL ebbe un aumento annuo di appena il 2 per cento, la disoccupazione calò solo dal 10 all’8, si moltiplicò il lavoro precario e aumentò il tasso di inattività. A causa dell’aumento della spesa pubblica e del calo delle imposte, le amministrazioni statali e locali avevano tagliato 600 mila posti di lavoro. Bernanke attribuì la debolezza della ripresa a tre fattori. Il settore dell'edilizia abitativa non si era ripreso, perché sul mercato c’erano milioni di case pignorate e i consumatori erano impegnati a pagare i loro debiti. Le banche non concedevano crediti per consumi e investimenti perché stavano ancora risanando la loro situazione. La spesa pubblica non era stata sufficiente a compensare le debolezze del settore privato[7]. Focalizzandosi sul sistema bancario, il Tesoro e la Banca centrale si erano mossi con il presupposto che il finanziamento diretto alle banche e il recupero dei titoli fosse sufficiente a riavviare l’economia attraverso il credito. La liquidità immessa nel circuito finanziario vi era invece rimasta confinata, a rigonfiarle. Qualche limitazione all’attività speculativa venne posta nel 2010 dal Dodd-Frank Act, aumentando le garanzie patrimoniali delle banche e regolando il rapporto tra patrimonio e investimenti, con qualche barriera tra attività di investimento e attività commerciali. In particolare un Volker rule limitò gli investimenti delle banche in hedge fund ed altre attività ad alto rischio. Vennero prese anche misure per evitare il ripetersi di quei comportamenti che avevano portato alla creazione di titoli immobiliari privi di garanzie di rendimento: furono presentate come interventi a tutela dei consumatori. [1] Eichengreen B, Mody A, Nedeljkovic M, Sarno L, How the subprime crisis went global: evidence from bank credit default swap spreads, Journal of International Money and Finance, 31, 5, 2012. [2] Dembinski P.H., Finance servante ou finance trompeuse?, Paris, Parole et Silence, 2008, p. 86. [3] Francesci A., La crisi Covid sarà peggio di Lehman 2008 ma non per i mercati, Sole 24 Ore, 19 giugno 2020. [4] Sivini G., La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto, Palermograd, 14 giugno 2019. [5] M. Moore, Congratulations, Corporate Crime Fighters! Coup Averted for Three Days, mrzine. Monthly review press.org/ moore300908.html, 30 settembre 2008. [6] Londo M., “A Mr. Smith il conto della recessione”, Sole 24 Ore, 25 ottobre 2009. [7] Bernanke B.S., Economic Recovery and Economic Policy, New York, Economic Club of New York, 20 novembre 2012. VINCENZO SCALIA: MAFIE DI IERI E DI OGGI
30/6/2020
di Vincenzo Scalia*
[ Prosegue la nuova rubrica, in cui l’ ’ospite’ di turno ci indica 3 – e non più di 3 ! – libri leggendo i quali ci si può fare un’idea dell’argomento di cui l’ospite stesso è un grande competente. Dopo Giorgio Gattei e il Valore, ecco Vincenzo Scalia ] Sulla natura e le origini delle mafie si è disquisito per molto tempo. La definizione di un fenomeno sociale all’interno del campo intellettuale non è mai immune da conflitti politici o interessi particolari, così come è filtrata dalle rappresentazioni che orientano gli attori impegnati ad elaborare una definizione. Nel caso delle mafie italiane, ad esempio, questi tre elementi si sono manifestati compiutamente. Il ruolo attivo di mediazione politica ed economica svolto dalle mafie italiane a livello nazionale, che ci accingiamo ad analizzare, ha fatto sì che venissero ritardati non tanto l’azione repressiva e la conoscenza, ma, addirittura, l’esistenza delle organizzazioni stesse. Si pensi a Pitrè, a Vittorio Emanuele Orlando, all’insabbiamento dell’azione del questore Sangiorgi, che già nel 1899 aveva appurato e descritto approfonditamente l’esistenza di Cosa Nostra. Inoltre, le classi dirigenti locali, hanno svolto un ruolo non secondario nell’intorbidire le acque, in quanto gli interessi mafiosi si intrecciavano a doppio filo con quelli dei notabilati locali. Il caso Notarbartolo ne è l’esempio più lampante. Infine, un’interpretazione distorta della società e della cultura meridionale, e, più specificatamente, siciliana, hanno deformato l’analisi delle mafie compiuta dall’esterno, sia a livello istituzionale che sul piano intellettuale. E’ il caso del prefetto Gualterio, a cui dobbiamo il termine mafia, in cui i pregiudizi anti-siciliani sono evidenti, nella misura in cui il malessere sociale, la delinquenza di strada, la criminalità organizzata, vengono inseriti in un unico calderone, col brodo di cottura rappresentato dall’irriducibilità genetica dei siciliani all’autorità. Sulla falsariga di Gualterio si muove, più di cento anni dopo, il suo conterraneo Diego Gambetta. Dietro la maschera di teorico della rational choice cattedratico ad Oxford, allignano i pregiudizi più stantii sulla sfiducia atavica dei siciliani nei confronti dello Stato e del mercato, e sul loro ricorso alla violenza privata. Questa sfiducia, ovviamente, è causata dalle molte dominazioni che la Sicilia avrebbe subito. A partire da questi stereotipi, Gambetta costruisce il suo modello teorico, che definisce la mafia come un’industria della protezione privata che prospera in seguito al calcolo tra i costi e i benefici che ogni siciliano medio realizza. La strada verso l’uscita dal pregiudizio è lunga e tortuosa, ma vale la pena di intraprenderla se ci si pongono tre specifiche domande: 1) che cosa è la mafia? 2) ci sono differenze tra le varie organizzazioni criminali? 3) In che relazione si pongono i mondi legali e illegali tra loro? Per ognuna di queste domande, cercherò di proporre un percorso di riflessione che si articola attorno ad un libro sul tema. Alla prima domanda, si può trovare risposta nel libro di Umberto Santino, Storia del Movimento Antimafia. Dalla Lotta di Classe all’Impegno Civile (Editori Riuniti, Roma, 2017 II ed.). In questo libro l’autore dispiega compiutamente il paradigma della complessità che contraddistingue il suo lavoro pluridecennale nell’analisi dei fenomeni mafiosi. Le mafie non si connotano per essere fenomeni monodimensionali, bensì operano in campo economico, puntano ad acquisire quote di potere politico, si avvalgono di un consenso sociale diffuso, fanno leva su catene valoriali e relazionali estese. Il lavoro di Santino, pur essendo calibrato sul movimento antimafia siciliano, è fungibile anche per altre realtà, nella misura in cui evidenzia due importanti aspetti della questione mafiosa. Il primo aspetta riguarda le origini della mafia, che in Sicilia nasce a cavallo della trasformazione capitalista dei rapporti di produzione, coi latifondi e le miniere votate allo sfruttamento intensivo ai fini dell’economia da esportazione. Si tratta di una precisazione importante, che fa piazza pulita del pregiudizio, spesso strumentale, che inquadra la criminalità organizzata come un residuo pre-moderno, che si forma tra le pieghe dell’arretratezza economica. Santino dimostra che nella dell’Ottocento, così come, possiamo dire, nel Messico contemporaneo, la criminalità organizzata prolifera nella misura in cui esprime la capacità di intercettare la modernizzazione economica e sociale, e di volgerla a proprio vantaggio sia proponendosi come imprenditrice nei settori lecito e illecito, sia fungendo da mediatrice dei rapporti sociali, in modo da crearsi un consenso sociale diffuso. E’ stato così per la gestione dei latifondi come nel caso del sacco di Palermo. Allo stesso modo, l’analisi di Santino, ci è utile per capire come i narcos messicani intercettino il desiderio di mobilità sociale ascendente di vasti strati della popolazione, nonché si rivelino cruciali per la fornitura di beni e servizi dell’economia contemporanea. In secondo luogo, Santino ci spiega come non esiste la dicotomia Stato-mafia. Da un lato, le mafie agiscono ponendosi a cavallo tra la sfera legale e quella illegale. Il sacco di Palermo, per esempio, è avvenuto modificando il piano regolatore. I suoi promotori politici erano collusi con la mafia, o ne erano esponenti diretti. Dall’altro lato, politici e imprenditori, delegano alla mafia la gestione de facto del territorio, oppure ne richiedono i servizi di mediazione elettorale. E’ all’interno del mutuo e costante flusso di scambi e sovrapposizioni tra politica ed economia, tra legale e illegale, che si può cogliere la forza dei fenomeni mafiosi. Se è vero che le mafie si connotano per intercettare i flussi dell’economia capitalista, per porsi a cavallo tra il legale e l’illegale, per intrattenere relazioni di mutualità con la politica, è altresì vero che ogni organizzazione possiede la propria peculiarità. Ad esempio la ‘ndrangheta nasce come forma di autodifesa del territorio calabrese su base familiare, mentre la camorra si sviluppa nei bassi napoletani per regolamentare le attività illegali e i disordini causati dalla sovrappopolazione. Come articolare queste differenze sul piano concettuale? Alan Block, un criminologo statunitense scomparso pochi anni fa, ci fornisce gli spunti appropriati nel suo libro East Side West Side. Organising Crime in New York. 1930-1950 (Transaction Publisher, Trenton, NJ, 1983). Al pari di Santino, Block inquadra le organizzazioni criminali all’interno dei rapporti di produzione capitalisti. Dalla sua analisi dei mobs newyorkesi tra il 1930 e il 1950, affiorano due tipi di organizzazioni criminali. La prima è quella del power syndicate, ovvero di un gruppo criminale dedito principalmente al controllo illegale del territorio. Il lavoro di questi gruppi risulta molto richiesto dai datori di lavoro, quando debbono tenere sotto controllo la manodopera e assicurarsi la pace sociale e il contenimento dei costi di lavoro, e dalla stessa polizia nella misura in cui i power syndicates riescono a comprimere i tassi di criminalità di strada, accreditandosi come tutori informali dell’ordine. La seconda tipologia di criminalità organizzata è quella dell’enterprise syndicate, ovvero di quei gruppi criminali dediti ai traffici illeciti. Questi ultimi forniscono beni e servizi illegali alla società ufficiale, come prostituzione, stupefacenti e gioco d’azzardo. A differenza dei power syndicates, stabiliscono con la polizia un rapporto di convivenza, basato sulla poca visibilità dei traffici. Entrambi i syndacates risultano proficui ai politici quanto si tratta di svolgere mediazione elettorale coi gruppi etnici di provenienza: i mobs italiani, irlandesi, ebrei, sono radicati sul territorio e possono mobilitare le risorse necessarie a fare funzionare una macchina di partito. Inoltre, i soldi delle organizzazioni criminali, vengono investiti nelle attività lecite, fornendo capitali freschi ad un’economia che, negli anni trenta del novecento, si dibatteva nella depressione. Da notare che i due tipi di syndicate non impostano rapporti a compartimenti stagni, né per tipo di attività, né per etnia. Il siciliano Lucky Luciano, ad esempio, lavorava volentieri con l’ebreo Bugsy Siegel e con gli Irlandesi di Hell’s Kitchen, e le partnership economiche tra gruppi criminali, nei settori leciti come in quelli illeciti, erano frequenti. Quest’ultimo aspetto, ci conduce all’ultima area di riflessione, ovvero il rapporto tra economie legali e illegali. Questo nodo va sciolto in relazione alle distinzioni talvolta grossolane tra sano e malato che vengono spesso presentate in relazione all’economia, secondo un’impostazione ideologica che vorrebbe le mafie agli antipodi rispetto alla modernità capitalista. Se è vero che le mafie influenzano, laddove sono radicate, l’economia in modo decisivo, il peso delle cosiddette “economie sporche” va misurato non in base a categorie morali, bensì in relazione al tipo di rapporti di produzione esistenti nel contesto che si vuole analizzare. Per chi voglia intraprendere un percorso di questo tipo, il libro di Vincenzo Ruggiero, Economie Sporche (Bollati Boringhieri, Torino, 1996), si rivela un prezioso strumento di orientamento analitico. Al pari di Santino e Block, Ruggiero rigetta l’equazione tra mafie e arretratezza, per svolgere un’analisi improntata alla complementarità tra le due economie. Sul piano organizzativo, le organizzazioni criminali risultano assolutamente speculari ai gruppi economici che operano nel settore lecito. Le gerarchie, per quanto mediate dalla violenza, ricordano aziendali. Allo stesso modo delle aziende, le mafie, seguono le trasformazioni che si verificano all’interno del capitalismo. Ecco perché l’inchiesta Mafia capitale non dovrebbe stupire più di tanto: il caso-Carminati racconta l’evoluzione della criminalità in un network che, sulla scia delle trasformazioni post-fordiste, ingloba, in relazioni di diversa intensità e durata, settori rilevanti della politica e dell’economia lecita. Sul piano della cointeressenza, l’apporto di Ruggiero alle relazioni tra economie “sporche” e “pulite” si rivela ancora più importante. Innanzitutto, perché le due economie interagiscono all’interno dello stesso contesto economico-finanziario. Si utilizzano gli stessi strumenti di transazione economica, ci si rivolge alle stesse banche, si investe negli stessi settori. Non ci sono due circuiti economici e finanziari distinti, e il caso di Sindona, che immetteva i profitti della mafia siciliana nella borsa milanese, o di Bontade, che finanziava la nascita di importanti gruppi imprenditoriali privati del Nord, sono lì a dimostrarlo. Inoltre, se le mafie forniscono beni e servizi illegali come prestiti ad usura, stupefacenti, prostituzione, gioco d’azzardo, lo fanno anche a partire da una domanda diffusa, che proviene dalla società pulita. Lo stesso può dirsi in merito a servizi come lo smaltimento dei rifiuti, che la camorra napoletana, in questi anni, ha svolto per conto dell’imprenditoria settentrionale. Lo stesso si può dire del reclutamento della manodopera, del contenimento del costo del lavoro, della repressione delle attività sindacali. La moda milanese si avvale della sartoria napoletana sottocosto, la cui filiera è organizzata dalla camorra. Il caporalato, da villa Literno a Ragusa, è organizzato dalle mafie, e gli omicidi di lavoratori che tentano di rivendicare i loro diritti ne costituiscono una tragica testimonianza. Se le mafie costituiscono un’articolazione del capitalismo, l’antimafia deve essere un’articolazione dell’anticapitalismo. (*) Vincenzo Scalia è Reader in Criminology nell’University of Winchester. Ha insegnato in Messico e in Argentina. Tra i suoi libri ricordiamo: Migranti devianti e cittadini. Uno studio sui processi di esclusione (2005), Le filiere mafiose: criminalità organizzata, rapporti di produzione, antimafia (2016) e A Research Agenda on Global Crime (con Tim Hall, 2019) di Marica Migliore
Durante questa fase di emergenza sanitaria e conseguente crisi economica si è fatta più visibile che mai l’importanza del lavoro di cura. Il quale però è sempre più – e non meno - a carico del genere femminile: sia quando è inserito in un processo economico di valorizzazione, sia quando rimane lavoro di cura gratuito “nascosto” tra le mura domestiche. Dalle statistiche ufficiali risulta una disparità di salario tra uomini e donne. Nel periodo della quarantena forzata le donne sono state ancor più penalizzate in quanto ‘più precarie’ (e siamo state noi a perdere il lavoro nella maggior parte dei casi) e con salari più bassi dei partner maschi. Hanno rappresentato la parte più vulnerabile al momento di decidere chi doveva restare a casa, ad occuparsi della famiglia ed in particolare - come è successo nella maggior parte dei casi - dell’assistenza ai genitori anziani e nel supporto ai figli riguardo al gestire la didattica a distanza. Un testo che è stato pubblicato in questi mesi di crisi pandemica è la raccolta di articoli di Silvia Federici: Genere e Capitale, per una lettura femminista di Marx, curata, nell’edizione italiana, da Anna Curcio per i tipi di DeriveApprodi. Il libro raccoglie alcuni saggi scritti tra gli anni ‘70 e tempi più recenti dalla filosofa e attivista italiana. La tesi di fondo del libro, che viene ribadita in tutti i saggi raccolti, è che il marxismo ha sempre manifestato una tendenza allo statalismo, al culto della tecnologia e dell’industria, una concezione strumentale della natura e - fatto dirimente per l’autrice - alla sottovalutazione dell’importanza del lavoro di riproduzione e degli effetti del sessismo e del razzismo nell’ambito del sistema capitalista. Per Federici la teoria di Marx, e dei suoi “epigoni”, si è focalizzata su un oggetto di indagine in definitiva sviante: il lavoro solo come lavoro di produzione industriale e rapporto salariato, ignorando le attività che riproducono la vita umana e la capacità lavorativa. Mancherebbe quindi in Marx “un’attenzione alla funzione delle gerarchie del lavoro costruite in base al genere e alla razza, nella storia dello sviluppo capitalistico”. Sarebbe assente, quindi, una riflessione sul ruolo del sessismo e razzismo come “elementi strutturali dell’organizzazione del lavoro e della produzione nella società del capitale” (pag. 10). Inoltre, Marx, privilegiando lo sviluppo della produzione industriale basata sull’abbondanza, avrebbe sottovalutato la distruzione ambientale. Nel saggio Contropiano delle cucine, scritto insieme a Nicole Cox nel 1974, si afferma che il marxismo di quegli anni pone come obbiettivo la liberazione delle donne dalle cucine e dalle camere da letto solo attraverso l’apertura dei cancelli della fabbrica: ovvero una strategia che tende a includere le donne in rapporti oppressivi di tipo capitalistico. La sinistra cavalcherebbe perciò “non una lotta contro il capitale, ma per il capitale” (pag. 17, corsivi miei). Il lavoro domestico resta così un lavoro nascosto. Dietro a fabbriche, scuole, uffici c’è il lavoro di milioni di donne occupate a produrre proprio la forza-lavoro occupata in questi luoghi. Il lavoro domestico e l’organizzazione familiare sono i pilastri della produzione capitalistica. Ecco perché la lotta contro l’istituzione familiare è decisiva: si tratta del luogo in cui l’operaio viene “curato” e riprodotto. A questo punto l’autrice evidenzia come il superamento dell’opposizione tra lavoro produttivo e improduttivo, e la liberazione dal lavoro domestico, si possa raggiungere ad esempio attraverso il salario di cura. Ottenere il salario per il lavoro domestico significherebbe rifiutare il lavoro, questo lavoro, come “destino biologico”. Il salario per il lavoro domestico non sarebbe una vera e propria rivoluzione, ma senz’altro però una valida strategia rivoluzionaria che “indebolisce il ruolo” che è stato affidato alle donne nella divisione capitalistica del lavoro e “di conseguenza cambia i rapporti di potere in termini più favorevoli” alle donne e all’unità di classe (pag. 30). Negli altri saggi che compongono il libro, Silvia Federici ribadisce alcuni concetti già affrontati nella sua premessa. L’attacco a Marx è il leitmotiv delle riflessioni dell’autrice. In Note su genere e razza nell’opera di Marx si riafferma che il filosofo di Treviri considerava lo sviluppo industriale un passaggio essenziale per la costruzione delle basi materiali del comunismo e vedeva l’industria moderna come alta forma di razionalità. È indubbio per l’autrice che per “una comprensione del rapporto tra genere, razza e capitale dobbiamo andare oltre Marx”. Il motivo di quest’assenza dell’analisi di razza, genere e della famiglia nelle opere di Marx - anche in quelle della maturità - sta nella condivisione del Nostro “con gli economisti borghesi di un profondo pregiudizio patriarcale che naturalizzava il lavoro domestico come vocazione femminile” (pag. 48). Più recentemente la Federici ha contrapposto alla visione di Marx - soprattutto quello dei Grundrisse , che vede un futuro in cui tutte le funzioni lavorative saranno ridotte al minimo grazie allo sviluppo delle macchine - la sperimentazione di forme collettive di riproduzione e creazione di “commons riproduttivi”, che redistribuiscono il lavoro tra un numero di soggetti più largo del nucleo familiare. I “commons” della Federici dovrebbero presupporre “condivisione di ricchezza, un processo decisionale collettivo (…). La cooperazione sociale e lo sviluppo della conoscenza, che Marx attribuisce al lavoro industriale, possono essere realizzati solo attraverso attività in comune che sono auto-organizzate e richiedono ma anche producono comunità” (pag. 94). Credo che il giudizio di Silvia Federici su Marx sia a tratti troppo severo. E resta il fatto che il lavoro teorico di Marx, seppure solo embrionalmente, ha gettato le basi per approfondire i problemi del ruolo delle donne nella società capitalistica. Soffermiamoci però un attimo sul Marx maturo, quello che teorizza il capitalismo come sistema sociale basato sullo sfruttamento del lavoro astratto, e dunque sul Capitale, l’opera più importante dello studioso tedesco, l’unica per la quale, dal suo punto di vista, valesse la pena di spendere decenni di studio. Mi pare che Marx si soffermi poco sul lavoro domestico non perché misogino con pregiudizi patriarcali (forse lo era, ma probabilmente meno di tanti altri “figli del suo tempo”), ma perché la sua attività intellettuale si è concentrata per decenni sul disvelamento delle leggi di produzione capitalistica basata sul lavoro astratto: lavoro socialmente necessario mediato dallo scambio di equivalenti sul mercato, lavoro quindi che ha lo scopo della valorizzazione per l’accumulazione. Tali condizioni sono assenti nel lavoro domestico che non è produttore diretto di plusvalore, ma della produzione di plusvalore è presupposto ineliminabile. Ecco perché Marx non ha scritto molto sul lavoro domestico: perché l’oggetto di studio del Capitale – scusate se ribadisco - è la formazione del plusvalore per l’accumulazione del capitale, che avviene attraverso il lavoro salariato. Inoltre, le sue intuizioni su valore del lavoro e valore della forza-lavoro hanno poi permesso lo sviluppo di un dibattito molto fertile sul ruolo della donna nel sistema capitalistico. Venendo alle proposte politiche presenti nel libro, queste non mi sembrano particolarmente efficaci: sul piano ipotetico, intendo dire, visto che sul piano pratico non sussistono ad oggi rapporti di forza tali da raggiungere certi obiettivi. Per quanto riguarda la proposta del salario domestico, molto dibattuto negli anni ’70, credo che la monetizzazione di un lavoro non liberi la persona che lo svolge da quel lavoro, tutt’altro. Infatti, se il lavoro domestico fosse remunerato, non per questo le donne raggiungerebbero l’ autodeterminazione, anzi vi sarebbe una maggiore pressione sociale nei loro confronti affinché siano proprio loro a svolgerlo, se nella società non si creano altre forme e differenti soggetti culturalmente “autorizzati” e disponibili a farlo. Oggi alla proposta del salario domestico se ne affiancano altre come quella del reddito di autodeterminazione. Verrebbe in pratica pagato un reddito alle persone che non lavorano, un sussidio monetario simile al “basic income”, così che le persone, nel nostro caso le donne, possano essere libere di farci quel che vogliono. Ci sono però due problemi. Il primo è lo stesso che rende dubbio il salario domestico: qualcuno dovrà comunque svolgere il lavoro di domestico. I figli non si possono certo abbandonare, idem gli anziani, e poi c’è la gestione della casa e via dicendo. Inoltre, in un sistema capitalistico in cui si produce per il profitto solo attraverso il lavoro produttivo, i redditi monetari concessi fuori dalla stretta logica della valorizzazione dovranno essere prodotti, come beni generati dalla domanda dei redditi monetari, dagli altri lavoratori. A meno che non sussistano rapporti di forza tali che le classi lavorative organizzate non strappino quote distributive ai proprietari dei mezzi di produzione. Semmai, una liberazione o riduzione dal lavoro domestico e di cura non pagato, potrebbe arrivare ad esempio grazie a delle lotte per un welfare il più universale possibile, in cui lo Stato produca direttamente valori d’uso attraverso l’aumento di servizi pubblici per la cura degli anziani, dei bambini, dei malati. Ciò supererebbe anche i problemi che derivano dalla proposta che la Federici formula alla fine del libro sui “commons”. Tali soluzioni, senza la centralità di istituzioni pubbliche controllate in senso democratico che abbiano una visione generale dei problemi sociali, mi sembrano viziate da un certo idealistico ottimismo, poco confacente ad un approccio scientifico all’analisi della realtà che pure era l’obiettivo che si prefiggeva il vituperato Carlo Marx. DEATH RACE
22/5/2020
di Matt Clement
[ Il nostro corrispondente da Londra è al momento fuori sede. Lo sostituisce Matt Clement] In tre mesi di pandemia, la Gran Bretagna ha conquistato la pole position nel COVID Gran Prix, e Boris Johnson, il nuovo Primo Ministro, guida la classifica europea per il numero di cittadini che sono morti. Abbiamo superato l'Italia e la Spagna, che all’inizio guidavano la corsa, lasciandoci alle spalle avversari del calibro della Cina. Solo il grande Leviatano degli Stati Uniti può ora vantare un numero maggiore di morti, un vero tributo al loro grande leader. Gli studiosi della disuguaglianza hanno spesso elaborato comparazioni internazionali per misurare i risultati in termini di benessere. In generale, gli Stati Uniti sono visti come leader mondiali quanto a risultati disastrosi in termini di diversità delle aspettative di vita tra ricchi e poveri, con la bilancia che pende a favore dell'Europa e il Regno Unito che si colloca a metà tra i due. Ciò non è dovuto ai livelli di ricchezza nazionale - il Regno Unito rimane la quinta economia più grande del mondo – bensì, come nel caso dei cugini americani, è la disuguaglianza che uccide. I conservatori sono stati al potere nell'ultimo decennio e possono rivendicare il merito di dieci anni di austerità. Purtroppo, non hanno pagato il prezzo alle elezioni, per tutta una serie di motivi, e questo sta dando luogo a una distribuzione del reddito sempre più disomogenea, con un alto grado di indifferenza statale nei confronti dei più poveri della società britannica: in particolare quelli di cui non è più possibile sfruttare il lavoro. Questo è il motivo per cui le morti nelle cosiddette "case di cura" sono state una parte così significativa del sanguinoso bilancio di Covid 19. È allettante attribuire tutte le colpe di questa situazione a Boris Johnson. L'uomo che Donald Trump ha salutato come #Britaintrump ha fatto molti errori; il ritardo con cui ha dichiarato il blocco, credendo in una forzata "immunità del gregge" in cui molti sono stati lasciati soccombere al fine di aiutare la popolazione in generale ad acquisire l'immunità – per poi essere spinti con riluttanza ad attuare le stesse politiche di contenimento dell’Europa continentale - e la stessa presentazione delle politiche adottate è stata così confusa che è facile immaginare che il premier fosse sincero. Senza dubbio gran parte di tutto ciò è vero, eppure i risultati ottenuti dalla leader scozzese, Nicola Sturgeon, che ha uno stile e una politica molto diversi da quelli di Johnson, sono molto simili. In Scozia si anche trascurata la somministrazione dei test necessari per sopprimere efficacemente il virus, e i numeri delle morti nelle case di cura scozzesi sono pesanti quanto quelli in Inghilterra e Galles. Vi sono tuttavia alcune cose positive che si possono dire sullo stato della politica in Gran Bretagna durante il blocco. C'è stato un ampio riconoscimento del valore dei nostri "lavoratori chiave". Gli infermieri e i medici - ma anche il SSN nel suo complessi - sono stati elogiati e applauditi dalle persone con appositi flash mob. Ma soprattutto, l’essere bloccati a casa ha portato molte persone a riconoscere quanto siano importanti quei milioni di lavoratori che fanno viaggiare la posta, puliscono i rifiuti, forniscono il personale ai supermercati e consegnano le merci di cui abbiamo bisogno. Sarà più facile condurre una campagna per una maggiore retribuzione e una migliore protezione sociale per questi lavoratori e molti altri che stanno affrontando la pressione per tornare in luoghi di lavoro non sicuri. Come in Francia, dove i sindacati degli insegnanti hanno dichiarato "che non saranno la scuola materna per le grandi imprese", le scuole del Regno Unito saranno probabilmente uno dei primi posti in cui ci sarà una battaglia intorno alla riapertura. Johnson afferma di voler far tornare in classe le scuole dell’infanzia il prossimo 1 ° giugno. Mancano meno di 3 settimane e stiamo ancora assistendo a un bilancio medio giornaliero delle vittime che ammonta a diverse centinaia, e come sappiamo, il distanziamento sociale è un'aspettativa impossibile per i bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni. I datori di lavoro cercano disperatamente di riportare le persone al lavoro allo scopo di riprendere a fare profitti. I governi concordano: nel caso del Regno Unito oltre 6 milioni vengono pagati per l'80% del loro salario per non lavorare in questo momento, e questo costo si sta rivelando insostenibile. Ma senza organizzare il livello di protezione in termini di attrezzature e pratiche di lavoro sicure che i lavoratori richiedono, i datori di lavoro e i governi dovranno fare i conti con l'opposizione di un pubblico che è giustamente timoroso per la propria sicurezza - e sempre più diffidente verso le promesse fatte dai vertici della società. Nella misura in cui questo aspetto si combina con una situazione economica che - anche nello scenario migliore – consisterà ancora in un livello di disoccupazione di massa, con un’assistenza sociale insufficiente a coprire il costo della vita, è probabile che assisteremo ad un aumento delle tensioni sociali e ad un ulteriore esaurimento nella fede nelle soluzioni neoliberiste che i nostri politici non immaginano nemmeno lontanamente di mandare in soffitta. [traduzione di Vincenzo Scalia] di Mario Marcuz
Negli ultimi mesi due interventi nell’ambito del diritto penale balzano agli occhi: il secondo dei quali forse sfuggito, nelle sue implicazioni, alla maggioranza dei non addetti ai lavori. Il primo, di diritto sostanziale, teso a contrastare il fenomeno dell’espansione epidemica del Covid 19, vede l’applicazione di un vecchio armamentario ereditato dal codice Rocco (1930) ancora in pieno vigore. L’altro, di tipo processuale, volto a fornire un nuova tipologia, il processo “da remoto” in cui i soggetti processuali (in particolare giudici, avvocati, imputati e testimoni) non si trovano contemporaneamente nello stesso luogo, l’aula del dibattimento. Cominciamo dal primo intervento, anche per seguire l’ordine cronologico. L’art. 3 comma 4 del Decreto Legge 23 febbraio 2020 n. 6, concernente “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID – 19” richiama l’applicazione dell’articolo 650 del codice penale, che punisce: “Chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’Autorità competente per ragione di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o d’igiene con la pena dell’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Va ricordato che “la persona” offesa dal reato è la collettività, nel cui interesse l'ordine deve essere adempiuto. La norma rientra nella categoria delle cd. leggi penali in bianco, cioè una legge che rinvia ad un atto normativo di grado inferiore per l'individuazione del comportamento sanzionato. Cosa significa? In concreto è una norma che non si butta mai via, sempre utile, duttile al riciclo e ad essere impiegata, a seconda della bisogna, da qualsivoglia parte politica. La canea mediatica sul tema è stata tale da produrre un senso di diffuso timore tra i normali cittadini i quali, in caso di malaugurata necessità, dovevano esibire o compilare al cospetto delle forze dell’ordine la nota autocertificazione, assimilabile a un salvacondotto in tempo di guerra (per chi ne ha memoria diretta, o l’ha letto sui libri o visto nei film). Si tratta davvero delle “prove generali di stato etico” paventate da qualcuno? In concreto gli operatori del diritto sapevano sin da subito che si trattava di un’arma spuntata, una po’ come le “grida” di manzoniana memoria (sarà un caso, ma anche nella trama dei Promessi Sposi c’è un’epidemia). Infatti l’inosservanza di tale reato contravvenzionale - quando anche non venga esclusa la punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131 bis c.p.) - viene punita alternativamente o con una pena pecuniaria (statisticamente la quasi totalità dei casi) o con una pena detentiva (statisticamente una rarità da paleontologi). Inoltre è applicabile l'oblazione discrezionale (162 bis c.p.), che consente l’estinzione del reato versando la metà della pena pecuniaria massima prevista, pari a € 103. Much Ado About Nothing (Tanto rumore per nulla) per citare il sommo drammaturgo d’oltre manica. Il richiamo non è casuale, poiché l’aspetto leggero o forse anche un po’ comico della vicenda è emerso nei giorni e nelle settimane seguenti all’adozione del provvedimento suddetto. Infatti in fretta e furia viene adottato dal Governo il decreto-legge 25 marzo 2020 n. 19 recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”. All’articolo 4 rubricato “Sanzioni e controlli” si legge: “Comma 1. Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, e’ punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3. Se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo. Omissis Comma 8. Le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni degli articoli 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507.” Tralasciando i tecnicismi da cefalea presenti nel testo, in pratica niente più sanzioni penali, bensì pagamento di somme di denaro con estinzione dei reati già commessi (abolitio criminis) con effetto retroattivo e “perdono” per tutti i violatori del periodo precedente. La giustizia trova così una dimensione equilibratrice e lo Stato assume un profilo benignamente paterno nei confronti dei cittadini ? Non proprio. Il fatto è che decine di migliaia di denuncie con apertura di pedissequi procedimenti penali avevano di lì a poco riempito di carta gli uffici delle Procure della Repubblica presso i Tribunali territorialmente competenti. Quindi, solo al fine di prevenire un inevitabile ingolfamento istituzionale (oltre che il disappunto dei cittadini che sono pur sempre elettori) con tempi incerti ma sicuramente biblici vista la cronica lentezza dei tempi della giustizia (ricordiamo che è entrato in vigore a gennaio 2020 pure la norma sulla prescrizione), cambio di rotta nella repressione delle condotte che possono espandere l’epidemia. Già, l’epidemia. Non esistono precedenti di giurisprudenza sul reato di epidemia doloso art. 438 codice penale. Passiamo ad altro. In seguito all’istituzione di zone rosse (dapprima limitate ad alcuni comuni e regioni del Nord Italia, poi a estesa a tutto il territorio nazionale) abbiamo già ricordato che è stato predisposto da parte del Ministro degli Interni un modulo per “autocertificare” le ragioni di deroga al divieto di spostamento (e cioè la sussistenza di esigenze lavorative, situazioni di necessità o per motivi di salute). L’autocertificazione prevista dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, sub art. Articolo 47 rubricato “Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà”: il cd. atto di notorietà può infatti avere ad oggetto fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato. La legge prevede controlli in capo alle amministrazioni procedenti, che sono tenute ad effettuare idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi, sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive. Chiunque rilasci dichiarazioni mendaci, è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia (art. 76 DPR cit.): il richiamo va all’articolo 483 c.p.p, rubricato “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” che prevede una pena sino a due anni. Peraltro, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (Cassazione penale Sez. V, n. 32859/2019). Si precisa infine che nell’ordinamento giuridico italiano non è previsto alcun obbligo a firmare alcunché, quindi nemmeno la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà. I lettori non operatori del diritto saranno a questo punto confusi: li posso comprendere, ma il meglio deve ancora venire. L’aspetto più serio degli interventi nel settore penale e in particolare modo in quello processuale è infatti il tentativo di modificare in modo permanente, non solo quindi nel periodo emergenziale, la natura del processo attraverso il cosiddetto processo da remoto. La previsione della "remotizzazione" del processo penale era in qualche modo prevedibile e attesa per tutti i procedimenti penali e per l'intera durata della situazione di emergenza sanitaria, con lo svolgimento a distanza delle udienze, ricorrendo all'applicativo, di proprietà della Microsoft Corporation e denominato Skype for Business o Teams, individuato dal DGSIA con provvedimento del 20 marzo 2020 di cui diremo in seguito. La "smaterializzazione" del processo con il pretesto dell'emergenza sanitaria, appare però un modo per ridurlo in modo definitivo a una pratica burocratica da sbrigare o se si preferisce, a una sorta di "videogame". Con buona pace dell'esercizio del diritto di difesa e al diritto ad un processo equo costituzionalmente sanciti. Nelle more della conversione in legge del decreto n. 18/2020, i singoli Uffici giudiziari dislocati sul territorio nazionale avevano iniziato ad adottare misure che si sono mostrate estremamente variegate, ingenerando grave incertezza riguardo alla sorte dei processi. Quale può essere il rischio concreto di un cammino verso l'impiego del collegamento da remoto come metodo ordinario di trattazione dei giudizi? La possibile stabilizzazione degli effetti di regole di natura prettamente emergenziale sulla celebrazione dei processi penali di domani: una sorta di normalizzazione della smaterializzazione e dello snaturamento del giudizio. A subire la massima compromissione e il maggiore svilimento sarebbe stato proprio i principi cardine del processo penale, il contraddittorio, di cui i principi di oralità, immediatezza (e concentrazione) costituiscono presupposto implicito. A questo punto si è ripetuto una schema visto più volte nel corso della recente emergenza, ma non solo. Si adottano da parte del Governo e del Parlamento i vari provvedimenti normativi, taluni aventi forza di legge (Decreti legge e relative leggi di conversione), altri di diversa natura (vedi i famigerati DPCM, acronimo per Decreto Presidente dei Consiglio dei Ministri), o più spesso si anticipano i medesimi provvedimenti tramite i media, si osserva quindi la reazione dell’opinione pubblica o degli esperti del settore interessato (ad esempio giudici e avvocati) e conseguentemente si aggiustano a seconda delle reazioni. Il cerchiobottismo vige come regola anche nelle situazioni di emergenza. Infatti, il 30 aprile scorso e cioè esattamente il giorno in cui entrava in vigore il testo della legge conversione del "Cura Italia", veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto-legge n. 28/2020 che interveniva, stravolgendola, sulla disciplina appena convertita divenuta vigente, stabilendo come le fasi cruciali del processo, ovvero le udienze di discussione finale e quelle deputate all'esame di testi, parti, consulenti tecnici e periti, debbano necessariamente passare per il consenso delle parti. Un modo di legiferare, absit iniuria verbis, che sarebbe degno di analisi freudiana più che di valutazioni forensi. Un ultimo ma non minore aspetto riguarda il trattamento dei dati effettuato nel contesto della celebrazione a distanza la cui criticità balza all’occhio quando si evidenzia che l'applicativo da utilizzarsi per la celebrazione delle udienze da remoto (vedi provvedimento dello scorso 20 marzo della DGSIA ossia Direzione Generale Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia) sia individuato nella piattaforma di proprietà della Microsoft Corporation e denominato Skype for Business o Teams. A parte il fatto che si tratta di fornitore stabilito negli Stati Uniti e quindi soggetto all'applicazione delle norme del Cloud Act che permette alle autorità statunitensi un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni, vi sono fondati timori sulla tipologia di dati eventualmente memorizzati da Microsoft Corporation per finalità proprie, del servizio o commerciali, nonché sui soggetti legittimati all'accesso ai metadati delle sessioni e, in particolare, sulla possibilità che Microsoft Corporation o altri amministratori di sistema possano ricavare, dai metadati nella propria disponibilità informazioni e dati di natura giudiziaria particolarmente riservati o sensibili, come ad esempio la condizione di soggetto sottoposto a detenzione o a indagini preliminari o di imputato. L’introduzione del processo da remoto, lungi dall’essere una teriaca veneziana del settore giustizia anche nei momenti emergenziali, può ben essere utilizzata per dare un’ulteriore spinta alla privatizzazione e a un piegarsi dell’attività nel mondo giudiziario a scopi di mero profitto. La funzione di consulenza legale rischia di diventare appannaggio solo della rete e di ‘app’ specifiche, il ruolo della difesa irrilevante, la stessa decisione, o almeno decisione prevedibile, appaltata a macchine predittive capaci di apprendere e di auto-apprendere. Ancora una volta il diritto parrebbe accogliere una nozione di individuo che corrisponde a quella di soggetto economico, compratore o venditore, operante su un mercato. Valgono quindi le riflessioni svolte in altri tempi e contesti, ma sempre valide per chi voglia fare opera di una critica del diritto: “Perché mai il dominio di classe non resta quello che è, vale a dire un assoggettamento di fatto di una parte della popolazione ad opera dell’altra, e prende invece la forma di un potere statuale ufficiale, ovvero, che è lo stesso, perché l’apparato della coercizione statuale non viene costituito già come apparato privato della classe dominante, ma si distingue da questa assumendo la forma di un apparato pubblico impersonale, separato dalla società?” (E. B. Pašukanis, Obščaja teorija prava i marksizm, 1924). [l’autore è avvocato cassazionista, esperto di diritto del lavoro e penale. Attivo nella difesa di migranti, rifugiati e precari] |
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Gennaio 2021
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