
IL FRONTE CULTURALE
ADOLESCENZE FRAGILI
Il rischio suicidario in adolescenza
di Erika Di Cara 26 settembre 2017
ADOLESCENZE FRAGILI
Il rischio suicidario in adolescenza
di Erika Di Cara 26 settembre 2017
Il paesaggio sociale e culturale del contemporaneo, sovradeterminato dalla crisi del capitalismo neoliberista, sembra essere caratterizzato, soprattutto nei paesi opulenti dell’Occidente, da una catastrofica crisi di senso e un generalizzato svuotamento emozionale. La deriva postmoderna che l’accompagna ha ridotto l’esperienza degli individui a una trama di flussi comunicativi dai quali emerge esclusivamente la sfera superficiale e irreale del mondo virtuale e massmediale. A soffrirne maggiormente sono le nuove generazioni. Pubblichiamo qui di seguito un intervento della psicoterapeuta Erika Di Cara che presenta – nell’ambito della serie di attività seminariali “La maladolescenza”, organizzate dal Laboratorio di Gruppoanalisi e dal Centro clinico Koinè – il convegno intitolato “Il rischio suicidario in adolescenza”, che si terrà a Palermo presso la scuola Coirag i prossimi 29 e 30 Settembre. (il programma nella locandina alla fine dell’intervento).
C’è una dimensione trasversale agli adolescenti che coltivano nella segretezza del loro mondo interno il pensiero della morte, un inghippo, qualcosa che non evolve come dovrebbe nel loro percorso di crescita. Qualcosa che ha a che fare con l’impatto con la mortalità del corpo.
È possibile rintracciare in questa breve enunciazione un paradosso, relativo al fatto che proprio nel momento di massimo splendore della propria forma, quando il corpo esprime il massimo della potenza e la mente le infinite potenzialità, in alcuni casi, sembra che sia proprio l’idea della morte a prendere il sopravvento.
In questi casi ciò che va storto è qualcosa che ha a che fare con la mentalizzazione della morte.
Per mentalizzazione si intende quel processo attraverso il quale i cambiamenti interni, sia fisiologici che fisici, passano da un livello esperito a quello mentale e trovano accesso alla simbolizzazione. Si tratta di un processo che permette di risignificare i vari cambiamenti, farli diventare contenuti di pensiero e, in questo modo, consente di riorganizzare il proprio apparato per pensare.
In questa fase il soggetto nasce nella sua essenza sociale, passa da una dimensione familiare ad un investimento verso il sociale e a quella che diventerà la ricerca di un proprio posto nel mondo. In questo lento processo, caratterizzato da tanti andirivieni, il soggetto passa attraverso dolorosi processi di separazione: si separa dal proprio mondo familiare, sottrae il proprio corpo dagli sguardi attenti del materno, prova a presidiare nuovi spazi, attraversa paludosi momenti di noia, sperimenta nuovi slanci verso il mondo sconosciuto che si pone fuori dalla portata della famiglia.
L’adolescente crea nuove alleanze rivolgendosi al mondo dei pari e ricerca nuove conferme e nuovi confidenti.
In questa fase il suo corpo è abitato da nuove pulsioni e da un circolo ormonale che lo trasforma e lo trasfigura costringendolo a riorganizzare la propria percezione corporea e il modo di presentarsi agli altri.
In questo caotico nuovo mondo si affaccia anche l’idea della finitezza del corpo e della morte. L’impatto è quasi sempre temibile e scioccante e molti ne prendono le distanze.
Nel lavoro con gli adolescenti che tentano il suicidio, o che vivono una fascinazione/attrazione nei confronti della morte, si impatta con una reazione completamente diversa. Se la maggior parte teme il pensiero della morte, lo allontana o lo esorcizza attraverso rituali e credenze, loro lo coltivano e lo fanno diventare un progetto segreto, una fantasia alla quale tornare nei momenti di sconforto, quasi un compagno di viaggio. Si tratta di un compagno feroce che si insedia nella mente con la promessa di un riscatto, con un miraggio di riabilitazione agli occhi del mondo rispetto la propria fragilità.
Quando si parla di questi adolescenti si fa riferimento a soggetti portatori di una grande fragilità che non permette loro di fronteggiare le criticità di questo periodo. Tale fragilità è quella che porta a un grande senso di inadeguatezza e alimenta all’interno del proprio mondo un senso di vergogna e timore che si traduce inevitabilmente in un grande dolore. In tal senso il progetto suicidario diventa un elemento consolatorio, in quanto rappresenta una via di uscita da tale dolore.
In questi ragazzi riemerge spesso un aspetto scissionale: pur essendo consapevoli della morte è come se nell’idea di uccidere il proprio corpo non corrispondesse una cessazione totale e inderogabile di sé, ma è come se nella loro idea ad essere uccisa fosse quella parte fragile e inadeguata.
Riemergono spesso fantasie di onnipotenza o idee di riscatto o, ancora, idee vendicative.
In altri casi l’idea della morte rimane ferma nel proprio campo mentale come qualcosa da scacciare e sopprimere costantemente. È lì che troviamo il bisogno di esorcizzare la paura della morte. In assenza di una simbolizzazione adeguata si va alla ricerca di atti al limite, siano essi legati al consumo di sostanze, rituali pericolosi o a sport estremi, dove uscirne vivi è sempre una vittoria, perché a perdere è la morte. In questo caso la ricerca dell’estremo è un tentativo di mettere continuamente in scacco la morte (G. Pietropolli Charmet, 2009).
Un esempio è dato dai nuovi giochi di gruppo, che propongono tecniche di apnea o modalità in cui il soggetto perde coscienza nell’asfissia “quasi letale”, rappresentano un modo per sfidare la morte, per guardarla in faccia, per provare quella dimensione eccitatoria che ne deriva (D. Le Breton, 2016). Dove l’eccitazione e la sensorialità sembrano prendere il posto di una dimensione affettiva piena. Come dire che il godimento sosta al posto del desiderio, costringendo a saziare bisogni inconoscibili. Lì il processo di simbolizzazione ha una battuta d’arresto.
A differenza di coloro che sfidano, mettono costantemente in pericolo la propria vita, gli adolescenti che coltivano progetti suicidari stringono un patto tacito e segreto con la morte attendendo il momento in cui tutto si svolgerà.
Vorrei a questo punto allargare lo sguardo al contesto culturale sociale in cui siamo immersi, guardare al punto di convergenza tra l’aspetto scissionale individuato in questi adolescenti fragili, ovvero questa difficoltà a concepire la morte nella sua qualità irreversibile e totale, e la rappresentazione della morte nella nostra società.
Potremmo intanto pensare a che tipo di rappresentazione della morte viene fornita nel mondo mediatico, nelle cronache e nelle famiglie.
Il mondo virtuale ci presenta personaggi invincibili o immersi in un mondo in cui si può morire diverse volte e acquistare tante vite e ogni nuova vita nasce potenziata di nuove armi. Le cronache propongono una continua spettacolarizzazione della morte, oppure una riabilitazione post mortem.
I nostri costumi si sono sicuramente spogliati di tutti quei rituali che ci permettevano di dare l’estremo saluto ai nostri cari dentro un rituale sociale che permetteva il contatto con la salma, la condivisione del dolore e l’impatto doloroso con la fine della vita. Il saluto a ciò che abbiamo perso, alla parte di noi che si perde nella morte dell’altro.
Oggi si tende a nascondere la morte, si sono persi i rituali. Verso i più giovani si attiva un comportamento di “tutela”, si impedisce la vista della morte.
Guardare al modo in cui si tende oggi a trattare la morte ci permette, forse, di capire un po’ meglio dove si collocano tutte le fantasie che accompagnano il segreto progetto.
La non parlabilità sembra rappresentare il terreno ideale dove le fantasie distruttive trovano alimento.
In conclusione vorrei sostare brevemente su ciò che accade nella stanza d’analisi.
L’obiettivo primario, la porta d’accesso alla cura, è rappresentato proprio dalla possibilità di creare una falla, di rompere la segretezza, rendere parlabile la dimensione mortifera di tali fantasie. Da lì, da quel punto, diventa possibile depotenziare la spinta verso la messa in atto di atti suicidari.
È alla relazione terapeutica che l’adolescente può affidare le proprie parti più angoscianti e può fare simbolicamente il “morto” per poi, in un lento lavoro di elaborazione, in un nuovo campo affettivo, pian piano riuscire a intravedere il futuro (I.Castellucci, 2009).
Il lavoro con questi adolescenti fragili impone la necessità di riavviare un lavoro di riorganizzazione interno ed esterno, intervenendo anche sull’ambito familiare e scolastico, in modo da attivare una ricognizione di risorse che aiuteranno l’adolescente a intrattenere migliori relazioni col mondo.
È a partire da queste ultime considerazioni che si può ricavare come la famiglia in primo luogo e poi anche la scuola, nelle sue componenti docenti e studenti, rappresentano interlocutori essenziali nel riaccendere la speranza di scelte vitali.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Gustavo Pietropolli Charmet, Antonio Piotti (2009), Uccidersi, Raffaello Cortina.
I. Castellucci (2009), Parlare della morte,in Uccidersi, Raffaello Cortina.
David Le Breton (2016), Fuggire da sé, Raffaello Cortina.
C’è una dimensione trasversale agli adolescenti che coltivano nella segretezza del loro mondo interno il pensiero della morte, un inghippo, qualcosa che non evolve come dovrebbe nel loro percorso di crescita. Qualcosa che ha a che fare con l’impatto con la mortalità del corpo.
È possibile rintracciare in questa breve enunciazione un paradosso, relativo al fatto che proprio nel momento di massimo splendore della propria forma, quando il corpo esprime il massimo della potenza e la mente le infinite potenzialità, in alcuni casi, sembra che sia proprio l’idea della morte a prendere il sopravvento.
In questi casi ciò che va storto è qualcosa che ha a che fare con la mentalizzazione della morte.
Per mentalizzazione si intende quel processo attraverso il quale i cambiamenti interni, sia fisiologici che fisici, passano da un livello esperito a quello mentale e trovano accesso alla simbolizzazione. Si tratta di un processo che permette di risignificare i vari cambiamenti, farli diventare contenuti di pensiero e, in questo modo, consente di riorganizzare il proprio apparato per pensare.
In questa fase il soggetto nasce nella sua essenza sociale, passa da una dimensione familiare ad un investimento verso il sociale e a quella che diventerà la ricerca di un proprio posto nel mondo. In questo lento processo, caratterizzato da tanti andirivieni, il soggetto passa attraverso dolorosi processi di separazione: si separa dal proprio mondo familiare, sottrae il proprio corpo dagli sguardi attenti del materno, prova a presidiare nuovi spazi, attraversa paludosi momenti di noia, sperimenta nuovi slanci verso il mondo sconosciuto che si pone fuori dalla portata della famiglia.
L’adolescente crea nuove alleanze rivolgendosi al mondo dei pari e ricerca nuove conferme e nuovi confidenti.
In questa fase il suo corpo è abitato da nuove pulsioni e da un circolo ormonale che lo trasforma e lo trasfigura costringendolo a riorganizzare la propria percezione corporea e il modo di presentarsi agli altri.
In questo caotico nuovo mondo si affaccia anche l’idea della finitezza del corpo e della morte. L’impatto è quasi sempre temibile e scioccante e molti ne prendono le distanze.
Nel lavoro con gli adolescenti che tentano il suicidio, o che vivono una fascinazione/attrazione nei confronti della morte, si impatta con una reazione completamente diversa. Se la maggior parte teme il pensiero della morte, lo allontana o lo esorcizza attraverso rituali e credenze, loro lo coltivano e lo fanno diventare un progetto segreto, una fantasia alla quale tornare nei momenti di sconforto, quasi un compagno di viaggio. Si tratta di un compagno feroce che si insedia nella mente con la promessa di un riscatto, con un miraggio di riabilitazione agli occhi del mondo rispetto la propria fragilità.
Quando si parla di questi adolescenti si fa riferimento a soggetti portatori di una grande fragilità che non permette loro di fronteggiare le criticità di questo periodo. Tale fragilità è quella che porta a un grande senso di inadeguatezza e alimenta all’interno del proprio mondo un senso di vergogna e timore che si traduce inevitabilmente in un grande dolore. In tal senso il progetto suicidario diventa un elemento consolatorio, in quanto rappresenta una via di uscita da tale dolore.
In questi ragazzi riemerge spesso un aspetto scissionale: pur essendo consapevoli della morte è come se nell’idea di uccidere il proprio corpo non corrispondesse una cessazione totale e inderogabile di sé, ma è come se nella loro idea ad essere uccisa fosse quella parte fragile e inadeguata.
Riemergono spesso fantasie di onnipotenza o idee di riscatto o, ancora, idee vendicative.
In altri casi l’idea della morte rimane ferma nel proprio campo mentale come qualcosa da scacciare e sopprimere costantemente. È lì che troviamo il bisogno di esorcizzare la paura della morte. In assenza di una simbolizzazione adeguata si va alla ricerca di atti al limite, siano essi legati al consumo di sostanze, rituali pericolosi o a sport estremi, dove uscirne vivi è sempre una vittoria, perché a perdere è la morte. In questo caso la ricerca dell’estremo è un tentativo di mettere continuamente in scacco la morte (G. Pietropolli Charmet, 2009).
Un esempio è dato dai nuovi giochi di gruppo, che propongono tecniche di apnea o modalità in cui il soggetto perde coscienza nell’asfissia “quasi letale”, rappresentano un modo per sfidare la morte, per guardarla in faccia, per provare quella dimensione eccitatoria che ne deriva (D. Le Breton, 2016). Dove l’eccitazione e la sensorialità sembrano prendere il posto di una dimensione affettiva piena. Come dire che il godimento sosta al posto del desiderio, costringendo a saziare bisogni inconoscibili. Lì il processo di simbolizzazione ha una battuta d’arresto.
A differenza di coloro che sfidano, mettono costantemente in pericolo la propria vita, gli adolescenti che coltivano progetti suicidari stringono un patto tacito e segreto con la morte attendendo il momento in cui tutto si svolgerà.
Vorrei a questo punto allargare lo sguardo al contesto culturale sociale in cui siamo immersi, guardare al punto di convergenza tra l’aspetto scissionale individuato in questi adolescenti fragili, ovvero questa difficoltà a concepire la morte nella sua qualità irreversibile e totale, e la rappresentazione della morte nella nostra società.
Potremmo intanto pensare a che tipo di rappresentazione della morte viene fornita nel mondo mediatico, nelle cronache e nelle famiglie.
Il mondo virtuale ci presenta personaggi invincibili o immersi in un mondo in cui si può morire diverse volte e acquistare tante vite e ogni nuova vita nasce potenziata di nuove armi. Le cronache propongono una continua spettacolarizzazione della morte, oppure una riabilitazione post mortem.
I nostri costumi si sono sicuramente spogliati di tutti quei rituali che ci permettevano di dare l’estremo saluto ai nostri cari dentro un rituale sociale che permetteva il contatto con la salma, la condivisione del dolore e l’impatto doloroso con la fine della vita. Il saluto a ciò che abbiamo perso, alla parte di noi che si perde nella morte dell’altro.
Oggi si tende a nascondere la morte, si sono persi i rituali. Verso i più giovani si attiva un comportamento di “tutela”, si impedisce la vista della morte.
Guardare al modo in cui si tende oggi a trattare la morte ci permette, forse, di capire un po’ meglio dove si collocano tutte le fantasie che accompagnano il segreto progetto.
La non parlabilità sembra rappresentare il terreno ideale dove le fantasie distruttive trovano alimento.
In conclusione vorrei sostare brevemente su ciò che accade nella stanza d’analisi.
L’obiettivo primario, la porta d’accesso alla cura, è rappresentato proprio dalla possibilità di creare una falla, di rompere la segretezza, rendere parlabile la dimensione mortifera di tali fantasie. Da lì, da quel punto, diventa possibile depotenziare la spinta verso la messa in atto di atti suicidari.
È alla relazione terapeutica che l’adolescente può affidare le proprie parti più angoscianti e può fare simbolicamente il “morto” per poi, in un lento lavoro di elaborazione, in un nuovo campo affettivo, pian piano riuscire a intravedere il futuro (I.Castellucci, 2009).
Il lavoro con questi adolescenti fragili impone la necessità di riavviare un lavoro di riorganizzazione interno ed esterno, intervenendo anche sull’ambito familiare e scolastico, in modo da attivare una ricognizione di risorse che aiuteranno l’adolescente a intrattenere migliori relazioni col mondo.
È a partire da queste ultime considerazioni che si può ricavare come la famiglia in primo luogo e poi anche la scuola, nelle sue componenti docenti e studenti, rappresentano interlocutori essenziali nel riaccendere la speranza di scelte vitali.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Gustavo Pietropolli Charmet, Antonio Piotti (2009), Uccidersi, Raffaello Cortina.
I. Castellucci (2009), Parlare della morte,in Uccidersi, Raffaello Cortina.
David Le Breton (2016), Fuggire da sé, Raffaello Cortina.
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