
Mentre in Europa Continentale attecchiscono i nazionalismi, e l’Italia si propone come laboratorio della post-democrazia mediatica, oltremanica la situazione per la sinistra sembra lasciare spazio a qualche speranza. Jeremy Corbyn, ormai da tre anni saldamente alla testa dei Labour, consolida la sua leadership con un programma politico improntato alle nazionalizzazioni, al rilancio del welfare state, al sostegno alla Palestina, a Maduro e al neo-presidente messicano; nonché – almeno fino a qualche mese fa – all’opposizione al Trident, cioè il sommergibile nucleare.
Dopo avere rischiato di essere sostituito ad un anno dalla sua elezione – sottoponendosi ad una rielezione avvenuta col 60% dei consensi – Corbyn sembra avere compreso l’antifona, e in questi anni si è dedicato alla sostituzione della vecchia classe dirigente con nuovo personale politico a lui fedele. La rinnovata militanza in un partito che in pochi anni, grazie alla sua elezione, è balzato da 200.000 a quasi 600.000 iscritti, e da 10.000 a 110.000 attivisti effettivi, ha agevolato questa operazione di rinnovamento.
Dall’altra parte, i Tory soffrono delle lotte intestine, iniziate con l’assalto a Cameron attraverso un voto strumentale pro-Brexit e proseguite di fronte all’incapacità di gestire uno scenario non previsto, che ha bruciato in poco tempo Michael Gove, Boris Johnson, e rischia di bruciare anche l’attuale primo ministro, Theresa May. Una maggioranza risicata, delegittimata da una politica di austerità che prevede il taglio dei crediti fiscali per le famiglie meno abbienti e per i lavoratori precari, introdotto nel 2008 da Gordon Brown per tutelare le fasce sociali a bassa capacità contributiva. Lo stesso ex primo ministro ha preconizzato la possibilità di una rivolta sociale diffusa simile a quella scoppiata nel 1990, in seguito al tentativo da parte del governo guidato da Margaret Thatcher di introdurre la poll tax, qualora queste misure venissero implementate.
Infine, i sondaggi sembrano dare ragione a Jeremy il Rosso, con i laburisti che viaggiano attorno al 40% nelle intenzioni di voto. Sembrerebbe che si debba prepararci a festeggiare un governo socialista nel breve periodo, con la crisi interna ai Tory che rischia di sfiduciare la May. In realtà, non è tutto oro quello che luccica, e Corbyn dovrà affrontare diverse insidie, sia interne che esterne, prima di accomodarsi al numero 10 di Downing Street. In primo luogo, la destra del partito, che fa capo a Tony Blair e gode di un certo seguito tra i parlamentari, conta di fare breccia in mezzo a quella parte dell’opinione pubblica delusa dai Tory, facendo leva anche sulle tendenze europeiste della fascia affluente della società britannica. La richiesta di un nuovo referendum sull’Europa vede insieme Blair, Brown e l’ex primo ministro conservatore John Major, nel tentativo disperato di autoconvincersi che la Gran Bretagna, e l’Europa, della terza via e della new economy abbiano ancora qualcosa da dire. Inoltre la destra laburista, al fine di scalzare Corbyn, ha scatenato una campagna virulenta, improntata ad una acredine senza precedenti, volta alla demolizione della figura pubblica di Jeremy Corbyn. Dalle accuse di antisemitismo alle dichiarazioni di Blair che lo definiscono “una disgrazia per il partito”, passando per le frequenti accuse di dispotismo di cui si è fatto portavoce anche Gordon Brown, Corbyn sta fronteggiando un fuoco amico la cui insidiosità è speculare a quello a cui è sottoposta Theresa May. L’effetto è stato quello di rendere Corbyn più prudente nelle sue posizioni, per esempio in merito alla Brexit. In questo modo, il leader laburista spera di rassicurare i moderati, ma, alla lunga, rischia di annacquare le sue posizioni radicali.
La seconda minaccia interna che Corbyn deve affrontare riguarda la briglia che i sindacati, azionisti di maggioranza del Labour Party e fautori iniziali della sua ascesa, gli hanno posto. La riforma dei criteri per essere eletto segretario adesso prevede, oltre alla candidatura da parte del 5% dei candidati, anche il sostegno di una percentuale analoga dei militanti di Unite, vale a dire la confederazione sindacale britannica. In altri termini, Corbyn venne cooptato dalla direzione di Unite, ma la sua accresciuta autonomia ha spinto i sindacati a modificare le regole per essere candidati. Per rassicurare i sindacati, per esempio, negli ultimi tempi Corbyn ha smesso di opporsi apertamente alla costruzione del sommergibile nucleare Trident citato all’inizio, in quanto l’accantonamento del progetto comporterebbe il licenziamento di operai sindacalizzati ed elettori laburisti.
La terza insidia viene dall’esterno. In questo momento la Gran Bretagna vive un periodo di stagnazione economica, che la Brexit senza accordi con la UE potrebbe aggravare. Un eventuale governo laburista, in questo contesto, si troverebbe costretto ad implementare le stesse misure di austerità dei predecessori, finendo per perdere il consenso degli elettori e per avere breve durata, con grande soddisfazione da parte dei blairiani. Già adesso i laburisti corbyniani che siedono nei consigli locali non riescono ad arginare i tagli alla spesa pubblica. Nel futuro prossimo, questa condizione di impotenza, potrebbe aggravarsi.
Infine, per quanto Corbyn abbia ravvivato la militanza, il suo Labour ha una struttura friabile. La crescita del partito, infatti, non è dovuta ad un percorso di consapevolezza politica che sfocia nella militanza, ma all’appeal suscitato dalla figura di Jeremy Corbyn, che, in questo senso, si avvicina molto ai leader populisti, di destra e di sinistra, che imperversano al momento [ne abbiamo parlato qui]. I blairiani ne sono consapevoli, ed è per questo motivo che lo attaccano pervicacemente in modo sistematico: sanno bene che, al momento in cui crolla Corbyn, la militanza cresciuta attorno a lui finirebbe per liquefarsi, e loro si riprenderebbero il partito.
Se la situazione si presenta in questi termini, diviene maggiormente necessario difendere Corbyn: se Jeremy il rosso non avrà lo scalpo Tory, i blairiani avranno quello suo. A quel punto, anche per la sinistra britannica, e non solo, sarebbe notte fonda….
Dopo avere rischiato di essere sostituito ad un anno dalla sua elezione – sottoponendosi ad una rielezione avvenuta col 60% dei consensi – Corbyn sembra avere compreso l’antifona, e in questi anni si è dedicato alla sostituzione della vecchia classe dirigente con nuovo personale politico a lui fedele. La rinnovata militanza in un partito che in pochi anni, grazie alla sua elezione, è balzato da 200.000 a quasi 600.000 iscritti, e da 10.000 a 110.000 attivisti effettivi, ha agevolato questa operazione di rinnovamento.
Dall’altra parte, i Tory soffrono delle lotte intestine, iniziate con l’assalto a Cameron attraverso un voto strumentale pro-Brexit e proseguite di fronte all’incapacità di gestire uno scenario non previsto, che ha bruciato in poco tempo Michael Gove, Boris Johnson, e rischia di bruciare anche l’attuale primo ministro, Theresa May. Una maggioranza risicata, delegittimata da una politica di austerità che prevede il taglio dei crediti fiscali per le famiglie meno abbienti e per i lavoratori precari, introdotto nel 2008 da Gordon Brown per tutelare le fasce sociali a bassa capacità contributiva. Lo stesso ex primo ministro ha preconizzato la possibilità di una rivolta sociale diffusa simile a quella scoppiata nel 1990, in seguito al tentativo da parte del governo guidato da Margaret Thatcher di introdurre la poll tax, qualora queste misure venissero implementate.
Infine, i sondaggi sembrano dare ragione a Jeremy il Rosso, con i laburisti che viaggiano attorno al 40% nelle intenzioni di voto. Sembrerebbe che si debba prepararci a festeggiare un governo socialista nel breve periodo, con la crisi interna ai Tory che rischia di sfiduciare la May. In realtà, non è tutto oro quello che luccica, e Corbyn dovrà affrontare diverse insidie, sia interne che esterne, prima di accomodarsi al numero 10 di Downing Street. In primo luogo, la destra del partito, che fa capo a Tony Blair e gode di un certo seguito tra i parlamentari, conta di fare breccia in mezzo a quella parte dell’opinione pubblica delusa dai Tory, facendo leva anche sulle tendenze europeiste della fascia affluente della società britannica. La richiesta di un nuovo referendum sull’Europa vede insieme Blair, Brown e l’ex primo ministro conservatore John Major, nel tentativo disperato di autoconvincersi che la Gran Bretagna, e l’Europa, della terza via e della new economy abbiano ancora qualcosa da dire. Inoltre la destra laburista, al fine di scalzare Corbyn, ha scatenato una campagna virulenta, improntata ad una acredine senza precedenti, volta alla demolizione della figura pubblica di Jeremy Corbyn. Dalle accuse di antisemitismo alle dichiarazioni di Blair che lo definiscono “una disgrazia per il partito”, passando per le frequenti accuse di dispotismo di cui si è fatto portavoce anche Gordon Brown, Corbyn sta fronteggiando un fuoco amico la cui insidiosità è speculare a quello a cui è sottoposta Theresa May. L’effetto è stato quello di rendere Corbyn più prudente nelle sue posizioni, per esempio in merito alla Brexit. In questo modo, il leader laburista spera di rassicurare i moderati, ma, alla lunga, rischia di annacquare le sue posizioni radicali.
La seconda minaccia interna che Corbyn deve affrontare riguarda la briglia che i sindacati, azionisti di maggioranza del Labour Party e fautori iniziali della sua ascesa, gli hanno posto. La riforma dei criteri per essere eletto segretario adesso prevede, oltre alla candidatura da parte del 5% dei candidati, anche il sostegno di una percentuale analoga dei militanti di Unite, vale a dire la confederazione sindacale britannica. In altri termini, Corbyn venne cooptato dalla direzione di Unite, ma la sua accresciuta autonomia ha spinto i sindacati a modificare le regole per essere candidati. Per rassicurare i sindacati, per esempio, negli ultimi tempi Corbyn ha smesso di opporsi apertamente alla costruzione del sommergibile nucleare Trident citato all’inizio, in quanto l’accantonamento del progetto comporterebbe il licenziamento di operai sindacalizzati ed elettori laburisti.
La terza insidia viene dall’esterno. In questo momento la Gran Bretagna vive un periodo di stagnazione economica, che la Brexit senza accordi con la UE potrebbe aggravare. Un eventuale governo laburista, in questo contesto, si troverebbe costretto ad implementare le stesse misure di austerità dei predecessori, finendo per perdere il consenso degli elettori e per avere breve durata, con grande soddisfazione da parte dei blairiani. Già adesso i laburisti corbyniani che siedono nei consigli locali non riescono ad arginare i tagli alla spesa pubblica. Nel futuro prossimo, questa condizione di impotenza, potrebbe aggravarsi.
Infine, per quanto Corbyn abbia ravvivato la militanza, il suo Labour ha una struttura friabile. La crescita del partito, infatti, non è dovuta ad un percorso di consapevolezza politica che sfocia nella militanza, ma all’appeal suscitato dalla figura di Jeremy Corbyn, che, in questo senso, si avvicina molto ai leader populisti, di destra e di sinistra, che imperversano al momento [ne abbiamo parlato qui]. I blairiani ne sono consapevoli, ed è per questo motivo che lo attaccano pervicacemente in modo sistematico: sanno bene che, al momento in cui crolla Corbyn, la militanza cresciuta attorno a lui finirebbe per liquefarsi, e loro si riprenderebbero il partito.
Se la situazione si presenta in questi termini, diviene maggiormente necessario difendere Corbyn: se Jeremy il rosso non avrà lo scalpo Tory, i blairiani avranno quello suo. A quel punto, anche per la sinistra britannica, e non solo, sarebbe notte fonda….
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