
LA CRISI VISTA DAL SUD
50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
Ovvero, Gli asparagi e l'irriformabilità dell'UE
di Angelo Foscari 12 maggio 2017
50 SFUMATURE DI EUROFOBIA
Ovvero, Gli asparagi e l'irriformabilità dell'UE
di Angelo Foscari 12 maggio 2017
La UE è irriformabile.
Ecco: l’ho detto, e il buttafuori[1] del club Gauche de la Gauche fa cenno che posso entrare anch’io.
Questo preambolo sull’irriformabilità dell’Unione Europea, infatti, ha ormai presso la sinistra estrema la stessa valenza rituale dell’abakab che si fa alla Favorita (lo stadio del calcio della mia città, per chi non lo sapesse) nei momenti di massima esuberanza identitaria, ovvero “Chi Non Salta È Catanese”.
Certo, è sempre possibile optare per la versione-light, “Questa UE è irriformabile”: nessuno vi sputerà addosso, come nessuno si sogna di biasimare il Signor Piero, un tifoso non più atleticissimo che, nel momento culminante, opta – con un sorriso che domanda indulgenza – per “Chi Non Balla È Catanese”. Ma se fate questa scelta poi non aspettatevi di essere acclamati condottieri della lotta contro la tecnocrazia dell’Austerity: così come il Signor Piero non si sogna certo di essere la reincarnazione di Vicè ‘U Pazzo, l’indimenticato sciamano della curva di una volta.
All’interno della gauche de la gauche, tuttavia, la discussione ha assunto quest’anno alcune caratteristiche tipiche dei racconti del celebre umorista novecentesco Achille Campanile: un omaggio forse inconsapevole in occasione dei 40 anni dalla scomparsa del grande scrittore. Perché subito dopo aver superato il test d’ammissione al dibattito, barrando la casella del ‘NO’ accanto alla domanda “La UE è riformabile?”, parecchi tra i partecipanti procedono immediatamente a spiegare come occorra afferrare speditamente per la collottola l’Unione Europea e darle un fracco di botte, fino a cambiarle i connotati… cioè a darle “nuova e migliore forma”, che è la definizione di ‘riforma’ secondo il Dizionario della lingua italiana[2].
Converrà pertanto cercare di capirci di più. E visto che per alcune di queste posizioni s’è parlato addirittura di “rossobrunismo”, converrà senz’altro evitare di fare di tutta l’erba un… fascio, distinguendo, nei limiti di precisione consentiti dallo spazio pur sempre inadeguato di un articolo, una cosa dall’altra.
Per giocare a carte scoperte, dico subito che personalmente non considero la rottura dell’UE come lo “scopo del gioco”; né come una opzione strategica valida (un secolo di Socialismi In Un Solo Paese avrebbe qualcosa da raccontarci in merito); né come un passaggio tattico obbligato[3]: non ritengo insomma – per parafrasare ancora Campanile – che dall’Irriformabilità dell’UE (di questa UE?) discenda nessuna delle ricette proposte dalle varie tipologie di Euro-stoppisti. Comincerò dalle posizioni che considero più distanti dalle mie, passando per il dibattito interno a Rifondazione e giungendo infine agli interventi che, pur non condividendo, considero più produttivi e che – non inaspettatamente – sono quelli pubblicati da PalermoGrad, di Giovanni Di Benedetto, Marco Palazzotto, e Vincenzo Marineo.
1. Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro?
È un gravissimo errore guardare a sinistra con simpatia al disfacimento dell’Unione Europea… ed è un errore ancora più grave darsi da fare perché ciò avvenga.
(Luigi Vinci, Tra crisi infinita e tendenza al collasso dell’Unione Europea. Note sulla situazione e su come contrastarla da parte della sinistra, in Lavoro21 – la Rivista, n.1, 15 novembre 2016)
Il sito eurofobico Socialismo 2017 – Ritorno al futuro è animato principalmente da Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro, che ovviamente tutto sono tranne che “rossobruni”: entrambi già militanti di Democrazia Proletaria, Boghetta è poi stato un ottimo dirigente di Rifondazione Comunista, mentre Porcaro è, tra le altre cose, un acuto lettore de Il Capitale (vedi il suo I difficili inizi di Karl Marx, Dedalo, 1986). Boghetta, che ha abbandonato il PRC prima dell’ultimo congresso, argomenta la sua scelta sul sito: http://www.socialismo2017.it/2017/03/30/rifondazione-addio/. In questa ‘lettera d’addio’ l’esibita componente psicologica (“questi anni, dopo il congresso di Perugia, sono stati un continuo tormento, un continuo sforzo per rimanere”) va presa assolutamente sul serio, molto più della violenza verbale (Ferrero che andrebbe preso “a calci in culo”) in quanto sofferta testimonianza di quell’impasse politica in cui in tantissimi ci siamo trovati e ci troviamo, nel periodo segnato dall’esplodere della crisi della zona-euro sul piano strutturale e dal tracollo di Rifondazione (comunque ci si ponesse rispetto a quello che – volente o nolente – è stato a lungo il punto di riferimento principale a sinistra dei DS prima e del PD poi) su quello della soggettività politica. Che, nella smania di uscire da questo vicolo cieco, Socialismo 2017 abbia finito con l’imboccarne uno peggiore, a me pare tuttavia chiaro anche da questo pezzo intristito e inacidito, in cui Boghetta si lamenta perché dentro Rifondazione sente dire che “La sicurezza è un tema di destra” (corsivo mio; ma se uno adopera questo termine per inquadrare una serie di questioni sociali strettamente concatenate, rischia proprio di rimanere ostaggio del pensiero di destra) e denunzia lo scandalo per cui “Se affermi che gli immigrati devono poter rimane nel loro paese: questo è razzismo. Non si riesce a distinguere i migranti (degni di tutto il nostro appoggio) dal fenomeno immigrazione che è un problema da affrontare in termini marxisti: imperialismo, costruzione dell’esercito di riserva, uso politico del fenomeno stesso. Invece della soluzione da perseguire attraverso la lotta democratica e di classe anche nei paesi d’origine, la questione è diventata solo un problema di accoglienza e di coscienza”. E qui i casi sono due: o siamo nell’ovvio – ma che valore polemico può avere, l’affermazione dell’ovvio? – oppure siamo a un passo dall’‘Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro’. Fa di peggio – forse – Mimmo Porcaro (http://www.socialismo2017.it/2017/05/09/ne-destra-ne-sinistra-riflessioni-leliseo/), che, nello scoprire l’acqua calda per cui Macron altro non è che il Poliziotto Buono dei film americani, sottovaluta gravemente la pericolosità del Poliziotto Cattivo Le Pen, e prepara alacremente futuri sdoganamenti, dacché ci tiene a “ricordarci che le alleanze tattiche, le convergenze obiettive, le giuste e necessarie manovre che una degna forza politica popolare, se mai ci fosse, dovrebbe porre in essere (in particolare in una situazione di crisi) non possono essere bloccate fin dall’inizio da una serie di ‘mai con Tizio’, ‘mai con Caio’. Fare politica – è imbarazzante doverlo ricordare – significa anche fare alleanze oggi col diavolo, domani con l’acquasanta e dopodomani con entrambi”. Chi riteneva che quello di Socialismo 2017 fosse più che altro un problema di “toni” pesanti si ritenga servito.
2. Un’ espressione geografica ?
I segni non appaiono affatto allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili (…) dunque i segni non sono cose apparenti.
(Enesidemo, cit. in G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. IV, 1978, p.174)
Il dibattito sull’UE svoltosi al recente congresso di Rifondazione, pur non essendo l’equivalente odierno del duello dialettico tra Socrate e Gorgia, è pur sempre tra le cose migliori in materia reperibili su piazza, e chi lo ha snobbato – dall’alto di non si sa bene quale differente e consolidato “livello” del discorso – ha commesso un innegabile errore.
Il capitolo 5 (‘L’Europa’) del documento maggioritario[4], evidentemente redatto avvalendosi della consulenza del Signor Piero, alla fine del paragrafo 2 ci tiene a precisare che “Questa Unione Europea è irriformabile”. Nel senso che non sono immaginabili “logiche emendative”, né ci si può votare al “compimento della sua ‘integrazione’, che non significherebbe altro che la formalizzazione del dominio del capitale a livello europeo”. D’altro canto la prospettiva non può essere il “ritorno agli stati nazionali, che per l’inefficacia del livello nazionale di incidere sui processi di accumulazione, finisce per entrare in contraddizione con gli obiettivi di recupero di sovranità popolare ed è destinata a subire strutturalmente l’egemonia della destra” (p.18, corsivo mio). Invece “Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta come il livello adeguato in cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata”. Su questo livello europeo occorre mobilitarsi da subito intorno a precisi obiettivi, in primo luogo il “rifiuto del Fiscal Compact”, la “ristrutturazione del debito”, e “un’altra Banca Centrale che risponda delle proprie decisioni a istituzioni democratiche e definisca la propria missione nella promozione della piena e buona occupazione” (p. 19, corsivi miei). E qui – non essendo pensabile la totale contraddizione con quanto affermato una pagina prima – c’è di sicuro la manina santa del Signor Piero, il cui intervento chiarificatore spiega dunque che la maggiore “integrazione” avversata a p.18 è l’integrazione di “questa UE” (corsivo mio) – quella dell’austerity, dei padroni e della finanza – laddove una maggiore integrazione di segno opposto è invece necessaria, perché è evidente che una rinnovata Banca Centrale che risponde a istituzioni democratiche sarebbe il frutto, oltreché di mutati rapporti di forza e di dure lotte, proprio di un processo di ulteriore integrazione che a quella Banca e a quelle istituzioni mettesse – tra le altre cose – capo.
Il documento della Minoranza interna[5], a confronto, sembra a tutta prima un comunicato degli Ultras, cui preme precisare innanzitutto che chi non salta è catanese: “L’UE è irriformabile!” recita infatti, puntuale, il titolo del capitolo 4. E pazienza se subito dopo – forse per “fraternizzare paternalisticamente”[6] con i Signori Pieri delle gradinate rifondarole – il ragionamento dei minoritari parte con un “Questa unione europea è irriformabile” (corsivo mio). Il seguito si distacca inequivocabilmente dal discorso della maggioranza: infatti “Occorre costruire la rottura, senza rinunciare alla contesa egemonica nello spazio europeo, senza abdicare alla contesa per la definizione del significante Europa” (p.10, corsivi miei). Poco dopo vengono però individuati dei “punti di rottura dei trattati europei”, delineando una strategia che è legittimo sospettare come un voler fare la faccia cattiva – mediante l’utilizzo della più barricadera parola “rottura” – nel proporre pur sempre quella “disobbedienza ai trattati” che in area euroscettica è ritualmente data come il massimo dell’inefficacia. Tanto è vero che il primo di questi punti di rottura è: “Va messa fine all’indipendenza della BCE, e ridefinito il suo statuto e la sua missione, permettendo alla BCE di essere prestatrice diretta agli stati”: cioè la rottura rivoluzionaria – par di capire – è tutt’uno con la lotta riformista per ridefinire radicalmente la mission della BCE e tutte le belle e condivisibili cose che ne seguono. Escludendo che i compagni della Minoranza del PRC propongano di imbarcarsi il più presto possibile sulle scialuppe di salvataggio e nel contempo di ordinare al ristorante della nave un pranzo di sette portate, pietanza principale l’anatra alla pechinese con i suoi ben noti tempi di preparazione, qui si tratta evidentemente di un strategia che prevede un Piano A (lotta per il cambiamento dei trattati) e, in caso di fallimento, un Piano B (“rottura con questa UE” nel senso, immagino, di una fuoriuscita).
A questo punto però gli ultras della Curva Nord si distinguono inevitabilmente da quelli della Sud, e il documento di minoranza si biforca – proprio in tema di Europa – in Tesi A e Tesi B. Chiameremo queste ultime (per evitare sconcertanti confusioni tra Piano A, Piano B, Tesi A e Tesi B !!), intitolate Per la rottura dell’Unione Europea imperialista e dell’Euro, con il cognome della loro prima firmataria, Beatrice Bardelli. Nella Tesi Bardelli il Piano B (la rottura) sostituisce integralmente il Piano A (la lotta per il cambiamento dei trattati) e si afferma che “Rompere con questa Europa è … urgente”, nella prospettiva di “una nuova unione euromediterranea” e di “nuove relazione coi BRICS”; pur “consapevoli che la realizzazione di un simile programma implichi rapporti di forza che oggi sono molto lontani dalla realtà”. C’è qui una sfasatura temporale enorme, dunque, tra la proclamata urgenza di quella che sarebbe l’unica parola d’ordine ‘seria’ ed il lunghissimo percorso necessario a modificare utilmente i rapporti di forza in seno alla società nonché su scala planetaria. Su una analoga sfasatura mi soffermerò nella terza parte del mio intervento, quella dedicata alle posizioni emerse finora su PalermoGrad.
La Tesi A – chiamiamola Tesi Forenza, dal cognome della prima firmataria – iscrive invece obiettivi del tutto condivisibili e anzi urgenti (lo sviluppo di “contropoteri nello spazio europeo”, la redazione di una “agenda europea dei conflitti e dei movimenti”) entro la strategia ossimorica – e pertanto suggestiva, ma piena di reticenze e ambiguità – della “rottura costituente”, del “costruire la rottura … senza abdicare alla contesa per la definizione del ‘significante Europa’”. Dove l’ambiguità risiede soprattutto nello slittamento dalla ineludibile, vivificante lotta intorno al significato (come teorizza tutta una tradizione critica che nel Novecento va da Voloshinov fino allo shakespearologo Terence Hawkes) ad una lotta intorno al significante che al mio paese – se ha ragione Enesidemo, vissuto all’incirca tra l’80 il 10 a.C. – ‘significa’ pochissimo e potrebbe giustificare una sovrana indifferenza nei confronti delle sorti del referente, nella realtà istituzionale, della parola ‘Europa’: mentre noi siamo lì a contendere intorno al significante. Che a quel punto rischia essere già tornato soltanto “un’espressione geografica”, come fanno temere gli esiti disastrosi del Brexit[7].
3. La coerenza di Giufà
Amicus Plato, sed magis amica veritas
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Seconda parte, capitolo 51)
Diverso ovviamente il discorso per quanto riguarda gli interventi apparsi negli ultimi mesi su PalermoGrad. Marco Palazzotto sa benissimo che non si tratta di “rompere o non rompere con l’Euro o con l’UE oggi, domani o dopodomani” e che “Non si può che sperare e lavorare per costruire un soggetto sociale compatto che imbocchi la strada del conflitto in tutti gli strati della produzione e della società”: costruzione questa che si rende perfettamente conto essere impresa di lunghissima lena. Se, tuttavia, proprio questa è la strada maestra (come penso anch’io); e se dunque Marco prende le distanze anche dagli stessi euro-stoppisti – che pure sente più vicini rispetto a Riformisti dell’UE e NoEuro, le altre due famiglie individuate nella stimolante tassonomia da lui proposta – in quanto colpevoli di mettere il carro della liquidazione dell’UE davanti ai buoi della creazione di un nuovo blocco sociale orientato progressivamente, non si capisce per quale motivo “Lo smantellamento dell’UE va quindi considerato come obiettivo”. In un film di una cinquantina d’anni fa scritto da Woody Allen, Agente 007 Casino Royale, il cattivone di turno mette in atto il solito piano megalomaniaco per dominare il mondo, con tanto d’installazione di vari governi-fantoccio, esplosioni atomiche a gogò e virus letale da diffondere per il pianeta, allo scopo dichiarato di… abbordare un’avvenente fanciulla. Un esempio inarrivabile di sproporzione[8] – e incongruenza, dato che alla fine la ragazza non vuol saperne del dominatore – tra mezzi e fini: ma il parallelo con il nostro argomento è irresistibile. Perché qui si tratterebbe di intraprendere un cammino verosimilmente decennale, cominciando magari dall’organizzare i non organizzati, e dell’individuare 2-3 grandi campagne per i diritti e per il lavoro – quali primi passi della ricomposizione di classe che tutti auspichiamo – e di lì proseguire trionfalmente fino al traguardo finale di… smantellare l’UE? Topolino che, venuto infine al mondo, si sentirà ri-proporre austerity e uberizzazione del lavoratore perché ce lo chiedono i Mercati, ce lo chiede la Globalizzazione, ce lo chiede la Realtà Odierna, ma quantomeno non perché “ce lo chiede l’Europa”… vuoi mettere la soddisfazione? Ammesso e non concesso, poi, che l’arrivo sia davvero trionfale, e non ci si perda lungo la strada, dietro la mattane dei compagni di strada del fronte anti-UE, gente che magari auspica più barriere e più controlli rispetto all’immigrazione, il che significherebbe 1) più clandestini e 2) più ricattabilità per chi clandestino non è, e intendesse organizzarsi sindacalmente. Anche Vincenzo Marineo ritiene che “occorrerebbe concentrare le forze per parlare del progetto della sinistra, e considerare quel che possiamo e dobbiamo dire oggi sull’Euro e sull’UE solo come la preparazione e l’occasione politicamente favorevole per sostenere la nascita di quel progetto”; e ripesca assai opportunamente un intervento del 1973 di Lelio Basso, in cui si rimprovera al movimento operaio di non aver saputo e/o voluto muoversi a livello internazionale (a differenza dei capitalisti), ma viene posta altresì una questione di priorità: “Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre”. Proprio così: non sarà la distruzione dell’UE a salvarci, ma neppure il suo rafforzamento, checché ne pensi chi ripropone a livello di macchina istituzionale l’ampiamente screditata Teoria Reazionaria delle Forze Produttive. Quello che mi pare manchi nell’intervento di Vincenzo è invece l’avvertenza che, se è vero che una maggiore integrazione europea in continuità con le politiche degli ultimi trent’anni non significherà un passo in avanti, e anzi potrebbe aggravare la catastrofe dei diritti e le attuali spinte scioviniste e centrifughe, l’eventuale disfacimento dell’UE comporterà in ogni caso un grave, oggettivo arretramento: come sarebbe stato nel caso della distruzione generalizzata dei – capitalistissimi! – telai industriali ai tempi del luddismo. E anch’io sono vecchio abbastanza da aver partecipato ad assemblee, a scuola prima e sul luogo di lavoro poi, in cui c’era chi intendeva mobilitarsi contro l’avvento dell’informatica, “perché il computer serve al padrone per controllare” o dequalificare “il lavoratore”. Mutatis mutandis.
Se quanto argomentato sopra è vero, creare un movimento politico di sinistra anticapitalista e chiamarlo EuroStop è un errore politico per il quale la matita rossa non è sufficiente. Si tratta di una pesante deviazione dal percorso strategico che pure ci attenderebbe (percorso che peraltro si intravede con chiarezza anche negli interventi di Marco e Vincenzo) e lo sbaglio sta già nel nome perché mette tutte le proprie uova nel paniere della battaglia anti-UE, che nel migliore dei casi impegnerebbe le già esigue forze del movimento in una gigantesca perdita di tempo; nel peggiore farebbe registrare percorsi analoghi a quelli di Socialismo 2017. Pertanto non è vero che le analisi degli eurostoppisti sarebbero “più solide e logiche” di quelle degli altri: se c’è qualcuno che, con assoluta coerenza, trae tutte le conseguenze logiche dalle proprie posizioni, quelli sono Boghetta e Porcaro (per i quali – diversamente da Palazzotto e Marineo – soltanto gettandosi nel gorgo antieuropeista, costi quel che costi, si accumulano le forze necessarie a una rinnovata lotta per il socialismo): peccato si tratti della stessa logica adamantina di Giufà, che racconta orgoglioso alla madre dell’espediente tattico messo in atto contro la vicina che gli chiedeva in continuazione dell’acqua: “E io, furbo, stuppai la pila”.
NOTE:
[1] O, come meglio disse il Poeta, il “Non-fa-entrare-dentro” .
[2] Per la precisione, quello di Fernando Palazzi, ed. Ceschina, 1939.
[3] Non è questo il luogo per argomentare nel dettaglio le mie posizioni. Qui mi limito a cercare di chiarificare quelle altrui, valorizzarne gli aspetti fecondi e indicarne quelle che mi sembrano le contraddizioni interne. Un’impostazione di fondo politicamente condivisibile della “questione europea” è quella di Luigi Vinci nel testo citato in epigrafe, al netto delle indicazioni organizzative e in materia di alleanze sostenute solitamente da Lavoro21. Per una trattazione approfondita, si veda Riccardo Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, Asterios, 2012. Spunti per una storia non manichea dell’UE si trovano in AA.VV. Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, DeriveApprodi, 2016.
[4] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/SocialismoXXI_per_un_nuovo_umanesimo_doc1.pdf
[5] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/Rifondazione_e_rivoluzione_Il_partito_che_vogliamo.pdf
[6] Felice paradosso coniato – in tutt’altro contesto – da Nando Grassi.
[7] Rinvio a un pezzo di quasi un anno fa http://www.palermo-grad.com/no-grazie-il-brexit-mi-rende-nervoso.html. Nel frattempo tutti i miei peggiori sospetti si sono avverati; non sono invece ancora pervenuti spunti autocritici da parte di chi intravedeva nel Brexit palingenetici recuperi di sovranità democratica. Per seguire gli sviluppi riguardo il tema specifico dei diritti che i lavoratori UK rischiano di perdere, consiglio il gruppo FaceBook magistralmente condotto da Bill Sheppard, Worker Protection: https://www.facebook.com/groups/413728068995853
[8] Ricordo con piacere che ad attirare la mia attenzione su questo passaggio fu, tanti anni fa, il compianto Costanzo Preve, che oggi – immagino – si troverebbe, riguardo alla questione in oggetto, su posizioni lontanissime dalle mie.
Ecco: l’ho detto, e il buttafuori[1] del club Gauche de la Gauche fa cenno che posso entrare anch’io.
Questo preambolo sull’irriformabilità dell’Unione Europea, infatti, ha ormai presso la sinistra estrema la stessa valenza rituale dell’abakab che si fa alla Favorita (lo stadio del calcio della mia città, per chi non lo sapesse) nei momenti di massima esuberanza identitaria, ovvero “Chi Non Salta È Catanese”.
Certo, è sempre possibile optare per la versione-light, “Questa UE è irriformabile”: nessuno vi sputerà addosso, come nessuno si sogna di biasimare il Signor Piero, un tifoso non più atleticissimo che, nel momento culminante, opta – con un sorriso che domanda indulgenza – per “Chi Non Balla È Catanese”. Ma se fate questa scelta poi non aspettatevi di essere acclamati condottieri della lotta contro la tecnocrazia dell’Austerity: così come il Signor Piero non si sogna certo di essere la reincarnazione di Vicè ‘U Pazzo, l’indimenticato sciamano della curva di una volta.
All’interno della gauche de la gauche, tuttavia, la discussione ha assunto quest’anno alcune caratteristiche tipiche dei racconti del celebre umorista novecentesco Achille Campanile: un omaggio forse inconsapevole in occasione dei 40 anni dalla scomparsa del grande scrittore. Perché subito dopo aver superato il test d’ammissione al dibattito, barrando la casella del ‘NO’ accanto alla domanda “La UE è riformabile?”, parecchi tra i partecipanti procedono immediatamente a spiegare come occorra afferrare speditamente per la collottola l’Unione Europea e darle un fracco di botte, fino a cambiarle i connotati… cioè a darle “nuova e migliore forma”, che è la definizione di ‘riforma’ secondo il Dizionario della lingua italiana[2].
Converrà pertanto cercare di capirci di più. E visto che per alcune di queste posizioni s’è parlato addirittura di “rossobrunismo”, converrà senz’altro evitare di fare di tutta l’erba un… fascio, distinguendo, nei limiti di precisione consentiti dallo spazio pur sempre inadeguato di un articolo, una cosa dall’altra.
Per giocare a carte scoperte, dico subito che personalmente non considero la rottura dell’UE come lo “scopo del gioco”; né come una opzione strategica valida (un secolo di Socialismi In Un Solo Paese avrebbe qualcosa da raccontarci in merito); né come un passaggio tattico obbligato[3]: non ritengo insomma – per parafrasare ancora Campanile – che dall’Irriformabilità dell’UE (di questa UE?) discenda nessuna delle ricette proposte dalle varie tipologie di Euro-stoppisti. Comincerò dalle posizioni che considero più distanti dalle mie, passando per il dibattito interno a Rifondazione e giungendo infine agli interventi che, pur non condividendo, considero più produttivi e che – non inaspettatamente – sono quelli pubblicati da PalermoGrad, di Giovanni Di Benedetto, Marco Palazzotto, e Vincenzo Marineo.
1. Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro?
È un gravissimo errore guardare a sinistra con simpatia al disfacimento dell’Unione Europea… ed è un errore ancora più grave darsi da fare perché ciò avvenga.
(Luigi Vinci, Tra crisi infinita e tendenza al collasso dell’Unione Europea. Note sulla situazione e su come contrastarla da parte della sinistra, in Lavoro21 – la Rivista, n.1, 15 novembre 2016)
Il sito eurofobico Socialismo 2017 – Ritorno al futuro è animato principalmente da Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro, che ovviamente tutto sono tranne che “rossobruni”: entrambi già militanti di Democrazia Proletaria, Boghetta è poi stato un ottimo dirigente di Rifondazione Comunista, mentre Porcaro è, tra le altre cose, un acuto lettore de Il Capitale (vedi il suo I difficili inizi di Karl Marx, Dedalo, 1986). Boghetta, che ha abbandonato il PRC prima dell’ultimo congresso, argomenta la sua scelta sul sito: http://www.socialismo2017.it/2017/03/30/rifondazione-addio/. In questa ‘lettera d’addio’ l’esibita componente psicologica (“questi anni, dopo il congresso di Perugia, sono stati un continuo tormento, un continuo sforzo per rimanere”) va presa assolutamente sul serio, molto più della violenza verbale (Ferrero che andrebbe preso “a calci in culo”) in quanto sofferta testimonianza di quell’impasse politica in cui in tantissimi ci siamo trovati e ci troviamo, nel periodo segnato dall’esplodere della crisi della zona-euro sul piano strutturale e dal tracollo di Rifondazione (comunque ci si ponesse rispetto a quello che – volente o nolente – è stato a lungo il punto di riferimento principale a sinistra dei DS prima e del PD poi) su quello della soggettività politica. Che, nella smania di uscire da questo vicolo cieco, Socialismo 2017 abbia finito con l’imboccarne uno peggiore, a me pare tuttavia chiaro anche da questo pezzo intristito e inacidito, in cui Boghetta si lamenta perché dentro Rifondazione sente dire che “La sicurezza è un tema di destra” (corsivo mio; ma se uno adopera questo termine per inquadrare una serie di questioni sociali strettamente concatenate, rischia proprio di rimanere ostaggio del pensiero di destra) e denunzia lo scandalo per cui “Se affermi che gli immigrati devono poter rimane nel loro paese: questo è razzismo. Non si riesce a distinguere i migranti (degni di tutto il nostro appoggio) dal fenomeno immigrazione che è un problema da affrontare in termini marxisti: imperialismo, costruzione dell’esercito di riserva, uso politico del fenomeno stesso. Invece della soluzione da perseguire attraverso la lotta democratica e di classe anche nei paesi d’origine, la questione è diventata solo un problema di accoglienza e di coscienza”. E qui i casi sono due: o siamo nell’ovvio – ma che valore polemico può avere, l’affermazione dell’ovvio? – oppure siamo a un passo dall’‘Aiutiamoli a fare la lotta di classe a casa loro’. Fa di peggio – forse – Mimmo Porcaro (http://www.socialismo2017.it/2017/05/09/ne-destra-ne-sinistra-riflessioni-leliseo/), che, nello scoprire l’acqua calda per cui Macron altro non è che il Poliziotto Buono dei film americani, sottovaluta gravemente la pericolosità del Poliziotto Cattivo Le Pen, e prepara alacremente futuri sdoganamenti, dacché ci tiene a “ricordarci che le alleanze tattiche, le convergenze obiettive, le giuste e necessarie manovre che una degna forza politica popolare, se mai ci fosse, dovrebbe porre in essere (in particolare in una situazione di crisi) non possono essere bloccate fin dall’inizio da una serie di ‘mai con Tizio’, ‘mai con Caio’. Fare politica – è imbarazzante doverlo ricordare – significa anche fare alleanze oggi col diavolo, domani con l’acquasanta e dopodomani con entrambi”. Chi riteneva che quello di Socialismo 2017 fosse più che altro un problema di “toni” pesanti si ritenga servito.
2. Un’ espressione geografica ?
I segni non appaiono affatto allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili (…) dunque i segni non sono cose apparenti.
(Enesidemo, cit. in G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. IV, 1978, p.174)
Il dibattito sull’UE svoltosi al recente congresso di Rifondazione, pur non essendo l’equivalente odierno del duello dialettico tra Socrate e Gorgia, è pur sempre tra le cose migliori in materia reperibili su piazza, e chi lo ha snobbato – dall’alto di non si sa bene quale differente e consolidato “livello” del discorso – ha commesso un innegabile errore.
Il capitolo 5 (‘L’Europa’) del documento maggioritario[4], evidentemente redatto avvalendosi della consulenza del Signor Piero, alla fine del paragrafo 2 ci tiene a precisare che “Questa Unione Europea è irriformabile”. Nel senso che non sono immaginabili “logiche emendative”, né ci si può votare al “compimento della sua ‘integrazione’, che non significherebbe altro che la formalizzazione del dominio del capitale a livello europeo”. D’altro canto la prospettiva non può essere il “ritorno agli stati nazionali, che per l’inefficacia del livello nazionale di incidere sui processi di accumulazione, finisce per entrare in contraddizione con gli obiettivi di recupero di sovranità popolare ed è destinata a subire strutturalmente l’egemonia della destra” (p.18, corsivo mio). Invece “Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta come il livello adeguato in cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata”. Su questo livello europeo occorre mobilitarsi da subito intorno a precisi obiettivi, in primo luogo il “rifiuto del Fiscal Compact”, la “ristrutturazione del debito”, e “un’altra Banca Centrale che risponda delle proprie decisioni a istituzioni democratiche e definisca la propria missione nella promozione della piena e buona occupazione” (p. 19, corsivi miei). E qui – non essendo pensabile la totale contraddizione con quanto affermato una pagina prima – c’è di sicuro la manina santa del Signor Piero, il cui intervento chiarificatore spiega dunque che la maggiore “integrazione” avversata a p.18 è l’integrazione di “questa UE” (corsivo mio) – quella dell’austerity, dei padroni e della finanza – laddove una maggiore integrazione di segno opposto è invece necessaria, perché è evidente che una rinnovata Banca Centrale che risponde a istituzioni democratiche sarebbe il frutto, oltreché di mutati rapporti di forza e di dure lotte, proprio di un processo di ulteriore integrazione che a quella Banca e a quelle istituzioni mettesse – tra le altre cose – capo.
Il documento della Minoranza interna[5], a confronto, sembra a tutta prima un comunicato degli Ultras, cui preme precisare innanzitutto che chi non salta è catanese: “L’UE è irriformabile!” recita infatti, puntuale, il titolo del capitolo 4. E pazienza se subito dopo – forse per “fraternizzare paternalisticamente”[6] con i Signori Pieri delle gradinate rifondarole – il ragionamento dei minoritari parte con un “Questa unione europea è irriformabile” (corsivo mio). Il seguito si distacca inequivocabilmente dal discorso della maggioranza: infatti “Occorre costruire la rottura, senza rinunciare alla contesa egemonica nello spazio europeo, senza abdicare alla contesa per la definizione del significante Europa” (p.10, corsivi miei). Poco dopo vengono però individuati dei “punti di rottura dei trattati europei”, delineando una strategia che è legittimo sospettare come un voler fare la faccia cattiva – mediante l’utilizzo della più barricadera parola “rottura” – nel proporre pur sempre quella “disobbedienza ai trattati” che in area euroscettica è ritualmente data come il massimo dell’inefficacia. Tanto è vero che il primo di questi punti di rottura è: “Va messa fine all’indipendenza della BCE, e ridefinito il suo statuto e la sua missione, permettendo alla BCE di essere prestatrice diretta agli stati”: cioè la rottura rivoluzionaria – par di capire – è tutt’uno con la lotta riformista per ridefinire radicalmente la mission della BCE e tutte le belle e condivisibili cose che ne seguono. Escludendo che i compagni della Minoranza del PRC propongano di imbarcarsi il più presto possibile sulle scialuppe di salvataggio e nel contempo di ordinare al ristorante della nave un pranzo di sette portate, pietanza principale l’anatra alla pechinese con i suoi ben noti tempi di preparazione, qui si tratta evidentemente di un strategia che prevede un Piano A (lotta per il cambiamento dei trattati) e, in caso di fallimento, un Piano B (“rottura con questa UE” nel senso, immagino, di una fuoriuscita).
A questo punto però gli ultras della Curva Nord si distinguono inevitabilmente da quelli della Sud, e il documento di minoranza si biforca – proprio in tema di Europa – in Tesi A e Tesi B. Chiameremo queste ultime (per evitare sconcertanti confusioni tra Piano A, Piano B, Tesi A e Tesi B !!), intitolate Per la rottura dell’Unione Europea imperialista e dell’Euro, con il cognome della loro prima firmataria, Beatrice Bardelli. Nella Tesi Bardelli il Piano B (la rottura) sostituisce integralmente il Piano A (la lotta per il cambiamento dei trattati) e si afferma che “Rompere con questa Europa è … urgente”, nella prospettiva di “una nuova unione euromediterranea” e di “nuove relazione coi BRICS”; pur “consapevoli che la realizzazione di un simile programma implichi rapporti di forza che oggi sono molto lontani dalla realtà”. C’è qui una sfasatura temporale enorme, dunque, tra la proclamata urgenza di quella che sarebbe l’unica parola d’ordine ‘seria’ ed il lunghissimo percorso necessario a modificare utilmente i rapporti di forza in seno alla società nonché su scala planetaria. Su una analoga sfasatura mi soffermerò nella terza parte del mio intervento, quella dedicata alle posizioni emerse finora su PalermoGrad.
La Tesi A – chiamiamola Tesi Forenza, dal cognome della prima firmataria – iscrive invece obiettivi del tutto condivisibili e anzi urgenti (lo sviluppo di “contropoteri nello spazio europeo”, la redazione di una “agenda europea dei conflitti e dei movimenti”) entro la strategia ossimorica – e pertanto suggestiva, ma piena di reticenze e ambiguità – della “rottura costituente”, del “costruire la rottura … senza abdicare alla contesa per la definizione del ‘significante Europa’”. Dove l’ambiguità risiede soprattutto nello slittamento dalla ineludibile, vivificante lotta intorno al significato (come teorizza tutta una tradizione critica che nel Novecento va da Voloshinov fino allo shakespearologo Terence Hawkes) ad una lotta intorno al significante che al mio paese – se ha ragione Enesidemo, vissuto all’incirca tra l’80 il 10 a.C. – ‘significa’ pochissimo e potrebbe giustificare una sovrana indifferenza nei confronti delle sorti del referente, nella realtà istituzionale, della parola ‘Europa’: mentre noi siamo lì a contendere intorno al significante. Che a quel punto rischia essere già tornato soltanto “un’espressione geografica”, come fanno temere gli esiti disastrosi del Brexit[7].
3. La coerenza di Giufà
Amicus Plato, sed magis amica veritas
(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Seconda parte, capitolo 51)
Diverso ovviamente il discorso per quanto riguarda gli interventi apparsi negli ultimi mesi su PalermoGrad. Marco Palazzotto sa benissimo che non si tratta di “rompere o non rompere con l’Euro o con l’UE oggi, domani o dopodomani” e che “Non si può che sperare e lavorare per costruire un soggetto sociale compatto che imbocchi la strada del conflitto in tutti gli strati della produzione e della società”: costruzione questa che si rende perfettamente conto essere impresa di lunghissima lena. Se, tuttavia, proprio questa è la strada maestra (come penso anch’io); e se dunque Marco prende le distanze anche dagli stessi euro-stoppisti – che pure sente più vicini rispetto a Riformisti dell’UE e NoEuro, le altre due famiglie individuate nella stimolante tassonomia da lui proposta – in quanto colpevoli di mettere il carro della liquidazione dell’UE davanti ai buoi della creazione di un nuovo blocco sociale orientato progressivamente, non si capisce per quale motivo “Lo smantellamento dell’UE va quindi considerato come obiettivo”. In un film di una cinquantina d’anni fa scritto da Woody Allen, Agente 007 Casino Royale, il cattivone di turno mette in atto il solito piano megalomaniaco per dominare il mondo, con tanto d’installazione di vari governi-fantoccio, esplosioni atomiche a gogò e virus letale da diffondere per il pianeta, allo scopo dichiarato di… abbordare un’avvenente fanciulla. Un esempio inarrivabile di sproporzione[8] – e incongruenza, dato che alla fine la ragazza non vuol saperne del dominatore – tra mezzi e fini: ma il parallelo con il nostro argomento è irresistibile. Perché qui si tratterebbe di intraprendere un cammino verosimilmente decennale, cominciando magari dall’organizzare i non organizzati, e dell’individuare 2-3 grandi campagne per i diritti e per il lavoro – quali primi passi della ricomposizione di classe che tutti auspichiamo – e di lì proseguire trionfalmente fino al traguardo finale di… smantellare l’UE? Topolino che, venuto infine al mondo, si sentirà ri-proporre austerity e uberizzazione del lavoratore perché ce lo chiedono i Mercati, ce lo chiede la Globalizzazione, ce lo chiede la Realtà Odierna, ma quantomeno non perché “ce lo chiede l’Europa”… vuoi mettere la soddisfazione? Ammesso e non concesso, poi, che l’arrivo sia davvero trionfale, e non ci si perda lungo la strada, dietro la mattane dei compagni di strada del fronte anti-UE, gente che magari auspica più barriere e più controlli rispetto all’immigrazione, il che significherebbe 1) più clandestini e 2) più ricattabilità per chi clandestino non è, e intendesse organizzarsi sindacalmente. Anche Vincenzo Marineo ritiene che “occorrerebbe concentrare le forze per parlare del progetto della sinistra, e considerare quel che possiamo e dobbiamo dire oggi sull’Euro e sull’UE solo come la preparazione e l’occasione politicamente favorevole per sostenere la nascita di quel progetto”; e ripesca assai opportunamente un intervento del 1973 di Lelio Basso, in cui si rimprovera al movimento operaio di non aver saputo e/o voluto muoversi a livello internazionale (a differenza dei capitalisti), ma viene posta altresì una questione di priorità: “Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre”. Proprio così: non sarà la distruzione dell’UE a salvarci, ma neppure il suo rafforzamento, checché ne pensi chi ripropone a livello di macchina istituzionale l’ampiamente screditata Teoria Reazionaria delle Forze Produttive. Quello che mi pare manchi nell’intervento di Vincenzo è invece l’avvertenza che, se è vero che una maggiore integrazione europea in continuità con le politiche degli ultimi trent’anni non significherà un passo in avanti, e anzi potrebbe aggravare la catastrofe dei diritti e le attuali spinte scioviniste e centrifughe, l’eventuale disfacimento dell’UE comporterà in ogni caso un grave, oggettivo arretramento: come sarebbe stato nel caso della distruzione generalizzata dei – capitalistissimi! – telai industriali ai tempi del luddismo. E anch’io sono vecchio abbastanza da aver partecipato ad assemblee, a scuola prima e sul luogo di lavoro poi, in cui c’era chi intendeva mobilitarsi contro l’avvento dell’informatica, “perché il computer serve al padrone per controllare” o dequalificare “il lavoratore”. Mutatis mutandis.
Se quanto argomentato sopra è vero, creare un movimento politico di sinistra anticapitalista e chiamarlo EuroStop è un errore politico per il quale la matita rossa non è sufficiente. Si tratta di una pesante deviazione dal percorso strategico che pure ci attenderebbe (percorso che peraltro si intravede con chiarezza anche negli interventi di Marco e Vincenzo) e lo sbaglio sta già nel nome perché mette tutte le proprie uova nel paniere della battaglia anti-UE, che nel migliore dei casi impegnerebbe le già esigue forze del movimento in una gigantesca perdita di tempo; nel peggiore farebbe registrare percorsi analoghi a quelli di Socialismo 2017. Pertanto non è vero che le analisi degli eurostoppisti sarebbero “più solide e logiche” di quelle degli altri: se c’è qualcuno che, con assoluta coerenza, trae tutte le conseguenze logiche dalle proprie posizioni, quelli sono Boghetta e Porcaro (per i quali – diversamente da Palazzotto e Marineo – soltanto gettandosi nel gorgo antieuropeista, costi quel che costi, si accumulano le forze necessarie a una rinnovata lotta per il socialismo): peccato si tratti della stessa logica adamantina di Giufà, che racconta orgoglioso alla madre dell’espediente tattico messo in atto contro la vicina che gli chiedeva in continuazione dell’acqua: “E io, furbo, stuppai la pila”.
NOTE:
[1] O, come meglio disse il Poeta, il “Non-fa-entrare-dentro” .
[2] Per la precisione, quello di Fernando Palazzi, ed. Ceschina, 1939.
[3] Non è questo il luogo per argomentare nel dettaglio le mie posizioni. Qui mi limito a cercare di chiarificare quelle altrui, valorizzarne gli aspetti fecondi e indicarne quelle che mi sembrano le contraddizioni interne. Un’impostazione di fondo politicamente condivisibile della “questione europea” è quella di Luigi Vinci nel testo citato in epigrafe, al netto delle indicazioni organizzative e in materia di alleanze sostenute solitamente da Lavoro21. Per una trattazione approfondita, si veda Riccardo Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, Asterios, 2012. Spunti per una storia non manichea dell’UE si trovano in AA.VV. Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, DeriveApprodi, 2016.
[4] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/SocialismoXXI_per_un_nuovo_umanesimo_doc1.pdf
[5] http://web.rifondazione.it/archivio/congressi/x/Rifondazione_e_rivoluzione_Il_partito_che_vogliamo.pdf
[6] Felice paradosso coniato – in tutt’altro contesto – da Nando Grassi.
[7] Rinvio a un pezzo di quasi un anno fa http://www.palermo-grad.com/no-grazie-il-brexit-mi-rende-nervoso.html. Nel frattempo tutti i miei peggiori sospetti si sono avverati; non sono invece ancora pervenuti spunti autocritici da parte di chi intravedeva nel Brexit palingenetici recuperi di sovranità democratica. Per seguire gli sviluppi riguardo il tema specifico dei diritti che i lavoratori UK rischiano di perdere, consiglio il gruppo FaceBook magistralmente condotto da Bill Sheppard, Worker Protection: https://www.facebook.com/groups/413728068995853
[8] Ricordo con piacere che ad attirare la mia attenzione su questo passaggio fu, tanti anni fa, il compianto Costanzo Preve, che oggi – immagino – si troverebbe, riguardo alla questione in oggetto, su posizioni lontanissime dalle mie.
Commento lasciato da geniss gengiss il 23 maggio 2017
La Ue consiste in una serie di automatismi (derivanti da trattati e direttive) che impongono neoliberismo e austerità ai popoli europei, a vantaggio solo di banche e padroni. La Ue ha di fatto distrutto il modello socialdemocratico europeo. Riformare la UE richiede il consenso di tutti gli Stati membri: già è difficile che un partito "sociale" vada al governo in un Paese, figuriamoci in tutti contemporaneamente... Inoltre le conseguenze delle politiche europee impoveriscono i Paesi periferici, ma a vantaggio di Germania (e satelliti), sicché non si capisce perché la Germania dovrebbe modificare volontariamente uno status quo che la avvantaggia. Finora ogni riforma della Ue è sempre avvenuta... in peggio, come vuole il dogma economico per cui ai problemi del liberismo si risponde con una maggiore dose di liberismo. Uscire dalla Ue è OGGETTIVAMENTE "di sinistra" (a prescindere da chi lo propone), perché riapre la partita: non ci sono vincoli esterni, né obblighi di bilancio, né pressioni istituzionali per abbassare i salari o privatizzare, la banca centrale può usare la monera per finanziare la spesa pubblica ecc. Ogni Paese decide "quanta globalizzazione" consentire (che è una scelta politica, non una necessità storica). Capitale e lavoro tornano a scontrarsi ad armi pari (sul piano nazionale: e dove se no?): si vince o si perde la partita, ma almeno si gioca.
La Ue consiste in una serie di automatismi (derivanti da trattati e direttive) che impongono neoliberismo e austerità ai popoli europei, a vantaggio solo di banche e padroni. La Ue ha di fatto distrutto il modello socialdemocratico europeo. Riformare la UE richiede il consenso di tutti gli Stati membri: già è difficile che un partito "sociale" vada al governo in un Paese, figuriamoci in tutti contemporaneamente... Inoltre le conseguenze delle politiche europee impoveriscono i Paesi periferici, ma a vantaggio di Germania (e satelliti), sicché non si capisce perché la Germania dovrebbe modificare volontariamente uno status quo che la avvantaggia. Finora ogni riforma della Ue è sempre avvenuta... in peggio, come vuole il dogma economico per cui ai problemi del liberismo si risponde con una maggiore dose di liberismo. Uscire dalla Ue è OGGETTIVAMENTE "di sinistra" (a prescindere da chi lo propone), perché riapre la partita: non ci sono vincoli esterni, né obblighi di bilancio, né pressioni istituzionali per abbassare i salari o privatizzare, la banca centrale può usare la monera per finanziare la spesa pubblica ecc. Ogni Paese decide "quanta globalizzazione" consentire (che è una scelta politica, non una necessità storica). Capitale e lavoro tornano a scontrarsi ad armi pari (sul piano nazionale: e dove se no?): si vince o si perde la partita, ma almeno si gioca.
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