
L’articolo 41 bis della legge Gozzini, approvata nel 1986, si configura inizialmente per il suo carattere emergenziale, in quanto la sua applicazione deve essere limitata a casi di rivolte. In seguito alle stragi di Capaci e via D’Amelio, viene applicato ai condannati e agli imputati di associazione per delinquere di stampo Mafioso. Il suo utilizzo, a partire dal 1992, è stato esteso anche a detenuti che rispondono di condanne o di imputazioni per terrorismo, pedofilia, prostituzione minorile.
La legittimità della sua applicazione ha dato vita a controversie di natura politica, legislativa e morale. I detenuti in regime di 41 bis, infatti, vivono in isolamento, sono sorvegliati da poliziotti penitenziari che non hanno relazioni con colleghi di altre sezioni, beneficiano dell’ora d’aria in isolamento, non accedono ad internet o televisione, non possono portare in cella tutta una serie di oggetti. I contatti coi familiari sono ridotti ad una visita al mese attraverso il vetro divisorio, ed è garantita una sola telefonata al mese. Posta, giornali, libri, sono censurati. Queste caratteristiche di carcere duro hanno procurato all’Italia la censura di svariate organizzazioni internazionali. Inoltre una misura afflittiva di questa portata si pone in palese contrasto con la Costituzione della Repubblica Italiana, che sottolinea la necessità che la pena tenda alla rieducazione del condannato.
La discussione sul 41 bis, al momento, si svolge da due angolazioni diverse: la prima è relativa all’efficacia del 41 bis rispetto alla lotta alle mafie; a seconda attiene all’opportunità politica della misura, in relazione all’utilizzo della risorsa penale e alla costruzione di una cornice politico-sociale improntata al ‘punitivismo’ e alla repressione. Sotto il primo aspetto, i fautori del mantenimento giocano sia sul piano emotivo che su quello dei risultati. Le loro argomentazioni hanno come punto di partenza le stragi di Capaci e di via d’Amelio, a sottolineare la spietatezza dei Mafiosi. Quindi non mancano di sconfinare sul terreno dietrologico, ricordando la trattativa, i rapporti mafia-politica, e la pericolosità dei Mafiosi come parte di un disegno di eversione ad ampio raggio. Infine, ricordano la necessità di isolare i Mafiosi dal loro contesto, e di negare loro la possibilità di stabilire contatti e costruire reti di complicità in carcere. A fronte di tutti questi pericoli, di questi tributi di sangue, il 41 bis rappresenta un deterrente essenziale. Infatti, da quando è stato introdotto, Riina, Bagarella e Provenzano sono stati catturati e Cosa Nostra si è indebolita. Non si può, dunque, abolire il 41 bis, sia per impedire una recrudescenza mafiosa, sia affinché il sangue delle vittime di mafia non sia stato sparso invano.
La caducità degli argomenti pro 41 bis, ad un’analisi appena accurata, viene subito alla luce. Innanzitutto, l’Italia non si regge sul principio della vendetta, ma si connota, fino a prova contraria, per essere uno Stato di diritto in cui la pena, come ricordato precedentemente, deve tendere, per dettato costituzionale, alla rieducazione del condannato. Di conseguenza, l’applicazione di misure che aggravano ulteriormente la portata afflittiva della pena e contribuiscono al deteriorarsi delle condizioni di salute del detenuto, oltre a dare vita ad abusi e a negare ogni possibilità di reinserimento sociale (si legga in proposito un memoriale come L’Inferno di Pianosa di Enzo Indelicato), costituisce una vendetta ingiusta e anche sterile. In secondo luogo, la cattura dei principali boss mafiosi era avvenuta anche anteriormente all’introduzione del 41 bis, così che il nesso tra questi due aspetti risulta totalmente infondato. In terzo luogo, rispetto ai rapporti mafia-politica, non esistono elementi sufficienti a confermare sia l’esistenza della trattativa, sia la sua rilevanza politica. Qualora fosse il contrario, non si capisce perché il 41bis debba valere solo per i mafiosi e non anche per i politici o per gli esponenti delle forze dell’ordine implicati. Se si pensa che serva ad indurre i mafiosi a confessare il proprio ruolo nei particolari, va detto che ciò è smentito dai decessi di Riina e Provenzano, che non hanno rilasciato alcuna confessione prima di morire. Infine, sul piano del contrasto alle mafie, l’infondatezza dei fautori del 41 bis si mostra in tutta la sua evidenza. La criminalità organizzata, malgrado il 41 bis, appare lungi dall’essere debellata. Innanzitutto, se è vero che da un lato Cosa Nostra si è indebolita, dall’altro lato continua a disporre di una presenza capillare sul territorio, che mostra la sua capacità di sopravvivere alle retate e al carcere duro. In secondo luogo, se si è indebolita la mafia siciliana, non si sono certo indebolite la camorra e la ’ndrangheta, la cui pericolosità il 41 bis non sembra minimamente scalfire. In terzo luogo, i mutamenti socio-politici degli ultimi anni hanno investito anche le organizzazioni criminali, sul piano dei rapporti col territorio, sotto il profilo delle relazioni con la politica, in direzione dei rapporti tra economie ufficiali ed economie “sporche”. Ci si trova di fronte ad un sistema relazionale che rende la ‘rete’ talmente estesa da rendere inutile una misura afflittiva nei confronti di uno specifico soggetto della rete stessa. Infine, esiste pur sempre la presunzione di innocenza, e affliggere con una misura così disumana una persona in seguito riconosciuta innocente costituisce un abuso doppio. La lotta alle organizzazioni criminali va perseguita nell’individuazione e nella disarticolazione delle relazioni, ma, soprattutto, attraverso una mobilitazione civile e politica diffusa.
Arriviamo così al secondo aspetto relativo al 41 bis, vale a dire quello relativo alle questioni politiche. Negli ultimi trent’anni la questione criminale ha rivestito un ruolo sempre più centrale nelle agende politiche elettorali. Una società sempre più sfrangiata e priva di prospettive ha affidato ad una generica “lotta alla criminalità” il duplice compito sia di esorcizzare i propri turbamenti che di incarnare i desideri di cambiamento. Questo processo si è manifestato in relazione alle specificità locali. In Italia, di conseguenza, la lotta alle organizzazioni criminali ha rappresentato uno slogan elettorale recitato da forze ed esponenti politici in cerca di legittimazione, per essere riecheggiato da imprenditori morali (giornalisti, poliziotti, magistrati), desiderosi di assurgere alla ribalta pubblica come i campioni della moralità e dell’impegno civile. In questo contesto, la posizione a favore del 41 bis ha assunto una connotazione prescrittiva, simile alle preghiere prescritte ai credenti delle diverse religioni. Di una declinazione religiosa è davvero appropriato parlare, perché in questi anni la discussione relative al 41 bis si è presentata sotto le spoglie di un dogma di cui non poter dubitare, pena essere additati all’opinione pubblica come fiancheggiatori dei mafiosi. Questo atteggiamento, ancorché svilente nei confronti della pluralità di opinioni che dovrebbe essere il correlato di uno stato democratico, si rivela ancor più insidioso nella misura in cui prepara il terreno per un altro giro di vite: ci riferiamo all’applicazione del 41 bis per i dissidenti politici, facendo leva sulla possibilità di applicare l’associazione per delinquere anche nei confronti dei gruppi politici. Alcuni tentativi in questo senso sono stati già fatti nei confronti dei NO TAV, degli anarco-insurrezionalisti, di altri gruppi e persone appartenenti soprattutto a gruppi della sinistra estrema: e fino ad ora, non hanno avuto successo, grazie al lavoro degli avvocati e alla mobilitazione degli attivisti, ma le “emergenze” che ciclicamente ricorrono nel nostro paese potrebbero prima o poi catalizzare l’assunzione di posizioni afflittive da parte di politici e magistrati. A detrimento del dissenso politico. Per questi motivi è ora di squarciare la coltre perbenista che attanaglia la discussione sul 41 bis, e puntare sui diritti dei detenuti, nonché – all’esterno delle carceri – sul rilancio dei diritti universali.
La legittimità della sua applicazione ha dato vita a controversie di natura politica, legislativa e morale. I detenuti in regime di 41 bis, infatti, vivono in isolamento, sono sorvegliati da poliziotti penitenziari che non hanno relazioni con colleghi di altre sezioni, beneficiano dell’ora d’aria in isolamento, non accedono ad internet o televisione, non possono portare in cella tutta una serie di oggetti. I contatti coi familiari sono ridotti ad una visita al mese attraverso il vetro divisorio, ed è garantita una sola telefonata al mese. Posta, giornali, libri, sono censurati. Queste caratteristiche di carcere duro hanno procurato all’Italia la censura di svariate organizzazioni internazionali. Inoltre una misura afflittiva di questa portata si pone in palese contrasto con la Costituzione della Repubblica Italiana, che sottolinea la necessità che la pena tenda alla rieducazione del condannato.
La discussione sul 41 bis, al momento, si svolge da due angolazioni diverse: la prima è relativa all’efficacia del 41 bis rispetto alla lotta alle mafie; a seconda attiene all’opportunità politica della misura, in relazione all’utilizzo della risorsa penale e alla costruzione di una cornice politico-sociale improntata al ‘punitivismo’ e alla repressione. Sotto il primo aspetto, i fautori del mantenimento giocano sia sul piano emotivo che su quello dei risultati. Le loro argomentazioni hanno come punto di partenza le stragi di Capaci e di via d’Amelio, a sottolineare la spietatezza dei Mafiosi. Quindi non mancano di sconfinare sul terreno dietrologico, ricordando la trattativa, i rapporti mafia-politica, e la pericolosità dei Mafiosi come parte di un disegno di eversione ad ampio raggio. Infine, ricordano la necessità di isolare i Mafiosi dal loro contesto, e di negare loro la possibilità di stabilire contatti e costruire reti di complicità in carcere. A fronte di tutti questi pericoli, di questi tributi di sangue, il 41 bis rappresenta un deterrente essenziale. Infatti, da quando è stato introdotto, Riina, Bagarella e Provenzano sono stati catturati e Cosa Nostra si è indebolita. Non si può, dunque, abolire il 41 bis, sia per impedire una recrudescenza mafiosa, sia affinché il sangue delle vittime di mafia non sia stato sparso invano.
La caducità degli argomenti pro 41 bis, ad un’analisi appena accurata, viene subito alla luce. Innanzitutto, l’Italia non si regge sul principio della vendetta, ma si connota, fino a prova contraria, per essere uno Stato di diritto in cui la pena, come ricordato precedentemente, deve tendere, per dettato costituzionale, alla rieducazione del condannato. Di conseguenza, l’applicazione di misure che aggravano ulteriormente la portata afflittiva della pena e contribuiscono al deteriorarsi delle condizioni di salute del detenuto, oltre a dare vita ad abusi e a negare ogni possibilità di reinserimento sociale (si legga in proposito un memoriale come L’Inferno di Pianosa di Enzo Indelicato), costituisce una vendetta ingiusta e anche sterile. In secondo luogo, la cattura dei principali boss mafiosi era avvenuta anche anteriormente all’introduzione del 41 bis, così che il nesso tra questi due aspetti risulta totalmente infondato. In terzo luogo, rispetto ai rapporti mafia-politica, non esistono elementi sufficienti a confermare sia l’esistenza della trattativa, sia la sua rilevanza politica. Qualora fosse il contrario, non si capisce perché il 41bis debba valere solo per i mafiosi e non anche per i politici o per gli esponenti delle forze dell’ordine implicati. Se si pensa che serva ad indurre i mafiosi a confessare il proprio ruolo nei particolari, va detto che ciò è smentito dai decessi di Riina e Provenzano, che non hanno rilasciato alcuna confessione prima di morire. Infine, sul piano del contrasto alle mafie, l’infondatezza dei fautori del 41 bis si mostra in tutta la sua evidenza. La criminalità organizzata, malgrado il 41 bis, appare lungi dall’essere debellata. Innanzitutto, se è vero che da un lato Cosa Nostra si è indebolita, dall’altro lato continua a disporre di una presenza capillare sul territorio, che mostra la sua capacità di sopravvivere alle retate e al carcere duro. In secondo luogo, se si è indebolita la mafia siciliana, non si sono certo indebolite la camorra e la ’ndrangheta, la cui pericolosità il 41 bis non sembra minimamente scalfire. In terzo luogo, i mutamenti socio-politici degli ultimi anni hanno investito anche le organizzazioni criminali, sul piano dei rapporti col territorio, sotto il profilo delle relazioni con la politica, in direzione dei rapporti tra economie ufficiali ed economie “sporche”. Ci si trova di fronte ad un sistema relazionale che rende la ‘rete’ talmente estesa da rendere inutile una misura afflittiva nei confronti di uno specifico soggetto della rete stessa. Infine, esiste pur sempre la presunzione di innocenza, e affliggere con una misura così disumana una persona in seguito riconosciuta innocente costituisce un abuso doppio. La lotta alle organizzazioni criminali va perseguita nell’individuazione e nella disarticolazione delle relazioni, ma, soprattutto, attraverso una mobilitazione civile e politica diffusa.
Arriviamo così al secondo aspetto relativo al 41 bis, vale a dire quello relativo alle questioni politiche. Negli ultimi trent’anni la questione criminale ha rivestito un ruolo sempre più centrale nelle agende politiche elettorali. Una società sempre più sfrangiata e priva di prospettive ha affidato ad una generica “lotta alla criminalità” il duplice compito sia di esorcizzare i propri turbamenti che di incarnare i desideri di cambiamento. Questo processo si è manifestato in relazione alle specificità locali. In Italia, di conseguenza, la lotta alle organizzazioni criminali ha rappresentato uno slogan elettorale recitato da forze ed esponenti politici in cerca di legittimazione, per essere riecheggiato da imprenditori morali (giornalisti, poliziotti, magistrati), desiderosi di assurgere alla ribalta pubblica come i campioni della moralità e dell’impegno civile. In questo contesto, la posizione a favore del 41 bis ha assunto una connotazione prescrittiva, simile alle preghiere prescritte ai credenti delle diverse religioni. Di una declinazione religiosa è davvero appropriato parlare, perché in questi anni la discussione relative al 41 bis si è presentata sotto le spoglie di un dogma di cui non poter dubitare, pena essere additati all’opinione pubblica come fiancheggiatori dei mafiosi. Questo atteggiamento, ancorché svilente nei confronti della pluralità di opinioni che dovrebbe essere il correlato di uno stato democratico, si rivela ancor più insidioso nella misura in cui prepara il terreno per un altro giro di vite: ci riferiamo all’applicazione del 41 bis per i dissidenti politici, facendo leva sulla possibilità di applicare l’associazione per delinquere anche nei confronti dei gruppi politici. Alcuni tentativi in questo senso sono stati già fatti nei confronti dei NO TAV, degli anarco-insurrezionalisti, di altri gruppi e persone appartenenti soprattutto a gruppi della sinistra estrema: e fino ad ora, non hanno avuto successo, grazie al lavoro degli avvocati e alla mobilitazione degli attivisti, ma le “emergenze” che ciclicamente ricorrono nel nostro paese potrebbero prima o poi catalizzare l’assunzione di posizioni afflittive da parte di politici e magistrati. A detrimento del dissenso politico. Per questi motivi è ora di squarciare la coltre perbenista che attanaglia la discussione sul 41 bis, e puntare sui diritti dei detenuti, nonché – all’esterno delle carceri – sul rilancio dei diritti universali.
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