
ARALDI CON LE FORBICI
Lettera da Atene su economia, classe, politica e tecnocrazia.
di Richard Brodie 19 settembre 2015
Lettera da Atene su economia, classe, politica e tecnocrazia.
di Richard Brodie 19 settembre 2015
Domani in Grecia si vota, ma noi proponiamo una riflessione di lungo respiro del nostro Richard Brodie, appena reduce da Atene. Il pezzo fa parte di un articolo più ampio, scritto in inglese, che trovate qui.
Perché in quei giorni, si dice, apparvero araldi con le forbici, venuti a far proclami
Jenny Mastoraki
L’Atene moderna non ha mai ruotato intorno alla cantieristica. Nel senso che i suoi pur estesi cantieri navali non hanno mai costituito un’autentica “base industriale”. Sono stati i Trasporti Marittimi, piuttosto, a costituire il fulcro – oggi inceppato - dell'economia nazionale. Qui ci sono le flotte più grandi nel mondo, ma non vengono tassate: sono offshore nel senso finanziario oltre che in quello letterale. Fu proprio il capitale mercantile della borghesia greca ottocentesca a dar vita a uno stato, a una rivoluzione nazionale, a un sistema delle banche onnicomprensivo. La grande ironia del discorso per cui la Grecia è stata “soggiogata” dalla finanza, consiste nel fatto che la Grecia contemporanea è stata creata, modellata proprio dalla finanza. Chiedi del “boom” del dopoguerra e la risposta inevitabilmente è “edilizia”: alla parola si accompagna il più delle volte un gesto ad indicare i blocchi di cemento caratteristici del centro come della periferia di Atene. Eppure le economie capitalistiche non funzionano certo perché gli operai edili si mettono a costruir case gli uni per gli altri, né il terziario può espandersi magicamente, a beneficio di camerieri, cuochi e addetti alle pulizie, per quanto affollati e scintillanti siano i bar della capitale. Né il turismo (e neppure il giornalismo, nonostante le celie di due inviati speciali incontrati al porto) può spiegare nella sua interezza la storia economica della Grecia contemporanea.
La risposta all'enigma è per l’appunto che il settore finanziario greco, costituitosi sulla base di duecento anni di capitale mercantile, era al centro di questa attività edilizia e terziaria. Ed era questo capitale a supportare l'industrializzazione parziale degli anni Cinquanta e Sessanta, prima che le fabbriche cominciassero ad ansimare per poi fermarsi, così come nella gran parte dell' Occidente durante i primi anni Settanta. Oggi il comparto agricolo del paese, redditizio solo grazie alla combinazione dei sussidi UE e della paga di €1 per ora ricevuta dagli immigrati (una forza lavoro che non di rado si ritrova anche letteralmente la pistola puntata alla tempia) funziona in assenza di una cintura industriale degna di questo nome; c’è soltanto piccola manifattura, e la cantieristica maggiore ha traslocato in Corea del Sud già da tempo. Resta il fatto che il sorgere dello Stato greco sulla base economica dell’accumulazione del capitale marittimo lo distingue storicamente dai suoi vicini balcanici.
Tale peculiarità dell'economia nazionale spiega perché la Grecia sia stata a lungo l’isolato membro orientale della CEE (tra il 1981 e l'ingresso della Bulgaria nel 2007, la Grecia non confinava con alcuna nazione CEE prima ed UE poi), e perché le città sono piene di laureati che parlano l’inglese; spiega, come minimo, perché la Grecia è stata ammessa nel club dei ricchi europei. Sebbene il discorso di Thomas Sankara sul debito come strumento di “un’intelligente riconquista dell'Africa” trovi oggi un nuovo, consapevole avatar nel Varoufakis che descrive la Grecia come una “colonia del debito”, la Grecia si trova pur sempre nell’eccezionale condizione di essere, a differenza del Burkina Faso, una colonia di debito che era stata accolta nel salotto buono della società borghese. I famigerati oligarchi, manifestazione più recente del capitale mercantile “issato sulle zampe posteriori, a reclamare la propria parte”, hanno impresso le proprie specifiche caratteristiche di classe sul concetto europeo dello Stato nazionale greco. Quando la tecnocrazia imperiale è tornata a colpire – come invariabilmente succede - la Grecia è stata sanzionata non solo a mo’ di periferia ideologica e fisica, ma anche come qualcosa di molto più vicino al centro dei sogni delle attuali dirigenze europee: l’ectoplasma di una economia costruita sul capitale fittizio, in assenza di un proletariato “vero e proprio”. Ciò vale a dire che la visione dello Stato greco come dipendente dal capitale tedesco oppure dalla geopolitica americana (schemi cari a un certo tipo di nazionalismo 'anti-imperialista'), tutto sommato ben si accorda con l'analisi ideologica propria dell'UE, che descrive lo Stato greco come privo di proletariato di alcun tipo, ma con una “classe media”, basata sull’economia dei servizi, che adesso dovrebbe pagare i propri debiti e, al contempo, metter mano ad un qualche lavoro “come si deve”.
Beninteso, i lavoratori, come tali, rimangono ben celati sotto questa superficie spettacolare ma onirica. Discettare intorno alla storia del capitalismo greco non è di per sé dar conto delle vite di chi ha alimentato e impinguito il bottino. Di quasi un milione di Gastarbeiter, partiti direttamente dalle campagne greche per andare a ingrossare le fila del proletariato tedesco all'inizio del progetto CEE, nei primi anni Sessanta; di quasi mezzo milione di albanesi che lavorano negli oliveti e nelle serre oggi, quando quel progetto potrebbe esser giunto al capolinea. Tra questi poli c’è stata e c’è la classe operaia di Atene, composta da quanti non sono emigrati ed hanno reso il proprio comparto competitivo anche nell’attuale contesto internazionale: gli addetti alle riparazioni navali di Perama, la fortezza del Partito Comunista (KKE). C'era un piano, mi viene detto, risalente al 2008, in base al quale tutte le aziende di riparazione avrebbero dovuto associarsi onde gestire fondi statali per investimenti in capitale fisso. Attualmente, a Perama manca un pontile galleggiante abbastanza ampio, adatto alle navi a misura del canale di Suez. Il sindacato comunista, il PAME, non ha mai ceduto ai diktat dell’austerity e, pur colpite dal sotto-investimento, le infrastrutture di riparazione sono ancora in mano statale. Con il Terzo Memorandum, tuttavia, la maggioranza delle quote societarie sono destinate alla privatizzazione. Inoltre, in contrasto con il piano d'investimento finito in un cassetto, è stata proposta una free trade zone per tutte le banchine ateniesi. Il padroncino di uno delle tante piccole aziende di riparazione, lagnandosi per l’abbandono dei progetti di nazionalizzazione, mi ha spiegato che “si tratterà invece di una nuova Grande Muraglia Cinese, tutt’intorno al porto. Dentro ci saranno gli operai cinesi, fuori la gente a far la fame. Mi dispiace davvero per tutto questo, per questo mondo che vi stiamo lasciando”.
Oltre a questo proletariato industriale, c’è la classe operaia dell’ampio (e famigerato) settore dei servizi, nelle cui fila - all’interno cioè della massa meno rappresentata dal partito comunista - si cerca oggi di sospingere i lavoratori delle riparazioni navali. Per uno straniero è sin troppo facile assegnare ad ogni momento vissuto ad Atene un’interpretazione simbolica, come un poeta inglese romantico che vede la rivoluzione in ogni ghirlanda, in ogni bocciolo di Francia. E così, quando qualcuno descrive il Partito – mentre i suoi militanti sfilano senza fermarsi accanto ad una manifestazione a Piazza Syntagma, durante il secondo voto parlamentare sul nuovo piano di salvataggio – come “bloccato in fondo alla collina”, ecco che l’episodio appare in una luce destinale. Mentre i manifestanti aprono gli striscioni, un vecchio sistema la propria bancarella di bandiere della Grecia. Poco dopo, ecco che gli anarchici si spostano all'Exarchia, con il rituale lancio di bottiglie incendiarie contro l’invadente polizia. Nel bel mezzo del fumo e del gas lacrimogeno, c’è un tizio che spinge la macchina per farla partire.
Di fronte all’assenza di liquidità - alla chiusura delle banche, all'impossibilità di pagare le importazioni, alla svalutazione esterna e all’inflazione interna - il dibattito politico e il discorso famigliare tornano a ruotare intorno alle brutali esigenze dell'economia quotidiana. Emerge una visione infernale, un mondo in cui i turisti vanno e vengono, le flotte greche attraccano e salpano, ma cibo e medicine non arrivano. L'economia di solidarietà non può fornire che una risposta parziale; ha già raggiunto i propri limiti, e per la gran parte in effetti non si tratta che di ridistribuzione volontaria da parte di una classe media e operaia generose, che non hanno gettato il cuore nell'abisso vuoto nel quale c'era, una volta, il futuro. Nel frattempo, la borghesia e gli oligarchi hanno trasferito le proprie ricchezze sui conti delle banche svizzere, lasciando alle classi meno abbienti il peso dell’umana compassione. E c'è stato un esteso rifiuto, espresso sovente nel linguaggio del cristianesimo, della prospettiva proposta dall'Alba Dorata (che però riesce a far danni sproporzionati al proprio peso politico, attraverso complicità nascoste e violenze palesi).
Chi, dal canto suo, continua a riporre le proprie speranze in Syriza, la immagina capace di una serie di innovazioni legislative: unioni civili omosessuali, chiusura dei CIE, riforma della polizia, protezione per i più poveri dagli sgomberi, regolamentazione dei mass media. Tutta roba a budget contenuto (rispetto a - per esempio - assumere mille insegnanti) ma pur sempre con un costo per la borghesia e per la chiesa, il cui potere rimane estraneo e contrapposto a quello dallo Stato. Non si vuole con ciò ignorare la portata anche economica dei provvedimenti di cui sopra: le unioni civili tra persone dello stesso sesso, ad esempio, darebbero un minimo di – preziosa – sicurezza finanziaria alle coppie gay. Ma senza la possibilità di ottenere prestiti, senza liquidità, queste stesse riforme 'gratis' restano avvolte nell’ombra della bancarotta.
Come valutare, dunque, quest’epoca all’insegna dei moti di piazza e di John Maynard Keynes, di sogni di stimoli fiscali alimentati dal calore delle bottiglie molotov? Il capitale investirà in Grecia solo se gli verranno assicurate condizioni di operatività “estrema”. La necessaria proletarizzazione è avvenuta; l’effettivo processo di industrializzazione rimane tuttora evanescente, ma non impossibile. L’alternativa consiste nella speranza che il capitale nazionale possa dar magicamente luogo ad una migliore industrializzazione, grazie al protezionismo e ad una moneta svalutata. Ma quand’anche lo stato greco si separasse dalla cosiddetta Europa imperiale cui il suo destino è rimasto legato fino ad oggi, dovrà pur trovare un'altra fonte di liquidità e di merci. Anche in condizioni di protezionismo, un progetto economico del genere non funziona, alla fin fine, senza scambio diplomatico e internazionale, cioè senza ricorrere ad altri centri del capitale, anche se ciò dovesse accadere sulla spinta di un movimento 'nazional-popolare'. In sostanza, l’alternativa al momento disponibile riguarda lo scegliersi la provenienza di nuovi capitalisti internazionali oppure no. Pertanto, anche se l'UE dovesse spezzarsi nei vari stati che attualmente la compongono, il capitale nazionale dovrà pur sempre assumere una precisa coloritura sovranazionale. Allo stesso modo, se la Grecia dovesse finire col fare default, le mosse successive avverrebbero pur sempre su di un piano europeo, dacché riguarderebbero il come proteggere l’economia e il come collegarsi ad altri centri dell’accumulazione capitalistica. D’altra parte, l’idea di superare il problema intrattabile del capitale internazionale tramite la creazione di una nuova Europa – come taluni a sinistra hanno proposto – legata ad una Costituzione progressiva, corre il rischio – al di là del cenno in direzione del benessere dei “migranti oltre che della popolazione 'autoctona' ” - di rivelarsi una sorta di boomerang, che ritorna nella forma distorta della creazione di un’Europa-nazione con confini ancor più fortificati, cannoniere e barbacani. Gli Stati, dopotutto, debbono provare il valore della propria parola e dei propri BOT.
Quando Tsipras ha sottoposto il piano della Troika al voto popolare, il Partito Comunista (KKE) s’è rifiutato di votare ‘sì’ o ‘no’. Syriza, dicevano, non potrà che capitolare, avendo omesso di creare un’alternativa alle dinamiche capitalistiche. L’alternativa proposta dal KKE, d’altro canto, è la “pianificazione scientifica e centralizzata”: un rifiuto del riformismo ignaro della tenerezza che è sempre stata il cuore di ogni politica rivoluzionaria, laddove il compagno Zizek (secondo cui “il coraggio vero… non è immaginare un’alternativa, ma accettare le conseguenze del fatto che una alternativa visibile non esiste”) quello stesso riformismo lo abbraccia, facendo lavorare la propria retorica rivoluzionarista al servizio del capitale. Eppure c'è un che di magnetico, e di profondamente logico, nell’indicazione data dai comunisti ai propri membri in occasione del referendum: sostituire il programma del partito alla scheda elettorale ufficiale. Per un partito stalinista - bisogna ammetterlo – si tratta di un intervento di sorprendente situazionismo. Laddove il “surrealismo” tirato in ballo da Tsipras si limita a segnalare una contraddizione, l’idea del KKE indica forse – se trasferita in altri contesti - una strada per superare la scissione tra politica e popolo: il rifiuto di accertare le schede elettorali, i simboli e le divise del presente, ovvero le opzioni che ci presentano il capitale nazionale e quello internazionale; per riscrivere invece la storia e smontare il capitale in sé stesso.
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