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      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
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      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
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      • DAGLI SCIOPERI DELLE DONNE A UN NUOVO MOVIMENTO DI CLASSE: LA TERZA ONDATA FEMMINISTA
      • ANCORA SU DAVID HARVEY, MARX E LA FOLLIA DEL CAPITALE
      • DAVID HARVEY E LA FOLLIA DEL CAPITALE
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      • BORGHESIA MAFIOSA E POSTFORDISTA
      • CHI PARTE DA SE' FA PER TRE
      • SCUOLA E GENERE. UN DIBATTITO A PALERMO
      • UN CECCHINO DISARMATO
      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
      • GRAFFITI, POETICHE DELLA RIVOLTA
      • NEOLIBERISTI SU MARTE
      • L'ANIMA DEGLI ANIMALI
      • GATTOPARDI BORGHESI
      • LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
      • DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO
      • BOOM BUST BOOM (English version)
      • BOOM BUST BOOM
      • A QUALCUNO PIACE CALDO (ANCHE AI LIBERAL)
      • PADRI E PADRONI
      • GESTIONE DEI CONFLITTI NELLA CULTURA GRECA
      • CRITICATE, CRITICATE, QUALCOSA RESTERA'
      • LA STORIA DELL'8 MARZO
    • SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA >
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2001: PALERMO ANNO ZETA
Intervista a Salvatore Cavaleri, a cura del Centro Studi Zabùt 
21 marzo 2017




16 anni fa, il 20 marzo del 2001, veniva occupato il Laboratorio Zeta, centro sociale che avrebbe attraversato e segnato una lunga stagione politica della città di Palermo fino all’1 novembre del 2013, giorno del suo scioglimento. Cogliamo l’occasione di questo anniversario per pubblicare una lunga intervista [realizzata nella primavera del 2014] dal Centro Studi Zabùt a Salvatore Cavaleri – protagonista di quell’esperienza, attivista e collaboratore di PalermoGrad – che, ripercorrendone le vicende, offre un racconto politico di un decennio della città. Ne approfittiamo per segnalare, inoltre, la futura pubblicazione del volume Palermo e i suoi spazi sociali: appunti per una storia bandita a cura del Centro Studi Zabùt (I quaderni di Zabùt vol. 2. Edizioni Zabùt), all’interno del quale trova spazio questa intervista.


Zabùt: Racconta gli albori, come inizia la storia del Laboratorio Zeta?

Salvatore Cavaleri: Premetto che racconto la storia dal mio personale punto di vista, mettendo in conto che ci possano essere vissuti molto distanti dal mio. Sta nella natura stessa di storie come questa quella di essere il frutto di mille incroci diversi, con tutte le energie che si sprigionano, ma inevitabilmente anche con i mille scazzi che ne derivano.
Per cui preferisco mettere in conto che questa è una storia nella quale ho personalmente investito e dalla quale sono stato molto segnato. Questo è il mio racconto, non la versione ufficiale.
Parto dunque facendo alcune premesse che permettono di inquadrare meglio il contesto in cui ci troviamo.
Il Laboratorio Zeta nasce il 20 marzo 2001. Il primo gruppo di occupanti è abbastanza ridotto numericamente, anche se, come dire, faceva parte di un giro molto più largo, tanto che il nucleo degli occupanti si duplicherà già il pomeriggio stesso dell’occupazione.
Questo gruppo veniva in buona parte, seppur non del tutto, dai collettivi che avevano animato la facoltà di Lettere e Filosofia negli anni precedenti.
Una delle radici da cui proviene lo Zeta è sicuramente l’occupazione di Lettere del ’97: in quell’occasione fummo tra le pochissime Università in Italia ad occupare contro la riforma Berlinguer. Un movimento universitario, quello del ’97, che ebbe pochissimo clamore e risonanza proprio perché si contrapponeva ad un governo di centrosinistra. Anche se probabilmente quella è stata la riforma che ha dato il via alla definitiva aziendalizzazione delle Università.  
Quello è l’antecedente forte che, pur con mille differenze, unisce questo gruppo di persone, che da quel momento in poi continua la sua attività politica all’interno dell’Università. Anche perché con quella occupazione ottenemmo 5 box autogestiti, a partire dai quali abbiamo iniziato a vivere la facoltà quotidianamente, quasi fosse uno squat, con attività serali quali feste, concerti, cineforum, proiezioni o altro.
L’urgenza di trovare un altro luogo che fosse punto di riferimento per queste attività, in quel momento, non esisteva affatto. D’altronde all’epoca per noi era anche comodo ricevere tutti gli onori di quest’attività senza avere quegli oneri propri dell’occupazione.
Alla lunga però questo impegno quotidiano dentro le mura della facoltà di Lettere iniziò a starci stretto: avendo tutti tra i 25 e i 27 anni, abbondantemente fuori corso, eravamo abbastanza esausti della vita da studenti universitari.
Ecco perché, quando ormai eravamo quasi tutti laureati, iniziammo a chiederci come non disperdere quella energia politica una volta usciti dalla dimensione, ormai totalizzante, che era diventata per noi la Facoltà. Nei nostri ragionamenti ci rendevamo conto che la nostra azione politica aveva grande riconoscimento, ma solo dentro quelle mura, poiché toccava solo temi di e per studenti universitari. È a quel punto che nasce l’esigenza di buttarci dentro la città.
La seconda grande premessa riguarda la fase che in quel momento si attraversava: era il momento dei governi Prodi e D’Alema e, a livello locale, la fine dell’onda lunga dei dieci anni della primavera palermitana, ovvero il momento in cui la seconda candidatura del sindaco Leoluca Orlando era già in fase calante. Tutto l’entusiasmo che aveva caratterizzato i primi anni ’90, “gli anni della partecipazione”, stava affondando in un sentimento quasi di sudditanza verso il sovrano su cui si accentrava tutta la gestione della città.  
Nel momento in cui prendiamo la decisione di uscire dall’ambito universitario, ci ritroviamo catapultati in un contesto nazionale e cittadino che fa i conti con la guerra dei Balcani degli anni 1998-1999 e con i bombardamenti italiani ad opera dello stesso governo di centrosinistra che stava privatizzando l’Università. Così nascono i coordinamenti contro la guerra dispiegati sul territorio. Questo è il momento esatto in cui inizieremo delle esperienze e conosceremo dei personaggi che segneranno il nostro decennio successivo. Nasce cioè un nuovo spazio pubblico d’azione in città.
Ricordo ancora quelle riunioni del coordinamento contro la guerra. Si tenevano il lunedì nell’atrio della cattedrale. Lì si ritrovava a discutere tantissima gente: gruppi della sinistra extraparlamentare, cattolici del dissenso, associazioni, sindacati di base, singoli, tutti uniti dalla necessità di trovare nuove forme immediate per creare uno spazio di opposizione alla guerra.


All’inizio dicevi che vivevate l’università come spazio politico; sembra però di capire che questo spazio politico lo trovate in effetti fuori, nella città, dove comunque arrivate come un soggetto sociale definito, come un soggetto complessivo.

La dimensione da cui venivamo non era una dimensione forte, ed era anche una dimensione da cui volevamo uscire perché ci stava stretta. In questo nuovo contesto eravamo invece spinti da un forte entusiasmo, perché lì si sentiva che stava nascendo qualcosa di nuovo. Da quel coordinamento contro la guerra, infatti, un anno e mezzo dopo, sarebbe nato il Coordinamento contro il Global Crime, un movimento che nacque sull’onda lunga del paradigma della lotta alla “globalizzazione”, parola a noi fino a quel momento sconosciuta, ma che iniziavamo a capire che da lì in poi sarebbe diventata fondamentale.
Nei giorni di Seattle, organizzammo il primo convegno sulla globalizzazione presso la facoltà di Lettere e Filosofia a Palermo, proprio perché capimmo che si stava aprendo una stagione in cui l’opposizione ai grandi vertici sarebbe diventata una pratica costituente.
Qualche mese dopo, poi, proprio a Palermo, ci sarebbe stato il Global Crime, una conferenza internazionale sul crimine globale, fortemente voluta dall’Onu e dal sindaco Orlando, che la vedeva come momento conclusivo della sua candidatura, assumendo così la dimensione internazionale a cui teneva e tiene molto.
Il movimento contro il Global Crime del 2000 raccolse l’eredità del Coordinamento contro la guerra e, organizzando un controvertice, in qualche modo ci traghettò verso la stagione che ci avrebbe portato a Genova 2001.
Il passaggio successivo fu infatti la costituzione del Forum Sociale Siciliano che avrebbe accompagnato quell’aggregato fino alle giornate di Genova.
Un altro passaggio centrale da citare per completare il contesto in cui nasce il Laboratorio Zeta riguarda le manifestazioni contro i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati, creati sempre dai governi di centro sinistra. La questione dell’immigrazione era un altro macrotema verso il quale tutti noi eravamo in qualche modo analfabeti. Quella che vivevamo era la prima fase di immigrazione massiccia a Palermo, che toccava numeri e picchi senza precedenti.
Infine, accade che in quel contesto un collettivo più giovane, della generazione successiva alla nostra, occupò l’attuale Hotel de France, ovvero il Goliardo. Fummo contentissimi, ma anche un po’ spiazzati. Noi perdevamo un sacco di tempo a discutere e questi avevano già occupato. Quindi per forza di cose fummo spinti a darci una mossa. Considera che quella del Goliardo fu la prima occupazione dopo anni e anni di vuoto in città. Non c’era stato più uno spazio occupato dopo la chiusura del Montevergini prima e del Da Hausa dopo.


Cosa intendi quando parli di approcci diversi tra i collettivi in questione?
 
La differenza immediata era di età. Noi prossimi ai trenta, mentre loro erano appena usciti dalle superiori. Poi c’era anche una differenza di approccio: il loro era un gruppo molto omogeneo, noi rivendicavamo l’eterogeneità come valore. Loro erano molto rigorosi ed organizzati, noi in qualche modo eravamo meno rigidi, anche più svaccati in qualche modo.
Quando questo collettivo abbandonò il Goliardo, e occupò il Centro Sociale Exkarcere, il 13 marzo del 2001, esattamente una settimana dopo, il 20 marzo del 2001, noi occupammo il Laboratorio Zeta.
Insomma, sempre massimo rispetto tra le due esperienze, ma era abbastanza evidente che erano due storie diverse.
Il gruppo iniziale che diede vita allo Zeta era molto eterogeneo: tutti più o meno gravitanti nella sinistra extraparlamentare, qualcuno dal movimento non violento, appassionati di cinema, una buona componente anarchica, studenti universitari e qualcuno più o meno situazionista, anche se il termine si presta molto alla confusione.
Io personalmente negli anni ’90 mi ero occupato di movimenti ecologisti, differenze sessuali, cyberpunk e soprattutto avevo vissuto l’esplosione dei centri sociali post Pantera.
Tutte queste cose, per quanto diverse, in quegli anni sembravano comporre un nuovo paradigma che le teneva insieme in modo complesso.


In riferimento a questo termine che spesso utilizzi, questo nuovo paradigma, voi come vi ponevate? È chiaro che voi nascete da un’esigenza di costruire uno spazio autogestito rivendicando la vostra capacità di autonomia rispetto alle altre aree che intanto si andavano costruendo, ma comunque sembra che foste in cerca di un’identità…

Al netto del fatto che la parola “identità” la uso con molta prudenza, diciamo che nel primo periodo non c’era molta preoccupazione di capire a quale area appartenere. Piuttosto rivendicavamo come valore l’essere uno spazio di contaminazione. Abbiamo sempre provato ad evitare le etichette. Non volevamo essere il centro sociale anarchico, autonomo, o di qualsiasi altra area politica, anche se molti di noi facevano riferimento a determinati orientamenti. Questo non è necessariamente un pregio, anzi probabilmente porta con sé grossi limiti. Ma ci sembrava più importante portare avanti una storia nuova ed inclusiva, piuttosto che capire come definirla.  


Per quanto riguarda i riferimenti teorici però avete costruito un’unanimità all’interno del percorso che ha poi attraversato il Laboratorio Zeta negli anni?

Soprattutto all’inizio, lo ripeto, l’unanimità c’era pressoché su nulla. È chiaro che col passare degli anni invece si è creata molta più condivisione tra chi aveva condiviso tante esperienze.
Il 2001 era comunque una fase in cui si ripartiva da zero. Molti concetti teorici li abbiamo attraversati proprio nella fase della loro elaborazione. Faccio riferimento all’uscita di Impero di Hardt e Negri proprio in quegli anni, o di Oltre il Novecento di Revelli, ma anche No Logo di Naomi Klein o Appunti di fine secolo di Rossana Rossanda e Pietro Ingrao. 
Quella che stavamo vivendo era la prima ondata di movimenti globali nati dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Facevamo tesoro di tutta un’elaborazione della sinistra che non nasceva dal sovietismo, ma dalla sua critica, per così dire, da sinistra. 
Noi non piangevamo la caduta dell’Urss, ma neanche ci rassegnavamo alla vulgata secondo cui il capitalismo aveva definitivamente vinto. Noi eravamo interessati a tutto ciò che ci aiutava ad elaborare un’idea di comunismo nuovo e diverso. 
C’era anche una certa felicità nell’essere orfani di tutta una serie di coreografie, pesantezze e bagagli importati in Italia dalla tradizione del PCI, verso il quale d’altronde non avevamo mai subito molta fascinazione.
In quel periodo iniziammo a studiare il poststrutturalismo francese o l’operaismo italiano, proprio per ripartire da ciò che di “minore” o “eretico” ci fosse da recuperare.


Riprendiamo un po’ le fila della storia del Laboratorio Zeta. Una volta trasferiti dall’Università alla città, il passaggio dalla città al Centro Sociale come è avvenuto? Che rapporti avete instaurato con lo spazio cittadino circostante, sia che si tratti del quartiere in cui vi siete insediati, sia che si tratti degli altri movimenti presenti nel tessuto palermitano?

L’occupazione venne decisa durante una riunione domenicale presso il parchetto della Facoltà di Lettere. Si discuteva ancora di come e perché, fino a quando Piero parlò di uno spazio abbandonato in via Arrigo Boito, un ex asilo. Così il martedì dopo occupammo. La struttura era un vecchio asilo di proprietà dello IACP, un corpo basso degli anni ’70. Quando nel 1985 venne chiuso, nella stessa zona furono aperte quattro scuole private nel giro di pochissimo tempo.
Il posto era in condizioni devastanti, per cui i primi tempi furono dedicati a ripristinare l’agibilità.
Via Boito è una via di confine tra via Notarbartolo e via Malaspina. Praticamente tra via Libertà e la Noce. Una zona quindi di confine, prevalentemente abitata da anziani e famiglie. 
Negli anni abbiamo avuto rapporti variegati con il quartiere. Con alcuni abbiamo costruito un rapporto molto intimo, con tanti cordiale, con altri di aperta avversione e con la stragrande maggioranza di indifferenza.
Ma noi non ci siamo mai pensati come un posto del quartiere, ma come un luogo della città. Un luogo di attraversamento.


Quali erano le attività del Laboratorio Zeta?

Lo Zeta ha attraversato nella sua storia, per semplificare, quattro grandi fasi. I primi anni, quelli più acerbi, un po’ ingenui ma molto divertenti, diciamo quelli in cui si facevano le cose tipiche da centro sociale classico: cineforum (il primo film in assoluto è stato Animal House), assemblee,  manifestazioni, mercatino equosolidale, feste col Diana Rouge. 
La seconda fase inizia con l’arrivo del primo gruppo di sudanesi, nel marzo 2003, e vedrà nella questione migrante la sua parte fondamentale. Sono gli anni in cui parte del centro si trasforma in una struttura di accoglienza autorganizzata, ma anche gli anni della Rete Antirazzista Siciliana, con cui organizziamo la mobilitazione per la Cap Anamur nel 2003, il campeggio antirazzista di Licata del 2004 e un’importante manifestazione a Lampedusa nel 2005. 
Una terza fase è legata all’esperienza del web magazine Kom-pa e all’attività culturale, diciamo a partire dal 2007. In questo periodo iniziano a girare attorno allo Zeta alcune delle migliori menti che questa città offriva. Qui lo Zeta si afferma sempre più come punto di riferimento per il dibattito e l’elaborazione politica in città.
La quarta ed ultima fase è quella che prende il via attorno alla straordinaria aggregazione che si venne a creare dopo lo sgombero del 2010 ed arriva alle mobilitazioni per la riapertura dei Cantieri della Zisa.
 

​Rispetto ai movimenti di lotta invece, ad esempio il movimento di lotta per la casa o per le rivendicazioni sociali a Palermo, partecipavate direttamente o no?


Il movimento per il diritto alla casa lo abbiamo sempre seguito, a partire dall’occupazione della Cattedrale del 2001. All’inizio come sostegno o appoggio esterno, per poi nel corso degli anni parteciparvi più internamente. Ovviamente facendo anche i conti con le altre mille cose che seguivamo. Va sottolineato che nel 2003 avviene un fattore di svolta nella storia dello Zeta. Il 3 marzo del 2003, mentre al centro sociale si svolgeva uno spettacolo teatrale, uno di noi ricevette una chiamata in cui lo si avvisava che un gruppo di rifugiati politici si era accampato davanti la prefettura in segno di protesta. Così ci precipitammo immediatamente sul posto per capirne di più: si trattava di un gruppo di 53 rifugiati politici del Sudan buttati fuori, per futili motivi, dalla struttura di Biagio Conte. In realtà ne erano stati buttati fuori soltanto tre, che furono seguiti per solidarietà da tutto il resto della comunità.  
Qualche giorno dopo, durante un’assemblea con i rifugiati che si teneva a S. Chiara, mentre si discuteva dell’appuntamento in prefettura fissato per il mercoledì successivo, si pose il problema di dove potessero dormire queste 53 persone per quei tre giorni. A quel punto io dissi che, con tutti i limiti del caso, per tre giorni la disponibilità di un tetto allo Zeta ci poteva essere. Quei tre giorni sono poi diventati dieci anni e, che io sappia, continuano tutt’ora.
Capimmo subito allora che si trattava di un’occasione di lotta per noi molto importante, poiché toccava un nervo scoperto di Comune e Prefettura, cioè quello delle politiche di accoglienza. Il gruppo di rifugiati in questione tra l’altro era un gruppo fortemente politicizzato, con una propria strutturazione interna, delle leadership e dei trascorsi di attivismo anche in Sudan. 
Iniziò allora una vertenza con le istituzioni per la creazione di un centro di accoglienza pubblico e laico per rifugiati a Palermo.


Come è cambiata l’attività del Centro sociale a causa o forse è meglio dire grazie a questo percorso con gli immigrati?

Durante questa vertenza avviata con il Comune discutevamo sul da farsi attraverso riunioni che duravano a volte notti intere, alle quali partecipavamo noi dello Zeta, i 53 sudanesi ed un interprete in mezzo.
Non solo la storia, ma la conformazione stessa dello spazio in quel periodo cambiò radicalmente. Ogni giorno era attraversato da tantissime persone 24 ore su 24.
Non solo i “compagni”, ma gente con nessuna esperienza politica che si avvicinava per solidarietà, semplicemente per dare una mano. Noi stessi siamo cambiati profondamente. 
La vertenza durò 5 mesi e si concluse senza risposte dalle istituzioni.
Durante l’estate, a bocce ferme, mentre tutti i sudanesi andarono a lavorare nelle campagne, noi iniziammo a ragionare sul futuro del centro sociale.
Decidemmo allora di continuare questo esperimento di cogestione dello spazio tra rifugiati sudanesi e attivisti italiani.


Quindi il vostro ruolo di spazio di ospitalità per rifugiati venne riconosciuto direttamente dalla prefettura e il comune fu obbligato a ritirare l’intimazione allo sgombero?

Non proprio. Le istituzioni erano ben contente che noi facessimo quello che dovevano fare loro, ma ovviamente senza riconoscerlo o aiutarci in qualche modo. Anzi, al rientro dall’estate occupammo il Consiglio Comunale per fare delle richieste.
La prima fu quella di attaccarci l’acqua per evitare questioni di emergenza igienico-sanitaria: ci fu accordata, anche se in realtà poi il Comune le bollette non le ha mai pagate. Comunque venne attaccata l’acqua nel posto occupato.
La seconda richiesta fu il contratto con il banco alimentare per provvedere al cibo della gente ospitata allo Zeta, e anche questa ci venne concessa.
La terza richiesta, mai accordata, fu che i rifugiati potessero eleggere via Arrigo Boito n. 7 come proprio domicilio. 
Va aggiunto che dopo la prima fase di accoglienza per i 53 sudanesi, la questione immigrazione diventa per noi terreno di lotta politica anche fuori dal centro sociale.
Per noi dividere lo spazio con dei rifugiati e lottare contro i Cpt erano due facce della stessa lotta.
È in questo periodo che si forma la Rete Antirazzista Siciliana. Era l’estate del 2004, i primi anni dell’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, quando l’Ong Cap Anamur decise di vigilare sul Mediterraneo per salvare persone a rischio naufragio. Così portò in salvo 41 ragazzi trovati su una barca in avaria. 
Questo diventò una caso nazionale e ne iniziarono a parlare tutti i giornali. Così, quando venimmo a sapere che la nave stava per attraccare a Porto Empedocle ci siamo catapultati lì. Aspettando tutta la notte l’arrivo della nave, assistendo alla passerella politica di personaggi come Cuffaro venuti lì a rassicurare le telecamere su quanto la Sicilia fosse terra d’accoglienza. Poi, quando la nave attraccò all’alba del giorno seguente, il capitano e i membri dell’Ong vennero subito arrestati, i 41 ragazzi portati direttamente al Cpt di Caltanissetta, e noi fummo caricati a freddo dalla polizia. 
In quell’occasione la Boldrini, allora portavoce dell’Unhcr, con un tempismo eccezionale, ringraziò le forze dell'ordine e lo Stato per la gestione della situazione.

Tutti i 41 immigrati furono espulsi, eccezion fatta per uno soltanto, Benjamin, un nigeriano che tre settimane dopo, non si sa come, arrivò allo Zeta. 
Racconto queste storie perché davvero aiutano a capire l’aria che si respirava al Centro Sociale in quegli anni: Benjamin il nigeriano passava le sue giornate con Liubo l’ucraino ubriacone che voleva tornare a casa ma non sapeva come, i 50 sudanesi musulmani ed astemi che volevano il permesso di soggiorno per restare in Italia e Pascal scultore peruviano arrivato in Italia in bicicletta.
Per aiutare l’ucraino barbone alcuni di noi andarono fino al consolato ucraino a Roma. Poi rintracciammo la famiglia, gli trovammo un passaggio con un camionista diretto ad est e così riuscì a tornare da sua figlia. Appena arrivato, dopo settimane di peripezie in Europa ci chiamò per salutarci e farci ringraziare dalla figlia.
Un’altra storia folle è quella di Fatah, un ragazzo etiope molto in gamba che prese il diploma grazie alla nostra scuola di italiano per stranieri. Poi ha iniziato a fare il mediatore culturale ed oggi è responsabile dell’ambulatorio palermitano di Emergency. Anni dopo una di noi, Alessandra, si trovò a fare un viaggio in Etiopia. Allora decise di raggiungere il villaggio sperduto di Fatah per portare alcune foto alla famiglia e prendere alcune cose per lui. 
Sono storie attraverso le quali si può comprendere da cosa era investito il Laboratorio Zeta in quegli anni. Veramente c’era la sensazione che in ogni momento stesse accadendo qualcosa di incredibile. Di questi aneddoti ne potrei raccontare a centinaia. 
Nei suoi dieci anni di storia, lo Zeta avrà ospitato almeno 600 persone tra sudanesi, nigeriani, etiopi, bulgari, ucraini ma anche portoghesi e persino neozelandesi: alcuni per dieci giorni, altri per dieci anni.


L’impegno sul piano dell’accoglienza e dell’immigrazione quindi vi impegnava moltissimo. Riuscivate a continuare le altre attività del Centro Sociale?

Quando abbiamo dato avvio alla fase abitativa, gran parte degli spazi del Centro sono stati ripensati e in base a questa sistemati. All’inizio anche qualcuno di noi viveva allo Zeta, ma poi abbiamo deciso di lasciare tutto lo spazio abitativo possibile agli immigrati. L’unico italiano che abitava allo Zeta era Riccardo, un ragazzo toscano che dopo aver fatto la raccolta delle mele in Trentino era venuto in Sicilia per fare la raccolta delle arance, poi però decise di fermarsi allo Zeta per circa due anni, occupandosi in toto dell’accoglienza, aiutando i nuovi arrivati a sistemarsi o accompagnandoli a sbrigare i documenti o alle visite al Policlinico. 
Nel mentre continuavano le attività di sempre: proiezioni, concerti, feste, assemblee, spettacoli teatrali, ma anche i corsi di informatica, la scuola di italiano per stranieri e l’ambulatorio per immigrati gestito da alcuni medici di Emergency che poi avrebbero aperto l’ambulatorio che oggi è una struttura di eccellenza.


Come facevate a finanziare tutto questo?

Con la Forst a un euro! Sembra uno scherzo, ma è per far capire che tutto era autofinanziato e che nessuno c’ha mai guadagnato una lira, anzi si metteva sempre mano al portafogli perché motivi per iniziare una colletta ce n’erano uno a settimana. L’unica volta in cui beccammo un finanziamento fu quando l’associazione per cui lavoravo mi disse che c’era la proposta di un progetto di sostegno alle scuole di italiano per stranieri; la nostra scuola era convenzionata con la scuola media “Antonio Ugo”, e Luciana, una docente di quella scuola, veniva a fare lezioni anche da noi in modo che a fine anno le persone potessero anche prendere la licenza media. Utilizzammo quei fondi per comprare una stampante e materiale didattico vario. Tra l’altro facendoci un sacco di pippe sull’opportunità etica di accettare quei soldi. Sembra assurdo ma quelle poche centinaia di euro sono state l’unico finanziamento esterno che ci è arrivato in tredici anni.


Come funzionava il gruppo di gestione dello spazio?

Tutto, più o meno, passava dall’assemblea di gestione. Io la chiamavo “la Messa”, perché la facevamo sempre di domenica. Va detto che, se nel primo periodo si trattava di un collettivo molto eterogeneo, con il passare degli anni, con la condivisione delle esperienze il gruppo si trasforma in un collettivo che condivide molte più cose. 
Inoltre, se all’inizio dell’occupazione “la Messa” discuteva ore e ore su come gestire i cani dei punk o sul colore con cui dipingere le pareti, l’arrivo dei sudanesi ha fatto mutare la forma della nostra attività politica e con essa la sostanza.
Le assemblee comunque sono rimaste nel tempo sempre aperte a chiunque volesse parteciparvi e la divisione organizzativa veniva scelta in quella sede in modo collettivo. Per tutta la loro durata, comunque, le assemblee, com’è naturale che fosse, hanno sempre mantenuto un loro lato delirante.


Quale era la composizione sociale del gruppo?

Anche questa assolutamente eterogenea. La gente che veniva allo Zeta, in termini semplicistici, veniva tanto da famiglie molto povere quanto da famiglie molte ricche. Detto questo, stiamo parlando di tutte persone che hanno poi vissuto la precarietà lavorativa ed esistenziale sulla propria pelle.  


E per quanto riguarda il vostro rapporto con le istituzioni?

Nei suoi dieci anni di storia il Laboratorio Zeta ha attraversato entrambe le amministrazioni Cammarata e poi i primi anni del ritorno di Orlando. E tra i due, non possiamo nasconderlo, ci sono state enormi differenze.
Quando noi nasciamo, nel 2001, non è soltanto l’anno del fermento politico per Genova, ma anche l’anno del 61 a 0, quello in cui Cuffaro diventa presidente della regione Sicilia e Cammarata sindaco di Palermo.
Ci siamo sempre chiesti come fosse stata possibile la grande vittoria alle elezioni amministrative di Cammarata dopo dieci anni di Primavera siciliana, e questo forse dovremmo continuare a chiedercelo. Ad ogni modo, l’anno in cui occupammo, ci trovammo nuovamente in una Palermo Anno Zero che faceva i conti con lo scemare dell’entusiasmo per la partecipazione politica.
Gli anni vissuti sotto l’amministrazione Cammarata sono dunque gli anni in cui noi e il gruppo degli autonomi eravamo, più o meno, gli unici soggetti culturali e politici esistenti nel deserto della città. Se si pensa anche solo ai concerti, in quegli anni i centri propulsori eravamo noi e l’Exkarcere. L’attivismo politico lo si trovava in ambienti affini a noi o al Centro Sociale Exkarcere, oppure non c’era.
Il primo approccio che questa amministrazione ha avuto con i centri sociali in città è stato un tentativo di sgombero congiunto, già nel 2001. Pochi giorni dopo lo sgombero rientrammo nello spazio.
Poi nel 2010 lo sgombero arrivò davvero. Quello fu forse il momento in cui lo Zeta sentì maggiormente il peso della sua storia. Contro quello sgombero si mobilitò una quantità di gente pazzesca, sia numericamente ma ancor di più dal punto di vista della sua composizione. Alla manifestazione c’erano tutti, dai punk alle suore, e per tutti era naturale stare insieme per difendere lo Zeta. 
Dico, noi ci siamo sempre mossi sui paradossi. Una manifestazione solo di punk ci avrebbe annoiato, non parliamo di una manifestazione solo di suore. Ma quei mix assurdi che si creano in certi momenti, quelli sì sono davvero destabilizzanti. L’importante era proprio che a difendere l’esperienza dell’occupazione non ci fossero soltanto i “compagni”, ma gente che non l’avresti mai detto, ma era lì in prima fila. 
I mesi successivi lo Zeta diventò un punto di riferimento in città a 360 gradi. Lo ricordo come uno di quei periodi in cui si rinasce, in cui conosci una marea di persone nuove che immediatamente percepisci come compagni di strada.

Quella fase coincide con la fine dei dieci anni dell’amministrazione Cammarata e si sentiva un clima di rottura degli argini.
Da lì a poco nasceranno esperienze come il Teatro Garibaldi Aperto o quella del movimento de I Cantieri che Vogliamo, che per l’appunto non erano portate avanti soltanto da attivisti abituali, ma, anzi, soprattutto da persone che non avevano mai fatto militanza in vita loro. 
Buona parte di quelle energie rimase stritolata durante la campagna elettorale delle amministrative successive, quando tutto il dibattito politico si ridusse a un tifo per Orlando o per Ferrandelli.
Dicotomia che divenne, ahinoi, alquanto invasiva. Motivo per cui noi come Zeta sentimmo l’esigenza di esprimerci al riguardo: scrivemmo un documento in cui sottolineammo come la questione centrale non fosse per chi tifare, ma la possibilità di partecipazione politica. Sottolineammo, cioè, il nostro disinteresse per un dibattito che era diventato vuoto. Riconoscevamo a Ferrandelli la sua presenza negli anni bui di Cammarata, ma certo non ci piacevano le alleanze politiche che si era scelto. Allo stesso tempo sapevamo che Orlando era stato il Sindaco di un decennio “felice” (tra mille virgolette) di Palermo, ma sapevamo anche il vuoto che quel decennio aveva lasciato. Del resto, il tema dei semi sterili dell’“orlandismo” sembra essere sempre attuale.
In questo gioco al massacro ci vedevamo qualcosa di edipico, così ne siamo stati fuori, nonostante ci fossero arrivati tanti “corteggiamenti”.


Ma perché vi siete sentiti chiamati in causa ad esprimervi al riguardo?
Sembra di capire che se si fosse costruito un quadro politico differente per le amministrative del 2012, cioè se Ferrandelli magari non avesse costruito un’alleanza politica con il vecchio gruppo dirigente del partito, sarebbe potuto essere per voi un soggetto di riferimento, a patto che aprisse processi partecipativi.

Per noi non era importante il nome del leader. Non eravamo dei sostenitori di Ferrandelli, né di Orlando. 
Guarda, rischiando di sembrare presuntuosi, al massimo entrambi, in momenti diversi, erano stati dei sostenitori dello Zeta. 
Comunque, se ci fosse stato in quel momento il contesto politico per continuare anche in ambito istituzionale una serie di lotte che ci avevano visti protagonisti, noi ci saremmo stati dentro. Ma il contesto che si era venuto a determinare non era tale. Evidentemente, anche per limiti nostri.


Torniamo allo spazio. Come si conclude l’esperienza del Laboratorio Zeta?

Nel novembre del 2013 decidiamo di concludere la nostra esperienza.
La scelta è stata dettata da varie ragioni, ma in realtà il motivo principale è stato quello di non riuscire più a coniugare l’attività politica con l’esperienza di cogestione con la comunità sudanese.
A lungo andare l’impegno che richiedeva l’attività di accoglienza era diventato sempre più pressante ed il legame di fiducia necessario si era a dir poco incrinato.
Evidentemente noi non siamo stati in grado di determinare un’evoluzione di quella dimensione che la rendesse sostenibile.
Nel tempo, infatti, le distanze tra le diverse esigenze di chi viveva il posto sono diventate sempre più marcate e sempre più difficili da coniugare. Una roba come quella, senza un enorme spirito di collaborazione, era evidentemente impossibile da continuare. 
Dopo quasi due anni di discussioni logoranti, ed una serie di avvenimenti molto gravi, con il gruppo di migranti residenti si era arrivati ad un vicolo cieco di incomunicabilità. Decidemmo, allora, con grande sofferenza e travaglio interno, che piuttosto che continuare l’escalation conflittuale con chi per anni avevamo considerato nostro fratello, preferivamo lasciare loro le mura ed il tetto.
C’è da dire che anche dall’amministrazione Orlando, più volte da noi sollecitata per trovare una soluzione di accoglienza pubblica e dignitosa, alternativa allo Zeta, non arrivarono risposte adeguate.
Così, assolutamente logorati dal fatto che l’esperienza che per anni ci aveva regalato enorme felicità era diventata ormai fonte unicamente di stress, preso atto della consapevolezza dei nostri limiti, seppur senza una decisione unanime, nel novembre del 2013 lasciammo il posto, pubblicando un comunicato in cui annunciavamo la conclusione del soggetto multiforme fino a quel momento conosciuto come Laboratorio Zeta. 

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